N.E. 02/2024 – “Christine Lavant, stella abbandonata da Dio”, saggio di Loretta Fusco

Basta guardarla nelle rare fotografie che la ritraggono, per capire chi fosse Christine Lavant, la grande poetessa austriaca, nata nel 1915, originaria di un paesino della valle della Lavant, in Carinzia, nome che adotterà come suo pseudonimo, perché in realtà lei si chiamava Christine Thonhauser.  Nona figlia di un povero minatore, bambina gracile, affetta da scrofola e problemi agli occhi, oltre che da regolari polmoniti che la prostrarono impedendole una vita regolare, frequentò comunque la scuola elementare, ma la sua fu un’esistenza segnata dalla povertà e dalla malattia. Crebbe in un ambiente rigido e cattolico col quale non riuscì mai a identificarsi. Anche se le sue poesie e opere in prosa sono caratterizzate da un linguaggio moderno e fortemente simbolico, il patrimonio culturale é quello cristiano, orientato verso una religiosità naturale contraddistinta dal desiderio di sicurezza e di riconoscimento.

Questi giorni non diventeranno vita.
Forse già nel ventre di mia madre il mio destino
s’è coraggiosamente separato da me
e se n’è andato – audace come io non sono mai stata –
sulla stella abbandonata da Dio
ed è rimasto là, s’è messo a dormire
e forse sogna ciò che mi deve accadere
con le tempie luccicanti.
Maliziosa mi lascio portare dal vento
vicino al focolare della realtà
mi lascio abbrustolire, mi lascio sbucciare
e da coloro che sono amaramente delusi
mi lascio risputare nel fuoco
o nell’acqua salata.
Là spesso rifletto e mi chiedo, se Dio sappia di me
se ci siano spiriti custodi anche per quelli come me
e se il sacro nucleo dell’anima
ce l’abbiano davvero solo i sani
che rompono le noci con i denti
e prendono il destino degli altri per il loro.
Nel fuoco e nell’acqua nessuno è lucido –
Perdonatemi Dio Padre, Figlio e Spirito Santo!
Voi siete una trinità e io sono così sola
e nessuno lassù risveglia il mio destino.

La poetessa e scrittrice austriaca Christine Lavant (1915-1973)

Thomas Bernhard, suo conterraneo, la porterà alla luce, e curerà personalmente un volumetto di sue poesie, 81 in tutto, scegliendole dalle sue quattro principali raccolte. Le consegnerà al suo editore nel 1987 avendo individuato in questa donna apparentemente fragile, un’interessantissima voce, isolata soltanto geograficamente entro i confini angusti di un’Austria nazionalsocialista, che lui stesso avversava. Nonostante il suo humus valligiano, la Lavant, sin dal suo primo volontario ricovero nel manicomio di Klagenfurt, dimostrò interessi culturali notevoli e una passione per Rilke, il poeta che ispirerà quasi tutta la sua opera. Bernhard, contrariamente all’immagine consolidata, la sottrae all’idea che fosse un Ligabue della poesia, esaltandone l’intelligente e raffinata espressività poetica, anche perché, nel tempo, la poetessa aveva intessuto una rete notevole di relazioni e contatti con i massimi esponenti dell’avanguardia viennese.

La sua poesia coniuga l’attaccamento alla terra, la tradizione, i riti liturgici, il folklore, a una sete inestinguibile di infinito. La sua è un’invocazione a un Dio sordo e cieco, verso cui inveisce con rabbia, nel dolore inascoltato che l’attanaglia. Rivendica con orgoglio il diritto a esistere come creatura di Dio, dimenticata e abbandonata a se stessa.

Dice Bernhard, nella prefazione al libro da lui curato: “Questo libro documenta la cronologia della vita di Christine Lavant che fino alla morte non ha trovato né pace né tranquillità e che nella sua esistenza si è flagellata attraverso la sua persona ed è stata distrutta e tradita dalla propria fede cristiano-cattolica; si tratta della testimonianza elementare di un essere umano strapazzato da tutti gli spiriti celesti, un essere umano, che altro non è se non grande letteratura, meno conosciuta nel mondo di quanto meriterebbe. La scelta qui proposta segue solo il mio intento e quello di nessun altro”.

Dimentica il tuo ciarpame, Creatore!

O sarai creatore

di ciò che è cadavere e lo rimane

e si unisce alla terra

ben più volentieri che al cielo.

Vai, continua ad ammantare i gigli

corrompi pure i passeri con il miele vergine –

io vivo di ruggine e muffa.

Tu dici che questo non mi sazia

e blateri della città di Dio

che molti conquistano con il digiuno.

Non io! Mi piace vivere nell’argilla

per diventare pietra e tuttavia

mai esserti di peso.

Le sue insicurezze risiedono nella sua fragilità fisica e psichica. Sin da piccola dovette rimanere a casa occupandosi di lavori domestici e cucito, cosa che lei fece con scrupolo anche per riuscire a mantenersi. Non disdegnava la lettura e la scrittura tanto che si rivolse a un editore di Graz per pubblicare il suo primo romanzo, che distrusse dopo che fu definitivamente respinto nel 1932, questo a testimoniare una personalità immatura, ma già provata dalle delusioni della vita. Nel 1935 si ricoverò spontaneamente al manicomio di Klagenfurt dal quale uscì dopo qualche tempo. Morti i genitori, si trovò in condizioni economiche disastrose sostenuta solo dal suo lavoro di cucito e dal supporto finanziario dei fratelli. Decise allora di sposare il pittore Josef Habernig, molto più vecchio di lei.

Le poesie della Lavant sono state definite preghiere blasfeme non solo perché si rivolge in modo irriverente a Dio ma soprattutto perché lo sfida. Emerge la sua natura semplice, franca, simile alla terra natia, dove nulla è concesso con generosità ma è la risultante di un lavoro duro e faticoso. La scrittura diventa elemento salvifico e testimonianza di vita subita, non agìta. Anche Ingeborg Bachman appartiene a quella terra ma da quella terra se n’è andata per trovare ispirazione e pace altrove. La malinconia che permea l’opera di entrambe si spande per quelle vallate dove il silenzio è rotto soltanto dal rimbombo dell’eco.

La Lavant sentiva ardere dentro di sé il fuoco dell’arte ma dovette soffocarlo perché la sua realtà oggettiva non le permetteva di realizzarlo e nessuno intorno lei, a partire dai medici dell’Ospedale psichiatrico in cui era stata ricoverata, erano riusciti a capire il suo desiderio di poetare, stroncando ogni sua velleità poetica, come denuncia nei suoi “Appunti da un manicomio”.

Sono nel reparto “Due”. E’ il reparto del’’osservazione per “i meno gravi” in cui di regola si arriva solo dopo essere passati dal”Tre”. Io non sono passata dal “Tre” e per questa ragione quasi tutti me ne vogliono. Ieri ho sentito dire dalla Regina a Renate: “Quella ci è piombata addosso con gli occhiali e la roba per scrivere. Che se la porti il diavolo! Che cosa è venuta a fare da noi? Probabilmente a spiarci, cosa altro sennò?!”… Renate si è limitata a risponderle: “Ah, eccola che riattacca con queste storie”. Ma poi a sera è venuta dirmi che aveva di nuovo bisogno dei suoi fermacapelli e che doveva riprenderseli. Peccato, non per i fermacapelli, ma per Renate perché credevo che avremmo potuto stringere una qualche amicizia. Fin dal primo giorno ho provato simpatia per lei, per questi suoi occhi muti e malinconici e per quel sorriso evanescente e dimesso che certo mette un po’ di tristezza, ma che non fa paura come la risata delle altre. Dall’altra parte ci si abitua incredibilmente presto ai visi e a discorsi più strani…]

Morte diffamata, per me sei così bella!Già di mattino ti penso come la mia capanna,dove la sera mi trasferirò,e penso che sopra la capanna brillerà una stella.Nemmeno del trasloco ho paura!Certo, prima bisognerà bruciare molto,prima di tutto il corpo con tutte le sue bramee dell’anima ciò che qui si è accumulatoin fatto di coraggio e di allegria.Solo il mio amore, morte, lo porterò con me!Per lui, se davvero sei il mio rifugio,dovrai preparare l’angolo migliore della mia capanna,e se possibile mettici anche una finestra,perché la stella, la buona stella di cui parlo,la possa colmare di tutta la consolazione,che qui non gli ho mai potuto dare.

Le sue invocazioni a Dio ricordano quelle di Rilke, il poeta che la Lavant sentì più di tutti. Lei grida a Dio la sua impotenza, con veemenza e spirito combattivo ben sapendo che il suo urlo disperato è un atto di rassegnazione.

Voglio condividere il pane con i pazzi,ogni giorno un pezzo di questo grande orrore,anche la campana nel cuore,là, dove il colombo fa il nidoe trova un minuscolo asilonella selva sulle acque.A lungo ho vissuto come pietrasul fondo delle cose.Ma ho sentito la campanaSussurrare il tuo segretonei pesci volanti.Imparerò a volare e a nuotaree lascerò tutto ciò che è pietra sotto la pietralascerò la malinconia coricata nella madreperla,ma solleverò in alto la rabbia e la miseria.Le mie ali sono più antiche della tua pazienza,le mie ali sono volate oltre il coraggio,che s’era fatto carico dell’errare.Voglio condividere il pane con i pazzilà, nella spaventosa selva del colombodove la capanna divide in tre parti il grande terroretrasformandolo nel suono tripartito del tuo nome.

***

Ti ho tuffato nella mia rabbia!

Ora sei d’acciaio sopra la terra

e sotto, mansuete, avanzano le tue radici

tra pietre scricchiolanti.

Non portarmi il grano! Non ti ho reso acciaio

per saziarmi o addormentarmi

a me spetta la metà di quella mela

che matura tra i rami dell’albero del serpente.

Spada o giglio – tu li sei entrambi a metà!

Voglio scagliare in alto la tua affilatezza

ed essere dolce sorella della terra

e indurre in tentazione Dio come lui ha fatto con me.

Ti ha tuffato tre volte nel mio cuore

e ti ha ordinato di rinunciare a lui

ma io ti ho immerso nell’acciaio della rabbia;

ora porta a suo figlio la mia metà della mela!

***

Mentre io, turbata, scrivo,

nel disco della luna piena brilla

la parola che osservo

da quando la colomba mi ha deriso

perché dallo specchio dell’acqua

senza nome, senza sigillo,

entravo nell’arido.

Non fosse cresciuta

la semina dell’osservazione

dovrei uccidere luna e colomba

che sempre m’ingannano

e fanno il nido sul mio albero del sonno

che per questo rinsecchisce.

Spesso una parola s’imprime a fuoco

da sé nella sua corteccia,

e allora mando quel cieco

messaggio, che inutilmente si rigira

aggredendo il tuo sonno

mentre nel disco della luna

è in salvo la risposta.

Christine Lavant morì a Wolfsberg nel 1973, all’età di 57 anni. Non lo sapeva allora che la sua voce sarebbe diventata alta e sarebbe uscita da quei confini che lei aveva sempre considerato un limite alla sua brama di libertà.


(Le poesie scelte appartengono al volumetto Christine Lavant, Poesie, scelte da Thomas Bernhard, nella traduzione di Anna Ruchat. Effigie Edizioni).


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “Canzone triste”, poesia di Antonio Mangiameli

il clochard con la chitarra è ancora lì,

il vento porta dentro accordi in re minore,

sembra suoni per me,

sul letto tovaglie bianche

ed il lenzuolo di lino,

penso a te,

e lui suona,

suona,

non sa che tornerai


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

Umeed Ali, poeta pakistano e il suo “Bilancio interiore”, a cura di Lorenzo Spurio

Umeed Ali, poeta pakistano e il suo libro Bilancio interiore / Inner Balance

  

a cura di Lorenzo Spurio

  

Dal giorno in cui ho capito le linee della mia mano

ho cominciato a litigare con la vita (34)

 

Il mondo è come un bel libro

e il tempo è il migliore maestro:

volendo, si può imparare quasi tutto. (110)

 

A testimoniare il fatto che gli incontri migliori e che più ti arricchiscono sono sempre quelli che capitano casualmente, o comunque senza nessuna coincidenza prestabilita, vorrei parlare del mio incontro con Umeed Ali, un signore pakistano della regione del Punjab, nato nel 1961 e poi emigrato in Italia in cerca di un futuro migliore molti anni fa. Non è la sua una delle tantissime storie di emigrati che tentano solamente di approdare in quello che ai loro occhi può apparire come il paese di Bengodi dove lasciarsi alle spalle le sofferenze e la povertà, ma è la vicenda amara salda nella credenza religiosa di una persona dall’animo profondamente sensibile. La scrittura, il suo amore per la poesia e la riflessione nel mondo di carta, infatti, lo ha portato a stringere un profondo legame con la parola: le sue prime opere, scritte già durante la sua esistenza in India, vennero scritte negli idiomi locali tra cui l’Urdu, il Saraiki e il Punjabi.

1424191142Ho conosciuto Umeed Ali durate un ciclo di eventi culturali che ho co-organizzato a Palermo a metà Aprile 2015 ai quali lui, grande amante della cultura e frequentatore della Libreria Spazio Cultura dove si tenevano gli eventi si è presentato interessato. Alto, dai profondi occhi neri e dal viso di una serietà dolce e pacata, con una generosità d’animo difficile da trovare oggigiorno si è presentato facendoci leggere anche alcuni estratti apparsi su giornali nazionali e locali di prestigiosi nomi che l’avevano recensito o conosciuto. Mi ha raccontato che la sua vita non era mai stata facile e neppure ora, pur trovandosi a Palermo da amici, ma sempre alla ricerca di piccole donazioni per potersi sostenere e inviare soldi alla sua famiglia in India. Ciò che mi ha colpito è stata la sua voglia di parlare: di narrare di sé ma anche di saper ascoltare le vicende altrui, cosa che raramente un recente conosciuto è portato a fare.

Ho scoperto così che nella sua attività di vucumprà che ha contraddistinto la gran parte della sua vita una volta giunto in Italia, ha praticamente viaggiato in su e giù quasi tutta la Penisola e che conosceva città, monumenti, collegamenti stradali e orografia ancor meglio di un qualsiasi nativo. Di esser stato vari anni a Padova dove, anche se non ha amato molto la mentalità della gente adducendo alla loro freddezza e riluttanza, d’altro canto gli è stata propizia perché proprio nel Triveneto è stato appoggiato da associazioni, biblioteche ed enti locali che gli hanno fatto vendere un gran numero di copie del suo libro. Della mia Regione mi ha detto di esser stato a Jesi, Ancona, Falconara Marittima, cioè praticamente di conoscere il territorio abbastanza bene e, si sa, un vucumprà che è costretto a muoversi di continuo e sulle sue uniche gambe è il miglior “viaggiatore” e conoscitore degli spazi che ci possa essere sulla Terra. Il viaggio, che non è un divertimento, è funzionale al sostentamento ma al contempo gli permette di osservare il mondo nelle piccole cose e di conoscere le persone così come il fatto che alla freddezza caratteriale e alla ricchezza (dei sostegni) del Nord da lui sperimentato preferisse la calorosità e la parsimoniosa e reticente offerta della gente del sud Italia. Mi  ha raccontato che ha vissuto tanti anni a Perugia (nella quale ritornerà dopo questa sua permanenza a Palermo) della quale conserva un bel ricordo e insieme abbiamo ripercorso i vari ambienti della toponomastica cittadina che ben conosco perché vi ho studiato due anni. Negli anni in cui io studiavo alla Facoltà di Lettere lui abitava poco distante da Piazza Morlacchi dove, pure, nella nota Libreria-Casa editrice Morlacchi aveva dato alle stampe il suo libro di poesie. Io a quel tempo mi servivo nella stessa libreria per testi universitari e dispense.   

copDurante la serata del 18 aprile in cui alla Libreria Spazio Cultura avevamo organizzato il reading poetico dal titolo “Grandi e Dimenticati: la poesia che non muore”, Umeed ci ha letto tre sue poesie presenti nel libro o, meglio, le ha recitate a memoria in parte chiudendo gli occhi ma dandone sempre il massimo della forza espressiva nel suo italiano, perfetto, con lievi sentori di un difficile percorso di apprendimento. Ci ha spiegato che nelle lingue indiane da lui conosciute una stessa parola in base alla lettura, alla sonorità che ne scaturisce dalla pronuncia è possibile ricavarne significati differenti, completamente distanti tra di loro e che c’è una ricchezza lessicale stupefacente. La sua difficoltà nell’esprimersi nell’italiano, negli anni, non è stato il semplice saper tradurre da parola a parola, cosa meccanica e semplice come potremmo fare tra una lingua neolatina e l’altra, ma andare a vedere se nel relativo termine tradotto in italiano, in effetti, si mantenesse il significato originario del termine, nella lingua pakistana, come lui l’aveva inteso e creato. Un processo senz’altro difficile al quale la sua poetica, raccolta in questo volume bilingue italiano-inglese, si è dovuta piegare ma che, a ben vedere, non ne ha risentito in maniera troppo dura. Così scrive nella poesia intitolata “Dal giorno in cui ho iniziato a scrivere in italiano”: “È difficile riuscire a trasmettere i sentimenti/ in una lingua straniera,/ perciò mi manca sempre qualche parola giusta/ o qualche frase,/ ma quando finiscono queste lontananze, di lingua e colore,/ siamo tutti vicinissimi” (66).

Le poesie di Umeed Ali parlano di solitudini e lontananze, di indifferenze sociali e di disagi che si realizzano distanti dagli occhi dei più, sotto la luce del giorno. Sono parole che risentono dell’offesa subita, della mancanza di aiuto, dell’insensibilità e di una divinizzazione dell’uomo contemporaneo portata all’estremo. Una società in cui, parafrasando Orwell ma anche Sciascia delle Favole della dittatura esistono maiali (potenti) e i topi (vittime) dove i primi che, in cima alla scala piramidale gestiscono l’esistenza di tutti, non fanno altro che incamerare ricchezze, riempirsi la pancia e, cosa peggiore, infischiarsene di coloro ai quali per lo meno potrebbero dare briciole dei loro “pasti” da nababbi.

A Palermo nell'aprile 2015 assieme al poeta pakistano Umeed Ali
A Palermo nell’aprile 2015 assieme al poeta pakistano Umeed Ali

In questo Bilancio interiore che è il titolo della raccolta, Umeed si denuda sulla carta per raccontarci la durezza di una esistenza improntata alla continua ricerca nell’altro di comprensione, apertura, vicinanza e curiosità. Anche la semplice parola, il regalare una conversazione a una persona sola, depressa, malata o denigrata può significare per essa la salvezza e al contempo scopriremo che sarà stato un regalo anche per noi stessi.

Il libro si apre con la poesia “Per Dio Grandissimo” e il “Dio Grandissimo” di Umeed chiaramente è Allah anche se lui non lo nomina e, parlando con lui di religione, ho percepito la sua indignazione su quel viso scuro prima rilassato e di colpo compunto e un’espressione schifata quando abbiamo parlato della nuova e grave minaccia terroristica che riguarda il mondo tutto. La religione per questi fanatici è solo un pretesto per ambire a qualcosa di più alto con l’aiuto di ingaggi internazionali che forniscono armi e coperture. Li ha definiti con i peggiori epiteti che si possano udire e ogni volta che ne fuoriusciva uno dalla sua bocca percepivo la sofferenza di chi ha sperimentato sulla sua pelle la violenza, la coercizione, lo sfruttamento, l’abnegazione a sedicenti logiche di salvezza.

Umeed è il poeta del sentimento, un uomo che dinanzi a tante difficoltà è riuscito a prediligere il lato umano e il rapporto interpersonale su ciascuna cosa ed è proprio per questo che è in grado di scorgere la bellezza, nella donna o nella natura, quando forse sarebbe più istintivo trovare spazio nello sconforto di immagini fosche e deprimenti: “Tocca la mia fronte/ perché il profumo della tua mano/ possa cambiare il mio destino” (28). Ed anche se la durezza di una vita trascorsa tra difficoltà (“io faccio sempre una dura vitaccia”, 56) e lontananze dai suoi cari è pesante da sostenere ed Umeed ci parla dei suoi “problemi di tutti i giorni” (34) il messaggio finale non è mai cupo, non tende al pessimismo, né allo scoraggiamento poiché, come lui stesso sostiene in maniera lapalissiana,: “La vita è una gioia e pure un dolore/ la vita è un’offesa e pure un amore” (46).

Per un emigrato in un paese talmente diverso dal suo luogo di nascita e dalla sua cultura ci sarà sempre spazio al ricordo, più o meno mesto, di ciò che ha lasciato per altre terre. Trovo che nella poesia “Nostalgia” di Umeed sia contenuto questo sentimento di angoscia-ossessione che lo lega a un passato distante non solo in termini cronologici, ma spaziali, culturali e soprattutto affettivi: nella poesia “Nostalgia” leggiamo: “Mia cara nostalgia rimani con me/ non devi lasciarmi solo/ […]/ Se vuoi stasera andiamo insieme/ in qualche luogo particolarmente bello,/ […]/ e ti racconterò una bella poesia/ dedicata a te, mia cara nostalgia” (60).

Un libro-testamento che ci consegna pensieri sulla vita, sul senso della stessa e su come potremmo tutti vivere meglio se allontanassimo da noi il narcisismo che dilaga, se rifuggissimo l’invidia e abbattessimo l’indifferenza che costruisce giganti di roccia, monadi in sé chiuse e apparentemente autosufficienti. Nessuno è autosufficiente a sé stesso. Nessuna famiglia. Nessuna società. Ed è così che Umeed Ali ci interpella su riflessioni di questo tipo alle quali tutti i giorni non diamo troppo spazio impegnati nei tanti impicci quotidiani assorbiti da una ritualità che ci ha fatto automi: “Se tutti siamo figli di Eva e Adamo, / come mai fra noi così mal pensiamo” (54). Due versi linguisticamente semplici privi di retorica che non hanno la volontà di metter a giudizio nessuno, ma di aprire alla consapevolezza in unione con una contemplazione e profonda gratitudine verso il Dio creatore che dobbiamo pregare, invocare e sentire vicino a noi, come un grande amico a guidarci verso il bene mettendo fine a ciascuna idea che consacri la violenza e il sopruso tra gli uomini: “Vergognati egoista, hai sempre sete/ del sangue del tuo fratello innocente./ Non devi scordare che esiste un vero potete, grandissimo/ Di universale misericordioso” (64).

I versi di Umeed riguardano verità sacrosante che vanno scolpite sulla roccia e incise sui muri delle città affinché restino lì, perentorie a informarci quale può essere lo spauracchio che dilania la comunità per chi ne svia il percorso e s’imbatte in territori dove la moralità e il senso di rispetto sono stati relegati a categorie inutili. La forza della parola è altisonante e diventiamo amici di Umeed uomo-esule-vucumprà-poeta-cittadino di nessun luogo che con l’arma più potente e persuasiva ci permette di guardare dentro di noi con più convinzione e serietà. Il suo verso si fa ora canto, ora preghiera, ora denuncia ora sdegno e commento critico sul mondo e nel complesso ci consegna un compendio autentico e sofferto del suo arcobaleno emotivo che, a intervalli, riaffiora nel cielo dopo momenti di pioggia e oscurità: “Quanto è bello stare con se stessi,/ raccontarsi di cose profonde/ e anche ascoltare se stessi” (92).

 

Lorenzo Spurio

 

Jesi, 30-04-2015

 

“Il neolibertarismo e il capitalismo selvaggi hanno provocato il degrado morale” di Ninnj Di Stefano Busà

Ogni epoca, ogni periodo storico hanno sempre avuti i loro sommovimenti, le angustie, gli scompensi, le assenze, le deficienze, le contraddizioni di un assetto socio/economico danneggiato dalla politica locale. Si deve, però, addebitare al fenomeno del neolibertarismo sfrenato dell’ultimo secolo lo sconquasso e la rovina attuali. Non siamo molto certi di poterci salvare da un’altra guerra, questa volta terribile, subdola, inflessibile come la rovina economica del pianeta e da qui a quella catastrofica del nucleare che annienterebbe l’umanità. 

Si avvertono segnali di scricchiolamento nella vecchia Europa, ma anche la Grande America non è indenne da difetti di fabbricazione-strutturazione, Paesi (Cina, il continente asiatico, India) non sono estranei ad una debacle economico/finanziaria che ha conseguenze sull’intera globalizzazione.

L’impostazione data alla società di quest’ultimo secolo è stata semplicemente di ordine speculativo, commerciale. Si è voluto imporre la disciplina del lucro ad ogni costo, del lucro dentro e fuori di noi, il guadagno facile e senza remore. Si è professata un’altra religione, quella del dio <denaro>. Questa rincorsa a parametri aridi di ingegneria economica ha provocato una disparità tra la parte più ricca dell’emisfero planetario e quella più povera che si è vista indebolire sempre di più le risorse economiche, fino a ridurle allo stato di “defoult”.

La politica senza raziocinio, fatta all’insegna del “mordi e fuggi”, di una politica poco oculata, ridotta alla parcellizazione dei suoi componenti in tanti partitini che si alleano, si slegano, si rialleano, ha provocato un disavanzo socioeconomico assai grave, perché nel farsi la lotta tra loro hanno del tutto trascurato o reso nullo l’obiettivo del “bene comune”col presupposto che a “fare” l’interesse comune, siano sempre altri da noi, ha colpito duramente la realtà esistenziale della gente facendola precipitare in un baratro. 

L’eterno “mordi e fuggi” non è più consentito, si devono mettere mani a riforme strutturali, a riscrivere “costituzionalmente” molti vecchi schemi sclerotizzati e invecchiati, ormai obsoleti e tremendamente fuori dai tempi. 

dio_danaroLa vita quotidiana è diventata un vero inferno per la popolazione del pianeta, costretta a subire dittature come in Africa e medio oriente, oppure dictat sull’andamento generale e l’amministrazione dei paesi aderenti come l’Unione Europea. E’ stato un errore madornale credere che l’uomo “novus”, l’uomo del Terzo Millennio potesse risolvere le difficoltà accantonando le ricchezze del talento, dell’etica, le virtù morali di un adempimento della coscienza e del cuore. L’uomo moderno imbevuto di superbia e di spocchia ha visto bene di superare se stesso nell’accumulo forsennato di denaro, spostando (letteralmente) la ricchezza da una parte all’altra del pianeta. Così aprire la strada agli speculatori di turno che hanno sostituito alle regole e alla decenza, è stato un gioco da ragazzi, ampi spazi di delinquenza e criminalità finanziaria si sono annidati nel sistema economico-finanziario delle Grandi Banche, che da principio, con prodotti tossici hanno invaso le multinazionali e illuso la povera gente, depauperando sostanze e ricchezza ai vari Stati e ai vari livelli delle popolazioni di qualsiasi continente. Ora, incuranti del danno, sono alla rincorsa di altro denaro liquido, quasi come una droga, la corsa è per accaparrarsi finanze e potere, ma impoverendo le risorse mondiali a rischiare grosso sono soprattutto molte democrazie e molti governi dell’eurozona. 

I disordini possono avvenire in qualunque momento. E’ di fresca memoria la rivoluzione francese, le violenze sanguinarie e i morti in Nord Africa. Ora tutti i nodi vengono al pettine. Non si può più scherzare col fuoco, il fuoco brucia l’esistenza e annienta il senso di coscienza collettivo che ad un certo momento si ribella e va nelle piazze. Si spera che ciò non avvenga mai, ma i presupposti di lasciar mettere tasse su tasse, farsi comandare da una pletora di tecnocrati a Bruxelles, che non hanno mai lavorato nella loro vita, ma hanno turlupinato il popolo, guadagnando cifre iperboliche fa andare in bestia la povera gente costretta a subire angherie e tasse e andare in miseria. Ci pensino lor signori, riflettano…si compenetrino sulle necessità dei loro elettori. La vita non è fatta solo di materialità. Alla vita hanno diritto tutti, così come alla libertà e la loro spregiudicatezza sta funestando tutta l’Europa, a cominciare dalla Grecia, Spagna Portogallo, Irlanda. Italia, ma ora rischiano anche la Germania, la Francia che fino a ieri hanno capitanato lo splendore dei loro domini politici, stanno per scivolare dai loro piedistalli di potere. La corsa è al ribasso, verso il fallimento dell’intero sistema globalizzato, e dell’intero pianeta a causa del tragico equivoco in cui versa la finanza selvaggia di un Capitalismo senza regole, fatto a immagine di un dio minore, a cui siamo votati e di cui siamo responsabili, al quale  sono state rivolte tutte le capacità, le aspirazioni, le incognite di una società in declino che al <denaro facile> ha finalizzato tutta la categoria della coscienza e dell’anima, sprofondando nella vanagloria e nel paradosso di un arricchimento senza regole morali, né remore, tutto conchiuso nel bisogno di avere più che di dare, creare, generare per il bene comune, di cui si è perso perfino la traccia..   

NINNJ DI STEFANO BUSA’

“La via uruguagia alla felicità”: il resonconto di Frank Iodice del suo viaggio in Uruguay e l’incontro col Presidente Mujica

Di seguito riporto dietro concessione dell’autore, FRANK IODICE, un suo resoconto sul recente viaggio in Uruguay dove ha avuto modo di parlare con il Presidente della Repubblica, Mujica e nel quale ci offre una lucida e interessante analisi di uno dei paesi più lontani da noi (e più poveri):

 

La via uruguagia alla felicità

(di Frank Iodice)

 

 

Da qualche tempo un piccolo Paese latinoamericano incastrato tra l’Argentina e il Brasile è al centro dell’attenzione mediatica internazionale. L’Uruguay misura circa tre volte la Svizzera, conta poco più di tre milioni di abitanti, dei quali un milione e mezzo a Montevideo, la capitale. Le ragioni della sua notorietà sono riconducibili alla figura anticonformista del Presidente della Repubblica, José Mujica, responsabile di progetti innovativi a favore delle famiglie prive di reddito; oppure per le leggi di approvazione dell’aborto e del matrimonio gay; o, ancora, per la recente regolarizzazione dell’uso e del commercio della marijuana.

barrio palermo 3Durante il suo discorso alle Nazioni Unite a Rio de Janeiro nel 2012, José Mujica cattura l’attenzione mondiale parlando di felicità come scopo ultimo dell’Essere Umano. «Per essere felici dobbiamo fare ciò che a noi piace», dice il Presidente Mujica, «e per fare ciò che a noi piace bisogna avere tempo». Concetti tanto semplici quanto dimenticati nella nostra società di consumo iniziano a fare il giro del mondo e passano di bocca in bocca; Mujica diventa innovatore del linguaggio politico, rinuncia al 90% del suo stipendio e lo cede al progetto a favore delle famiglie senzatetto. Dimostra quindi col suo stile di vita ai limiti della povertà che ciò che racconta è realizzabile.

Questo è un sunto degli articoli che possiamo leggere su importanti testate di ogni Paese, da El País al Financial Times, da Il Mattino a Al Jazeera, a firma di voci autorevoli, addirittura di premi Nobel come lo scrittore Mario Vargas Llosa.

 

La ragione per cui scriviamo questo articolo è la necessità di raccontare quanto riscontrato a Montevideo durante una breve ricerca durata tre mesi, pur consapevoli che per favorire lo sviluppo dell’economia di una nazione sarebbe preferibile descrivere i possibili investimenti e tutto ciò di cui si può ampliamente leggere nei giornali di cui sopra. Conoscere la parte povera della città, i cosiddetti cantegriles, ci ha invece fatto sentire in dovere di dare un quadro più completo della realtà uruguagia, una realtà per certi aspetti molto dura, un’economia reduce da anni e anni di dittatura, un Paese, infine, che lotta per godersi la tanto agognata democrazia ottenuta solo nel 1985, a seguito delle leggi sull’impunità che invitavano i cittadini a dimenticare quanto di atroce era accaduto durante quegli anni e a guardare al futuro.

Siamo anche consapevoli che superare ciò che si è vissuto durante la dittatura non è stato affatto facile e ha lasciato nello spirito degli uruguaiani una certa quantità di vendette incompiute. Oggi a Montevideo si cerca di dimenticare, dunque, ma non senza dare dignità al passato che tre quarti dei cittadini hanno in comune.

 

Nel lato povero della città, nella zona dell’Ippodromo, le strade non sono asfaltate, non c’è sistema fognario, le case sono fatte di mattoni e lamiere che d’estate ardono come padelle sul fuoco e d’inverno si congelano. I bambini che vivono in questi quartieri, di mattina, non riescono ad alzarsi perché si svegliano intirizziti dal freddo, e quando verso le undici il sole incomincia a riscaldarli, finalmente escono a giocare. Non tutti sanno scrivere, molti sanno a stento parlare, per far rispettare i loro spazi usano pugni e morsi. L’umidità raccolta sotto i bassi soffitti durante la notte si trasforma in gocce ghiacciate che cadono sui loro letti per tutto il giorno, e di sera sono costretti a coricarsi nelle lenzuola umide. D’estate, invece, quando le temperature raggiungono quaranta gradi all’ombra, le lamiere scottano e in quegli stessi letti ci si scioglie in una pozza di sudore.

el diario espanolNelle bidon-ville vivono i cosiddetti selezionatori, che vanno in giro su carri di legno trainati da muli malnutriti per raccogliere plastica e carta dal fondo dei bidoni dell’immondizia; vederli mentre si tuffano nei bidoni non è bello come vedere i ricchi turisti argentini e brasiliani che si tuffano in acqua a pochi chilometri di distanza, sulle spiagge di Punta del Este. Montevideo è una città piena di contraddizioni. La maggior parte degli uruguaiani non vive a Punta del Este o a Pocitos, ma in condizioni di vera e propria miseria, vale a dire in condizioni che in Europa non siamo in grado di immaginare.

Rispetto ad altre capitali sudamericane, Montevideo è ritenuta una città sicura, benché la delinquenza, soprattutto quella minorile, non abbia nulla da invidiare a quella degli altri Paesi.

In particolare, ricordiamo che la legge vieta di arrestare i minori di diciotto anni. Ci sono istituti di recupero per i minori, dove per un omicidio si prevedono tre anni, che diventano due se ci si comporta bene, e ancora meno se ci si comporta benissimo. Questi istituti si chiamano INAU, ce ne sono tre a Montevideo, ognuno funziona in una maniera diversa. Quello che abbiamo visitato è una specie di carcere, ci sono le sbarre alle finestre e bisogna dividere i ragazzi con la forza per non farli sbranare a vicenda. Gli impiegati hanno dovuto frequentare persino un corso di autodifesa prima di essere assunti; ce lo rivela Pablo Lopez, uno dei cinque educatori che gestiscono quasi cento bambini e adolescenti. «In altri istituti per minori – ci ha raccontato Pablo – si usano droghe o sonniferi, e i ragazzi passano il giorno rintontiti nel loro letto».

Il tasso di criminalità giovanile è molto alto, soprattutto perché gli adulti che vogliono rapinare un negozio o commettere reati anche peggiori usano i ragazzini, per cui si creano piccole bande di un adulto e tre minori per esempio, in quartieri pericolosi come Marconi o Casavalle. Pablo ci racconta che non è facile resistere a lungo nell’INAU, gli educatori restano al massimo un paio d’anni; lo stesso vale per le educatrici, se non subiscono prima violenze gravi.

Ci sarebbero tante cose di cui parlare, basta sedersi in un bar e osservare le persone, e le loro storie ci arrivano nelle mani senza fare alcuno sforzo. Montevideo è una città piena di storie; l’Uruguay è un paese di gente libera, sparsa nelle immense praterie, gente che non accetta compromessi; ma è anche un paese di donne sole e povere, abbandonate nei cantegriles, che si realizzano soltanto rimanendo incinta, gravidanza dopo gravidanza dopo gravidanza, talvolta con uomini diversi, e a vent’anni hanno già tre figli; appena il più grande incomincia a camminare ne vogliono un altro, e poi un altro ancora, perché, senza, non sarebbero nulla, soltanto povere e anonime passanti.

Riguardo alla dittatura militare, c’è un aspetto in particolare che non possiamo fare a meno di trattare: in un Paese relativamente piccolo come l’Uruguay si può incontrare la stessa persona più volte in un giorno; ma cosa succede se questa persona è la stessa che ti ha violentato vent’anni fa?!

In un bar di Calle Canelones, sotto l’ombra fresca della parrocchia di San José, incontriamo la signora Titi, che chiameremo così perché Titi è un bel nome e perché le abbiamo promesso di scegliere un bel nome. Non ci rivela la sua età, ma allo stesso tempo non nasconde né le rughe né i capelli bianchi, porta una camicetta gialla con i girasoli, in fondo alla strada in discesa, a due quadras dal bar, c’è il mare.

Titi ci racconta che negli anni Settanta finivano tutti in carcere, chi a lungo, chi solo per un giorno, «eravamo prigionieri politici, anarchici, ribelli, fanatici, eravamo tutti pazzi perché non avevamo altra scelta – ci racconta – la dittatura ti rende pazzo!» Molte sue coetanee sono state torturate in quegli anni, fino all’Ottantacinque, «fino all’altro ieri!» Quello che in Europa non immaginiamo è che oggi le amiche di Titi sono costrette a incrociare per strada i loro carnefici, gli stessi che quando erano ragazze hanno abusato di loro più e più volte, senza giustificazione se non quella della crudeltà lecita quando eri dell’Intelligenza, i Servizi Segreti. In generale erano loro quelli specializzati nelle torture, formati in Panama dai militari francesi. Titi confessa di odiare i francesi, ha le sue ragioni, non possiamo darle torto. Ci racconta che al supermercato puoi incontrare l’uomo che ti ha picchiata quando eri in carcere, puoi incrociarti con lui in ascensore o vederlo seduto al bar a prendere un caffè e godersi una pensione molto più consistente della tua, dopo una brillante carriera militare!

Le chiediamo come possa sopportare una cosa del genere, Titi ride forte, a Montevideo tutti ridono forte, e ci risponde: «mi hijo, qui si è fermato il tempo per la metà di noi, siamo tutti in attesa che gli orologi riprendano a funzionare». Sui polsi dei politici ci sono buoni orologi?, le chiediamo. «Molto buoni», risponde Titi con un sospiro. Il nostro caffè è già finito, lo abbiamo bevuto bollente perché quando ti abitui al mate perdi la sensibilità della lingua, Titi ci guarda con la premura di una madre lasciata tante volte e altrettante volte ritrovata in giro per il mondo. Ci spiega che ricominciare dai brandelli della propria dignità per diventare di nuovo donna non è stato facile, e che qualche volta avrebbe voluto uccidere con le proprie mani quell’uomo che ha riconosciuto nel supermercato o nell’ascensore del suo stesso palazzo, ma poi, saggiamente, aggiunge: «non servirebbe a niente, dopo aver introdotto la cosiddetta legge dei due diavoli – una sorta di patto grazie al quale quanto era accaduto durante la dittatura doveva essere dimenticato per non generare una nuova guerra fatta di vendette – abbiamo dovuto rinunciare alla prima metà della nostra vita». Qual è stato il momento più difficile?, le chiediamo. «Quello in cui ho deciso di raccontarlo ai miei figli».

La seconda testimonianza è quella del signor Manuel, vecchio proprietario di un bar del Barrio Sud. Chiacchieriamo con lui davanti a una buona Malta, bevanda simile alla birra molto diffusa in Sud America; alle nostre spalle c’è una grande fotografia di Alfredo Zitarrosa, famoso cantante montevideano. Parlare con gli anziani del Barrio Sud ci ha permesso di conoscere il punto di vista dei cittadini riguardo alle recenti manovre politiche così ben viste dai Media internazionali. Manuel fa riferimento a ciò che sui giornali non è stato scritto, naturalmente, e ci racconta che «il progetto Un techo para todos, nonché il piano regolatore che sta permettendo di ridare una casa alle ragazze madri senza alcun reddito, è stato ben pubblicizzato e ha dato all’Uruguay  la possibilità di distinguersi rispetto agli altri Paesi sudamericani. Per realizzarlo – continua Manuel – sono state scelte diverse imprese edilizie, attraverso un processo simile alle cosiddette gare d’appalto e, infine, l’intero progetto è stato ceduto a un’impresa venezuelana per venti milioni di dollari, venti milioni pagati alla Presidenza dell’Uruguay per permettere a un altro Paese di costruire nel dipartimento di Montevideo e Canelones». Se analizziamo la realtà uruguayana dal punto di vista politico, le contraddizioni saltano subito all’occhio; scopriremmo che, a seguito di un controllo del conto bancario in dollari del signor Presidente e degli altri leader dei partiti principali, quello di Mujica è risultato essere il più cospicuo. Risparmi messi da parte con la sua attività di floricoltore? Può darsi, ma a noi non interessa, innanzitutto perché preferiamo non credere a quello che si racconta nelle strade di Montevideo, e in secondo luogo perché il nostro approccio, come abbiamo avuto il piacere di dire a lui in persona, è stato di tipo filosofico.

Abbiamo incontrato il signor Manuel mentre rientravamo dal Barrio del Cerro, un quartiere a venti chilometri dal centro, dove vive il Presidente Mujica. Volevamo vedere la sua gente per descriverla in queste pagine: le descrizioni più belle sono quelle che sopravvivono nel ricordo.

José Mujica e Frank

Frank Iodice con il Presidente uruguayano José Mujica

Il Presidente José Mujica è un uomo sobrio, non ha alcuna scorta e veste sempre con abiti semplici, talvolta si è presentato alle riunioni presso la sede della Repubblica in sandali e con il thermos per il mate sotto il braccio. «Non avrebbe senso iniziare ad accumulare denaro adesso, a 79 anni», commenta spesso. Ecco perché ha deciso di aiutare i più bisognosi e, nei limiti che il suo stesso partito, il Frente Amplio, gli ha concesso, mette in pratica la sua etica di vita dando un esempio a tutti coloro che sappiano coglierlo.

Dopo diverse settimane di attesa, grazie all’intercessione della signora Adriana Gutierrez, addetta alla comunicazione presso il Ministero della Cultura e dell’Educazione, riusciamo a incontrare il Presidente, il quale si è ritagliato una pausa tra una riunione e l’altra. Consapevoli che si tratti di un evento irripetibile per un autore e un editore pressoché sconosciuti, ci accontentiamo dei pochi minuti che ci sono concessi*. Bere un caffè in compagnia di un Presidente della Repubblica non capita certo tutti i giorni!

Dopo aver esposto l’idea di realizzare un testo ispirato alla sua filosofia di vita, con lo scopo di diffonderlo tra i giovani pensatori delle scuole italiane, e avergli regalato un libro di Seneca che ha molto apprezzato, stringiamo la mano a un uomo che merita tutta la nostra ammirazione. Come lui, centinaia di uruguaiani sono reduci da anni di reclusione, come ci ha raccontato la signora Titi, ma non tutti hanno avuto la fortuna di potersi prendere una tale rivincita nei confronti della vita stessa, che, per usare le sue parole precise, «è fatta di riprese; nella vita – dice José Mujica – ciò che conta è la capacità di ricominciare dopo essere caduti».

E riguardo alla felicità? Abbiamo imparato grazie alle parole di quest’uomo semplice che per essere felici basta molto poco: quanto più ci circondiamo di beni materiali, tanto più ne saremo schiavi e sarà più pesante il carico di cianfrusaglie che dovremo portarci addosso. Un’esperienza, questa di Montevideo, che ci ha insegnato molto e ci ha ricordato la fortuna che abbiamo avuto a nascere in Italia, un Paese che, al di là di tutte le critiche che possiamo sollevare, ci ha permesso di scegliere liberamente quale destino costruirci.

 

*In realtà sono partito da solo, per realizzare un saggio sulla felicità ispirato alla filosofia del Presidente Mujica, a sua volta ispirata alle tesi di Seneca e di Erich Fromm; ma mi piace immaginare che con me ci fossero l’editore Cosimo Lupo e la filosofa Ada Fiore, i quali mi hanno sostenuto dall’Italia.

FRANK IODICE è  scrittore. Numerosissime le sue opere pubblicate tra cui Le api di ghiaccio (Lupo Editore, 2014), La femme robot (testo teatrale in francese), Articoliliberi (raccolta di articoli pubblicati online), Kindo, La folle vita di uno scrittore (Voltare Pagina, 2011, e-book), Racconti del veilleur de nuit (racconti brevi apparsi su varie riviste), Epigrafi (Di Salvo Editore, 2005 – poesie), Lo scopritore dell’America (Poligraf, 2002 – romanzo), L’ultima partita (Sergio Capozzoli Editore, 1999 – romanzo). 

“Poeti contemporanei e non. Antologia di poesia civile”, Edizioni Agemina (2012)

Poeti contemporanei e non. Antologia di poesia civile
di AA.VV.
Curatore: Pina Vicario
Edizioni Agemina, Firenze, 2012
ISBN: 978-88-95555-52-5
Pagine: 134
Costo: 10 €
 
Recensione di Lorenzo Spurio
Uomo!
Riprendi il tuo posto,
evita il danno e l’imbarazzo
di un mondo spogliato.
(“Uomo” di Sandra Carresi, p. 91)

Antologia-2Appena una settimana fa ho avuto il piacere di conoscere la signora Pina Vicario, poetessa e dirigente di Edizioni Agemina, una realtà editoriale di piccole dimensioni ma che sta seguendo numerosi e validi autori del panorama culturale contemporaneo. In quell’occasione la signora Vicario mi ha omaggiato di una copia del volume poetico-antologico dal titolo Poeti contemporanei e non. Antologia di poesia civile, edito per l’appunto dalla sua casa editrice. Ne sono stato molto contento, perché un’antologia di poesia civile è probabilmente quello di cui avevamo realmente bisogno in questo oggi difficile e alienante, come pure la stessa Vicario osserva nella sua interessante nota di prefazione. Parlare di poesia civile significa imboccare un percorso il cui inizio va rintracciato in decenni e secoli a noi distanti perché, anche se i testi di storia di letteratura dedicano uno spazio approssimativo al genere, la poesia civile, voce dell’uomo e del popolo (ossia dell’uomo che si unisce) sulle problematiche che soffre sulla sua pelle, è sempre esistita. Diversi i problemi, le esigenze, le denunce o gli “inganni sociali”, ovviamente, uguale, invece, il senso di oppressione, emarginazione e sconfitta del “povero cristo” che soffre direttamente sulla sua pelle condizioni d’indigenza che contrastano, invece, con l’opulenza di chi comanda per il bene del paese. O che dovrebbe farlo.

Per questo l’antologia si apre con una prima parte nella quale si da’ spazio ad alcuni grandi poeti di sempre: William Blake, il precursore del romanticismo inglese, l’esistenzialista Ungaretti, il pessimista Leopardi, Neruda e vari altri scrittori di altissima levatura che, a loro modo, danno la rappresentazione del dramma sociale. Tra questi ci sono versi “potenti” e dolorosi come quelli di San Martino del Carso di Ungaretti e delle considerazioni amare sul senso del nascere, il genio recanatese scrive in “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”: “Nasce l’uomo a fatica,/ ed è rischio di morire il nascimento” (cit. p. 10).

La seconda parte del volume, quella più ampia, da’ invece voce ai poeti contemporanei, più o meno noti, presentando anche una scheda biografica per ciascuno di essi. Un’analisi esaustiva dell’intero volume presumerebbe una scrittura critica attenta per ogni componimento; mi soffermerò brevemente solo su alcuni testi e versi, invitando però il lettore a leggerli tutti, con altrettanto interesse ed attenzione.

Marzia Carocci, poetessa e critico-recensionista fiorentino, celebra il valore della donna nella lirica “8 Marzo 1908” che rievoca la tragica morte in un rogo scoppiato in una fabbrica americana, evento attorno al quale poi nacque la “festa della donna” che tutti gli anni celebriamo. La Carocci ammonisce il lettore invitandolo a ricordare quel sacrificio e il valore-dono che la Donna stessa rappresenta: “E tu donna, che ancora lotti invano/ musa, mistero, madre del tuo tempo/ ricorda che quel fiore profumato/ è rosso sotto un giallo camuffato/ del sangue delle donne forti e fiere” (p. 31). Rosalba Satta Ceriale in “Ma la poesia non muore” riconosce il valore di questo genere letterario: difesa, approdo, consolazione e forza per concludere “Ma la poesia non muore con l’inganno” (p. 39). Nicoletta Corsalini, invece, dipinge in una lirica incalzante con dei versi reiterati, la violenza dell’uomo che si macchia di peccato, reato e prepotenza con le sue atroci azioni senza rendersi conto che ferisce se stesso nel momento in cui le compie.

Parlare di sociale non significa parlare solo di povertà, ma di tutte quelle realtà che pongono l’uomo in una difficoltà inarrestabile nel condurre una vita dignitosa: abbandono, esilio, l’essere orfani, la violenza sessuale (si legga la poesia “Broken” di Davide Rocco Colacrai, basata su di un doloroso episodio d’incesto, p. 67), l’offesa ricevuta, la prostituzione (si legga la bellissima lirica di Loretta Giannangeli intitolata “La giovane prostituta nera”, p. 55), la denigrazione, lo schiavismo, lo sfruttamento lavorale (leggere “La fabbrica che uccide” di Paolo Tonelli, p. 114), la sofferenza per la guerra (leggere “Partigiani” di Giorgia Francesconi, p. 105 che si chiude con dei versi magnifici: “Fammi lottare per il meriggio della Vita”), il vagabondaggio, la mancanza di un lavoro, la discriminazione religiosa, il razzismo e così via. C’è dolore, ma non rassegnazione in queste pagine, le lacrime si mescolano alla nuda terra, alla polvere e le grida sembrano squarciare il silenzio. In “11 settembre” Maria Grazia Castagna rievoca l’attacco più doloroso che la società contemporanea abbia mai subito scrivendo “l’umanità si accartoccia/ opulente e sciocca/ nel delirio” (p. 108).

Questo volume regala al lettore pepite d’inestimabile valore, pagina dopo pagina. Solo dalla riflessione sul mondo e dalla comprensione, che giungono solo grazie alla compartecipazione e alla condivisione d’idee, si può modificare la società nel bene, proprio come “L’uomo di fumo” di Daniele Carboni in cui l’uomo, dopo aver “emarginato, rifiutato e cancellato”, giunge a una riflessione aperta sul senso dell’esserci.

Non ci sono migliori parole che quelle usate da Anna Maria Folchini Stabile nella sua poesia “Corrono gli anni…”, un quadretto di consapevole e riconoscente storia dell’uomo, dell’italiano nella fattispecie, con riferimenti ad eventi storici dolorosi. La speranza e l’ottimismo, che sono elementi comuni in molte poesie di questo libro, non sono una manifestazione effimera dell’utopia che tutti i giorni rincorriamo, ma sono esse stesse rivelatrici di una lucida volontà di migliorarsi, aiutarsi e scoprirsi utili all’altro a partire dai più piccoli gesti:

Ci saranno
giorni migliori
quando tutto
avrà compimento,
quando ognuno,
conosciuto il suo ruolo,
farà della storia
il suo Credo (p. 113).

Lorenzo Spurio

Jesi, 13-02-2013

E’ SEVERAMENTE VIETATO DIFFONDERE E PUBBLICARE LA PRESENTE RECENSIONE IN FORMATO INTEGRALE O DI STRALCI SENZA IL PERMESSO DA PARTE DELL’AUTORE.

E’ uscito il nuovo numero della rivista Euterpe dal tema “Potere e povertà”

Buonanasera,
comunichiamo che il nuovo numero della rivista è appena uscito (entro pochissimo sarà caricato il pdf sul sito, http://www.rivista-euterpe.blogspot.com).

Nella rivista sono presenti testi di Lorenzo Spurio, Massimo Acciai, Monica Fantaci, Giuseppina Azzena, Gilbert Paraschiva, Damiano Maccarrone, Dunia Sardi, Emanuele Marcuccio, Massimo Acciai, Monica Minnucci, Sunshine Faggio, Ivan Pozzoni, Paolo Annibali, Antonio Chisari, Alessandro Dantonio, Flavio Scaloni, Monica Fantaci, Anna Alessandrino, Mauro Biancaniello, Antonella Santoro, Angela Crucitti, Gennaro Tedesco, Mario Di Nicola, Paolo D’Arpini, Patrizia Chini, Fiorella Carcereri, Cristina Lania, Mariapia Statile, Dario Ramponi, Nadia Marra, Martino Ciano, Elisabetta Polatti.
Ricordiamo, inoltre, che il prossimo numero della rivista avrà come tema “L’intercultura”. I materiali dovranno essere inviati a rivistaeuterpe@virgilio.it entro e non oltre il 10 Gennaio 2013.

Link diretto per accedere al pdf scaricabile contenente il numero della rivista: http://www.segretidipulcinella.it/euterpe5.pdf 

Euterpe n°4, E’ uscito il nuovo numero della rivista di letteratura

E’ uscito oggi il nuovo numero della rivista di letteratura on-line Euterpe diretta da Lorenzo Spurio. Il presente numero è dedicato al tema “Flutti, burrasche e derive: la bellezza e il mistero del mare” e  raccoglie poesie, racconti, saggi, recensioni a tema e non di numerosi scrittori.

Sono presenti testi di Lorenzo Spurio, Anna Alessandrino, Valeria Di Iasio, Massimo Acciai, Emanuele Marcuccio, Ivan Pozzoni, Fabio Amato, Gianluca Regondi, Annamaria Pecoraro, Alejandro César Álvarez, Adriana Pedicini, Veronica Liga, Patrizia Del Chicca, Francesco Martillotto, Paola Surano, Francesca Santucci, Cristina Lania, Fiorella Fiorenzoni, Gilbert Paraschiva, Sandra Carresi, Diego Conticello, Anna Maria Folchini-Stabile, Fiorella Carcereri, Martino Ciano, Donatella Calzari, Elena Condemi, Pierangela Castagnetta, Antonella Santoro, Angela Crucitti, Iuri Lombardi, Antonio Carano, Emanuele Cassani, Sara Rota, Rita Barbieri, Mauro Biancaniello, Santina Russo, Luisa Bolleri, Luciano Domenighini e Marzia Carocci.

La rivista può essere letta e scaricata in formato pdf cliccando sul tasto in alto “Leggi i numeri della rivista” all’interno del sito della rivista Euterpe.

Ricordiamo, inoltre, che il prossimo numero della rivista avrà come tema “Potere e povertà, gli squilibri insanabili”. I materiali dovranno essere inviati a rivistaeuterpe@virgilio.it entro e non oltre il 28 Settembre 2012.
Qui è raggiungibile l’evento creato appositamente su Facebook: https://www.facebook.com/events/437038816319142/

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