“Comincia il pianto della chitarra!”, Prefazione al libro “Santì d’Andalöséa. Omaggio a Federico Garcia Lorca” di Maurizio Noris

PREAMBOLO

Alcuni mesi fa il poeta e scrittore lombardo Maurizio Noris mi ha gioiosamente coinvolto nel lavoro della pubblicazione del suo libro contenente una scelta di opere poetiche di Federico García Lorca tradotte da Noris nel suo dialetto bergamasco della media Valle Seriana, per la stesura di un commento critico sull’opera (intitolato “Comincia il pianto della chitarra!”).

Il libro, dal titolo Santì d’Andalöséa. Omaggio a Federico Garcia Lorca – edito da Tera Mata Edizioni (Bergamo) – si apre con il testo della mia presentazione (che viene proposto, a continuazione, sulle pagine di questo sito) e contiene opere di Sara Oberhauser. Traduzione e voce a cura di Maurizio Noris.

Le letture sono state trasposte in registrazioni audio-video in cui è Lucìa Diaz alla voce, al canto e ai flauti. Il libro si chiude con una postfazione di Vincenzo Guercio.


BIOGRAFIA DELL’AUTORE

Maurizio Noris (Comenduno di Albino, BG, 1957). Scrive poesie in lingua prima del dialetto bergamasco della media Valle Seriana. Ha pubblicato Santì (2001, libro artigiano di poesie con l’artista grafico Ivano Castelli e presentazione di Ivo Lizzola), Dialèt De Nòcc D’amùr (2008, vincitore del prestigioso Premio “Città di Ischitella”), Us de ruch (2009, plaquette con introduzione di Alberto Belotti), Us de ruch (2010, con introduzione di Franco), Àngei? e Zögadùr (2012, con la presentazione di Piero Marelli e Silvio Bordoni), In del nòm del pàder (2014, con postfazione di Giulio Fèro), Resistènse (2016, introduzione di Franca Grisoni), A cüre socane (2022, installazione organico-poetica con un catalogo di 20 poesie inedite presentato da Gabrio Vitali), Santì d’Andalöséa. Omaggio a Federico García Lorca (2023, presentazione di Lorenzo Spurio, con opere di Sara Oberhauser, traduzione e voce a cura di Maurizio Noris, registrazioni audio-video di Lucìa Diaz alla voce, al canto e ai flauti, postfazione di Vincenzo Guercio). Ha curato Guardando per terra, voci della poesia contemporanea in dialetto (2011, co-curatore Piero Marelli). È presente con suoi testi in L’Italia a pezzi. Antologia dei poeti italiani in dialetto (2014), in Dialetto lingua della poesia (2016) a cura di Ombretta Ciurnelli e in diverse antologie e riviste. Per tutto il 2019 ha curato la rubrica settimanale SÖ L’ÖS del -santalessandro.org- settimanale della Diocesi di Bergamo, con la presentazione anche sonora e commento delle sue poesie.


PRESENTAZIONE AL LIBRO

“Comincia il pianto della chitarra!”

Di LORENZO SPURIO

Molti dei letterati della nostra età, oltre a perseguire con necessità primaria la propria vocazione di autori che li vede poeti o scrittori che sia, non hanno mancato d’interfacciarsi con il non complicato mondo della traduzione. Il fenomeno di comprensione di una lingua d’altri, d’interpretazione e di lettura profonda (e d’immedesimazione, spesso) per poter generare la medesima opera con un vestito leggermente diverso (mai diremmo se migliore o peggiore del suo originale) coinvolge in maniera correlata e intensa una serie di meccanismi mnemonici-sensoriali, evocativi e reminiscenziali ma anche psicologici, più profondamente intimi e innati nel singolo.

La grandezza di un autore non è data né dal numero di copie dei suoi libri che vende nel corso del tempo né dal numero di lingue (diremmo meglio gli idiomi, a voler intendere anche parlate più ridotte o che non hanno, a differenza di quanto avviene con la lingua, un più diretto richiamo o correlazione a un determinato stato nazionale) in cui la sua opera viene versata. Sta, al contrario, nella capacità delle genti, di età, luoghi e da identikit sociali differenti, a riuscire a farsi ascoltare. A trasmettere una percezione unica e indescrivibile. Un gigante della letteratura internazionale come Federico García Lorca nel corso delle decadi che si sono succedute dalla sua prematura morte ha avuto (e contribuito ad alimentare) un lascito umano di lettori, critici, studiosi e affezionati, di anime in sintonia col suo dire, di persone più o meno altolocate, cattedratici e popolani, ingente, in logaritmica e irrefrenabile ascesa.

I componimenti che Maurizio Noris ha scelto dell’ampia produzione lirica del celebre “poeta con il fuoco nelle mani”, rimontano a quell’esigenza di calarsi in una natura primigenia e inalterata dall’introduzione del dato antropico. In appena una ventina di testi scorre davanti agli occhi del lettore una sorta di sintesi perfetta dei temi, delle immagini care, dei colori, dei rimandi e degli echi che hanno contraddistinto la poesia del Granadino rendendolo universalmente celebre e ineguagliabile. Una leggenda, per alcuni, un martire per altri. Sicuramente una presenza inesauribile e imprescindibile per tutti.

Le vicende che nel tempo hanno visto il prediligere di alcune traduzioni di Lorca nel nostro italiano piuttosto che altre (ricordiamo qui, per mero inciso, che non solo i tanto “celebrati” Bo, Bodini, Rendina e Macrì tradussero Lorca in italiano come spesso, facilisticamente, vien dato da intendere) sono tortuose e rimangono per lo più difficili da tracciare (ammesso che in esse si possa riscontrare un vero interesse di fondo) dettate spesso anche da logiche di mera diffusione editoriale o, al contrario, di veti espressi (o malcelati) all’interno di congreghe accademiche. Sta di fatto che, nel nostro Paese, Lorca ha visto non solo tante traduzioni (più o meno ricordate, più o meno affidabili) nella nostra lingua, ma anche in alcuni dialetti. Penso al torinese nel quale lo versò Luigi Armando Olivero, al friulano di Pier Paolo Pasolini, al siciliano di Salvatore Camilleri, al romagnolo di Tolmino Baldassari, solo per citare alcuni nomi ma la lista potrebbe essere infinita e sempre – purtroppo – clamorosamente incompleta a causa della difficoltà di una ricerca che, pur mirata, spesso non riesce a fornire apprezzabili risultati (ricordiamo che molti tentativi di traduzione non vennero alla luce, altri solo in ciclostile, la gran parte di essi non pubblicati con un editore, né registrati in biblioteche nazionali).

L’operazione di Noris – poeta sopraffino e amante del suo dialetto nativo, il bergamasco della Val Seriana – s’inserisce, dunque, in una tradizione (non sempre scritta) che sappiamo essere fluentissima (per nulla studiata, purtroppo) che nasce da quella volontà intima di far parlare l’opera di un Grande come l’autore di Nozze di sangue con l’autenticità della propria lingua personale, del proprio dettato ancestrale e familiare.

Riconducendo il discorso alla scelta delle liriche effettuata da Noris, ritroviamo nel volume poesie selezionate dalle Canciones, opera della fase giovanile, dall’arcinoto Poema del cante jondo, sino ad arrivare all’ampio campionario dei Poemas Sueltos e alle raffinatissime composizioni delle casidas che, insieme alle gacelas, fanno parte del Diván del Tamarit, opera la cui prima pubblicazione avvenne nel 1940 ovvero quattro anni dopo l’assassinio dell’Autore come pure Poeta en Nueva York, l’opera surrealista del Nostro che Noris ha deciso di non compendiare (crediamo per la forte lontananza alla poesia della Spagna arcadica e neo-popolare del primo Lorca). La scelta di testi ci fa immergere completamente nella Spagna autentica e rurale di Lorca, quella della campagna arsa dal sole e sollevata spesso da qualche vento inaspettato, quella delle case di calce bianca dei pueblos, gli antichi (e conservatissimi) agglomerati cittadini che si snodano in vicoli e vicoletti, piazzette e stradine ancor più piccole.

La tradizione andalusa è percorsa in lungo e in largo da Noris per mezzo di liriche che ben risaltano le peculiarità del tessuto abitativo e sociale di quella regione con particolare attenzione a quel mondo ritmico-sonoro così importante (il flamenco, il lamento della pena negra, le danze dei tablaos, il clarino nelle corride, etc.) richiamato anche nelle saetas della Semana Santa con la processione del Cristo, il zorongo, che assieme al jaleo è uno dei più celebri canti e balli della tradizione andalusa riconducibili alla grande famiglia della flamenqueria, finanche la nenia giocosa e fiabesca delle ninnenanne (famosa la sua conferenza sulle ninnenanne, Las nanas infantiles, tradotta anche dal veronese Arnaldo Ederle).

L’universo simbolico-oggettuale di Lorca (non solo poeta ma anche drammaturgo) diluito nei versi qui raccolti ben si condensa nel corso della lettura: il predominio della luna a volte imperscrutata altre volte che ammicca in senso fatalistico (sempre, comunque, collegata a un’idea di morte o di un nefasto presentimento) si lega alle immagini dello specchio (ricerca d’espressione e al contempo caducità dell’immagine) e a quelle degli arnesi del mondo contadino (il pugnale, la falce) che se hanno un uso pratico nel proprio lavoro a volte vengono impiegati, in un clima d’odio e vendetta, anche come minaccia o per dar la morte (ricordiamo la struggente e drammatica “Reyerta” tradotta da Rendina e Clementelli con “Zuffa”). Ci sono bambini, si odono lamenti, invocazioni alla luna, cavalli e farfalle, l’osservazione attenta e panica dello scorrere delle acque, lo sfolgorio dei colori e la densità dell’argento. Su ogni poesia, data la ricchezza contenutistica e gli squarci di alta intensità lirica (nei testi selezionati l’Autore ha preferito non inserire poesie che, più direttamente, potessero essere analizzate in relazione alla loro tensione etico-civile, pure presente in buona produzione del Nostro), l’inspiegabile suggestione trasmessa, la capacità pareidolitica e la potenza empatica sul lettore, si potrebbero dire molte cose, riflettere, ampliare, senza riuscire mai a compendiare in forma totale quella massa sconfinata d’energia e magma interiore.

Maurizio Noris in quest’opera avvolgente, frutto di un lavoro condiviso con altri autori e artisti (in quel sodalizio ampio che tanto amava Federico e lo portava a collaborare con molte persone, si ricordi la gloriosa esperienza corale de “La Barraca”), fonde due circostanze importanti della sua realtà presente – non tangenziali né improvvise – ovvero l’amore per l’universo lorchiano, che ne fa di lui interprete, seguitore e convinto confidente, e quello per il dialetto personale, radicato nella provincia lombarda. Distanze, quelle tra la Val Seriana e l’Andalusia, che ci appaiono di colpo annullate o mai esistite. Nel flusso inalterabile di un fuoco creativo ed energico che arde imperituro e s’espande, inondando mente e cuore al di là di categorie umane.

LORENZO SPURIO

Jesi, 13/01/2023


La pubblicazione del presente testo, in formato integrale o di stralci, su qualsiasi tipo di supporto non è consentita senza l’autorizzazione da parte dell’Autore.

Il prossimo numero di “Euterpe”: “Letteratura e musica: influenze e contaminazioni” (scadenza call-of-paper 20/12/2018)

Articolo di Lorenzo Spurio 

discobase_bennato_burattino_cover.jpgPer parlare del rapporto tra musica e poesia dovremmo ripercorrere le pagine della storia dell’antichità quando la poesia, sia in contesti conviviali che retorici, veniva recitata oralmente accompagnata da varie tipologie di strumenti musicali. La poesia greca ne è un chiaro esempio ma anche le chanson de geste e, ancora, tutti quei componimenti poetici ed epigrammatici che venivano condivisi pubblicamente, in situazioni di festa o più formali. Non va neppure dimenticata la letteratura per l’infanzia dove, nelle favole, racconti e ninne-nanne, fa uso di ritornelli, forme onomatopeiche, canzoncine, forme ballate e tanti altri stratagemmi che hanno una funzione e un intendimento musicale e allitterativo. Si pensi ad esempio a Edoardo Bennato il cui successo musicale è derivato forse in gran parte dai suoi album d’esordio “Burattino senza fili” (1977) e “Sono solo canzonette” (1980) ispirati rispettivamente a “Le avventure di Pinocchio” di Carlo Collodi e “Le avventure di Peter Pan” di J.M Barrie.

 La musica, più che rappresentare un “accompagnamento” era una sorta di ingrediente fondamentale e imprescindibile: chi recitava modellava i suoi versi anche in base alle tonalità e all’andamento della musica che veniva proposta. Pensando a un poeta dell’età contemporanea quale Federico Garcia Lorca dovremmo chiederci se le sue tante baladas, baladillas e romances, non siano, forse, prima che poesia, dei testi effettivamente dall’impronta musicale. L’autore granadino, grande amante della cultura popolare andalusa, fu anche attento musico e tutte le sue composizione localizzabili nelle opere magistrali de “Poema del Cante Jondo” e “Romancero gitano” hanno una strutturazione, un’impalcatura e un’origine che non può non dirsi radicata nel folklorismo musicale gitano (si pensi agli altri generi del zorongo e della seguidilla da lui spesso usate). Chiaramente si tratta solo di un esempio e numerosi altri potrebbero essere portati per mostrare come il testo (sia esso scritto che orale, anzi, dovremmo dire più genericamente “la parola”) e la musica abbiano avuto un connubio assai radicato, stretto e di successo in varie circostanze.

Trasportandoci all’età contemporanea risulta piuttosto dire se alcuni testi di Fabrizio De André e di Franco Battiato (solo per citare due delle maggiori voci cantautori ali nostrane) abbiano fatto musica o poesia. La risposta più plausibile è che abbiano fatto, congiuntamente, entrambe e nel modo più alto.

C’è poi tutto un altro filone di esperienze, che vanno senz’altro tenute in considerazione, che riguardano quei testi musicali che nascono a partire da influenze letterarie vale a dire opere, autori, poesie che in alcuni cantautori hanno motivato alla scrittura di testi dedicati, ad essi ispirati, celebrativi, e via discorrendo. La giornalista Ilaria Liparoti in un interessante articolo apparso su “Il Libraio” nel 2016 così osservava: “L’ispirazione può essere palese sin dal titolo e ritornello oppure più velata. Veri e propri “metatesti” o più semplicemente parole che attraverso le note conoscono nuova vita”.[1] Se si pensa che la canzone “Elemosina” inserita come traccia nel cd “Max Gazzè” (2000) dell’omonimo artista non è che la traduzione in italiano (arrangiata dal musicista) della poesia di Mallarmé, ben comprendiamo come il legame tra poesia e musica sia forte e reversibile, continuo e prospero. Il fatto che l’artista romano sia influenzato o in qualche modo attratto dalla figura del poeta maledetto francese è rimarcata dal fatto che lo cita in un’altra sua canzone, divenuta molto celebre, “Su un ciliegio esterno”, gioiosamente cantabile nei concerti.

Chiaramente non è solo la poesia a influenzare, motivare, intrecciare o determinare contesti musicali ma ogni altro genere della letteratura.

Il prossimo numero della rivista “Euterpe”, la cui scadenza di invio dei materiali è fissata al 20 dicembre 2018, proporrà come tema proprio “Musica e letteratura: influenze e contaminazioni”. Per prendere parte alla selezione di materiali si ricorda di prendere visione delle “norme redazionali” presenti a questo link tenendo presente del recente riammodernamento della rivista nelle sue rubriche di Poesia; Aforismi; Saggistica (Articoli; Critica Letteraria; Recensioni). Su FB l’evento relativo al nuovo numero, dove è possibile seguire l’iter dello svolgimento e rimanere in contatto, è raggiungibile a questo link.

[1] Ilaria Liparoti, “Dai Rolling Stones a De André: quando la letteratura ispira la musica”, “Il Libraio”, 21/04/2016, https://www.illibraio.it/letteratura-ispira-musica-331782/

La poetessa Lucia Bonanni svela il suo connubio intimo con la poesia

IL MIO MODO DI INTENDERE LA POESIA

A CURA DI LUCIA BONANNI 

“Quale virtù si ammira in un poeta? L’abilità di consigliare: noi li rendiamo migliori gli abitanti della Città.

Per il bambino c’è il maestro che spiega, per i giovani i poeti.”

Aristofane, “Le rane”

Carissimi amici poeti,

ho letto con tutta l’attenzione possibile, almeno così spero, il saggio “La mia poetica” di Emanuele Marcuccio. Come ho già avuto modo di dire, molti sono i punti del suo scrivere che trovo in sintonia e in armonia col mio modo di intendere il dettato poetico. In questa breve trattazione cercherò di evidenziare le uguaglianze e le differenze che sono a sostegno delle tesi su ciò che per me e Marcuccio è “ideale poetico”. Sento di poter affermare che pratico poesia fin da sempre, che devo tanto a mio padre che a mia nonna paterna, insegnante elementare per ben quarantacinque anni, l’amore per la lettura e per la scrittura. Ricordo che le prime conte, le prime filastrocche, le prime poesie ed anche le preghiere mandate a mente mi furono insegnate da mio padre nelle fredde sere invernali, trascorse nel tepore domestico. Da mia nonna, fervida lettrice e scrittrice, ho ereditato la passione per le lettere e quella per l’insegnamento. Devo anche ai mie insegnanti fin dai primi anni di scuola, lo sviluppo a questa attitudine, a questo dono che mi è stato offerto non solo come dilettevole nota, ma anche come forza evocativa per essere della vita e con la vita. Ricordo che i primi riconoscimenti giunsero fin dalle scuole elementari ed io stessa in veste di insegnante ho sempre cercato di avvicinare gli alunni al mondo magico della poesia. Non so neanche io quanti fogli accartocciati e gettati via e quanti quelli che sono ancora da rivedere e considerare come scritti degni di nota. Poi pian piano, anche attraverso corsi qualificati di scrittura creativa, ho iniziato a porre mente in maniera sistematica a questo tipo di scrittura fino a giungere alla partecipazione a vari concorsi letterari e alla pubblicazione delle mie raccolte poetiche. Anch’io come Marcuccio non amo scrivere in rima, mi piace leggerla in altri autori. Nei miei componimenti mi sembra quasi banale. Non la uso perché secondo me assoggetta la fluidità del pensiero a schemi già stabiliti in precedenza mentre il pensiero deve scorrere libero sulla pagina bianca in una cascata crescente di emozioni. Per dare musicalità al testo poetico preferisco usare quelle che vengono definite rime imperfette, cioè assonanze e consonanze, rima interna o rimalmezzo, allitterazioni, le disseminazioni di suono, la paronomasia e le onomatopee quali armonie imitative e qualche rima sparsa qua e là nel testo, ma sempre tutto sotto l’egida della scrittura spontanea. Qualche volta mi son provata a scrivere dei sonetti, anche caudati, ma poi son sempre tornata al verso libero e a quello sciolto. Assai divertente trovo la scrittura di acrostici e mesostichi, di versi alfabetici e di lipogrammi. Sono convinta che per scrivere poesia non occorrono grandi parole; occorrono, invece, buoni contenuti che sono sempre e comunque espressione perentoria del nostro mondo interiore che la percezione riesce a sublimare anche attraverso le figure di significato oltre che con quelle di suono, in componimento poetico. Come scrive Marcuccio, anch’io “nel fare poesia seguo una struttura su due fasi”: la prima è quella della stesura di getto, cioè quella da lui definita “il primo fuoco dell’ispirazione” proprio come quando la prima fiamma divampa nel camino, e che ci porta a scrivere su scontrini della spesa, sulla carta delle posate, addirittura in piedi su un autobus e su qualsiasi foglio che abbiamo a portata di mano. Tutto ciò mi ricorda tanto la fase dell’animismo infantile e quella degli scarabocchi in cui i bambini credono che tutto sia animato e disegnano su qualsiasi tipo di superficie che si apra davanti ai loro 

La cover del libro
La cover del libro “Il messaggio di un sogno” di Lucia Bonanni

occhietti furbi e le loro manine svelte. Certo è che Pascoli non sbagliava a parlare del fanciullino! La seconda parte della scrittura la dedico alla revisione del testo che può avvenire sin da subito o in fasi successive anche a distanza di tempo. In questo frangente tengo sempre vicino il  vocabolario di italiano e quello dei sinonimi e dei contrari perché dalla ricerca lessicale può sgorgare altra sorgente di idee. Questa sgrossatura e poi limatura, però, mantiene sempre la forza evocativa e allusiva dei primi pensieri, vera scintilla creativa ed è un lavoro che mi piace fare a mano proprio come un amanuense, solo a posteriori scrivo tutto al PC e salvo nelle relative cartelle, tenendo sempre una copia in cartaceo per poterla leggere a mio piacimento. Non penso che la poesia sia solo metrica. Sì, la metrica serve e va saputa usare, ma non è solo la metrica a fare la poesia. La poesia è fatta di emozioni, sensazioni e sentimenti e sono piuttosto i campi semantici e le strutture concettuali a grappolo o lineari che siano, a qualificare la stesura del testo. Delle figure di suono ho già detto; tra le figure di significato mi piace usare la metafora, la sinestesia, l’ossimoro,la personificazione e la similitudine; a seconda dei casi anche   la metonimia e la sineddoche, che insieme alla metafora sono dei traslati. Tra le figure dell’ordine prediligo l’anafora e l’anastrofe, qualche volta il chiasmo e l’iperbato. L’enjambement, detto anche  scavalcamento o inarcatura, serve a spezzare il verso e andare a capo e  durante la lettura la pausa è più breve se tale figura è presente a fine verso. Non dispongo le figure retoriche in modo razionale, ma lascio che siano le parole libere a dar loro una consistenza ben precisa. Nel rispetto della posizione e dell’ordine delle parole nella frase. Lo zeugma, di cui parla Marcuccio, è una delle figure tra le più difficili da usare e solo chi  ha alle spalle studi classici, possiede l’abilità di usarla in poesia mentre a me è dato solo di sapere che c’è. Penso che la mia poesia sia un tipo di poesia simbolista, ermetica, talvolta criptica e di difficile interpretazione, ma sempre derivata da un’osservazione attenta e da una scrittura spontanea. A differenza delle altre arti la poesia, il lavoro preparatorio della poesia consiste tutto nella ricezione e archiviazione dei messaggi che ci giungono dall’esterno e che una volta elaborati, danno origine ai primi pensieri che sono fatalmente carichi di energia creativa. Ecco perché è importante fermarli subito per non lasciarli svanire e non permettere che il revisore interno possa attuare tagli e censure, impedendo l’espressione scritta. Mi piace curare anche la forma grafica del testo perché è una pratica che configura il componimento come poesia visiva. Esistono vari modi per poter comporre una forma grafica appropriata e non mancano certo gli autori da seguire. Se pensiamo ai calligrammi, come ad esempio la poesia “Il pleut” di Apollinaire in cui il poeta scrive i versi in verticale per dare l’idea della pioggia che cade, oppure ai disegni dello specchio, della camera sentimentale, del palombaro nelle “Rarefazioni e parole in libertà” di Govoni, alle parole evidenziate in grassetto nei lavori di Marinetti, alla disposizione dei versi di “La fontana malata” e di “Lasciatemi divertire” con le onomatopee scritte a gruppi alterni, ed ancora la poesia di Majkovskij e quella dadaista di Hugo Ball senza escludere Ungaretti ed altri poeti, vediamo come la forma grafica si configura quale scrittura per immagini. Di rilievo in un componimento poetico sono anche gli spazi bianchi tra una strofa e l’altra, spazi che non frammentano la lettura, ma inducono una pausa di riflessione ed una maggiore acquisizione delle diverse possibilità di senso del testo, ricercando anche le parole chiave.  Mi capita spesso di passare da un frammento poetico ad un testo di cinquanta versi, oppure di passare dalla scrittura di uno haiku a quella di un componimento con solo frasi nominali. Forse non ho ancora trovato uno stile ben preciso o forse è questo lo stile che mi è proprio. Certo è che più scrivo e più mi accorgo, come succede anche a Marcuccio, che il mio non è un semplice esercizio di stile bensì un voler dar corpo alle tante turbolenze dell’animo. Mi riconosco nelle sue parole mentre scrive che “la prosa non è nelle mie corde” perché anche per me è così. Ci provo a scrivere qualche racconto, ma i risultati sono sempre esigui. Mi sto accorgendo che la pratica dell’analisi e della critica letteraria mi appassiona sempre più e può darsi che questo sia dovuto al fatto che la mia poesia è analisi e sintesi in forma discorsiva più che puro lirismo. Sono in linea col suo pensiero e mi sento di dire che “anche nella prosa possiamo trovare poesia” e che la poesia è in tutto ciò che ci circonda, dalla bellezza del creato ad ogni forma artistica per “intuire l’universo” mediante la più “profonda forma verbale che possa  esistere”, la poesia. La poesia che tanto amo leggere anche a voce alta per assaporare tutta la bellezza dei versi. Pensare poi alle note musicali, ad una rappresentazione di Puccini dal vivo a Torre del Lago, ascoltare Battisti, Chopin ed altri ancora e sentire musica tutto intorno, è estasi pura! Sono anch’io del parere che un poeta debba prima di tutto essere uno spirito libero e non debba mai soggiacere alle mode; il poeta deve ricercare libertà, la propria libertà interiore che diviene epifania di ispirazione  continua. E la poesia è libertà anche nella sintassi visto che ammette anche l’anacoluto, figura che altrimenti sarebbe soggetta al lapis blu. Ma la libertà si ottiene solo a caro prezzo, dedicando amore e passione alle sudate carte.

La poetessa abruzzese, naturalizzata fiorentina, Lucia Bonanni con alle spalle l'Arno.
La poetessa abruzzese, naturalizzata fiorentina, Lucia Bonanni con alle spalle l’Arno.

Ma chi è il poeta e in che cosa si configura la funzione del poeta? “In giro me ne vado come un cirro/silenzioso come ombra” scrive Daria Menicanti mentre Nicolai Kljev ci dice che “Amiamo solo che non ha nome,/che vago segno, tormenta il mistero” per cui il poeta è colui che crea, che trasforma la realtà, che gioca con le parole, che canta più il dolore della gioia, un ricercatore, un uomo né migliore né peggiore degli altri. La funzione del poeta è quella di parlare al cuore degli altri, esplorare il mistero delle cose, cogliere sensazioni, intuizioni ed emozioni, dare forma all’analogia, rappresentare  impegno sociale e civile, esprimere il disagio esistenziale e l’incomunicabilità, essere essenziale e sempre dedito alle parole e ai silenzi e a quel “rubare” logica, fantasia e creatività al canto delle Muse.

Lascio a tutti voi un caro saluto nella speranza, pur nella loro semplicità, di aver fatto cosa gradita nell’esprimere questi miei pensieri.

Con affetto, stima e sempre ammirazione.

Lucia Bonanni

San Piero a Sieve (FI), 9 settembre 2015

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