“Federico García Lorca: dal “Llanto por Ignacio Sánchez Mejías” a “Poeta en Nueva York””. Saggio di Pietro Civitareale

A Federico García Lorca (1898-1936), come uomo e come artista, è toccato di diventare un mito del nostro tempo, per cui a tutti i problemi posti dalla sua opera letteraria (colta, oscura e innovatrice nello stesso tempo) si aggiunge quello di capire perché una poesia, come la sua, abbia infranto tutte le barriere della impopolarità della poesia moderna, provocando entusiasmi, creando mode e facendo proseliti. Teatro, incisioni discografiche, televisione, balletto: tutto è servito a creare e a sostenere il fenomeno “Lorca”.

Forse, al fondo di questa straordinaria fortuna, c’è il sentimento del tragico, la disarmata dichiarazione di dolore di cui la sua poesia è portatrice, la sua perenne e inesausta inquietudine esistenziale. A ciò si aggiunga un insieme di circostanze, tra le quali la morte del poeta, avvenuta nel 1936, in un momento in cui l’attenzione internazionale era concentrata sulla guerra civile spagnola, che appariva come un’allusione a un ancora più ampio e odioso conflitto che minacciava, in quella stessa temperie, l’Europa e il mondo.

Federico García Lorca divenne quasi il simbolo della fragilità di ciò che è nobile e gentile, ma è esposto, nel medesimo tempo, alle forze della distruzione. La sua poesia rinnovava l’immagine tradizionale della Spagna, restando tuttavia nel suo solco. La Spagna come patria di sentimenti nobili e violenti, di un primitivismo che possiede un’eleganza e una raffinatezza istintive, si ritrovava nella sua opera poetica e nel suo teatro. Lorca, scrisse a suo tempo Elio Vittorini (uno dei pionieri, con Carlo Bo ed Oreste Macrì, della sua fortuna in Italia), era «la semplice gioia di vivere», in contrasto con un Montale o un Eliot, la cui poesia è verticale, intrisa di esistenzialismo, inquinata dal male di vivere. In García Lorca le esperienze surrealiste del flamenco e della corrida divennero elementi fondativi del suo successo che raggiunse, sia in Italia che nel resto del mondo, dimensioni senza precedenti per un poeta.

Nella sua opera, inoltre, si compendia e si trasferisce, in una sfera sublime di poesia e su un piano di ardua forma d’arte, tutto il complesso mondo di esperienza storica e mitologica di una generazione di poeti che trapassa dal fatto psicologico e corale della contemporaneità a una struttura organica e consapevole della tradizione letteraria spagnola. Solamente da questa considerazione storico-formale, che trascende il concetto positivista di generazione letteraria, è possibile osservare il significato autentico, il senso vero, di un’opposizione al purismo di un Valery, di un Guillén, di un Juan Ramón Jiménez, al disumano, all’arbitrario e al cerebrale dell’estetica dell’azzardo e delle mode; opposizione che si dà non per esclusione, ma per un vivo e ostinato desiderio di conoscenza ed esperienza della crisi e delle avanguardie europee, affinché non restasse nulla di intentato, nulla di rifiutato e respinto, sul piano umano, che fosse possibile estrarre dalle poetiche più informali e sterili del Novecento.

Il mio incontro con la poesia di Federico García Lorca risale ai primi anni Cinquanta e fu propiziato dall’ascolto del Llanto por Ignacio Sánchez Mejías, recitato da Arnoldo Foà in una celeberrima incisione discografica. Ero a quei tempi uno studente e non pensavo alla poesia se non come a un indigesto oggetto di studio. L’ascolto di quel poemetto, reso ancora più suggestivo dalle profonde e suadenti tonalità vocali di Foà, più che sorprendermi e darmi gioia, mi sbalordì. Non avevo mai letto, o sentito recitare fino a quel momento, versi con quel ritmo ossessivo, con quella forza evocativa, con quel rigoglio metaforico, con quella carica espressiva, con quell’avvertenza superstiziosa per il numero.

Il poemetto era stato composto nel 1935 in memoria di un amico torero e letterato, rimasto ucciso nel corso di una corrida nell’arena di Manzanares. È una stupenda sintesi della poesia lorchiana e si presenta come una sorta di sinfonia funebre in quattro tempi. Il primo tempo, La cogida y la muertedescrive la morte tragica dell’amico con un sapiente intarsio di tocchi realistici e di visioni liriche, scandite dall’ossessionante ritornello A las cinco de la tarde (“Alle cinque della sera”) che, in cinquantadue versi, viene ripetuto per ben ventisei volte; il secondo tempo, La sangre derramadain forma di romanza classica spagnola, è l’elogio vero e proprio, sublime mescolanza di elementi tradizionali e di nuove espressività drammatiche; il terzo tempo, Cuerpo presentee il quarto, Alma ausente, sono delle purissime meditazioni, di un ardente e pur contenuto lirismo, intorno alla morte e al destino dell’uomo, estrema e altissima elegia di un grande poeta che, piangendo davanti al corpo senza vita dell’amico, piangeva senza saperlo la propria e ancora più tragica morte. E, come in altri grandi poeti e artisti (Manrique, Quevedo, Goya, Unamuno) un’intensa e incontenibile brama di vita sgorga in Lorca da un sentimento tremendo della morte, facendosi arte in un supremo sforzo di conoscenza e di salvezza.

Ed è proprio in questo contesto, emotivo e riflessivo nello stesso tempo, che è possibile cogliere il senso e la misura della poesia di Lorca. Llanto por Ignacio Sánchez Mejías è il suo pezzo di maggior elaborazione ed orchestrazione con uno sfondo che offre una continua possibilità di risonanza. Lo si può definire una sorta di racconto per simboli, in cui il poeta, oltre a ripercorrere, su di un’ossessiva avvertenza del tempo, il motivo del dolore e della tragedia che si è consumata, gioca la carta della drammaturgia, sviluppa il racconto allargando sempre più la propria visione, mentre il tema della morte, applicato alla comune realtà, ci fornisce l’interpretazione, giustifica lo scatto poetico sempre più sicuro e improvviso, la  costruzione del verso, tenuta su una linea sempre più semplice e suggestiva.

Lo schema metrico-ritmico della prima parte del Llanto, con l’iterazione del verso a A las cinco de la tarde ha un precedente in un altro testo di Lorca, intitolato Son de negros en Cubanel quale il ritornello “Iré a Santiago” è ripetuto per ben diciotto volte in soli trentotto versi. Ciò offre l’occasione per soffermarsi su un’altra opera lorchiana, nella quale tale testo è contenuto; un’opera che costituisce uno dei vertici della poesia spagnola del Novecento e cioè Poeta en Nueva Yorkindubbiamente l’opera più ambiziosa del poeta di Granada e una delle chiavi della poesia surrealista, sia pure di un surrealismo da intendersi non come “sistema” ma come parte integrante della concezione globale che García Lorca aveva della sua esperienza poetica.

Aveva scritto, infatti, nel 1928 che «La luce del poeta è la contraddizione. Il poeta non mira né pretende di convincere nessuno. Sarebbe indegno della poesia se assumesse questa posizione, in quanto la poesia non vuole adepti ma amanti. La poesia alza siepi di rovo e sparge cocci di vetro perché le mani di coloro che la cercano si feriscano per amor suo»”. E il lettore, che per la prima volta si pone senza pregiudizi di fronte a questa opera, capirà facilmente quello che egli chiedeva: un’attitudine nuova dinanzi al fenomeno poetico, un’inquietudine accecante verso le sue forme di comunicazione.

Poeta en Nueva York fu composta tra il 1929 e il 1930 e la metropoli statunitense, come lo stesso titolo suggerisce, ne è il tema principale. Ma la città è anche una metafora dell’intensa crisi spirituale che il poeta stava attraversando. Ad uno sguardo superficiale può sembrare perfino che il suo ritmo sia gioioso, ma, ad una lettura più attenta e meditata, ci si accorge che Poeta en Nueva York è un terribile canto di disperato dolore e di allucinante presentimento di morte, in cui il drammatismo andaluso di Romancero e del Cante jondo si fa angoscia universale. Se il motivo occasionale è costituito dallo sgomento causato dall’incontro di Lorca con la smisurata città americana tanto disumanamente diversa dalla piccola Granata natia, in realtà la fantasmagoria, che il poeta evoca, esprime con inaudita potenza l’assurdità dell’esistenza e l’inconsistenza della realtà delle cose.

 A contatto con la realtà newyorchese, ossia con una «civiltà senza radici», scatta in García Lorca una presa di posizione anticapitalistica, non nuova certamente nella cultura spagnola e in tanta cultura europea, ma che non è, come nell’anticapitalismo tradizionale, nostalgia di un altro tempo o un alibi per uno sterile isolamento, bensì rifiuto e ribellione in una dimensione totalmente contemporanea. Se, come è stato scritto, Lorca scopre la storia in occasione del suo viaggio a New York, è sempre come scoperta di un processo attuale, di uno scontro in atto.

La metafora visionaria, che anima Poeta en Nueva York, è per il poeta la strada per cercare di rivelare e risolvere nella poesia questo scontro, questa lacerazione. Attraverso l’accostamento di diversi piani della realtà, il paesaggio interiore si materializza mentre quello esteriore si interiorizza; solo che qui l’accostamento è simbolo di un’irrevocabile separazione. I miti lorchiani manifestano, in questa raccolta, segni in positivo e in negativo. Al positivo stanno le entità mitiche del Romancero (l’albero, il bambino, la farfalla, il paesaggio: insomma la natura), al negativo troviamo al contrario il cemento, la città, la discriminazione sociale, ossia tutto ciò che è prodotto dell’uomo e della cultura. Per tutta l’opera predominano il bianco e il nero, simboli di opposizione totale: dalla gamma semantica del vuoto, della nausea, fino alla maledizione e a forme inequivocabili di profetismo.

Quello di Lorca è la scoperta di un mondo inflessibile, d’una realtà straziante, della scissione tra soggettività ed oggettività, tra uomo e mondo, incarnato dalla macchina e dal denaro, dalla tecnica e dal profitto. Tra l’altro, siamo negli anni della crisi e New York, gonfia di rumore e disperazione, mostra di sé tutto il negativo che possiede. Lorca scrive freneticamente e in quello che scrive si riflette la sua angoscia per gli operai in sciopero, per i bambini abbandonati, per le condizioni di miseria in cui vive la gente di colore. La violenza e l’ingiustizia del capitalismo gli ispirano composizioni piene di immagini di degradazione e di dolore. Un’esperienza che gli servirà come stimolo per cercare, nel laboratorio della sua fantasia, una nuova voce e rimuovere quanto residua di vecchio nella sua poesia precedente.

Attraverso la scoperta della discriminazione, dell’oppressione e dell’ingiustizia sociale, egli si muove infatti verso una nozione dell’umano che è ormai lontanissima da quella ottocentesca, una nozione che avverte il conflitto a tutti i livelli: dall’individuo alla società. Così il mondo dei gitani, che nel Romancero recava in sé l’ambiguità di apparire troppo compatto (esposto cioè solo esternamente alla minaccia della morte o della guardia civile), appare ora come il termine di un conflitto. Su questa base egli muove verso una critica pragmatica con l’invenzione di un linguaggio del tutto nuovo, che attesta anche la sua definitiva adesione al surrealismo, adesione, peraltro, confermata dalla sua esperienza poetica successiva, rappresentata dalle liriche d’amore di Diván de Tamarit (1935) e, ad un livello ben più alto di capolavoro assoluto, dal Llanto por Ignacio Sánchez Mejías. Solo che in questa ricerca Lorca, che, come si sa, proviene da una cultura rimasta “autre”, non porta la cattiva coscienza dell’etnocentrismo come è accaduto a tanti scrittori francesi e tedeschi. La sua cultura di spagnolo, e di spagnolo meridionale e anche irregolare, gli consente di scoprire quasi naturalmente, nel centro della società capitalistica newyorchese, un’altra cultura, quella cioè dei subalterni e degli emarginati, e di sentirla subito come opposizione in senso antagonistico.

C’è in Poeta en Nueva York un testo che si intitola L’aurora, nel quale sono contenute nomenclature lessicali e sintagmi che bene mettono in evidenza l’antagonismo lorchiano nei confronti della civiltà delle macchine e della discriminazione razziale, che di lì ad una quindicina d’anni (ma Lorca non ne sarà testimone) conquisterà anche la vecchia Europa con le conseguenza che tutti conosciamo:

L’aurora di New York

ha quattro colonne di fango

e un uragano di nere colombe.

L’aurora di New York geme

per immense scale

cercando tra le lische

tuberose di angoscia disegnata.

L’aurora viene e nessuno la riceve in bocca

perché lì non c’è domani né speranza possibile.

A volte le monete in sciami furiosi

trapassano e divorano bambini abbandonati.

I primi che escono capiscono con le loro ossa

che non vi saranno paradiso né amori sfogliati;

sanno che vanno nel fango di numeri e leggi

nei giochi senz’arte, in sudori infruttuosi.

La luce è sepolta con catene e rumori

in impudica sfida di scienza senza radici.

Nei sobborghi c’è gente che vacilla insonne

appena uscita da un naufragio di sangue.

Si noti la positività del titolo in contrapposizione a una serie di spezzoni testuali dai contenuti decisamente negativi: «colonne di fango», «uragano di nere colombe», «acque putride», «lì non c’è domani né speranza possibile», «non vi saranno paradiso né amori sfogliati», «sudori infruttuosi», «la luce è sepolta con catene e rumori», «nei sobborghi c’è gente che vacilla insonne / appena uscita da un naufragio di sangue», ecc. Il quadro che Lorca ci presenta, in questo testo, è apocalittico e denuncia tutta la sproporzione, tutto lo scarto esistente tra un sentimento regionale, domestico e popolare come quello ad esempio del Libro de poemas del 1921 (pervaso da una suggestione ingenua della realtà naturale, dalla vena sottile, trasparente e immobile d’uno sguardo lontano) e il Lorca problematico, innestato sulla pianta di una consapevolezza della ingiustizia e della tragedia in atto.

In tal senso, Poeta en Nueva York si offrecome un’esperienza poetica creazionista, e, sotto certi aspetti, ultraista nell’uso della metafora multipla, conseguentemente ad una rinnovata lettura della tradizione poetica spagnola aperta, per convergenze parallele, al surrealismo francese, al mondo dell’onirismo e dell’inconscio. Attraverso questa via riappare, nella sua poesia, la storia come storia individuale e collettiva; una storia che guarda al mondo informe e disordinato della quotidianità per dominarlo, tra nostalgie arcaiche e slancio avveniristico. Una scelta che lo porterà verso l’azione, intesa come verifica possibile per chi abbia rifiutato la strada minoritaria della contemplazione e della perfezione formale.

PIETRO CIVITAREALE


Questo saggio viene pubblicato con l’autorizzazione espressa da parte dell’Autore, il noto poeta e critico letterario Pietro Civitareale, saggista attento e amante dell’opera letteraria di Lorca. “Federico García Lorca: dal Llanto por Ignacio Sánchez Mejías a Poeta en Nueva York” è stato precedentemente pubblicato nel suo volume Letteratura e dintorni (Arsenio Edizioni, Martinsicuro, 2020).


La riproduzione del presente testo, in formato integrale e/o di stralci, su qualsiasi tipo di supporto non è consentita senza l’autorizzazione da parte dell’Autore.

“Comincia il pianto della chitarra!”, Prefazione al libro “Santì d’Andalöséa. Omaggio a Federico Garcia Lorca” di Maurizio Noris

PREAMBOLO

Alcuni mesi fa il poeta e scrittore lombardo Maurizio Noris mi ha gioiosamente coinvolto nel lavoro della pubblicazione del suo libro contenente una scelta di opere poetiche di Federico García Lorca tradotte da Noris nel suo dialetto bergamasco della media Valle Seriana, per la stesura di un commento critico sull’opera (intitolato “Comincia il pianto della chitarra!”).

Il libro, dal titolo Santì d’Andalöséa. Omaggio a Federico Garcia Lorca – edito da Tera Mata Edizioni (Bergamo) – si apre con il testo della mia presentazione (che viene proposto, a continuazione, sulle pagine di questo sito) e contiene opere di Sara Oberhauser. Traduzione e voce a cura di Maurizio Noris.

Le letture sono state trasposte in registrazioni audio-video in cui è Lucìa Diaz alla voce, al canto e ai flauti. Il libro si chiude con una postfazione di Vincenzo Guercio.


BIOGRAFIA DELL’AUTORE

Maurizio Noris (Comenduno di Albino, BG, 1957). Scrive poesie in lingua prima del dialetto bergamasco della media Valle Seriana. Ha pubblicato Santì (2001, libro artigiano di poesie con l’artista grafico Ivano Castelli e presentazione di Ivo Lizzola), Dialèt De Nòcc D’amùr (2008, vincitore del prestigioso Premio “Città di Ischitella”), Us de ruch (2009, plaquette con introduzione di Alberto Belotti), Us de ruch (2010, con introduzione di Franco), Àngei? e Zögadùr (2012, con la presentazione di Piero Marelli e Silvio Bordoni), In del nòm del pàder (2014, con postfazione di Giulio Fèro), Resistènse (2016, introduzione di Franca Grisoni), A cüre socane (2022, installazione organico-poetica con un catalogo di 20 poesie inedite presentato da Gabrio Vitali), Santì d’Andalöséa. Omaggio a Federico García Lorca (2023, presentazione di Lorenzo Spurio, con opere di Sara Oberhauser, traduzione e voce a cura di Maurizio Noris, registrazioni audio-video di Lucìa Diaz alla voce, al canto e ai flauti, postfazione di Vincenzo Guercio). Ha curato Guardando per terra, voci della poesia contemporanea in dialetto (2011, co-curatore Piero Marelli). È presente con suoi testi in L’Italia a pezzi. Antologia dei poeti italiani in dialetto (2014), in Dialetto lingua della poesia (2016) a cura di Ombretta Ciurnelli e in diverse antologie e riviste. Per tutto il 2019 ha curato la rubrica settimanale SÖ L’ÖS del -santalessandro.org- settimanale della Diocesi di Bergamo, con la presentazione anche sonora e commento delle sue poesie.


PRESENTAZIONE AL LIBRO

“Comincia il pianto della chitarra!”

Di LORENZO SPURIO

Molti dei letterati della nostra età, oltre a perseguire con necessità primaria la propria vocazione di autori che li vede poeti o scrittori che sia, non hanno mancato d’interfacciarsi con il non complicato mondo della traduzione. Il fenomeno di comprensione di una lingua d’altri, d’interpretazione e di lettura profonda (e d’immedesimazione, spesso) per poter generare la medesima opera con un vestito leggermente diverso (mai diremmo se migliore o peggiore del suo originale) coinvolge in maniera correlata e intensa una serie di meccanismi mnemonici-sensoriali, evocativi e reminiscenziali ma anche psicologici, più profondamente intimi e innati nel singolo.

La grandezza di un autore non è data né dal numero di copie dei suoi libri che vende nel corso del tempo né dal numero di lingue (diremmo meglio gli idiomi, a voler intendere anche parlate più ridotte o che non hanno, a differenza di quanto avviene con la lingua, un più diretto richiamo o correlazione a un determinato stato nazionale) in cui la sua opera viene versata. Sta, al contrario, nella capacità delle genti, di età, luoghi e da identikit sociali differenti, a riuscire a farsi ascoltare. A trasmettere una percezione unica e indescrivibile. Un gigante della letteratura internazionale come Federico García Lorca nel corso delle decadi che si sono succedute dalla sua prematura morte ha avuto (e contribuito ad alimentare) un lascito umano di lettori, critici, studiosi e affezionati, di anime in sintonia col suo dire, di persone più o meno altolocate, cattedratici e popolani, ingente, in logaritmica e irrefrenabile ascesa.

I componimenti che Maurizio Noris ha scelto dell’ampia produzione lirica del celebre “poeta con il fuoco nelle mani”, rimontano a quell’esigenza di calarsi in una natura primigenia e inalterata dall’introduzione del dato antropico. In appena una ventina di testi scorre davanti agli occhi del lettore una sorta di sintesi perfetta dei temi, delle immagini care, dei colori, dei rimandi e degli echi che hanno contraddistinto la poesia del Granadino rendendolo universalmente celebre e ineguagliabile. Una leggenda, per alcuni, un martire per altri. Sicuramente una presenza inesauribile e imprescindibile per tutti.

Le vicende che nel tempo hanno visto il prediligere di alcune traduzioni di Lorca nel nostro italiano piuttosto che altre (ricordiamo qui, per mero inciso, che non solo i tanto “celebrati” Bo, Bodini, Rendina e Macrì tradussero Lorca in italiano come spesso, facilisticamente, vien dato da intendere) sono tortuose e rimangono per lo più difficili da tracciare (ammesso che in esse si possa riscontrare un vero interesse di fondo) dettate spesso anche da logiche di mera diffusione editoriale o, al contrario, di veti espressi (o malcelati) all’interno di congreghe accademiche. Sta di fatto che, nel nostro Paese, Lorca ha visto non solo tante traduzioni (più o meno ricordate, più o meno affidabili) nella nostra lingua, ma anche in alcuni dialetti. Penso al torinese nel quale lo versò Luigi Armando Olivero, al friulano di Pier Paolo Pasolini, al siciliano di Salvatore Camilleri, al romagnolo di Tolmino Baldassari, solo per citare alcuni nomi ma la lista potrebbe essere infinita e sempre – purtroppo – clamorosamente incompleta a causa della difficoltà di una ricerca che, pur mirata, spesso non riesce a fornire apprezzabili risultati (ricordiamo che molti tentativi di traduzione non vennero alla luce, altri solo in ciclostile, la gran parte di essi non pubblicati con un editore, né registrati in biblioteche nazionali).

L’operazione di Noris – poeta sopraffino e amante del suo dialetto nativo, il bergamasco della Val Seriana – s’inserisce, dunque, in una tradizione (non sempre scritta) che sappiamo essere fluentissima (per nulla studiata, purtroppo) che nasce da quella volontà intima di far parlare l’opera di un Grande come l’autore di Nozze di sangue con l’autenticità della propria lingua personale, del proprio dettato ancestrale e familiare.

Riconducendo il discorso alla scelta delle liriche effettuata da Noris, ritroviamo nel volume poesie selezionate dalle Canciones, opera della fase giovanile, dall’arcinoto Poema del cante jondo, sino ad arrivare all’ampio campionario dei Poemas Sueltos e alle raffinatissime composizioni delle casidas che, insieme alle gacelas, fanno parte del Diván del Tamarit, opera la cui prima pubblicazione avvenne nel 1940 ovvero quattro anni dopo l’assassinio dell’Autore come pure Poeta en Nueva York, l’opera surrealista del Nostro che Noris ha deciso di non compendiare (crediamo per la forte lontananza alla poesia della Spagna arcadica e neo-popolare del primo Lorca). La scelta di testi ci fa immergere completamente nella Spagna autentica e rurale di Lorca, quella della campagna arsa dal sole e sollevata spesso da qualche vento inaspettato, quella delle case di calce bianca dei pueblos, gli antichi (e conservatissimi) agglomerati cittadini che si snodano in vicoli e vicoletti, piazzette e stradine ancor più piccole.

La tradizione andalusa è percorsa in lungo e in largo da Noris per mezzo di liriche che ben risaltano le peculiarità del tessuto abitativo e sociale di quella regione con particolare attenzione a quel mondo ritmico-sonoro così importante (il flamenco, il lamento della pena negra, le danze dei tablaos, il clarino nelle corride, etc.) richiamato anche nelle saetas della Semana Santa con la processione del Cristo, il zorongo, che assieme al jaleo è uno dei più celebri canti e balli della tradizione andalusa riconducibili alla grande famiglia della flamenqueria, finanche la nenia giocosa e fiabesca delle ninnenanne (famosa la sua conferenza sulle ninnenanne, Las nanas infantiles, tradotta anche dal veronese Arnaldo Ederle).

L’universo simbolico-oggettuale di Lorca (non solo poeta ma anche drammaturgo) diluito nei versi qui raccolti ben si condensa nel corso della lettura: il predominio della luna a volte imperscrutata altre volte che ammicca in senso fatalistico (sempre, comunque, collegata a un’idea di morte o di un nefasto presentimento) si lega alle immagini dello specchio (ricerca d’espressione e al contempo caducità dell’immagine) e a quelle degli arnesi del mondo contadino (il pugnale, la falce) che se hanno un uso pratico nel proprio lavoro a volte vengono impiegati, in un clima d’odio e vendetta, anche come minaccia o per dar la morte (ricordiamo la struggente e drammatica “Reyerta” tradotta da Rendina e Clementelli con “Zuffa”). Ci sono bambini, si odono lamenti, invocazioni alla luna, cavalli e farfalle, l’osservazione attenta e panica dello scorrere delle acque, lo sfolgorio dei colori e la densità dell’argento. Su ogni poesia, data la ricchezza contenutistica e gli squarci di alta intensità lirica (nei testi selezionati l’Autore ha preferito non inserire poesie che, più direttamente, potessero essere analizzate in relazione alla loro tensione etico-civile, pure presente in buona produzione del Nostro), l’inspiegabile suggestione trasmessa, la capacità pareidolitica e la potenza empatica sul lettore, si potrebbero dire molte cose, riflettere, ampliare, senza riuscire mai a compendiare in forma totale quella massa sconfinata d’energia e magma interiore.

Maurizio Noris in quest’opera avvolgente, frutto di un lavoro condiviso con altri autori e artisti (in quel sodalizio ampio che tanto amava Federico e lo portava a collaborare con molte persone, si ricordi la gloriosa esperienza corale de “La Barraca”), fonde due circostanze importanti della sua realtà presente – non tangenziali né improvvise – ovvero l’amore per l’universo lorchiano, che ne fa di lui interprete, seguitore e convinto confidente, e quello per il dialetto personale, radicato nella provincia lombarda. Distanze, quelle tra la Val Seriana e l’Andalusia, che ci appaiono di colpo annullate o mai esistite. Nel flusso inalterabile di un fuoco creativo ed energico che arde imperituro e s’espande, inondando mente e cuore al di là di categorie umane.

LORENZO SPURIO

Jesi, 13/01/2023


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“Chiantulongu / Piantolungo” di José Russotti. Recensione di Lorenzo Spurio

Recensione di Lorenzo Spurio

L’ultima opera in ordine di tempo del poeta siciliano José Russotti (Ramos Mejía, Buenos Aires, Argentina, 1952) è Chiantulongu (Edizioni Museo Mirabile, 2022) che, in doppia lingua (siciliano variante malvagnese – comune della provincia di Messina – e italiano), propone un suggestivo percorso poetico tra le vene più profonde dell’interiorità del Nostro.

Il suo è un “pianto lungo”, un’opera che, pur snodandosi in varie sottosezioni, è idealmente e potenzialmente un percorso lirico continuo e infinito, un canto di dolore e malinconia per l’età andata che tratteggia il passaggio del tempo, l’assenza delle persone amate, il ricordo nitido dei momenti del trapasso dei suoi cari.

Con quest’opera si propone quella polarità studiata dalla critica lorchiana, in ambito spagnolo, attorno a un componimento elegiaco quale il noto Pianto per Ignazio Sanchéz Mejías che il celebre Granadino dedicò nel 1934 all’amico torero deceduto per una cornata di un toro. Se il titolo originale dell’opera parlava di Llanto (ovvero Pianto) nel procedimento di traduzione nella nostra lingua vide prediligere la forma di Lamento. Non sempre il lamento, però, è assimilabile a un vero pianto. Sta di fatto che – per smarcarsi da Bo e Rendina – Caproni decise di mantenere fedeltà all’originale traducendo con Pianto. L’opera di Russotti mi fa pensare a tutto questo: il suo è un Pianto vero e proprio ovvero un componimento che, pur non avendo la forma del poemetto ma delle singole poesie, muove attorno all’idea del dolore e del compatimento, della sofferenza lacerante e della costernazione. Il lutto, pur individuato in specifici piani temporali, non si stempera col passare del tempo e i versi contengono, come raggrumate, le lacrime di disperazione e strazio dell’uomo. Siamo dinanzi a una sorta di romanzo di formazione in versi: l’esperienza del dolore è elemento di cerniera, si configura come un rito di passaggio ineliminabile. Passando per questa fase l’individuo non sarà più come prima della sperimentazione del cordoglio, dell’assenza. Della pena. Ecco che Russotti, poeta versatile grande amante della lingua orale della sua zona, ci consegna una delle opere più sentite e personali che abbia mai scritto, più accorate e dolenti, più strazianti e, proprio per questo, più vivida e potente.

Il volume si apre con una dotta prefazione a firma di Maria Nivea Zagarella e si chiude, come in un percorso circolare innervato su riflessi poetici e bagliori esegetici attorno al percorso dell’Autore, con un nutrito apparato critico nel quale sono riportati estratti di analisi, recensioni e valutazioni ermeneutiche di altrettanti poeti, scrittori e intellettuali sull’opera di Russotti. Tra queste “considerazioni amicali sulla poesia” vi sono, tra le altre, note del professor Tommaso Romano e dei poeti Santina Paradiso, Pietro Cosentino e Francesco Giacalone.

Possiamo dire che José Russotti è poeta – in italiano e in lingua siciliana – per nascita e vocazione, per spirito innato, per caparbietà, per la sua grande diluizione nel mondo socio-etno-antropologico della provincia di Messina che ha contribuito a narrare anche in altre forme: con la musica (ha pubblicato un cd su sonorità etniche dal titolo Novantika, Ballate sulle rive dell’Alcantara edito da Novantika nel 2004) e mediante un’apprezzatissima opera fotografica (Malvagna miain bianco e nero, tra suggestioni e fantastici ricordi edita dal marchio da lui stesso creato denominato Fogghi mavvagnoti, nel 2022.

Tuttavia è in campo letterario che Russotti ha raccolto i maggiori consensi[1] grazie a una intensa attività autoriale di libri ma anche di curatore editoriale: notevole la pubblicazione di tre tomi della Antologia di Poeti contemporanei siciliani edita per i tipi di Fogghi mavvagnoti (I volume, 2020; II volume, 2021; III volume, 2022)[2]. Come autore la sua produzione si è dispiegata in varie sillogi: Fogghi mavvagnoti (autoedizione, 2000), Spine d’Euphorbia (Il Convivo, 2017), Arrèri ô scuru / Dietro il buio (Controluna, 2019) ai quali ora si aggiunge quella che – senza infatuazioni o piaggerie – definirei opera magnum ovvero Chiantulongu (Edizioni Museo Mirabile, 2022).

Parlando della sua poesia il poeta, scrittore e saggista modicano professor Domenico Pisana ha sottolineato che «i suoi versi hanno il sapore di un sincero scavo interiore che si fa dono e che la sua anima traduce in canto poetico di autenticità e di vita». Ce ne rendiamo conto piuttosto bene inoltrandoci con adeguata attenzione e spirito di riflessione nelle pagine che compongono Chiantulongu.

Il libro si snoda tra poesie dedicate agli affetti: il padre, la madre, la moglie e la figlia Elyza. Una sezione è anticipata dall’iscrizione “Nei giorni chiusi” dove si ritrovano riflessioni che sembrano essere state partorite nel tempo infausto del Covid-19 (leggiamo, infatti, in una di esse «In questi istanti di morbo infame / il cuore si gonfia a mantice e scoppia», p. 59); segue “A Malvagna, il paese della memoria ritrovata” con liriche di pregevole caratura euritmica riferite al borgo – se non natale, dato che l’Autore è nato in Argentina – ancestrale, del suo ceppo familiare.

Cospicua è, infine, l’interrogazione dell’io lirico sulle questioni di ampia risonanza che coinvolgono l’approfondimento esistenziale, inserite nella sezione conclusiva, “Sulla vita e sulla morte”. Il pensiero attorno al trapasso si fa qui particolarmente pronunciato: intere poesie sono dedicate a sorella morte come “Ci sono giorni” il cui explicitQuando morirò! (Se morirò!) / vorrei restare per sempre / nel cuore e nella mente di chi mi ha voluto bene, / come un qualcosa che mai si marcisce / o un lampo splendente, / prima del buio!», p. 83) ricorda, ancora, il Lorca del Cantejondo (la struggente “Memento”) quando scrisse: «Quando morirò, / lasciate il mio balcone aperto. / Il bambino mangia aranci. /Dal mio balcone lo vedo». Quello di Russotti è un richiamo alla terra, all’estrema volontà di ricongiungersi anche in un al di là alle tracce del suo passato ma anche un desiderio di essere ricordato. Da notare la vena autoironica e giocosa dell’autore quando, tra parentesi d’incisi e non di specificazioni, annota vagamente e con un fare illusorio, «Se morirò».

La morte non è solo un’immagine, pur nella forma vacua di un’idea, ma diviene in Russotti uno dei motivi principi che muovono l’esigenza del dettato lirico da farne un topos, un elemento ricorrente, un vero e proprio assillo che, comunque, tratta di volta in volta con velature inedite, mai repliche delle stesse. In “Questa morte che ci teniamo addosso” è possibile fruire di questi versi: «Quando spunti nel buio della notte / come la morte quando vuole arrivare, / nera di scorza dura, con il mento / che trema e il sangue che ghiaccia. / Questa morte che ci portiamo addosso / come il vinavil appicciato fra le dita / o un vecchio motivo che frulla in testa» (p. 95).

Viene alla mente una celebre frase dell’attrice Anna Magnani che ebbe a dire: «Morire è finire: perché si deve finire? Un uomo dovrebbe finire quando decide di finire, quando è stanco, pago di tutto: non prima. Oddio, c’è una tale sproporzione tra la dolcezza con la quale si nasce e la fatica con la quale si muore». Eppure per Russotti la morte, pur cantata, fatto oggetto dei sui lamenti per i genitori venuti a mancare, non sembra concepita realmente come destinazione ultima, come atto definitivo e concluso in per se stesso. Vita e morte, come nella più alta letteratura di tutti i tempi – innervata su un sentimento cristiano – non sono facce di un Giano bifronte, antipodi invalicabili e recalcitranti ma, al contrario, l’una contiene l’altra, ne è una sua progressione e sfaccettatura. La morte s’iscrive nella vita e non è solo il completamento finale, inderogabile e ultimo. Ecco perché Russotti parla di vinavil, di qualcosa che è attaccato al nostro essere, inglobato alla nostra epidermide di esseri coscienti. Volenti o nolenti.

Toccante il ricordo della morte del padre (citiamo in italiano ma ricordiamo che l’intera opera è proposta anche – anzi in prima battuta – è in lingua siciliana nella variante malvagnese): «Quanto ti chiamai quel mattino. Quanto? // […] / ma tu non sentisti e mai ti voltasti» (p. 15). Il dolore di quell’addio persevera al presente, in ogni momento che l’Autore riflette sul percorso del padre e lo ricorda nei momenti di condivisione: «[P]iango aspettando ancora / il canto dell’ultima volta. / Vivo e mi consumo / dietro il ceppo di un sorriso amaro / inseguendo il tempo che sfugge. // […] [F]in quando insacco ricordi / e mi nutro di malinconia» (p. 21). Di grande intensità è anche la successiva poesia “Grappolo d’amore”, questa volta dedicata alla figura della madre: «La morte è una croce da sopportare, / un canto amaro che mai si spegne / in questi giorni di calca e pianto» (p. 29).

La poesia rimane comunque imprescindibile, una costante sicura, un faro nel quale appigliarsi in ogni circostanza della vita, in ogni ora della giornata. Russotti ne è convinto. Sa che il canto lirico vive della contemplazione e della solidarietà dell’uomo, dell’impegno all’ascolto e alla conoscenza dell’animo. Ne è certo. Come quando in “L’ora sospesa” annota «Si vive d’amore e di nulla, / di stenti e sostentamenti / ma non toglietevi la poesia dal cuore!» (p. 87). E persuade anche noi lettori.

LORENZO SPURIO

Jesi, 15/04/2022


[1]Consensi che sono giunti tanto dalla critica che dal giudizio di numerosi premi letterari nazionali, contesto nel quale ha ottenuto numerosi e importanti riconoscimenti tra cui: Premio “Vann’Antò-Saitta” di Messina, il Premio “Città di Chiaramonte Gulfi – La città dei Musei”, il Concorso letterario “Salva la tua lingua locale” di Roma; il Premio “Pietro Carrera” di Catania, il Premio “Luigi Einaudi” di Paternò (CT), il Premio “Poesia Circolare Epicentro” di Barcellona Pozzo di Gotto (ME), il Premio di Poesia “L’arte in versi” di Jesi (AN) e l’ambito Premio “Città di Marineo” a Marineo (PA); il Premio di Poesia “Colapesce” di Messina.

[2] Al primo volume ho dedicato un’articolata recensione pubblicata su varie riviste: «Lumie di Sicilia» n°150 (65 online), maggio 2021, pp. 19-20; «Culturelite», 03/05/2021; «Tony Poet – Dialogo con la rete», 03/05/2021, «Xenia», anno VI, n°1, marzo 2021, pp. 82-86; «Vesprino Magazine», n°129, aprile 2021, pp. 33-35. Nel secondo volume di quella che, per il momento, è una trilogia, figura un mio contributo critico quale Prefazione del volume.


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Luciano Domenighini su “Tra gli aranci e la menta” di Lorenzo Spurio

Tra gli aranci e la menta.
Recitativo dell’assenza per Federico Garcia Lorca  di Lorenzo Spurio
Commento critico di Luciano Domenighini

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                              Il volume

Undici titoli (di cui uno,”Nella magnolia”, anche tradotto in spagnolo da Elisabetta Bagli) a raccontare la vita e la morte di Garcia Lorca, via crucis, elegia, epitaffio, epicedio.

In una lingua lussureggiante, naturalistica, piena di colore e di luce, e insieme erudita, disseminata di ricercatezze lessicali e di inedite soluzioni retoriche ad estendere ed arricchire l’ambito simbolico, Spurio dipinge questo polittico multicolore, intesse i ricami
di questa porpora riprendendo e citando  lo stesso Lorca, a celebrare il poeta, l’uomo, il martire civile.
Il risultato letterario è ragguardevole, sia per i pregi sopra menzionati, sia per la capacità di coniugare e fondere il proprio modus poetico, manifestamente espressionista, con i riverberi del tragico e spregiudicato lirismo proprio della poesia del genio granadino.
Lorca è immenso, incalcolabile. Fantasioso e ridondante, è una macchina inesauribile di invenzioni verbali, nel suo simbolismo ostinato, nel suo surrealismo acrobatico eppure fortemente naturalistico, nel suo inesausto vitalismo, acquatico e terrestre, astrale e floreale, tragico e festoso.

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Lorenzo Spurio

Spurio con la sua lingua poetica aspra e perentoria ma altrettanto incline all’ideazione simbolica, in qualche modo ne echeggia le valenze più crude, ne riproduce i connotati più scabrosi.

I versi impiegati sono di varia lunghezza, con predilezione per l’alessandrino, ma non è la cadenza a intrigare il poeta marchigiano quanto piuttosto la consequenzialità della trama sintattica, il fascino della raffinatezza verbale quando non il gusto per il neologismo, il varo del tropo inedito, elaborato, spiazzante.
Di taglio accademico e come rivendicando un’anima aristocratica, questo linguaggio poetico ha qualcosa di orfico, di iniziatico, non solo per la citata ricercatezza verbale ma anche e soprattutto pere la sua natura bifronte, ossimorica e, di conseguenza, sibillina, tutta giocata sui contrasti e sugli imprevisti accostamenti.
In definitiva la breve raccolta di “Tra gli aranci e la menta”, omaggio e tributo a Garcia Lorca,  rappresenta di fatto un’originale riproposta letteraria,  una rilettura alquanto stimolante della poetica del grande poeta andaluso.
Luciano Domenighini
luglio 2016.

“Pianto antico” di Giosuè Carducci con un commento di Giuseppina Vinci

Pianto Antico

di Giosuè Carducci

Commento di Giuseppina Vinci

 

Antico è il vecchio marinaio, antica è la torre leopardiana, “antico’’ il pianto di Carducci per il figlioletto Dante prematuramente scomparso.

Il titolo del breve componimento allude a un dolore antico primordiale. Non esiste dolore più grande affranti. Maria, la madre di Gesù  patisce la morte del Figlio. Il Suo è un dolore grande ma composto, accetta la volontà del Padre. Abramo non si pone il problema della possibile  fine del figlio, esegue gli ordini, i Voleri di un Essere imperscrutabile, inspiegabile, come è la Richiesta

di sacrificare, senza alcun motivo per la logica comune, l’ancora breve esistenza del primogenito. Non si pone alcuna domanda, non chiede, esegue, tutto viene accettato perché quella è la Volontà.

E poi, dopo la prova, il dono più grande.

2567771740_db2af1086eIl dolore del Carducci per il figlio è triste, non rassegnato, senza una speranza. Il figlioletto era la Vita per lui, uomo erudito e famoso. ‘’Il fiore della sua pianta percossa e inaridita, dell’inutil vita estremo Unico fiore’’ dopo la morte del figlioletto la vita non è più, non esiste né rassegnazione, né speranza, né accettazione della Volontà suprema. Solo la Natura continua a fiorire, a brillare, a riscaldare i cuori; non quello del Poeta. A tratti una Natura malvagia, essa sopravvive ai dolori, indifferente al sofferenza del poeta.

Talvolta rappresentata dalle stelle, lontane, gelide, ma bellissime. Essa riscalda  l’orto solitario ma non il cuore del Poeta, tutto rifiorisce, ma non nella sua anima, nel profondo del suo essere

tutto è rimasto immobile dalla scomparsa del figlioletto.

Pacato è il tono, come se il poeta avesse accettato la morte. Nel suo animo, credo,  si muova un’accusa alla Natura tutta che rifiorisce nonostante il grande dolore di un padre, nonostante

la definitiva assenza di un fanciullo innocente.

‘’l’estremo unico fiore di una pianta percossa e inaridita’’ è appassito per sempre e con lui la vita del poeta.

Non vi è spiegazione alcuna al Dolore. Necessario?

Previsto? Predestinato? Non sappiamo.

Esso è antico.

 

 

Giuseppina Vinci

docente al Liceo Classico Gorgia di Lentini

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