“Un passaggio verso le emozioni” di Giorgia Catalano, recensione di Lorenzo Spurio

Un passaggio verso le emozioni (2010-2012)

di Giorgia Catalano
Prefazione a cura di Emanuele Marcuccio
Photocity Edizioni, Pozzuoli (Na), 2012
ISBN: 978-88-6682-321-6
Pagine: 63
Costo: 8,14 €
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Recensione di Lorenzo Spurio

 

A piccoli passi, andiam
verso la vita
verso noi stessi,
verso lo specchio
della nostra anima
(in “Anima”, p. 7)

 

IDU21258_IDO20072_IDE20009_IDV19939#_CopertinaAnterioreCon Un passaggio verso le emozioni Giorgia Catalano esordisce nel mondo della poesia, sebbene abbia già pubblicato varie liriche in antologie. Come sottolinea in maniera acuta il poeta e aforista palermitano, nonché curatore della silloge, Emanuele Marcuccio, la sua poesia è ricca di musicalità grazie alla presenza di forme retoriche e di stratagemmi metrico-poetici che rimandano a una poetica di tipo classico.

Le liriche condividono un senso di nostalgia e tristezza per un passato ormai andato: nella lirica che apre la raccolta, “Fioco lamento” c’è desolazione, silenzio e un senso d’abbandono che, però, porta la poetessa a prendere una decisione importante: “Rubo un sorriso/ ad un cucciolo d’uomo,/ spezzo l’affanno del tempo/ che fu” (3). E nella lirica che segue, “Ripenso”, i pensieri dolorosi assumono materialità e vengono equiparati a dei panni: per rinverdire quei momenti passati e per privarli dell’angoscia ai quali erano legati sarà necessaria una purificazione: “Così, odorosi di bucato/ li indosserò come abito nuovo” (4). Bastano due semplici liriche per comprendere quali sono le tematiche profonde che caratterizzano un poeta e queste due, scelte non a caso, ne sono la prova: la Catalano affronta i temi del tempo e del suo indissolubile scorrere, del passato e del ricordo, del dolore e dell’assenza e del bisogno che l’uomo ha nella sua contemporaneità di “fare i conti” con quello che è stato. Siamo quelli che siamo stati ed è impossibile annullare il passato, è vero, ma la Catalano ci insegna che forse il presente fluido dell’oggi può insegnarci a ricomprendere il passato, a rivederlo, a riviverlo, sempre che siamo disposti a farlo, prendendo le distanze da quel dolore vivo che invece caratterizzò quei momenti.

Nella poesia “Tremo”, quella che a mio modesto parere tocca l’apice dell’espressività lirica e al contempo è in grado di trasmettere la violenza delle immagini, Giorgia Catalano ci “narra” dell’angoscia che può nascere in una persona che viene ferita psicologicamente e fisicamente, un dolore vergognoso che genera disperazione e incomprensione: “Tremo/ vicino alle tue mani/ percosse e deturpate” (8).

Ovviamente la poetessa ci regala liriche anche più lucide ed ottimistiche, come “Per te, piccola” ispirata alla nascita della piccola Martina e che, in qualche modo, celebra il mistero della vita che puntualmente si rinnova. Ci sono liriche colorate e profumate come “Porta Palazzo” dove la poetessa riflette su culture ed etnie diverse guardando una donna in burka “dallo sguardo cupo” (10) per poi riflettere anche sulla presenza cinese nel nostro paese: “Gente che va e che viene,/ che s’adopera in acquisti” (10) e anche la poesia “Tasselli”, una sorta di manifesto della sua poetica, dove le canoniche attività del libero pensatore (leggere, pensare, sperare, poetare) vengono considerate tasselli, ossia parti che solo uniti tra loro danno forma e unità a un qualcosa che, lentamente, “si fa/ immagine” (19). In “A te, poesia”, la poetessa annuncia il suo amore per questo genere letterario che è consolazione, guarigione e custode di mali tanto da portarla ad utilizzare un linguaggio iperbolico: “Vivo per te” (28) che ben mette in luce quanto il rapporto della Catalano con la poesia sia vivido e autentico.

Mi piace concludere questo mio breve commento con la speranza che trasuda dalla lirica intitolata “Anime spoglie” dove la morte di un ragazzo viene accolta dal Cielo con un lampo che “squarcia/ l’unica bianca nube seppellita da cumuli/ anneriti dalla disperazione” (12) descritto come un fiore che di colpo appassisce, all’improvviso per tramontare per sempre. Dov’è allora la speranza in una lirica luttuosa come questa? La speranza è il dolore stesso che, ormai come un fardello che la madre del protagonista porterà fino alla fine dei suoi giorni, “abita/ nel suo cuore” (13) come un tremendo compagno e un dolce nemico che, tuttavia, le farà compagnia. Così come avviene in “A chi non c’è più” dove l’idea di un aldilà è in grado di mitigare quel dolore e quell’assenza: “Ci sarà sempre/ un tuo sguardo/ amorevole e attento,/  posato su di me” (15).

 

Lorenzo Spurio

 

Jesi, 01-02-2013

 

imagesGiorgia Catalano è nata a Ventimiglia (IM) nel 1971. Nel 1989 ha conseguito la maturità magistrale. Inizia a scrivere poesie in età adolescenziale. A partire dal 2010 varie sue liriche sono apparse in diverse antologie poetiche e riviste letterarie online. L’autrice ha un suo blog che prende il nome dal titolo di questa sua prima raccolta poetica dove pubblica poesie, foto, pensieri e altro.

 

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“Il viaggio di Emilia” di Anna Maria Balzano, recensione di Lorenzo Spurio

Il viaggio di Emilia
di Anna Maria Balzano
Qulture Edizioni, 2011
ISBN: 9788890587665
Pagine: 88
Costo: 11 €
 
Recensione di Lorenzo Spurio

 

Tutto era cambiato. Ebbe nostalgia di quei pochissimi anni di cui aveva memoria che erano stati felici con la mamma e con il papà. Erano passati come un lampo. Tutto il resto era stato affanno e sofferenza… (76).

 

p012_1_00Quando nel passato si è sofferto molto, spesso ci risulta difficile convivere giornalmente con le foto o con gli oggetti che in sé hanno cristallizzato quei momenti. E’ per questo che Emilia, protagonista del romanzo Il viaggio di Emilia di Anna Maria Balzano si prepara a fare una cernita delle vecchie cose: cosa tenere e cosa buttare.

Siamo nella Napoli del 1978 e la protagonista prende a narrare la tormentata storia passata della sua famiglia suggestionata dalla visione di una vecchia foto: “Passò la mano sulla foto per eliminare un leggero strato di polvere che la rendeva più opaca e con i polpastrelli percorse i contorni e i piani del palazzetto, come se quel contatto fisico avesse il potere di rianimarlo e restituirgli quella vita che gli era appartenuta” (8). Da qui, come in un vero e proprio flusso di coscienza, partono i ricordi, le immagini, tutte dominate da una certa tristezza. La protagonista ricorda della morte del padre e del grande amore ricevuto dai nonni, piuttosto che dalla madre Anna che, invece, oltre ad essere spesso lontana da lei per motivi di lavoro si scopre presto attratta da un altro uomo. Il nuovo matrimonio della madre con un certo Renato, sconsigliato dai genitori della donna e malvisto dalla giovane Emilia, sembra inizialmente inaugurare una fase di spensieratezza e tranquillità per Anna, ma ben presto le cose cambiano. Renato non mancherà di mostrarsi violento e prepotente, interessato solo agli interessi dell’azienda della quale diviene il principale benefattore. La solitudine di Anna e l’indifferenza del marito nei suoi confronti la conducono a uno stato di apatia e il marito la farà ricoverare in una struttura psichiatrica. Emilia, la giovane protagonista, pur consapevole di ciò che succede sotto i suoi occhi, non è in grado di cambiare le cose e, pur volendo bene a sua madre, si trincera sempre dietro l’amore dei nonni che, però, malati ed anziani, nel giro di pochi anni vengono a mancare.

Ma in questa difficile storia familiare ambientata nel secondo dopoguerra, nel momento della ricostruzione, si innesta anche la storia di Giulia, figlia di un dipendente dell’azienda che era stata dei familiari di Emilia. Le due divengono amiche anche se poi un po’ per motivi di studio, un po’ per altre ragioni, finiscono per separarsi. Una serie di altri avvenimenti drammatici quali lo stupro di Giulia, l’uccisione del prepotente Renato e il processo contro Anna, ritenuta colpevole dell’omicidio si intrecceranno nel romanzo chiarendo solo nelle pagine finali i relativi collegamenti.

Niente è banale. Anna Maria Balzano costruisce un romanzo molto ricco dal punto di vista dei sentimenti, sottolineando quanto la gratuita crudeltà di un uomo possa rovinare la vita di varie persone. Un’acuta riflessione sul dolore che produciamo agli altri senza rendercene conto, un elogio del fatalismo e una considerazione sul senso tragico del vivere che, oggi come ieri, sempre caratterizza le nostre esistenze:

“Mi sono chiesta se fosse Dio che voleva questo. Ma se Dio è buono, Emilia, perché dovrebbe permettere che accadano queste cose?”

Emilia non sapeva rispondere a questa ingenua e semplice domanda di Giulia.

“Non lo so, Giulia. Non credo che ci siano cose giuste o ingiuste al mondo. Ci sono cose che accadono” (82).

 

Lorenzo Spurio

Jesi, 26-01-2013

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Considerazioni sul tempo a cura di Rita Barbieri

TEMPO

A CURA DI RITA BARBIERI

 

Attendere. Come al telefono quando la linea è occupata.

Come in fila dal medico, in attesa del proprio turno per la visita.

Come al bancone del bar, mentre aspetti che il barista ti elargisca la tua prima dose di caffeina quotidiana, necessaria per affrontare la giornata.

Aspettare un tempo che sembra scorrere all’indietro: oasi perduta di miraggi e ricordi che, invece di essere dimenticati, riscopri presenti e attuali come una notizia appena uscita sul giornale.

imagesCANBA82JAttendere segnali, decisioni, mosse e contrattacchi. Come nelle partite, nelle guerre, nelle sfide. In amore.

Sentirsi in balia dell’altro, di un destino che a volte è amico e molte altre è invece crudele avversario.

Alti e bassi, mareggiate e risacche. Distanze che si allungano e si accorciano come ombre, a seconda dei punti di vista. Si dilatano sotto l’effetto ottico di luci mutevoli e intermittenti.

Il tempo è denaro e, come tale, si guadagna, si investe, si spende, si spreca. E talvolta si perde. Come per i soldi, recuperarlo è difficile: finisce subito  e lascia debiti e creditori che non saranno mai risarciti.

Ogni cosa a suo tempo. Un’affermazione che riempie di fiducia, di speranze, di illusioni… Aspettiamo che i tempi cambino, maturino come frutti su un albero. Che si adattino a noi, alle nostre volontà, ai nostri desideri.

Quasi mai succede.

E noi siamo ancora lì a aspettare che, invece di raccoglierli, i frutti cadano da soli.

Non ci sono tempi giusti o tempi sbagliati. Ci sono solo situazioni, realtà provvisorie e passeggere: il tempo scorre. Una clessidra che qualcuno ha già rovesciato per noi: ogni granellino che scivola via è un pezzo di vita che smette di essere un enigmatico mistero.

Il tempo, per fortuna, lascia segni e tracce. Cauterizza benevolo anche le peggiori ferite e riabilita dai danni più gravi. Regala un po’ di buonsenso a chi può permetterselo e agli altri lascia la sensazione di aver assistito a una lezione di cui non si è capito bene il senso. Forse qualcuno lo rispiegherà prima o poi.

Il tempo è un ben strano maestro di cui fidarsi. Non bisogna fargli troppe domande, né mettergli fretta: lui ha il suo programma da seguire e a noi, allievi inesperti, non resta che provare a seguirlo ciecamente tentando, nel mentre, di imparare il più possibile…

Rita Barbieri

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“Solo 15 anni”, poesia di Liliana Manetti

Solo 15 anni
poesia di LILIANA MANETTI

31/05/2004

Solo 15 anni
racchiusi in una piccola immagine,
solo l’immagine e’ invecchiata,
e’ ingiallita
tu sei sempre bella,
giovane, forte, piena di vigore
nei miei pensieri t’immagino così
nei miei ricordi trovo solo l’amore
un amore così forte
che ha vinto persino la morte
perché dopo tanti anni
io ti sento sempre così vicina
perché quei pochi anni
che ti ho avuto accanto
sono bastati a donarmi
un concentrato di te
che ancora mi porto dentro
l’intensità di un sentimento
un abbraccio che mi accompagna
da ogni alba a ogni tramonto..

e ogni traguardo ti assomiglia
ogni gioia ti assomiglia
ed io ti dedico tutti i miei passi
fatti verso un futuro migliore
perché tu ci sei sempre
ci sarai sempre nel mio piccolo cuore
e non ci sono leggi fisiche
ne’ leggi di natura
la morte non ci ha separate
non aver paura…

Con tutto l’amore del mondo alla mia dolce nonnina..

QUESTA POESIA VIENE QUI PUBBLICATA SU QUESTO SPAZIO PER GENTILE CONCESSIONE DELL’AUTRICE. E’ SEVERAMENTE VIETATO DIFFONDERE E/O PUBBLICARE LA POESIA IN FORMATO INTEGRALE O DI STRALCI SENZA IL PERMESSO DA PARTE DELL’AUTRICE.

“Macchie”, racconto di Rita Barbieri

MACCHIE

di Rita Barbieri

Mettimi via. Nascondimi, come si fa con la polvere sotto il tappeto, come le macchie d’umidità sotto i quadri alle pareti. Depositami in un angolino, lasciami lì dove non avrò voce né consistenza alcuna. Perché se sarò così ben nascosta, allora potrà darsi che piano piano scolorisca fino a svanire o che, più semplicemente, mi succeda di essere dimenticata.

Certe macchie sono più dure di altre da mandar via: resta l’alone. Impresso sul muro, sulla stoffa, sulle pagine di un libro: una macchia lascia tracce, più o meno visibili.

Anche le persone lasciano tracce. E macchie e depositi e strati e strati di polvere che, per quanto si tenti di pulire via, si riformano sempre. La polvere è nell’aria e certe persone anche. Si respirano involontariamente, assimilando ad ogni boccata il loro personalissimo mix di ossigeno e smog.

Quelle sono le persone in cui si inciampa per caso, camminando sicuri per la propria strada, con lo sguardo alto e le difese abbassate: come buche non segnalate ci fanno vacillare, cadere, perdere l’equilibrio e, prima ancora di capire bene come sia successo, ci si trova impantanati e arresi. Ci piovono addosso,  gocce di pioggia improvvisa in una calda giornata estiva.

Inopportuna e rinfrescante insieme: ancor prima di aver trovato un ombrello o un provvidenziale portico sotto cui ripararci, ci siamo già bagnati almeno un po’ e siamo anche scocciati per l’accaduto. Una stretta di mano, una frase, uno sguardo e tutto cambia: se ne stanno lì e la loro presenza già da sola basta a interrogarti.

E di domande se ne fanno sempre troppe e sempre alla persona sbagliata: l’unica che le risposte non le sa e non le può sapere. Gli incontri sono giochi a premi: un azzardo in cui bisogna essere fortunati prima e furbi poi. E in cui bisogna anche sapere quando fermarsi in tempo prima di perdere tutto.

Perché quello è il rischio grosso, la vera posta in gioco: il problema vero non è vincere quanto PERDERE. Perdere un’occasione, perdere la credibilità, perdere la bussola, perdere il controllo. Infinite varianti e  possibilità del verbo perdere. Si può perdere tutto, praticamente. Dalle chiavi al tempo che non torna più indietro, da una partita amichevole finita a pacche sulle spalle, alle opportunità che capitano sempre una sola volta nella vita. Dai ricordi alle speranze.

“Ho paura di perderti”. Quante volte diciamo questa frase. Il gioco del fare e non fare, del dire e non dire, perché poi perdi tutto, comprese le mosche che pensavi di tenere ben strette nel pugno della mano. Anche quelle volano via, se vogliono. Non serve a niente stringere le dita per impedirlo, certe volte è più semplice aprirle.

Aprirle come si fa con una porta, una finestra, uno spiraglio. Aprire per lasciare uscire e per far entrare. Per portar fuori e per accogliere dentro. Stare un po’ sempre sulla soglia, appoggiati alla maniglia: guardare per strada e osservare chi passa. Perché tante persone passano e poche, invece, restano. E, se restano, chissà poi per quanto.

Ci sono giorni torti, difficili in cui mi rendo conto che ancora non ho cancellato proprio un bel niente. Ho accantonato, separato, fatto il cambio dell’armadio forse…ma non dimenticato. Certe cose, eventi, persone semplicemente non sono pensati per essere dimenticati. Non si può: torneranno in mente all’improvviso, attraverseranno la mente come proverbiali fulmini in un cielo apparentemente sereno, faranno sorridere o piangere. O anche tutti e due insieme. Perché se tutte le storie felici sono simili tra loro, ogni storia infelice è infelice a modo suo:  Anna Karenina insegna.

Ci sono storie che nemmeno un menestrello stonato potrebbe cantare, fiabe che non conciliano affatto il sonno ma semmai evocano la compagnia informe dei pensieri. Racconti che non finiscono con un punto ma sfumano in infiniti e inediti punti di sospensione. Aspettano che si tiri una linea, che si tirino le somme, senza scarti e senza resti.

Come certe macchie anche certe cose sono indelebili: perfino se vengono strofinate via con cura, riappaiono.

Rita Barbieri

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“Case del passato”, racconto di Fiorella Carcereri

CASE DEL PASSATO

DI FIORELLA CARCERERI

Era un appartamento al terzo piano di una vecchia palazzina stile liberty in cui trascorsi il periodo più “magico” della mia  vita, l’età compresa tra i sei e i vent’anni. L’ingresso era enorme, uno spazio vuoto ed inutilizzato, chissà, forse progettato da un geometra ubriaco od inesperto. Per contro, la cucina era incredibilmente piccola, la sala impossibilmente fredda d’inverno e calda d’estate. Si salvava soltanto la mia cameretta, riscaldata da una maestosa stufa a carbone coke sistemata nell’atrio ed impreziosita da un gigantesco tappeto di pelle bovina, in voga all’epoca,  arricchita da un allegro tendaggio giallo e marrone e tappezzata dai poster dei miei idoli canori e calcistici, il tutto davvero molto trendy.   Ma il punto di forza di quella casa era però costituito dall’enorme terrazza che offriva una generosa panoramica su tutto il quartiere. Al centro, un bizzarro progettista aveva sistemato un possente tavolo di pietra con sei sedie, il tutto decorato con sculture di angioletti ed altri strani soggetti.

D’estate, la terrazza era un naturale punto di ritrovo per grandi e piccini. D’inverno, quando nevicava, diventava una specie di trappola glaciale, dove il vento accumulava decine di centimetri di neve. E c’era Gaspare, il mio gatto, che non voleva saperne di abbandonare lo scatolone pieno di stracci di lana sistemato nel punto più riparato, sotto il tavolo di pietra. Usciva solo quando vedeva qualche timido raggio di sole per venire a grattare alla porta della cucina all’ora di pranzo. Che buffo vederlo camminare lentamente, con quelle zampette vellutate interamente sprofondate  nella neve fresca, ancora immacolata. Il gelo doveva infastidire parecchio le sue estremità. A volte, i suoi movimenti davano l’impressione che camminasse, paradossalmente, su carboni ardenti. Quei muri videro la mia gioia ad ogni bel voto portato a casa,  la serenità di tante festività natalizie attorno al presepio illuminato ed addobbato con muschio fresco e vere cascatine d’acqua, ma assistettero anche impotenti ai frequenti litigi fra i miei genitori e alla malattia di papà. Quelle pareti furono testimoni di ogni mia parola, dubbio, paura ed affidabili custodi di tutti i miei piccoli e grandi segreti. Ora però, quelle stesse pareti non sono più a colori ma in bianco e nero. Troppi affetti persi per strada, troppe parole taciute, troppa tenerezza soffocata, troppa nostalgia per quegli anni perduti e la loro magia.  

 

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Anna Scarpetta: quando la poesia è testimonianza. Commento di Anna Maria Folchini-Stabile

Commento alle poesie di Anna Scarpetta

poesie contenute in “L’Universo degli Angeli” – Sentieri di Anime e Sogni – a cura di G. Ianuale per Accademia Internazionale Vesuviana – Marigliano (NA) – 2012

Commento critico a cura di Anna Maria Folchini-Stabile, poetessa

 

 

“L’Universo degli Angeli” è l’antologia curata da Gianni Ianuale e pubblicata nel mese di luglio 2012  dall’Accademia Internazionale Vesuviana per raccogliere le liriche dei poeti che si sono ritrovati attorno all’ideale morale che “poetare significa muoversi e operare nell’armonia cosmica in cui l’essere e il bene puntualmente coincidono” (dalla premessa di Bernardo Silvestri, pag. 6).

Tra gli Artisti selezionati figura la poetessa Anna Scarpetta che presenta le sue liriche intitolate:

– Porto in giro per il mondo

– Alzati anima

– Forse gli Angeli

– Ho salito i gradini del mondo

– Vivere per non morire

 Questi cinque componimenti sono il proclama di ideali e linee guida di una vita dedicata a difendere  l’identità, i principi e i valori che rendono l’individuo persona unica e irripetibile; la poesia è il veicolo, il modo per comunicare al mondo la propria visione della vita che ha radici profonde nella memoria, nella famiglia, nelle tradizioni e negli affetti che legano alla propria terra.

La poetessa che ha ben conscio il suo ruolo di guida, non può non confrontarsi con la vita e con gli altri e non può, quindi, non cantare le risorse collettive, il coraggio di vivere, la ripresa dell’Uomo che ha ideali e mete importanti da raggiungere:

   “Destati, anima, dal frastuono fragoroso

    Che stordisce solamente e nulla dice” …

(da Alzati anima, pag. 371)

 

E non può esservi certezza di perseguire il fine destinato, senza la sicurezza interiore di una Guida superiore (“Forse gli Angeli”, pag. 372) di cui la poetessa ha piena coscienza, tanto che può dire:

 

   “Ho salito, con grande affanno, i gradini del mondo

     Rasentando i pericoli, passando lenta nel mezzo…

   … Con la mente imbevuta di forti pulsioni…

   … Con grande magia…

( da “Ho salito i gradini del mondo”, pag.373)

 

Ardore, affanno, salita…non un cammino semplice, non una strada pianeggiante, perché l’esistenza di ogni essere umano è cosparsa di prove, di difficoltà che temprano, fortificano e confermano, a consapevolezza e maturità raggiunte, che il dolore è parte del vivere.

La scelta è univoca: “Vivere per non morire” (pag. 374).

La vita, secondo la poetessa Anna Scarpetta, è una prova di coraggio, perciò va vissuta coraggiosamente, superando le quasi continue prove iniziatiche e guardando sempre al domani, perché il nuovo giorno è resurrezione e, se la sofferenza ci abbatte, la speranza ci accompagna.

 

Come sempre, anche in queste sue forti liriche, la poetessa esprime i suoi profondi pensieri in modo lineare, chiaro, universale e se vede se stessa come metro del tutto, riconosce nella sua esperienza tutta l’Umanità che le cammina a fianco e proprio per questo sa riconoscerla, abbracciarla e comprenderla.

 

 

Chi è l’autrice?

ANNA SCARPETTA è nata a Pozzuoli nel 1948, formatasi culturalmente a Napoli dove ha anche frequentato la Scuola di recitazione e spettacolo, è erede della grande famiglia che molto ha contribuito alla storia Artistica Napoletana e Italiana.

Poetessa ben nota ai circoli culturali e letterari Napoletani, ha poi vissuto a Milano e risiede attualmente a Novara.

Si ė sempre dedicata alla poesia, alla narrativa e alla saggistica collaborando con numerose riviste culturali. 

Ha ottenuto prestigiosi riconoscimenti ed è membro “Vitae et honoris causae”  del Centro divulgazione rete e Poesia.

Tra le sue opere pubblicate ricordiamo:

– Poesia (ed. Gabrielli, 1985)

– Frantumi di tempo (ed. Lo Faro, 1991)

– L’altra dimensione della vita (ed. Libroitaliano Word, 2004)

– Le voci della memoria ( ed. ismecalibri, 2011)

Molte sue poesie sono raccolte in numerose antologie.

 

 Anna Maria Folchini Stabile

 

Angera, 24 agosto 2012

 

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“Acrostico” di Emanuele Marcuccio, con un commento di Lorenzo Spurio

EMANUELE MARCUCCIO

(ACROSTICO)

 

 

Elegante mi aggiro pensoso

mentre la luna in ciel compare,

avanzando per una strada,

non comprendo il mondo:

uno è il solo pensiero

e l’orizzonte mi rapisce

la mente turbando

e l’amore m’invita.

Marcando la terra

arrivo fino in fondo

riuscendo nell’impresa,

comprendo la vuota cultura

urbana imperante,

comprendo il flebile vento

che corre lungo vicoli antichi,

introducono i nostri passi

obliando i passati mali.

 

(20/1/2010)

Commento di LUCIANO DOMENIGHINI

Diciassette versi, undici indicativi presenti (tutti al singolare, al plurale, di terza, solo l’ultimo al 16°), e ben cinque gerundi, a tessere e siglare questo acrostico in due sorsate ma di un solo respiro. Come detto, il tempo gerundio lega e cuce la composizione ma la prima persona presente “comprendo” è reiterata tre volte (versi 4°, 12°, 14°) in linea con il gusto per l’anafora del poeta palermitano. Nato come gioco enigmistico, è in realtà un autoritratto poetico di bell’acqua, che rimarca la vaghezza, l’indeterminatezza, il ruolo insieme storico e metastorico del poeta, quasi fosse la sua vita una quotidiana, perdurante consacrazione, a un tempo vocazione e progetto, volontà e destino.

 Luciano Domenighini

Travagliato (Bs), 20 agosto 2012

COMMENTO DI LORENZO SPURIO 

Nell’acrostico qui presente del poeta palermitano Emanuele Marcuccio scritto nel 2010 ma solo ora “tolto dal cassetto”, si respira un senso di sfiducia e di criticità nei confronti della società contemporanea di cui il poeta ci fornisce uno squarcio mentre si trova “per strada”. E’ questa una visuale particolare e molto cara all’autore il quale ha dedicato una intera silloge di poesie nel 2009 raccogliendole appunto sotto il titolo di Per una strada. Non solo. In varie interviste Marcuccio ha avuto modo di parlare dell’ispirazione come qualcosa di fuggevole, impetuoso, che necessita di esser messo subito sulla carta per evitare di perdere quell’analisi del mondo. L’impressione che ho avuto con questa lirica è stata proprio questa: di un uomo in giro per strada che analizza il mondo con un occhio forse un po’ stanco e illanguidito, nostalgico del passato che fu, tanto diverso a quel presente narcisista e morboso che gli è toccato vivere. Ecco perché predominano nella lirica aggettivi che fanno riferimento a un poeta nel suo stato di creazione “pensoso”, quasi a meditare in maniera onnisciente ciò che sfila davanti ai suoi occhi. Il messaggio è chiaro: l’uomo è alla continua ricerca di un senso, di un significato ontologico ed epistemologico che però gli sfugge continuamente: “non comprendo il mondo”. Il senso di desolazione e di aridità che la lirica trasmette deriva direttamente dalla vuotezza e dalla mancanza di cultura che il poeta marca come elemento di caratterizzazione dell’oggi: “la vuota cultura/ urbana imperante”. La poesia, però, può anche essere letta come una sorta di esortazione, un vivido invito all’uomo d’oggi  a rimboccarsi le maniche e a far a meno di vizi e vanità per riscoprire il vero senso delle cose.

Lorenzo Spurio

Jesi, 24 agosto 2012

(Nella foto una delle famose “Piazze d’Italia” di Giorgio De Chirico).

LA POESIA VIENE QUI PUBBLICATA PER GENTILE CONCESSIONE DELL’AUTORE.

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“Alla luce di un’unica stella” di Paola Surano, recensione a cura di Lorenzo Spurio

Alla luce di un’unica stella

di Paola Surano

con prefazione a cura di Claudio Fantozzi

Ibiskos Editrice, 2000

Recensione a cura di Lorenzo Spurio 

E’ sempre molto piacevole quando tra poeti e scrittori, incontrandosi, ci si scambia le proprie opere che non necessariamente debbono essere le più recenti, le più fresche di stampa. Ho avuto il piacere di conoscere Paola di persona solo recentemente sebbene già negli ultimi mesi ci siamo sentiti ampiamente per una serie di attività che, assieme ad altre persone, stiamo promovendo. In quell’occasione Paola mi ha fatto dono di questo suo libro pubblicato nel 2000 e con una sorta di bozzetto a carboncino in copertina, opera di un certo Mihu Vulcanescu. L’immagine, che evidenzia uno scenario difficilmente comprensibile e quasi onirico (un muro altissimo al di là del quale si staglia un cielo nero e una mano di grandi dimensioni e piccolo, in basso, in posizione centrale un uomo, probabilmente un pompiere dotato di scala) è in linea però con il titolo: la luce che Paola Surano richiama nell’opera non è una luce abbacinante, totalizzante ma una luce unica, che proviene da un’unica stella.. una luce diversa da quella di un’infinità di stelle e per questo particolare e significativa in quanto tale. Difficilmente riusciamo a immaginare un cielo con una sola stella anche se a volte – causa le condizioni meteo ed altri fattori – in realtà all’occhio umano non è dato vedere con attenzione la volta celeste, se non di soffermarsi su alcuni punti qua e là che, invece, hanno una luminosità particolare. Partendo da questa analisi l’intento di Paola Surano potrebbe essere dunque quello di sviscerare la sua volontà di osservare il mondo esterno in maniera clinica, attenta, partendo dal particolare, scegliendo di selezionare le cose da osservare con più attenzione. Un cielo sovrastato di stelle in una serata d’estate è causa di meraviglia e motivo d’osservazione attenta in noi..ma cosa provoca, invece, in noi una notte buia, coperta con un solo lumino splendente nel cielo?

La poesia di Paola Surano è un invito a riscoprire quell’ambiente domestico troppo spesso oltraggiato o dimenticato, a rivalutare le piccole cose e quelle luci (materiali e figurate) che illuminano la nostra esistenza da sempre senza che noi gli diamo la giusta importanza. Parlando di stelle, di “luci dei lampioni appena velate” (pag. 9) è evidente che la poetessa ha deciso di descrivere momenti che fanno riferimento alla notte, al buio, forse momento cruciale della giornata capace di donarci la giusta calma e introspezione. In “Natale” però abbiamo una scena completamente luminosa – complice il clima festivo e allegro del momento religioso –  con “le luci a intermittenza” di un presepe che diventano “stelle luminose” (pag. 26). Artificiali, è vero, ma capaci allo stesso modo di infondere un bagliore nel nostro animo.

E così la presenza o meno di luci e bagliori si equivale allo scandire lento del tempo che sovrasta la nostra esistenza e questo dà motivo alla poetessa di rievocare momenti del passato e di mostrare una certa nostalgia per qualcosa che non c’è più nel qui ed ora presente e fisico ma che rimane costante e immutabile nel nostro cuore. Ma il tempo è beffardo perché gioca con la nostra esistenza: sa velocizzare i momenti che vorremmo al rallentatore, non è possibile replicare certi momenti come con la moviola e a volte – come nel caso di una gravissima perdita, per di più in tenera età – “il tempo passa troppo lentamente” (pag. 35).

Ma c’è spazio anche per liriche più chiaramente paesaggistiche, di stampo naturalistico, che sottolineano ancora una volta l’attenzione della poetessa nei confronti degli usuali atteggiamenti e comportamenti del genere animale– il volteggiare di un uccello, il latrato di un cane -. E’ comunque in “Umbria” che si respira il più grande omaggio a una terra geografica; la conoscenza e l’amore di Paola Surano della regione più centrale d’Italia si esprime sulla carta attraverso una serie di immagini vivide e cariche dal punto di vista aggettivale: “Qui respiri quest’aria trasparente”; “la campagna/azzurra nella sera” (pag. 12) ed è un invito a riscoprire la purezza dell’incontaminato e i cicli rigenerativi di rinascita di cui pure c’è un riferimento in “E ancora verrà primavera”.

Leggiamo con freschezza e velocità le varie liriche che compongono la raccolta e queste ci trasmettono un senso di leggerezza, come se venissimo sfiorati di volta in volta da un leggero soffio di vento. Ci accarezzano, ci sfiorano e ci regalano l’espressione più autentica e sensibile di una donna d’oggi. E in quei versi che ritornano come un ritornello in “Ritrovarsi” che recitano “La strada è lunga e tutta in salita/ per giungere a casa tua” (pag. 15) dobbiamo forse leggere un velato riferimento alla nostra società, quella che la Surano definisce “casa tua” che poi, in fondo, non è altro che la casa di tutti. Il percorso di vita è spesso difficile e accidentato – ancor più oggi con la stagnante crisi economica – (sebbene le liriche siano state scritte più di dieci anni fa) ma bisogna darsi da fare affinché sia possibile raggiungere la nostra meta, nonostante “la strada è lunga e tutta in salita”.

a cura di Lorenzo Spurio

 

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