N.E. 02/2024 – “La religiosità spirituale nelle opere delle poete lucane: da Isabella Morra ad Anna Santoliquido”, saggio di Francesca Amendola

L’opera di un poeta è fusione totale tra parole e immagine, che origina quello che Bachelard chiama retentissement, ossia  la capacità della poesia di creare una sorta di “vicinanza”  tra poeta e lettore, che mette in moto l’attività di comprensione e interpretazione. Petrarca scriveva che «la poesia, in quanto vera poesia, è sempre sacra scrittura» poiché nasce da una commistione tra ispirazione e sentimento del divino. Anche quando il poeta non tratta esplicitamente il tema religioso (qualsiasi sia la sua confessione) vi è sempre una fortissima tensione spirituale, non a caso «nel tempo della notte del mondo i poeti, cantando, insegnano il sacro» (Heidegger). Proprio Heidegger parlava della funzione della poesia come forma di conoscenza. Infatti nell’antica Grecia il poeta era l’hermeneutès, ossia l’intermediario tra gli uomini e l’Olimpo ed era l’interprete dei presagi degli Dei. La poesia perciò era parte integrante della religione e della vita spirituale.  Nasce dal “fondo profondo” (E. Montale) e nel silenzio interiore il poeta coglie il senso del mondo e lo porta in superficie attraverso la parola. Ma «i poeti non accendono che lampade essi poi spariscono» (Emily Dickinson) nel senso che il poeta non parla per sé ma per gli altri. Ne segue che l’attività poetica dà volto alle cose e rende libera la mente, aprendola alla conoscenza del mondo e alla verità dell’Essere Supremo, che è Dio, inizio e fine di ogni cosa creata.

La vita è amore e se «l’amore è movimento», secondo il pittore E. Tomiolo, verso gli altri, verso se stessi, verso la natura, verso Dio, è proprio l’amore negato che spinge la lucana Isabella Morra[1](vissuta nel Cinquecento) ad alzare un grido straziante contro l’universo per il padre lontano,[2] contro il «Torbido Siri»,[3] contro i «fieri assalti di crudel Fortuna».[4] Crollati tutti i miti: il desiderio di trovare un amore o una ragione per vivere nelle lande solitarie e ostili di Valsinni, trovò conforto in Cristo e nella Vergine. Non a caso Il Canzoniere di Isabella Morra, come quello di Petrarca, si conclude con la canzone alla Vergine. Isabella delusa e ormai libera dalla zavorra della vita, abbraccia il mistero di Cristo e in Lui proietta i suoi desideri identificandosi nella peccatrice Maddalena, redenta e pentita e con «la mente rivolta «a la Reina del Ciel, / con vera altissima umiltade»[5], l’anima si porge alla contemplazione di Dio. L’incontro con la dimensione religiosa, metafisica, le dà certezza che esiste un mondo alternativo a quello nel quale vive.  La sua poesia è parte integrante del suo breve percorso di vita, che la guida e la sostiene nella solitudine sia nel dialogo con la natura aspra e selvaggia, sia con l’unica amica: Antonia Caracciolo, moglie di Diego Sandoval De Castro, ritenuto a torto dai fratelli, suo amante.

Ben diversa è la poesia di Aurora Sanseverino[6] (vissuta nel Settecento), una delle poche donne, che fece parte dell’Arcadia con il nome di Lucinda Coritesia. Le sue poesie non vanno al di là di una pura esercitazione letteraria; in esse la spiritualità e la religiosità sono improntate dall’esteriorità. Non analizza l’angoscia e la ricerca della pace contro «gli aspri martiri»[7] non nasce dal senso vertiginoso di vuoto, che distende la sua poesia fino al grido, allo spasimo, al pianto. Non c’è vera sofferenza e il “male di vivere” è una finzione, espressa in moduli leggeri, musicali appena increspati di malinconia. Il sentimento è distaccato e astratto e si apre a un gioco di parole secondo i modelli dell’Arcadia. Le lande sconfinate dell’entroterra lucano, che fanno da sfondo ai suoi sonetti e canzoni, appaiono irreali e artificiosi; uno scenario perfetto per una narrazione idilliaca di un mondo fiabesco, e il concetto di solitudine è ben lontano da quello straziato di Isabella Morra.  Le poesie utilizzano un linguaggio semplice, musicale a tratti lezioso, in obbedienza al tòpos classico del «luogo ameno». Figlia del secolo e della cultura dei Lumi, Aurora non sente la tematica del trascendente e Dio è inteso semplicemente come un Essere Supremo, secondo il dettame del sensismo. Gran parte della sua produzione di liriche, ballate, melodrammi è andata perduta e i pochi sonetti conosciuti hanno portato la critica letteraria a dire che il suo lavoro è «non godibile e sostanzialmente artefatto».

L’isolamento e l’essere “figlia di una regione derelitta” qual era la Basilicata, dominio per secoli di “ignominioso servaggio”, porta la potentina Laura Battista[8] (Ottocento) a una consapevolezza dei problemi politici, sociali e storici della sua regione. Colta e raffinata al pari del Leopardi, del quale fu seguace, ebbe per opera del padre uno studio «matto e disperatissimo», che la portarono giovanissima a scrivere di greco, di latino, di tedesco e di francese. I Canti[9], ottanta componimenti in tutto, si muovono dalla sfera pubblica a quella privata. La passione politica spingeva la Battista a partecipare agli avvenimenti della nazione, dall’altro premeva il suo disagio esistenziale, soprattutto per la sua relegatio a Tricarico. La sua è una poesia d’occasione, legata agli avvenimenti, espressi spesso con un linguaggio religioso e enfatico, infatti usa per Garibaldi i termini «Redentore dei popoli», «Divino». I sonetti, ben costruiti tra retorica celebrativa e patriottica nell’esaltazione del momento, si spiegano come un brindisi e perciò risentono di una certa monotonia. Diventa la sua spiritualità autentica nelle liriche soggettive e private, che toccano i sentimenti di donna e di madre, che vive una condizione di solitudine in una casa senza amore e in un paese senza prospettive.

Poche son le donne che assurgono agli onori della gloria letteraria, come scrive in una lettera Laura Battista, ma «la donna o villipesa o trascurata presso le nazioni rozze di qualsivoglia età […]  non poteva[…] rimanere addietro, quasi non fosse anch’essa creatura di Dio».[10]

Poete e scrittrici da ogni parte del mondo e, dalla Basilicata, terra negletta e isolata, faranno sentire nel Novecento, la loro voce a cominciare dalla compianta Giuliana Brescia[11] definita la “Saffo lucana”. La sua poesia altalenante tra male di vivere, angoscia e senso ineluttabile della morte, abbraccia temi che la collocano molto vicina a Isabella Morra per il senso profondo d’inquietudine. In una poesia pubblicata postuma vi è tutta il dolore del male di vivere, che nasce da una sorta di prigionia psicologica, manifestatasi fin dall’adolescenza. Scriveva: «Passata la vita per me / finito il domani / le porte son chiuse / serrate / mi resta soltanto nel fianco / lo spasimo acuto di un male che è ancora / la vita». Una religiosità laica e mai confessionale contraddistingue le sue poesie, che nascono dai sogni che si scontrano con una realtà dura e problematica. Il linguaggio è semplice ma musicale e armonico fin dalle poesie giovanili. Si chiude nella sua “tela di vagheggiamenti” nei silenzi assordanti, nelle illusioni del vivere quotidiano, dove i «sogni si son persi / nel deserto desolato della realtà». Le liriche (Poesie del dubbio e della fede, Versi affiorati dai cassetti) delicate e ricche di forza interiore, diventano a tratti tenere proprio quando si chiude nell’intimismo, che riverbera su una natura umanizzata alla Pavese, al quale è accomunata dalla scelta del tragico destino. Nell’angoscia esistenziale àncora è la parola poetica, adulata, blandita, ricercata, che accende la speranza; ma essa è illusoria e non riempie quel vuoto straziante, che la porterà a porre fine alla sua breve vita.

Per  la poesia di Lorenza Colicigno[12]sono appropriate le parole di Montale «ogni volta che trovo in questo mio silenzio una parola, scavata è dentro di me come un abisso», perché le sue  liriche nascono da un profondo silenzio interiore, dove trova il senso religioso del mondo. La poesia si dispiega come preghiera perché indaga nel fondo delle cose e porta a galla l’inesprimibile.  Ma il poeta è colui che più degli altri porta nell’anima la propria terra. Si parla di poeta come del cantore di una geografia umana. Egli erige modelli, mappature, carte del proprio luogo per affermarne l’appartenenza, creando una sorta di «paesologia» (Franco Arminio) che è una forma di etnologia del paesaggio, di cui il poeta ne dà espressione. Il bello è che la paesologia non studia un paese, l’annusa, l’ascolta proprio come fa Lorenza con la sua città, Potenza: ne rende l’energia della case arroccate sulle montagne; s’immerge nella vita della città, nelle scale mobili, che salgono quasi fino al cielo; canta la «debolezza / dei vecchi e la baldanza degli adolescenti» (in Ritorno); si chiude, solitaria spettatrice, dietro una finestra o un terrazzo a scrutare l’orizzonte, che si allarga sulla valle dove il «Basento insegue albe e tramonti / e ascolta il brusio della città che lo stringe / nell’abbraccio schiumoso della sua / modernità di ciottoli e lattine»[13] e scorre sonnolento e acquitrinoso. Contempla la città da un cantuccio solitario, dove l’«aria natia», per dirla con Saba, o la «matria»[14] è pregna di gioia e dolore insieme.

Anche per Amalia Marmo[15] il compito della poesia è scavare nel profondo dell’anima ed enunciare attraverso la parola la verità. «Vedere il mondo in un granello di sabbia» per dirla con William Blake, è questo il senso dell’estro creativo. La ricerca del ‘meraviglioso’, tanto caro a Novalis»[16] che porta a Dio, così presente nell’universo, è la missione del poeta. Le sue liriche nascono dal «sapore della terra» e dal «la salsedine del mare»[17]. La parola poetica c’immette nel ‘mistero’, che è simile all’”Inconoscibile” di Spencer: una realtà assoluta che la ratio umana non può raggiungere. Il genio creativo ci fa immergere nelle acque del subconscio e riemergere “illuminati” di una verità da divulgare. La poesia per la Marmo «altro non è / che ignara ispirazione. / Un eterno aiutante / un profeta o un indovino / senza mete o ragione».[18]  La poeta sarà sempre «sentinella costante» della «memoria lirica»[19]. Filtra la ragione con il cuore, intessendo una poesia che è «distillato di vita, quasi peccato / d’intelletto tolto al tempo / per stupire se stesso e l’universo /e chiuderlo in un pugno di mistero»[20]. Il mistero non è quello religioso ma qualcosa che supera l’umano intendimento. Crede in Dio e nell’immortalità dell’anima. Ha certezza in una vita futura. Il mondo, la natura, gli accadimenti sono aspetti diversi dell’universale mistero.

L’acuta sensibilità e lo scavo interiore di Rosalba Griesi[21] danno origine a quell’inquietudine esistenziale, ordita su interrogativi ontologici, che si mescolano ai sogni quasi invisibili, alle luci lievi della speranza. L’atmosfera spirituale si riverbera sullo spettacolo della natura, sui suoi colori cangianti: dagli «spruzzi di giallo»[22] delle mimose al «bianco immacolato» delle zagare; dall’arancione delle margherite al verde dei campi, simili al mare. Il dettato lirico fluisce a volte delicato e sinuoso, altre prorompente e impetuoso nello scandagliare gli oscuri anfratti o gli abissi o i campi brulli per comprendere la sofferenza e riemergere rinnovato e dispiegare «parole taciuta / parole serrate / parole nel cuore posate / […] parole donate»[23]. Rosalba si eleva dal paesaggio naturale della terra a una riflessione escatologica, che richiama il senso della vita e la tensione dell’uomo verso l’Assoluto, che è Dio-Provvidenza di manzoniana memoria. La sua religiosità è priva di fronzoli e si distende in note scarne, quasi epigrammatiche.

Le liriche di Rosa Pugliese[24] s’inseriscono nella poesia civile, poiché sono denunzia, accusa contro l’umanità “liquida” e l’io lirico sembra arrestarsi fiaccato dagli avvenimenti della storia, dal tempo, che vorrebbe fermare nelle scatole di latta, dove trovare «una carezza materna»[25]. Le poesie nascono dall’incanto e il superamento e il dominio del dolore lo trova nella contemplazione di armonie cosmiche e naturali. La letizia travalica il vortice dell’angoscia nella magia dell’infanzia o dei luoghi amicali; nel gioco della vita; nello scorrere del tempo in stagioni e in ore, e nella Bellezza, che ancora una volta salverà il mondo. Scriveva Pablo Neruda «La poesia è un atto di pace / Di pace è fatto il poeta come di farina il pane» e la poesia per Rosa Pugliese è un atto di pace, poiché prende tutto il dolore del mondo e lo placa proprio come il fiume che s’infratta tra dirupi e forre per sfociare lento e placido nel mare. La Nostra trae dalla sofferenza l’energia creativa e la elabora superando lo stretto orizzonte provinciale per cantare il dolore della gente costretta a emigrare nei barconi. La poesia è voce dell’anima e noi diventiamo «tratturi di campagna / solcati dalla terra che li ha generati», o fiori di malva, germinati nella terra, crepata dal gelo.

Il testamento letterario e umano di Anna Santoliquido[26] è tutto racchiuso nelle sue numerose raccolte: da I figli della terra del 1981, nella quale la poesia nasce dalle vallate di ginestre e malvarose, dai campi biondi di grano e rossi di papaveri della sua Forenza, fino a Profetesha / La Profetessa, pubblicata in Albania nel 2017, dove sperimenta la dolcezza e la generosità della gente, che le riportano alla memoria i luoghi e le donne della sua infanzia. I versi limpidissimi e rigorosi aprono al lettore una nuova percezione dell’uomo, che sente l’altro non più nemico ma fratello. È questo il grande dono della poesia. «Che cosa può dare / agli altri un poeta?» si chiede la Santoliquido. Egli dona il cuore per amare, gli occhi per vedere, gli sguardi sereni, un pugno di pace.  Ed è la speranza che non l’abbandona, impegnata in una continua analisi e ricerca interiore. Sa che oltre le esperienze e le prove della vita, in fondo c’è sempre un raggio di luce, che illumina e dà forza.  Ricompone il conflitto che è alla base dello smarrimento spirituale della nostra società, alla quale manca quel “sapere dell’anima”, che oltrepassa e fonde umano e soprannaturale, sapere scientifico e visione poetica. È sorretta nel cammino elegiaco dalla fede, è questo il varco (Montale), che cancella la distanza dalla trascendenza e immanentizza l’ebbrezza ontologica e, come Sant’Agostino, supera la lacerazione tra materia e spirito. Il poeta attinge all’Assoluto e «offre parole / parole incarnate». È simile al Demiurgo platonico, creatore della realtà, che ci porta fuori dal “caos primordiale”. Diventa divulgatore di pace nel mondo e nell’anima, ma è anche colui che «muore da solo». È la forza eternatrice della poesia, di foscoliana memoria, che lo ferma «al limitar di Dite», ad afferrare la luce e liberare il canto. Il suo lavoro è simile a quello della Sibilla, il mito di cui ci parla Virgilio nell’Eneide. La profeta ispirata da Apollo, trascrive le profezie del Dio sulle foglie, che il vento disperde. Il rito rivela la missione di intermediario del vates, spesso inascoltato, tra il mondo della verità e quello degli uomini. Egli è il porto sepolto, come diceva Ungaretti, e nel profondo scopre l’inesauribile segreto, i misteri inenarrabili che il soffio del vento disperde anche se le parole sono portate dall’angelo. Anna è poeta sempre, sotto il cielo di Puglia e della Lucania, ma anche «a Belgrado e a Zagabria». I versi scaturiscono dalla sua capacità di andare dal vicino al lontano, dal microcosmo al macrocosmo. L’ispirazione nasce perché, «è l’angelo a portarmi le parole / le lascia nei vasi rotti / il vento le disperde […]»[27] e lei come una sacerdotessa vaticinante le raccoglie in «una forma di preghiera» (Kafka). Ci introduce in un mondo d’incanti quando scrive «Com’erano / piene / le mani / nodose / di mio nonno / quando / con voce roca / ma gentile / mi donava /un pugno / di noci / o di castagne»[28] o quando tratteggia in un distico toccante il ritratto della madre «Se solo potessi catturare / il sorriso delle sue rughe!»[29]. La poesia della Nostra colpisce per la forte empatia con il lettore, poiché è sempre aperta alla speranza, all’adesione con il mondo in cui vive, a nutrire attese per il futuro sulla rievocazione delle bellezze di un passato vissuto e assaporato. Il ruolo del poeta nella società è di pace perché come lei stessa scrive «è colui che porta in tasca l’universo». Egli parla una lingua nuova, toccante, rivelatrice: quella dell’anima. Per la Santoliquido valgono le parole del poeta dell’invisibile, Rilke, «Noi siamo le api dell’invisibile. Noi raccogliamo incessantemente il miele del visibile per accumularlo nel grande alveare d’oro dell’invisibile»[30].


[1] Isabella di Morra, conosciuta come Isabella Morra, nata a Favale nel 1520. Visse in solitudine sotto la prepotenza dei fratelli e segregata nel proprio castello, dove scrisse l’opera letteraria, Il Canzoniere, formato da dieci sonetti e tre canzoni. La sua breve vita si concluse con il suo assassinio, nell’inverno del 1545 o 1546, da parte dei suoi fratelli a causa di una presunta relazione clandestina con il barone Diego Sandoval de Castro, poeta di origine spagnola e barone della vicina Nova Siri, anch’egli qualche mese dopo subì la stessa fine. Quasi sconosciuta in vita, Isabella di Morra acquistò una certa fama dopo la morte, grazie agli studi di Benedetto Croce, e divenne nota sia per la sua tragica biografia sia per la sua poetica, tanto da essere considerata una delle voci più autentiche della poesia italiana del XVI secolo, nonché una pioniera del Romanticismo. Non si conoscono notizie inerenti alla sua vita precedente e alla biografia della famiglia Morra, dal titolo Familiae nobilissimae de Morra historia, pubblicata nel 1629 da Marcantonio, figlio del fratello minore Camillo.

[2] Giovan Michele di Morra riparò a Parigi, accusato di una congiura contro la corona, affidando la moglie, Luisa Brancaccio, e i cinque figli, Decio, Cesare, Fabio, Porzia e Isabella, a Marcantonio il fratello maggiore, uomo violento e rissoso.

[3]  I. Morra, Torbido Siri, in Isabella di Adele Cambria, edizione Osanna, Venosa 1996, pp. 65/64.

[4]  Ivi, I fieri assalti, pp. 45/46.

[5]  Ivi, XIII Quel che gli giorni a dietro, pp. 87/92.

[6] Aurora Sanseverino nacque a Saponaria nel principato di Citra (l’odierna Grumento Nuova, in Basilicata) nel 1669 e morì a Napoli nel 1726, da Carlo Maria principe di Bisignano e conte di Saponaria e Chiaromonte e Maria Fardella contessa di Paco.  All’età di 11 anni, sposò il conte Girolamo Acquaviva di Conversano, ma il matrimonio durò solo pochi anni per la morte prematura del marito. Ritornò a Saponaria per un breve periodo e compì diversi viaggi con il padre, a Palermo e Napoli. Un secondo matrimonio avvenne il 28 aprile 1686 con Nicola Gaetani dell’Aquila d’Aragona, conte di Alife, duca di Laurenzana e principe di Piedimonte. Dopo il matrimonio, si trasferì nella dimora del marito a Napoli, città all’epoca caratterizzata da un’intensa vita culturale. Nella sua casa napoletana ospitò vari poeti, musicisti e pittori, dando così vita a un noto salotto letterario. Oltre alla letteratura, fu un’abile cacciatrice, partecipando a battute di caccia al cinghiale sui monti del Matese. Fece parte dell’Arcadia con il nome di Lucinda Corinesia.

[7] Aurora Sanseverino, Ben son lungi da te, vago mio nume, in Scrittori lucani, Consiglio Regionale della Basilicata.

[8] Laura Battista nacque a Potenza nel 1845, figlia di Raffaele Battista di Agrigento e di Caterina Atella da Matera. Il padre fu un insegnante di lettere e segretario perpetuo della Società Economica di Basilicata e consigliere provinciale di Matera. Raffaele insegnò Latino e Greco presso il Real Collegio di Basilicata a Potenza, dal quale fu espulso a causa del suo orientamento Liberale, poiché l’istituto fu affidato alla direzione dei Gesuiti. Egli poté riprendere a insegnare solo dopo l’Unità d’Italia e, quindi, dopo la scomparsa del regime borbonico. Nel 1871, in seguito la famiglia si trasferisce a Matera, per le persecuzioni di cui fu oggetto il padre per le sue posizioni politiche, divenne consigliere provinciale della Basilicata. Autore di studi e inchieste sullo stato dell’economia agraria della provincia, era un fine latinista e autore di traduzioni e fu il primo e, per molto tempo, l’unico maestro di Laura. Ella insegnò per breve tempo nel convitto femminile di Potenza. Ben presto abbandonò l’insegnamento sia per la salute cagionevole sia per aver sposato il conte Luigi Lizzadri di Tricarico, dove si trasferì.

[9]  G. Caserta, Laura Battista, Canti, per i  tipi di Conti, Matera 1879.

[10]  G. Caserta, cit. L. Battista, Potenza 22 marzo 1875 Direzione Della Scuola Normale Femminile di Basilicata, p. 153.

[11]  Giuliana Brescia nacque a Rionero in Vulture nel 1945 e morì suicida a Bari dove viveva con il marito e la figlia, nel 1973. Nel 1962 le fu assegnato a Napoli il premio La maschera d’oro. Le sillogi sono state pubblicate postume: Poesie del dubbio e della fede, Versi affiorati dai cassetti.

[12]  Lorenza Colicigno nasce a Pesaro nel 1943 e vive a Potenza. Insegnante di Lingua e Letteratura Italiana, ha lavorato in radio e televisione a Roma e Potenza. Ha pubblicato: Questio de silentio (1992) Canzone lunga e difficile (2004), Matrie (2017), Cotidie (2021). I suoi scritti si trovano in antologie e pubblicazioni.

[13]  Lorenza Colicigno, Potenza e velo, in Cotidie, Manni Editore, Bari, 2021, p. 5.

[14]  Il termine è tratto dal latino mater matris, terra madre, termine utilizzato per la prima raccolta.

[15]  Amalia Marmo nata a Miglionico (MT) nel 1948, vive a Marconia di Pisticci (MT). Laureata a Napoli in Lettere classiche. Ha avuto molti riconoscimenti letterari. Ha pubblicato raccolte di poesie e romanzi.

[16]  Novalis affermava «La nostra vita non è ancora un sogno, ma sempre più deve diventar tale».

[17]  Amalia Marmo, Indenne paradiso perduto,  in Il vento leggerà Gradita Sinfonia, Edizioni Setac, Pisticci, 2015, p. 30,

[18]  Ivi, Visione furtiva, p. 27.

[19]  Ivi, Sentinella, p. 25.

[20]  Ivi, un pugno di mistero, p. 34,

[21]  Rosalba Griesi nasce a Palazzo San Gervasio, dove vive e lavora, nel 1958. Ha pubblicato: Il viaggio (2004), Nel mare del tempo (2011), Natale e dintorni (2014), Nicol ali di farfalla (2015), I racconti di nonna Peppa (2017). Le sue liriche e racconti sono stati inseriti in diverse antologie.

[22]  Rosalba Griesi, Mimose, in Nicol ali di farfalla, LuogInteriori, Città di Castello (PG), 2015, p. 39.

[23]  Ivi, p. Le mie parole, p.79.

[24]  Rosa Pugliese nasce a Zurigo nel 1965 e vive a Venosa (PZ). Si laurea in Lingue Straniere. Ha pubblicato due raccolte di poesie: La strategia della formica (2019) e La tana del riccio (2022). I suoi lavori sono pubblicati in varie antologie.

[25] Rosa Pugliese, Colleziono scatole di latta, in La strategia della formica, scatole parlanti edizioni, Reggio Calabria, 2019, p. 21.

[26]  Anna Santoliquido, nata nel 1948 a Forenza (Potenza), vive a Bari. Ha pubblicato le raccolte di poesia: I figli della terra (1981 – Premio Città di Napoli), Decodificazione (1986), Ofiura (1987), Trasfigurazione (1992), Nei veli di settembre (1996), Rea confessa (1996), Il feudo (1998), Confessioni di fine Millennio (2000), Bucarest (2001), Ed è per questo che erro (2007), Città fucilata (2010), Med vrsticami/Tra le righe (2011), Quattro passi per l’Europa (2011), Casa de piatrǎ/La casa di pietra (2014), Nei cristalli del tempo – poesie per Genzano (2015), Versi a Teocrito (2015), I have gone too far (2016). Ha pubblicato anche un volume di racconti e ha curato diverse antologie, tra le quali Zgodbe z juga – Antologija južnoitalijanske kratke proze (2005). È autrice dell’opera teatrale “Il Battista”, rappresentata nel 1999. Ha fondato e presiede il Movimento Internazionale “Donne e Poesia

[27] Anna Santoliquido, Incontri, in  Ed è per questo che erro, Smederevo, 2007, p. 9.

[28]  Anna Santoliquido, Mani nodose, in Figli della terra, Fratelli Laterza editore, Bari, 1981, p. 27.

[29]  Ivi, Mia madre,p.38.

[30] R. M. Rilke, dalla lettera al suo traduttore polacco Vitold von Hulevicz del 13 novembre 1925


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “La poesia amorosa di Borges”, saggio di Dante Maffia

Circa una ventina di anni fa pubblicai un elzeviro su “La Nación” di Buenos Aires intitolato Borges, ricordando ai lettori di quel quotidiano la leggenda di un Borges mai esistito, pura creazione della stampa e dei mass media, entità spirituale inventata per mettere in risalto una certa Argentina popolata di fantasmi, di antenati nobili dal passato aristocratico e colto in cui specchiarsi. Per anni durante i suoi lunghi viaggi il poeta ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco, perché, come ha confessato in una conversazione informale, non si rendeva conto se quella leggenda era nata per seppellirlo o comunque per toglierlo dalla circolazione. Ci fu perfino chi disse che assegnargli il Premio Nobel sarebbe stato assegnarlo al vento.

Naturalmente si è pensato anche che sia stato lui stesso a mettere in giro voci del genere e che la persona chiamata Borges fosse soltanto un prestanome pagato lautamente dalla Casa editrice Losada di Buenos Aires e dal Governo argentino. Chiacchiere infinite, che hanno contribuito a formare attorno alla sua vita un cumulo di voci, la maggior parte delle quali sono assurde dicerie, affermazioni gratuite e prive di senso.

Io ho conosciuto il poeta, in più d’una occasione, e anche se non mi ha mostrato la sua carta d’identità, ho avuto modo di ascoltare dalla sua voce aneddoti illuminanti per la comprensione della poesia, aforismi taglienti, giudizi lapidari. È l’atteggiamento “arrogante” che spesso hanno i geni, anzi è l’atteggiamento semplice e diretto che mostrano senza veli, convinti che basti affermare, senza spiegare, senza soffermarsi a “giustificare” criticamente il frutto delle loro argomentazioni.

Insomma, di Borges si è detto di tutto; attorno a lui s’è creata una scia di considerazioni e di illazioni che sempre più si allarga, soprattutto perché, come sostiene Luigi Baldacci, a forza di non essere letto è diventato un classico.

Se contiamo il numero delle pagine pubblicate (sono circa tremila), ci rendiamo conto che la sua produzione non è immensa, ma se diamo uno sguardo alle tematiche affrontate si resta stupefatti: i suoi sconfinamenti sono sterminati, le sue indagini vaste. Dalla letteratura latina a quella americana, da quella tedesca a quella inglese, da quella spagnola a quella italiana. Molto acuti e preziosi i suoi scritti su Dante.

In questa vastità di interessi Borges ha avuto anche il tempo per l’amore, per scrivere poesie d’amore. Poche, in verità, che non cantano le lodi della donna se non per rapidi lampi, ma quasi sempre mettono l’accento sulla sua assenza, su ciò che ormai è avvenuto. Tutto perciò vive nel ricordo, con lucidità e precisione. Chi si aspettasse una poesia d’amore che sospira, che rincorre il mai o il sempre degli innamorati, non trova che la pienezza di un perenne presente. Si può dire, a un primo impatto, che l’amore per lui sia atto di assenza, perdita a cui pensare dopo, recupero della memoria di un tempo che forse non è felicità, ma sicuramente incanto vissuto nella normalità, momento magico di un tratto di strada compiuto e chiuso, e rimasto a significare una certa cosa di cui però si ha contezza dopo, soltanto dopo.

Questa è la prima impressione, l’impatto. Anche grazie all’insistenza di ocaso e di ausencia che pare vogliano siglare la condizione umana in genere dell’amore.

È come se Borges non potesse e non volesse parlare dei suoi rapporti con la donna, tenerli soltanto per sé. A volte, all’interno di testi che parlano di Buenos Aires o d’altri luoghi e d’altri argomenti, c’è un accenno, una indicazione, ma si tratta di momenti in cui sembra “costretto” a farlo per evitare che la composizione perda la sua circolarità.

Che cosa abbia contribuito a questa sua “riservatezza” è difficile dirlo, è certo che egli pone l’amore oltre i confini della quotidianità, come una luce che inonda e fugge lasciando poi un luogo incontaminato a cui fare riferimento soltanto in poche occasioni.

Nella raccolta d’esordio, Fervore di Buenos Aires, la prima lirica d’amore che incontriamo si intitola proprio Assenza. Sono diciotto versi che vale la pena di leggere per rendersi subito conto di come egli vede la donna, come la sente, come la vive o l’ha vissuta:

“Dovrò rialzare la vasta vita

che ancora adesso è il tuo specchio:

ogni mattina dovrò ricostruirla.

Da quando ti allontanasti,

quanti luoghi sono diventati vani

e senza senso, uguali

a lumi nel giorno.

Sere che furono nicchie della tua immagine,

musiche in cui sempre mi attendevi,

parole di quel tempo,

io dovrò formularle con le mie mani.

In quale profondità nasconderò la mia anima

perché non veda la tua assenza

che come un sole terribile, senza occaso,

brilla definitiva e spietata?

La tua assenza mi circonda

come la corda la gola

il mare chi sprofonda”.

Cominciamo col dire che non abbiamo indicazione di nomi, né di sembianze e che non c’è il minimo cenno al desiderio, alla sensualità, al vortice che ingorga di solito l’anima e il corpo e fa disperare “l’amore nel cuor dell’uomo”. Tutto è detto con la massima semplicità e con la massima oggettività. Sembra che egli parli di un uomo qualsiasi, non di se stesso, eppure dentro le parole si sente il gorgogliare di una ferita insanabile, mai minimamente rimarginata, tanto è vero che l’assenza è “come un sole terribile”, senza tramonto, che brilla crudele e malvagio. Anche la dolcezza degli incontri è figurata con una immagine indiretta efficace e davvero alta: “musiche in cui sempre mi attendevi”.

Più o meno negli stessi anni Vincenzo Cardarelli in Italia scriveva una poesia intitolata Attesa, ma in questa l’assenza è riferita a un appuntamento mancato. In Borges invece l’assenza diventa un fiorire attivo di ricordi che si materializzano e fanno male. E nonostante che egli non amasse troppo la poesia spagnola, qui ne troviamo echi che poi saranno soprattutto di Pedro Salinas, oltre che di Aleixandre.

Nella stessa raccolta troviamo una poesia intitolata Sabati, con la dedica a C. G. Non sappiamo chi sia, ma le quattro parti che compongono la lirica sono scandite con accenti direi musicali, ritmati con forza, siglati inizialmente sempre dall’occaso (“Fuori c’è un occaso, gioiello oscuro / incastonato nel tempo”) e conclusi con una immagine che investe le corde più sottili dell’uomo e una coralità che scaturisce da lontane nostalgie di assoluto: “Sempre, la moltitudine della tua bellezza”; “In te sta la delizia / come sta la crudeltà nelle spade”; “Nel nostro amore c’è una pena / che somiglia all’anima”; “Tu / che ieri soltanto eri tutta la bellezza / sei anche tutto l’amore, adesso”. A differenza però della precedente poesia, qui troviamo una indicazione precisa del corpo: “il biancore glorioso della tua carne” e troviamo quindi un Borges che fa una deroga alla sua pudicizia, al rispetto assoluto che ha della donna, perché “biancore” è una immagine solare priva di qualsiasi tentazione, del minimo riflesso di sensualità.

Il poeta e scrittore argentino Jorge Luis Borges

Ho cercato di individuare in tutta la produzione elementi che mi suggerissero dati illuminanti della sua poesia amorosa, ma Borges non è disposto mai a denudarsi, a mettere in piazza le sue illusioni e i suoi languori, le sue accensioni e il suo essersi perduto nelle braccia di una donna. Parsimonioso sempre, oculato nella scelta dei vocaboli, con un rigore che ci riporta all’essenzialità dei classici greci e latini. Infatti in Trofeo, in cui si racconta di un giorno intero trascorso con una lei possiamo soltanto apprendere questo dato: “io fui lo spettatore della tua bellezza”, informandoci che dopo sarebbe subentrata, in un modo molto particolare, ancora e sempre l’assenza. Insomma, spettatore della bellezza come lo si può essere di una cascata, di un prato fiorito, di una tela importante al museo.

La poesia d’amore successiva che incontriamo, sempre in Fervore di Buenos Aires, è Congedo. Anche in questa riappare la parola assenza: “Definitiva come un marmo / rattristerà la tua assenza altre sere”. Ecco, la donna nel ricordo è diventata come un marmo definito e ineluttabilmente fermo, chiuso nel rigore di una struttura immutabile, quindi, ancora una volta, immagine di un repertorio conservato nel suo fulgore oggettivo.

Due anni dopo, il 1925, Borges pubblica Luna di fronte, che con poche modifiche viene ristampato nel 1969. Borges ricorda che “Verso il 1905, Hermann Bahr decise: ‘L’unico dovere, essere moderno’. Più di vent’anni dopo, mi imposi anch’io questo obbligo del tutto superfluo. Essere moderno è essere contemporaneo, essere attuale; tutti fatalmente lo siamo. Nessuno…ha scoperto l’arte di vivere nel futuro o nel passato”. A volte il poeta sembra tautologico, ma bisogna stare attenti, perché egli in questo modo apparentemente innocuo, piano ed elementare, cerca di sbrogliare la matassa di eterni enigmi che diversamente si alzerebbero come un muro dinanzi alla nostra comprensione. Insomma, egli afferma e affermando nega e negando sposta l’asse della verità in direzione di una logica che da sé entra nel gioco oscillante del possibile e svela, per similitudine o per improvviso rigetto dell’ossimoro, tutta la sapienza del dettato. In Amorosa anticipazione vediamo infatti che Borges apre i primi tre versi con una negazione (finora in poesia si aveva soltanto l’esempio di A Zacinto di Ugo Foscolo inciso con una simile determinazione forte e perentoria – “Né più mai toccherò le sacre sponde”) che vuole mettere in risalto il “come guardare il tuo sonno implicato / nella veglia delle mie braccia”. Adesso abbiamo, finalmente una “fronte chiara come una festa” – simile a un verso bellissimo di Alfonso Gatto: “Ti perderò come si perde un giorno chiaro di festa”, e abbiamo “l’abitudine del tuo corpo”, ma la donna diventa proprio per questo “Vergine miracolosamente un’altra volta per la virtù assolutoria del sonno”. E così si ritorna a immagini scultoree, poste a guardia della memoria e il poeta si pone come un cenobita che contempla e lo fa “come Dio deve vederti, / sbaragliata la finzione del Tempo, / senza l’amore, senza di me”. Dunque più che una poesia d’amore si tratta di una poesia religiosa, la cui spiritualità, ancora una volta è nell’assenza dell’amore, addirittura di se stesso, in modo che la donna diventi puro spirito distaccato dagli elementi terrestri, dalla umanità calda e dalla quotidianità.

Che cosa può significare tutto ciò? Come mai Borges ha questo atteggiamento rigido che porta inesorabilmente alla negazione o al vagheggiamento del bene che nella memoria diventa perfino atto straordinario e però privo di un significato legato al rapporto uomo donna, amore e morte? Che cosa significa questo suo sterilizzare sentimento ed emozione, corpo e anima in un flusso di sottile e imprendibile proiezione figurativa? Siamo al di là di qualsiasi romanticismo, di qualsiasi nota decadente, passionale, accesa, carica di sogno o di possibilità, al di fuori di qualsiasi regola canonica, fuori dalla portata degli stereotipi, ma anche al di fuori di connotazioni che abbiano agganci e diramazioni di carattere storico inteso in direzione della tradizione,  e proprio grazie all’utilizzo della memoria poetica e letteraria che si corrobora di assonanze e di verità più di carattere filosofico anziché strettamente poetico, con una punta di intellettualismo, che egli riesce a rendere lievitato, coinvolgente, come se fosse frutto di una emozione che investe la totalità della persona umana, come se la donna non fosse corpo e calore, ma segno intoccabile di una astrazione onirica.

Subito dopo troviamo un’altra composizione intitolata Un congedo. Perché prima Congedo e adesso Un congedo? Borges non adopera le parole mai casualmente e anche un articolo indetermonativo ha il suo peso nell’economia di una interpretazione. Un congedo perché ci sono infiniti modi di dirsi addio, e infinite maniere di leggere la realtà che sempre si presenta per sineddoche e pretende tuttavia di diventare verità assoluta, unica.

L’amore è concepito come un rapporto che scava l’addio. Anche qui per tre volte, come in una giaculatoria, abbiamo la sera, e addirittura abbiamo un riferimento a “le nostre labbra nella nuda intimità dei baci”, ma pare che niente serva a protrarre la meraviglia degli incontri già deteriorati dalla presenza costante della sera e poi dalle lacrime di lei.

“Sera che dura vivida come un sogno

tra le altre sere.

Dopo io raggiunsi e superai

notti e navigazioni”.

Mai una promessa, mai una parola di passione, un abbandono, una esaltazione, un pensiero torbido, accecante, irrazionale e anche quando ci racconta, in La mia vita intera, il percorso e la dimensione del suo credo, hanno una sola espressione nei confronti della donna: “Ho amato una ragazza altera e bianca e di una ispanica quiete”.

A parte l’incomprensibile “ispanica quiete” (sappiamo tutti quanto focose e appassionate, sensuali e calde siano le donne spagnole) devo confessare che leggendo per la seconda volta l’aggettivo bianco, riferito alla donna, ho avuto un momento di perplessità. Il bianco è l’assillo della follia, l’illibatezza, la grazia, ma soprattutto l’assenza (!) o la somma dei colori. Secondo la simbologia si colloca all’inizio o alla fine della vita diurna e del mondo manifestato, il che gli conferisce un valore ideale, asintotico, tendente cioè ad avvicinarsi a qualcosa senza mai raggiungerla. Ma, come dicevo, mi ha lasciato perplesso anche la “ispanica quiete” della ragazza non solo per la connotazione che esula da qualsiasi riferimento se uno pensa alla donna spagnola roteante in una frenetica danza di flamenco, ma anche per l’avvertimento a voler ribaltare i luoghi comuni a tutti i costi.

Dunque, che cosa pone Borges in questa posizione asettica che lo fa concludere così: “Credo che le mie giornate e le mie notti eguaglino in povertà e in ricchezza quelle di Dio e quelle di tutti gli uomini”. Una maniera sibillina di appiattire la presenza della donna, di porla al di là del bene e del male e renderla una creatura che in qualche modo è appena una ruota di scorta dell’uomo, anche quando ama, anche quando diventa lontananza e ricordo che ci accompagna, cioè ancora e sempre assenza?

Che Borges sia stato misogino e nessuno se n’è mai accorto? Certo è che per trovare un’altra poesia d’amore bisogna arrivare a L’altro, lo stesso del 1964. E proprio in una delle liriche intitolate 1964 troviamo ancora una volta, però, il perenne motivo del suo mondo amoroso, le stesse note dolenti dell’addio e dell’assenza:

“Addio alle mutue mani, addio alle tempie

Che amore avvicinava. Non hai più

Che il fedele ricordo e i vuoti giorni”.

E proseguendo leggiamo, più oltre:

“Un oscuro miracolo si cela:

La morte, un altro mare, un’altra freccia

Che ci fa liberi da sole e luna

E dell’amore. Il bene che mi desti

E mi togliesti devo cancellarlo;

Ciò ch’era tutto dev’essere niente.

Solo mi resta il gusto d’esser triste,

L’abitudine vana che m’inclina

Al Sud, a quella porta, a quel cantone”.

Quattro anni dopo, 1969, esce Elogio dell’ombra. Qui avvertiamo una ulteriore rarefazione del tema, starei per dire l’assenza se non fosse per accenni come “… e tra le pagine appassita / la viola, monumento d’una sera / di certo inobliabile e obliata”; oppure, quaranta pagine dopo: “È il giorno in cui lasciammo una donna e il giorno in cui una donna ci lasciò” e altre venti pagine dopo: “le donne son quello che furono in anni lontani”.

Poesia misteriosa quella di Borges, ma che pone molte domande al lettore avido di conoscere che cosa si cela nella sua anima sempre avida e così poco propensa a parlare d’amore. Anche L’oro delle tigri è privo di poesie che trattino l’argomento amoroso. Sì, ci sono sei “Tanka” che fanno pensare alla parvenza, all’idea di donna e niente altro. Poi bisognerà arrivare a La moneta di ferro, del 1976, per avvertire un altro piccolo cenno:

“Che cosa non darei per il ricordo

Di te che m’avessi detto che mi amavi,

E di non aver dormito fino all’aurora,

Straziato e felice”.

o per leggere la breve poesia dedicata a Maria Kodama, l’ultima sua compagna di vita. Ma anche questi versi non sono allegri o passionali:

“C’è tanta solitudine in quell’oro.

La luna delle notti non è luna

Che il primo Adamo vide. I lunghi secoli

Dell’umano vegliare l’han colmata

D’antico pianto. Guardala. È il tuo specchio”.

Poi, ne La moneta di ferro si legge, proprio nella poesia eponima: “Perché è necessario a un uomo che una donna lo ami?”.  Niente altro. E nella successiva raccolta, Storia della notte, del 1977, Endimione a Latmo è un confronto letterario perché non possiamo non sentire il peso della letterarietà di versi come: “Oh le pure guance che si cercano, / Oh fiumi dell’amore e della notte, / Oh bacio umano e tensione dell’arco”. Anche La felicità, che fa parte de La cifra, del 1981, non trascina, non fa sentire il fiato caldo né le accensioni che portano a considerare l’amore nelle forme a cui siamo abituati, negli eccessi e negli incanti che conosciamo:

“Sia lodato l’amore che non ha né possessore né posseduta, ma in cui entrambi si donano.

Sia lodato l’incubo che ci rivela che possiamo creare l’inferno”.

Lo stesso si dica de L’inferno che ripercorre la storia dantesca di Paolo e Francesca e di qualcuno degli haiku, molto felici e luminosi, ma privi di quel fulgore acceso e demente che dovrebbe accompagnare la poesia amorosa.

Qualcosa gli sfugge ne I doni, del 1984, e qualcosa ne Il labirinto (“Maria Kodama e io ci perdemmo quel mattino e seguitiamo a perderci nel tempo, quest’altro labirinto”), ma non sentiamo una voce che rincorre sogni, che li proietta, che li codifica, li dilata, li accende, li uccide, li spande a piene mani. Come abbiamo visto, tutto è chiuso all’interno di quell’assenza di cui parla all’inizio; il resto è un esercizio altamente letterario, che fa pensare a un uomo desolato, con l’anima posta in equazione con la mente, e tutto preso dai problemi del tempo, dello spazio, della morte, della vita, degli specchi, della cecità. Quello della cecità è stato un argomento vissuto sulla sua pelle, che forse sentiva dentro, tra l’altro, perché da giovane studiò Milton, Il paradiso perduto, al quale, secondo me, deve moltissimo, molto più di quanto si pensi, e che amò anche per la medesima condizione umana, per la precoce cecità. Ma questo è un altro argomento.

La poesia amorosa di Borges sembra priva di vita, perfino di effettivo dolore, anche quando egli si trova nella condizione dell’assenza e dell’addio, quando ripercorre i lontani momenti dei suoi innamoramenti, del suo matrimonio con Elsa. Sentite che cosa risponde a Giuseppe Centore in una intervista pubblicata nel 1984 su L’amanuense di Borges: “D: È vero che una delle ragioni per cui il suo breve e tardivo matrimonio fallì fu il fatto che sua moglie Elsa non sognava?” – R.: “O forse, chissà, si vantava di non sognare. Veniva da una famiglia in cui era proibito il nonsense, il fantasticare. Comunque mi son detto: se lei non sogna sono perduto”. E più avanti: D: “C’è chi sostiene che nella sua vita non c’è amore” – R: “Si sbaglia. Non sa che io scrivo per distrarmi dall’amore”. Due risposte che ci illuminano sul suo atteggiamento nei confronti della donna. Del resto uno dei libri che Borges ha maggiormente amato, e per il quale ha scritto una magistrale e dotta introduzione, è stato Micromegas di Voltaire, che così comincia: “Memnon concepì un giorno il progetto insensato d’essere perfettamente saggio. Non c’è uomo al quale questa follia non sia passata qualche volta per la testa, Memnon si disse: ‘Per essere saggissimi, e di conseguenza felicissimi, basta non avere passioni; e nulla è più agevole, come si sa. In primo luogo, non amerò mai una donna, poiché, vedendo una bellezza perfetta, dirò a me stesso: quelle guance un giorno diventeranno rugose; quei begl’occhi saranno orlati di rosso; quella bella testa diventerà calva. Ora non devo far altro che vederla fin da questo momento con gli stessi occhi con i quali la vedrò allora, e sicuramente quella testa non farà girare la mia”.  Mi pare evidente che non ha voluto e non è riuscito a imparare, come ha scritto Mandel‘stam, “la scienza degli addii”, e nemmeno quella dell’assenza, visto che la canta come una reliquia, come avvenimento estraneo, e visto che nella bellezza intravede subito il disfacimento. Forse la colpa è del suo eccesso di intellettualismo che in questo caso non è riuscito a diventare lievito essenziale di stupore e allora mi viene spontaneo ripetermi la domanda: “che Borges sia stato davvero un misogino?”.  Magari dopo la delusione di Elsa che si è portato appresso per tutta la vita come una condanna e una ferita che non gli ha permesso di uscire dal suo “rancore”?

Non lo sapremo mai, anche perché poi altre donne lo hanno amato e Maria Esther Vasquez e Maria Kodama lo hanno adorato e servito fino alla morte.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

“La passiflora non è una passeggiata en plein air” di Rita Vitali Rosati; recensione di Lorenzo Spurio

La passiflora non è

una passeggiata en plein air

di Rita Vitali Rosati

 

Recensione di Lorenzo Spurio

  

Difficile o azzardato poter addurre un commento critico su un’opera complessa ed eterogenea come quella di Rita Vitali Rosati che col volume La passiflora non è una passeggiata en plein air (2014) non solo ci consegna un percorso visivo interessante attraverso un catalogo fotografico monografico, ma anche un saggio vivido e speziato di una selezionatissima poetica del secondo Novecento. Le poesie di alcuni grandi della scena poetica del nostro periodo tra i quali cito Eugenio De Signoribus, Guido Garufi e Franco Loi, e dunque i loro versi, si legano in maniera inscindibile con gli apporti visivo-iconici propostici dall’organizzatrice di questa singolare mostra. I versi costruiscono corrispondenze e richiamano riflessi di luci, ambienti e particolari consacrati all’eternità dallo scatto fotografico della Nostra.

La-Passiflora-non-è-una-passeggiata-en-plein-airCome osserva Paolo Nardon nella nota di prefazione che apre il testo, la passiflora è “un fiore, ma anche gustoso frutto della passione”, e credo che risieda proprio qui, in questa scarna ma evocatrice definizione, il significato concettuale, il nerbo ispiratore e costruttivo poi dell’intera opera antologica che sfogliamo con vivo piacere e un’irrefrenabile ricerca di una maggiore comprensione.

Ogni artista, si sa, sia esso un poeta, un pittore figurativo o astrattista o un fotografo, con la sua attività propone un suo particolare e personale cammino di ricerca, di espressione volto poi spesso a una plurale condivisione, inteso cioè come un manufatto culturale che ha un suo significato se effettivamente viene privato di tutti quei retroterra più marcatamente concettosi e psicologici per esser proposto a una fruizione collettiva. Ricercare quindi i motivi, gli elementi ispirativi, i modelli, le cause e le volontà che stanno alla base di un determinato processo culturale è sempre qualcosa di difficoltoso e tale problematicità si acuisce ancor più nel momento in cui ci mettiamo nella condizione di osservare, contemplare e criticare senza avere nozioni chiare e puntuali sul creatore stesso di quel prodotto artistico.

rosati
L’autrice, Rita Vitali Rosati

Rita Vitali Rosati (Milano, 1949) ha esposto i suoi lavori in spazi istituzionali e gallerie private in tutta Italia e all’estero. Le sue opere sono presenti, tra l’altro, presso il Museo Bargellini di Pieve di Cento (Bologna) e il Museo Durini di Bolognano (PE).

Le fotografie di Rita Vitali Rosati propongono uno scambio dialogico tra natura umana e natura vegetale in ambienti e circostanze apparentemente anomale e di difficile considerazione, realizzando non tanto una celebrazione panteistica ossia di scambio reversibile tra uomo e natura, ma piuttosto un serrato dibattito tra di essi. Ce ne rendiamo conto, da subito, nella foto d’apertura dove una panchina in ferro ormai completamente arrugginita fa come da terrapieno rialzato a un’ipotetica base di terra nella quale spuntano papaveri per lo più rosa e alcune rose di Geriko. C’è da intendersi subito però: la natura vegetale e floreale della Vitali Rosati non è impressionata dallo scatto fotografico nel momento della sua timida crescita o dello sboccio, né tanto meno nel suo momento più palesemente florido caratterizzato dalla lucidità delle tinte e dalla rigogliosità dell’apparato vegetale (stelo, foglie), ma al contrario in una fase di deterioramento prossima all’appassimento e alla marcescenza. La Nostra coglie con particolare attenzione il processo di invecchiamento dell’elemento naturale fotografando l’avanzata del tempo che tutto deteriora e consuma, proprio come la panchina di ferro, intuiamo un tempo bella e lucente e ora quasi completamente scolorita e fagocitata dall’ossido.

imagesLe mani dell’uomo che intravediamo in alcuni scatti sono anch’esse al passo con il senso di trascuratezza ed abbandono: mani sporche, rugose, non del tutto curate, con piccole escoriazioni o al contrario sono occultate da bende e garze dalle quali si evidenziano macchie di sangue e si intuiscono lesioni più o meno gravi. Sono, in tutti i casi, assieme ai fiori le vere protagoniste di queste foto ed è proprio lì, infatti, che la Nostra sembra voler accentrare l’interesse e sottolinearne l’importanza. A dare un sostegno alla flora morente, indebolita e ormai incapace di assumere la forma canonicamente presente in esemplari vivi e vegeti, è il curioso ricorso della nostra artista-fotografa-istallatrice a strisce di carta adesiva bianca stretti attorno a gambi di tali fiori che hanno esalato ormai gli ultimi respiri. Il verso iniziale della poesia del fabrianese Alessandro Moscè ben sottolinea tutto ciò: “La mano tende ad un infinito presente”.

Questo catalogo, allora, come è stato già osservato più volte, è caricato polisemanticamente di molteplici significati: dal rapporto uomo-natura che, di riflesso, porta con sé quello ancora più complicato cultura-natura, all’ossessione temporale che si realizza con la presa di coscienza che il carpe diem è una momentanea illusione di appropriazione degli istanti che, nel momento della fugacità del tempo, conduce l’uomo a una considerazione mesta e a un bilancio esistenziale dal quale sembra fuoriuscirne sconfitto, sino all’analogia religiosa che ripercorre il calvario della Passione di Cristo, debole, affaticato, sporco e insanguinato proprio come le tante mani che si susseguono pagina dopo pagina. Emblematica a questo punto la foto della ragazza con corpetto ed intimo bianco con capo reclinato verso sinistra, quasi compunto e addolorato in una sorta di sonno della ragione, trafitta dall’interno da una serie di lunghi chiodi che ne tracciano il sacrificio silenzioso dell’umanità.

La lirica della sambenedettese Enrica Loggi dal titolo “La fanciulla dorme” è parte inscindibile di questo dittico parola-immagine nella quale la Vitali Rosati permette all’osservatore cauto di cogliere un velo di casta seduzione nella ragazza che, ad occhi chiusi e contornata da fiori secchi e stecchiti a bagno in una vasca, riesce quasi a trasfondere il profumo netto di quei fiori di campo. Donne sulle quali la nostra non credo voglia porre tanto l’attenzione sull’effimera eventuale bellezza del corpo e dei suoi attributi, piuttosto carpirne il legame con la natura floreale marcescente, prossima al trapasso. Per questa ragione la Nostra non direziona lo sguardo delle stesse donne verso qualcosa (esse hanno sempre gli occhi chiusi o la riproduzione dello scatto è tagliata direttamente a metà naso per eludere proprio la fascia visiva) concentrando l’attenzione riguardosa verso l’elemento vegetale, a questi bouquet sfioriti, sporchi, dimenticati, esteticamente fastidiosi e poco ornamentali ossia ciò che l’anconetano Scarabicchi esprime con il “mistero d’umano che declina”.

Un’opera complessa e multiforme questa della Vitali Rosati che utilizza linguaggi multipli e codici che vanno identificati ed approfonditi con circospezione rintracciando il giusto legame tra parola e immagine e solo in seguito tra parola e concetto. È la sfera tematica del tempo ad esser presa ad indagine secondo un approccio visivo-espressivo palesemente riuscito e catturante, che permette al termine di questo percorso tra fiori-non fiori di percepire con più coscienza ciò che Scarabicchi definisce il “tempo che non vedi dentro gli anni” a dominare nella nostra esistenza.

Ci sono fiori dappertutto/ l’ho appena scoperto ascoltando/ fiori per l’udito” esordisce la poetessa peruviana Blanca Varela.

Basterà, allora, risultare capaci di avvertirne la presenza e saperli ascoltare.

 

Lorenzo Spurio

 

Jesi, 03-05-2015

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