Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.
Prima che sia giorno devo finire una preghiera pesare le parole una per una e darle in mano a Dio come richiesta altissima
Devo finirla senza nessuna boria con tutta l’umiltà che posso offrire limandola in bellezza come un salmo perché sia già un ascolto
Forse devo includere il mio amore, chi è solo, i viaggi dei bambini chi ha steso i panni al buio e non potrà tornare presto a casa perché l’amore è un’arte che sa spartire il tempo curando in ogni cosa il suo valore
Difficile è comporla e farci entrare tutti senza trascurare chi ha bisogno difficile ignorare quel perdono per chi dopo la guerra ha colto un fiore pensando di curarlo anche domani difficile è dirla di nascosto
sapere che il silenzio è della croce
Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.
Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.
Sabato 13 aprile p.v. a partire dalle ore 10 e sino alle 18 presso la Sala Bio-Bibliografica della Biblioteca Universitaria Alessandrina (Piazzale Aldo Moro 5) a Roma si terrà il seminario dal titolo “Il sacro poetico” voluto e curato da Marco Colletti, Tiziana Colusso e Ilaria Giovinazzo.
A patrocinare l’iniziativa culturale sono la Direzione Generale e Diritto d’Autore del Ministero della Cultura, l’Associazione per la Solidarietà Internazionale in Asia (ASIA), l’Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente (ISMEO), la Federazione Unitaria Italiana Scrittori (FUIS) e le riviste letterarie «FormaFluens», «Metaphorica» e «Nuova Euterpe».
Questo il programma del ricco appuntamento che vedrà alternarsi vari specialisti in fatto di religione, letterati, saggisti e poeti che interverranno per un reading poetico sul tema.
Saluto
Dott.ssa DANIELA FUGARO (Direttrice della Biblioteca)
Interventi della mattina – ore 10:00 – 13:30
“La religione della bellezza”
ILARIA GIOVINAZZO (poeta, storica delle religioni)
“Presenze sufi nella poesia araba contemporanea”
SIMONE SIBILIO (poeta, docente di Lingua e Letteratura araba all’Università Ca’ Foscari)
“Giulia Niccolai, dalle avanguardie all’avventura della meditazione”
TIZIANA COLUSSO (scrittrice, direttrice di «FormaFluens Magazine»)
“La parola e la cosa”
CLAUDIO DAMIANI (poeta)
“Il verso sulla soglia dell’ineffabile”
LETIZIA LEONE (poeta, critica letteraria, redattrice di «Il Mangiaparole»)
ISACCO TURINA (poeta, ricercatore in sociologia all’Università di Bologna)
“Ricordando Cristina Campo”
ISABELLA BIGNOZZI (poeta e saggista)
“La poesia dissacrata”
ANDREA TEMPORELLI (scrittore e poeta)
Letture:
STEFANIA DI LIO, TIZIANO FRATUS, LAURA LIBERALE, FRANCESCA SERRAGNOLI, ANDREA TEMPORELLI, ISACCO TURINA, MICHELA ZANARELLA.
Concerto di musica tradizionale indiana
a cura di KALIPADA ADHIKARY
Nell’occasione, oltre ai libri degli autori, sarà esposto il n°3/2023 della rivista «Metaphorica», con una sezione dedicata a Giulia Niccolai. Gli atti del seminario saranno editi da «FormaFluens – International Literary Magazine».
In questo testo scrivo a proposito dell’ultima pubblicazione di Luca Pizzolitto[1], Getsemani, uscita nell’agosto 2023 per peQuod con prefazione di Roberto Deidier.
Si tratta di un libro importante e incisivo che fin dal titolo ci rende prossimi ai sentimenti di attesa, abbandono e angoscia caratterizzanti il culmine della passione di Cristo, quel tempo di alta sofferenza che precede l’evento ineluttabile della crocifissione. È un territorio segnato dal vuoto e dall’assenza a tratteggiare la dinamica di questa silloge, un territorio di estrema fragilità, caducità, dove siamo chiamati a vivere in perenne stato di insoddisfazione e di attesa, senza un’apparente promessa di gioia. I componimenti raccolti in Getsemani sono intrisi di quell’inquietudine che deriva principalmente da un mancato appagamento, dalla distanza irriducibile che si interpone tra l’essere umano e la pienezza di vita: “qui tutto è distanza, dici”.
Prima di entrare nel cuore di Getsemani, mi piace soffermarmi brevemente sulla struttura di quest’opera, su ciò che balza agli occhi sfogliando il libro. Di Getsemani colpisce la versificazione scarna, l’esiguità dei versi che affiorano sulla carta bianca e che, in qualità di lettrice, ho cercato di dilatare e penetrare per poter sondare tutte le modulazioni del sentire: perché, come scrive Roberto Deidier nella prefazione, “i componimenti di Getsemani sono grumi di pensieri e di immagini” e si muovono, secondo le ineffabili leggi di una scrittura precisa e incisiva, lungo il confine col dicibile. L’essenzialità è sicuramente la cifra stilistica di Pizzolitto, meta cui aspira da anni e che persegue mediante un percorso di scavo interiore al quale fa seguito un verso elegante da cui la parola spicca per nitidezza e forza evocativa. Accanto all’essenzialità della scrittura, a richiamare l’attenzione, è anche la presenza di numerose citazioni che compaiono sia in apertura delle prime quattro sezioni del libro, sia all’interno dei testi poetici.
La quantità e la pregnanza delle citazioni colloca l’opera in uno spazio poetico tessuto da più voci, generato da più anime, ed è ben chiara la forza del legame tra l’autore e alcuni poeti contemporanei e del Novecento, tra cui M. Guidacci, P. Jaccottet, O. Elitis e P. Lucarini.
A donare movimento e intensità a questa poesia contribuisce anche il riferimento ai testi biblici, in particolare ai Salmi, che Pizzolitto conosce bene e sui quali medita da molti anni. Si sviluppano, in questo modo, un pensiero e un sentimento che si nutrono contemporaneamente dell’elemento sacro e spirituale, di un vissuto quotidiano e di splendidi echi poetici; ma questo sentire ha radici profonde e ha avuto tutto il tempo per crescere, amalgamarsi, formare immagini e trasformarsi in parola.
La concisione e la raffinatezza del dettato conducono il lettore attraverso uno spazio che non si manifesta mai interamente, ma tramite immagini fugaci, in cui esili ma cruciali episodi di vita vissuta vengono accostati a momenti di profonda partecipazione alla vicenda di Gesù, nonché a quanti vivono con l’affanno di chi si sente abbandonato, allontanato dalla gioia:
Questo tempo che
ci respira addosso
è affanno, abbandono
una poverissima luce.
Vi è sempre una distanza non trascurabile a separarci da una vita piena e abbondante e tale distanza sembra essere una condizione ineliminabile, un tratto che contraddistingue l’esperienza dell’uomo e che si manifesta contestualmente ad altre peculiarità tipicamente umane, mai davvero conosciute e accettate: la fragilità, la caducità, la difficoltà a restare fedeli: “Nessuno torna innocente / da questo Getsemani, / nessuno è mai stato / fedele davvero”.
Questo spazio di separazione, tratteggiato con poche, scarne parole, è sempre riconoscibile, percepibile dal lettore, ed è luogo di mancanza, di brevità e miseria “Il piatto vuoto, sul tavolo, in cucina. / Il solco degli occhi, di ogni tua attesa”.
E questa struggente “distanza da me / da tutte le cose” se da un lato ci commuove, dall’altro invita a definirci di nuovo, a meditare anche sulla labilità dei desideri.
La vita che attraversiamo
a mezz’ora dall’autogrill.
Fibra minuta, fragile.
Il nostro umano non restare,
cadere, farsi pioggia in aprile.
Lasciare.
Ma perché rimaniamo sempre lontani dai nostri desideri? Se ne conoscessimo davvero la forma, se questi potessero restare immutabili nel tempo, e distinti, li raggiungeremmo più facilmente? Oppure ogni desiderio è, per natura, inavvicinabile? Queste alcune delle domande che mi sono posta leggendo l’opera di Pizzolitto.
Il nostro essere padri
di carni incapaci
– agosto è immobile,
lettera aperta sulle tue dita
allontanare Dio
assetati di Dio.
“bisogna tornare / a inebriarci alla fontana: / bisogna tornare alla sete”, scrive Hugo Mujica, figura rilevante per la formazione di Pizzolitto. “Bisogna tornare alla sete” ed è proprio sete la parola che probabilmente ricorre con maggiore insistenza in Getsemani; sete, e non desiderio, perché la sete si manifesta con sintomi chiari e si può placare bevendo, quindi compiendo un gesto concreto e semplice, ammesso che l’acqua sia a nostra disposizione, ammesso che sappiamo dove andare a cercarla. L’acqua figura spesso nelle pagine del libro, anche tramite le sue possibili forme di manifestazione, e come scrive Deidier nella prefazione: “Tutte le sue declinazioni, che si tratti di «neve» o di «pioggia», non soddisfano né l’anelito a una rigenerazione, né, tanto meno, il desiderio della durata; al contrario indicano una fine, il nulla dove non resta alcun segno”.
Ma “L’acqua, la insegna la sete”, scrive Emily Dickinson, e l’uomo, creatura tanto volitiva quanto facilmente distraibile, può dimenticare a cosa realmente tende, e può, inavvedutamente, sostituire il suo desiderio primario con altri, transitori e scialbi. Non solo in questa epoca, probabilmente, ma da sempre, come possiamo imparare dal commovente dialogo tra Gesù e la samaritana, di cui la seguente poesia ne rintraccia l’eco remoto e persistente:
Sulla viva resa del mezzogiorno,
sul peso irrisolto di vita tradita, persa –
donna di Samaria arsa nel pianto,
stelo di cardo fiorito un mattino,
la rossa terra di Sicar.
Di altra sorgente, del nuovo volto
ha bisogno la mia sete
Il libro si conclude con una piccola sezione dedicata a Ugo Fama ed è formata da tre poesie, umanissime e delicate, scritte con la commozione e l’amore di chi sente che l’umano passaggio può farsi “sostanza stessa di dio”.
[1]Luca Pizzolitto (Torino, 1980) Con peQuod ha pubblicato La ragione della polvere (2020), Crocevia dei cammini (2022), Getsemani (2023, prefazione di Roberto Deidier). Da fine 2021 dirige la collana di poesia «Portosepolto», sempre per la casa editrice peQuod. È ideatore e redattore del blog «Bottega Portosepolto». Collabora con «Poesia del nostro tempo», «L’Estroverso» e «Farapoesia».
[2] Salmo 39, I salmi, traduzione di Davide Brullo, Aragno Editore
Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.
ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda,
che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie.
(P. Levi, Se questo è un uomo)
Dante Alighieri si innamorò di Beatrice Portinari quando lui stava per compiere i nove anni e lei gli otto, come racconta lo scrittore nella Vita Nuova[1]. Doveva essere il 1274 e, secondo quanto racconta Boccaccio nel Trattatello in laude di Dante[2], l’incontro è avvenuto a Calendimaggio, cioè in occasione dell’arrivo della bella stagione che si festeggiava appunto il primo di maggio, organizzando in famiglia e nei quartieri banchetti e balli. Dante aveva accompagnato il padre Alighiero alla festa presso la casa di Folco Portinari, il padre di Bice, o Beatrice, come Dante la sentì chiamare. Ecco che Dante, colpito inspiegabilmente dalla bambina vestita di un abitino rosso sangue,[3] si innamora improvvisamente e perdutamente[4].
Non potremo mai sapere con certezza se si tratta di fatti realmente accaduti o di immagini ricavate dalla fantasia dell’autore prima e di Boccaccio poi, e arricchite dalla simbologia del numero nove che, multiplo di tre, si ripete in vari modi nella Commedia[5]. Un amore infantile e platonico, possiamo ipotizzare, tipico di quell’età che, sentito, percepito, vissuto interiormente o meno, ha condizionato tutta l’opera dello scrittore. E proprio l’idealizzazione di un amore nato da bambini ha aperto la strada alla dimensione mistica del sentimento d’amore di Dante per Beatrice.
Lo storico Alessandro Barbero, nella ricostruzione della biografia dell’autore e del suo tempo, evidenzia la differenza del rapporto che gli uomini medievali, rispetto a noi post-romantici, hanno con il sentimento d’amore, per noi di massima importanza e nobiltà, per loro visto quasi con sospetto e timore, data la dimensione irrazionale che inevitabilmente porta con sé. In un’epoca in cui la ragione era considerata fondamentale guida dei comportamenti umani, si discuteva se l’amore fosse qualcosa di buono o di terribilmente pericoloso. Dante sceglie Virgilio come suo duca, cioè guida spirituale, in nome di quei valori nobili e giusti che incarnò prima della nascita di Gesù, e lo rende non a caso allegoria della Ragione, e quindi faro per ritrovare la retta via e percorrere i primi due regni dell’Aldilà, ma anche per raggiungere la donna amata. Il poeta riprende il dibattito del suo tempo nel V canto dell’Inferno[6], dove vuole cogliere con esattezza i confini tra amore che eleva e amore che porta alla dannazione e quindi riflettere sulla pericolosità dell’amore stilnovista se non accompagnato dalla ragione, argine fondamentale di quella passione che, altrimenti, rischia di impadronirsi di ogni aspetto dell’esistenza. È proprio questo il peccato commesso da Paolo e Francesca, amanti sfortunati in un’epoca in cui l’amore vero era concepito al di fuori del rapporto coniugale, ma che appunto non ammetteva l’abbandono totale alla sua irrazionalità. Dante sembra risolvere questa contraddizione tra bisogno dell’esperienza amorosa e necessità di restare entro i limiti della ragione, rendendo Beatrice, oggetto già di un amore platonico, così nobile da poter ripetere dietro a Omero: «Ella non parea figliuola d’uomo mortale, ma di deo»[7] e rifacendosi così a quel filone di pensiero filosofico-teologico medievale secondo cui l’uomo è visto quale imago Dei, cioè immagine di Dio.
Lo stesso Guido Guinizzelli, padre del Dolce Stil Novo[8], nella parte finale della canzone Al cor gentile rempaira sempre amore, risponde a Dio che lo rimprovera di aver lodato la donna secondo gli attributi che spettano a Dio e alla Vergine Maria: «Tenne d’angel sembianza / che fosse del Tuo regno; / non me fu fallo, s’in lei posi amanza»[9]. Il poeta bolognese scambia la donna amata per un angelo del regno di Dio e lodando lei loda Dio. Così Beatrice da donna realmente esistita e amata in giovinezza dal poeta, evocata nella memoria nella Vita Nuova, diventa personaggio simbolico, trasfigurato, sublimato[10], un miracolo di cui si può parlare termini biblici[11]. Quell’«angiola giovanissima»[12], è talmente virtuosa e nobile che non può mai far vacillare «lo fedele consiglio de la ragione»[13], dichiara il poeta innamorato.
Così Dante rovescia la tragica visione cavalcantiana, secondo cui l’amore è desiderio dei sensi e sottratto alla ragione, e si rifà a una lunga tradizione che vede l’amore come pura contemplazione priva di piacere sensibile e contingente[14]. In questo modo la moralità è intrinseca all’amore che Dante prova per Beatrice, il cui saluto non solo è fonte di beatitudine, ma anche di salvezza[15]. L’amore non potrà mai distogliere Dante da Dio, a differenza delle anime di Paolo e Francesca che, cedendo a un’emozione incontrollata, hanno rinunciato alla sua dimensione contemplativa e sono pertanto condannati per l’eternità al turbine del secondo cerchio dell’Inferno. Paolo e Francesca sono «i peccator carnali»[16], i lussuriosi, cioè coloro «che la ragion sommettono al talento»[17] e così facendo non hanno visto altro che l’amore, cedendo all’illusione secondo cui tutta la vita si può ridurre alla sola esperienza amorosa. Francesca che, mentre Paolo piange, racconta a Dante come lei e il suo amante si accorsero di essere innamorati, ha commesso l’errore di aver escluso ogni altro aspetto della persona per trasformare il sentimento d’amore in un’ossessione e se stessa in una schiava d’amore incapace di ragionare, come evidenzia l’anafora nel cosiddetto teorema amoroso di Francesca: «Amor, ch’al cor gentile ratto s’apprende, […] Amor, ch’a nullo amato amar perdona, […] Amor condusse noi ad una morte»[18].
Tuttavia, la forza dell’opera di Dante non risiede nell’impeccabilità di un pellegrino che, guidato dalla sua donna-angelo, dall’amata sublimata e trasformata in allegoria della fede e della teologia, si purifica da tutti i suoi peccati partendo dal basso, dal buio dell’Inferno e, ascendendo, arriva fino a Dio. La critica afferma che il personaggio di Dante non potrebbe purificarsi senza prima attraversare tutti i suoi peccati immedesimandosi nei vari personaggi che sceglie a rappresentarli, ma se ci accontentassimo solo di questo, continueremmo a vedere Dante come freddo e teorico teologo e non potremmo trovare la sua opera così contemporanea.
La potenza dei versi del poeta fiorentino, il coinvolgimento emotivo del lettore, la commozione del suo pubblico derivano dall’estrema umanità del Dante uomo, prima che scrittore, poeta, personaggio, ravvisabile nel protagonista, che di fronte alle fragilità dell’umanità peccatrice e condannata, prova pietà. Si tratta di una pietà terrena, non metafisica[19], che in qualche modo ricorda la pietas di Enea, quel misto di dovere, devozione, amore, rispetto verso gli avi, i genitori, i figli, le tradizioni, la patria, gli dèi, in nome della quale l’eroe virgiliano abbandona Didone e risponde alla missione che gli è stata affidata. La pietà di Dante è angoscia, smarrimento, commozione, turbamento e, osa Borges, invidia[20]. Invidia di quegli amanti che, pur nel peccato, pur avendo compiuto il «doloroso passo»,[21] pur lontano da Dio, sono destinati insieme per l’eternità. Invece Dante rinuncia a Beatrice, come Enea aveva rinunciato a Didone, e inventa la Commedia in qualche modo per, dice ancora Borges, introdurvi quell’incontro, l’incontro, almeno nella sua immaginazione, con la donna amata e sempre perduta. Eppure, quando arriva alla presenza di Beatrice, qualcosa non torna, la donna è raffigurata dallo scrittore severissima, lontana, inarrivabile, come inarrivabile era stata in vita, addirittura si prende gioco di Dante, lo umilia[22]. Dopo aver vissuto paura e angoscia nella selva oscura, dopo aver attraversato le pene nel regno delle ombre, aver osservato figure mostruose e aver assistito a punizioni terrificanti, dopo aver imparato la forza del pentimento e essere asceso cornice dopo cornice al monte del Purgatorio, dopo aver costruito un tale mondo dell’aldilà perfettamente coerente a se stesso esattamente per ritrovar la donna amata, ecco che l’incontro con Beatrice, tanto agognato, tanto anelato, è deludente, sembra difettare di qualcosa.
“Paolo e Francesca” nell’opera di William Dyce, esposta alla National Gallery of Scotland di Edimburgo.
Non per il pellegrino Dante che raggiunge la salvezza – «tu m’hai di servo tratto in libertate»[23] –, ma per l’uomo innamorato che non raggiunge, neanche nella fantasia, ciò che gli è sempre mancato, la realizzazione dell’amore, il sentimento soddisfatto da Paolo e Francesca. Ecco che l’ultimo sorriso di Beatrice tradisce una certa malinconia, una tale tristezza, un senso di vuoto. Dante si rivolge a Beatrice, ma non la trova, è volata nella Rosa dei Giusti, è al massimo della sua esaltazione, eppure è sfuggente, distante, addirittura distoglie lo sguardo[24]. Dante l’ha persa per sempre. Paolo e Francesca resteranno abbracciati per l’eternità. Più Beatrice è esaltata, più Dante è vicino alla salvezza, più la soddisfazione del sentimento amoroso è lontano. In questo tratto di malinconia risiede la profondissima umanità della Commedia e con essa di tutta l’esperienza biografica e letteraria di Dante.
Se l’Inferno è un luogo «sanza stelle»[25] dove il desiderio permane, ma non può essere soddisfatto, (desiderio da de-, che è il prefisso privativo, e sidereus, cioè gli astri), è dunque un luogo della mancanza, della mancanza di Dio. Questa situazione però sembra rovesciarsi dal punto di vista del Dante scrittore e innamorato, il cui obiettivo principale era quello di rincontrare la donna amata, e come abbiamo visto la mancanza, la perdita di Beatrice avviene nel Paradiso, luogo pieno di stelle, dove «l’amor che move il sole e l’altre stelle» è l’amore del Divino.
La lettura che ne fa Borges ci aiuta a riportare lo scrittore vicino alla nostra umanità psicologicamente fragile, fisicamente debole, a volte disperata, smarrita. Dante nel poema, così come nella sua vita, trema, piange, si intimidisce, è fortemente impressionabile, è ansioso, sviene. Dante resta un vinto, come Enea, ma in Dante in quell’essere vinto e naufrago si scorge «la sua spaventosa inconciliabilità con il mondo»[26]: tutto il disagio vissuto nei confronti della vita, i suoi fallimenti in campo amoroso, in campo politico, nel rivestire un ruolo sociale, la difficoltà di trovare il suo posto[27]. Tutto questo diventa poesia e la poesia è al tempo stesso fragilità umana e cura dell’umana vulnerabilità.
Per conservare questo elevatissimo grado di umanità nella sua opera, Dante autore si distacca dal giudizio di Dio che non sempre coincide con il suo sentire, Dio che è al di là di ogni giudizio umano e al di là del bene e del male. Dio è definito nell’opera per la sua giustizia – «Giustizia mosse il mio alto fattore»[28] – e risulterebbe falso se replicasse la posizione di Dante, il quale accetta quel Dio, ma comprende l’uomo, delega alla Divinità la giustizia, ma mantiene per sé i sentimenti. Come se avesse spezzettato in migliaia di parti la sua persona e avesse fatto incarnare ognuna di queste parti a un personaggio del suo universo immaginario, Dante sceglie questa apparente contraddizione[29] anche come stratagemma narrativo, come tecnica di costruzione, come gioco illusorio utile al racconto, delegando quello che Borges chiama «il Terzo Personaggio»,[30] cioè Dio, per far dimenticare che dietro a ogni destinazione nel poema c’è sempre lui, come in un rimando di giochi di specchi.
A conclusione di questo ragionamento, due episodi realmente accaduti lontani nello spazio, più che nel tempo, confermano la profondissima umanità dell’opera dantesca e come la poesia sia l’unica cura possibile[31]. Umanissimo è il Dante che, nel 1938, un poeta deportato da Stalin per attività controrivoluzionaria nel gulag di Vtoraja rečka, nei pressi di Vladivostok, traduceva a memoria per i suoi compagni di sofferenza e di morte, insieme a Petrarca e Ariosto. È Osip Mandel’štam, che nel 1933 aveva scritto Conversazione su Dante, «un poema critico. Un poema sulla poesia di un grande del Medioevo, di un grande del Novecento – sulla poesia»[32].
È il 1944 quando ad Auschwitz, la «gran macchina per ridurci a bestie», l’ebreo italiano Primo Levi sceglie di recitare a memoria il canto XXVI dell’Inferno, quello di Ulisse, ammettendo con rimprovero, qualche errore o qualche lacuna, pur di ritrovare brandelli di quella umanità che i nazisti cancellavano nei prigionieri insieme al loro nome. Primo Levi in quell’inferno[33] comprende e lotta per non cedere ogni pezzetto di umanità ai nazisti, si impone di continuare una serie di gesti, si lava la faccia senza sapone nell’acqua sporca, si asciuga alla giacca, per non lasciare andare anche «il nostro consenso»[34], per conservare una briciola almeno di dignità. In un contesto che mira alla «demolizione di un uomo»[35] Levi recita l’esortazione dell’Ulisse dantesco ai suoi compagni e a tutti gli uomini: «Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza»[36]. Queste parole, risuonano forti come non mai, come se le sentisse per la prima volta, sono uno squillo di tromba che lo riporta alla vita, sono la voce di Dio che risveglia in lui il senso di civiltà scomparso nel lager[37]. Scegliendo la strada indicata da Ulisse e da Dante, dimentica per un momento «chi sono e dove sono»[38]. È il potere curativo della poesia[39]: recitando la Commedia, segue la strada «per restare vivi, per non cominciare a morire»[40].
Bibliografia
Alighieri Dante, La Commedia. Inferno, a cura di Bianca Garavelli, supervisione di Maria Corti, Bompiani, Firenze, 2001
Alighieri Dante, La Divina Commedia. Paradiso, a cura di U. Bosco e G. Reggio, Le Monnier, Firenze, 2002
Alighieri Dante, La Divina Commedia. Purgatorio, a cura di U. Bosco e G. Reggio, Le Monnier, Firenze, 2002
Alighieri Dante, Vita Nuova, Feltrinelli, Milano, 2021
Borges Jorge Luis, Nove saggi danteschi, Adelphi, Milano, 2021
Levi Primo, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino, 1989
Mandel’štam Osip, Conversazione su Dante, Adelphi, Milano, 2021 Stassi Fabio, E d’ogni male mi guarisce
[1] Cfr., Dante Alighieri, Vita Nuova, Feltrinelli, Milano, 2021, pag. 35: «[…] quasi dal principio del suo anno nono apparve a me, ed io la vidi quasi da la fine del mio nono».
[2] Cfr., A. Barbero, Dante, Editori Laterza, Bari-Roma, 2020, p. 72 e G. Boccaccio, Trattatello I, 30-31.
[3] Cfr., Dante Alighieri, Vita Nuova, op. cit., pag. 35: «Apparve vestita di nobilissimo colore, umile e onesto, sanguigno, cinta e orata a la guisa che la sua giovanissima etade si convenia».
[4] Cfr., ibidem, pp. 35-36: «In quello punto dico veracemente che lo spirito de la vita, lo quale dimora ne la secretissima camera de lo cuore, cominciò a tremare sì fortemente, che apparia ne li menimi polsi orribilmente; e tremando disse queste parole: “Ecce deus fortior me, qui veniens dominabitur michi”».
[9] G. Guinizzelli, Al cor gentile rempaira sempre amore, in Poesie dello stilnovo, a cura di M. Berisso, BUR, Milano, 2006, pag. 79.
[10]Sublimato, agg., usato qui nel significato di “esaltato”, “reso sublime”.
[11] Cfr. in particolare il sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare, vv. 5-6 («e par che una cosa venuta / da cielo in terra a miracol mostrare»), dove Beatrice palesa la sua essenza miracolosa, e Purgatorio XXX, vv. 19-21 («Tutti dicean: “Bendeictus qui venis!”, / e fior gittando e di sopra e dintorno, / Manibus, oh, date lilia plenis»), dove, evocata l’apparizione di Beatrice, ella viene identificata con Cristo poiché nella vita di Dante la donna amata ha assolto per il poeta la stessa funzione di Cristo nella storia dell’umanità.
[12] Cfr., Dante Alighieri, Vita Nuova, op. cit., pp. 37-38.
[15] Beatrice è signora che concede il saluto (it. antico “salute”) e insieme fonte di salvezza (it. antico “salute”). L’etimologia delle parole è la stessa, dal latino salus, salutis che vuol dire “salute”, “salvezza”. Beatrice quando saluta Dante gli dà anche salvezza: «conobbi ch’era la donna de la salute, la quale m’avea lo giorno dinanzi degnato di salutare». Cfr., Dante Alighieri, Vita Nuova, op. cit., pag. 38 e nota 30.
[17] Ibidem, v. 39. Talento: latinismo per “passione”, tutto ciò che è emozione incontrollata; in riferimento all’amore non acceso da virtù e non indirizzato a Dio.
[22] Cfr., id., Purgatorio, XXX, in particolare vv. 55-57: «“Dante, perché Virgilio se ne vada, / non pianger anco, non piangere ancora; / che pianger ti conven per altra spada”», e Purgatorio XXXI.
[32] S. Vitale, «Io pur sorrisi…», in O. Mandel’štam, Conversazione su Dante, Adelphi, Milano, 2021, p. 9.
[33] «Questo è l’inferno. Oggi, ai nostri giorni, l’inferno deve essere così, […] e noi aspettiamo qualcosa di certamente terribile e non succede niente e continua a non succedere niente». P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino, 1989, pag. 19.
[37] Cfr., P. Levi, op. cit., pag. 35: «Anche in questo luogo si può sopravvivere, e perciò si deve voler sopravvivere, per raccontare, per portare testimonianza; e che per vivere è importante sforzarci di salvare almeno lo scheletro, l’impalcatura, la forma della civiltà».
Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.
Cara Mirella[1], grazie per aver accettato questa intervista sulla tua ricerca personale come poetessa che ci permetterà di conoscerti meglio ed esplorare con più profondità il tuo universo poetico. È impossibile scindere i poeti dai luoghi che abitano. Raccontaci dunque la relazione tra il tuo luogo, immerso nello splendore delle Alpi, la vita comunitaria che conduci e la pratica di scrivere poesia.
Grazie a te, Lucia, per l’invito, come tu ben sai, la mia poesia nasce dall’esigenza di esplorare la quotidianità attraverso la spiritualità e viceversa, conferire ad ogni azione della mia giornata un valore, a cominciare dalla meditazione mattutina, perché questo significa predispormi a tutte le altre attività, con la giusta attenzione e centratura. C’è una relazione profonda, per me siciliana, agrigentina, nata vicino al mare e innamorata dei luoghi dove sono cresciuta fin da piccola, tra la bianca magia della Scala dei Turchi e la Valle dei templi, dove giocavo e respiravo la bellezza dei miti della mia terra e quest’altra terra bellissima, dove vivo da quasi trent’anni, la Valchiusella, ricca di boschi, laghi, torrenti, a pochi chilometri da Ivrea. Incastonata in questa valle c’è una comunità spirituale, Damanhur, conosciuta in tutto il mondo e meta di ricercatori, sognatori, ma anche curiosi in cerca di nuovi modelli sociali in cui poter vivere, come si diceva una volta, a misura d’uomo. Sono arrivata qui con il sogno di trasformare la mia esistenza, di intraprendere un percorso personale che mi desse l’opportunità di raggiungere quello spazio sacro in fondo al cuore, dove si dice, esserci “la stanza che contiene tutte le risposte”.
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Nella tua produzione poetica si respira una spiritualità molto accesa e in cui la natura apre una specie di portale magico per meditare sulla realtà è sul nostro tempo, è così? Cosa attiva la tua ricerca poetica e quali sono le “scoperte” a cui giungi?
La poesia è diventata, col tempo, la chiave che mi permette di svelarmi, che raccoglie con la sua essenzialità quello che le parole quotidiane non sanno dire: è la poesia che si avvicina alla mia anima e ne coglie l’inesprimibile. Vivere immersi nella natura cambia il proprio orientamento: i sensi si ampliano, le percezioni, le intuizioni, i sogni si colorano e si affinano, si riscopre un linguaggio ancestrale ricco di profumi, segni, che col passare degli anni, delle esperienze vissute, portano significati che aprono alla visione e all’ascolto della vita. Come la musica suscita armonia e tocca corde che fanno vibrare l’anima, così la poesia si accende dei suoni del bosco, dei colori del cielo, entra in empatia con gli spiriti dei luoghi, degli esseri di natura che vivono dove la natura è incontaminata ed è così che, amplificando ogni più piccola scoperta, la poesia diventa il linguaggio privilegiato dello spirito.
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L’autrice Mirella Crapanzano
Nel tuo più recente libro La fragilità del bruco (Macabor 2020), lo stato transitorio di fronte a cui vita e morte ci pongono costantemente apre le porte ad una filosofia dell’accettazione e della diminuzione del proprio “io”. Com’è nato questo libro che, come recita un suo verso, cerca di muoversi oltre quel “perimetro di certezza”, che portiamo sempre con noi?
Nel libro La fragilità del bruco scrivo dello stupore della vita, attraverso quello che pensiamo sia un confine, la vita e la morte che invece è passaggio alla trasformazione. Nel caso del bruco vediamo la “metamorfosi” di un essere che “rinasce” sotto altre sembianze, conclude un ciclo per cominciarne un altro. Un essere di terra, il bruco che diventa farfalla, un essere d’aria, di cielo, se vogliamo. La metafora di due aspetti, vita e morte, che contengono al loro interno l’evoluzione, la trasformazione e che sono imprescindibili l’una dall’altra e sono così colme di fascino e mistero. Attraversare questi stati dell’essere, in maniera lucida, consapevole, con rispetto e dignità significa aver vissuto bene. E quello che rimane di noi è l’essenza preziosa, è l’amore che abbiamo saputo coltivare.
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Nelle tue raccolte poetiche precedenti la natura è la grande protagonista, ma qual è il percorso che ti ha portato dalla tua prima pubblicazione nel 2014 ad oggi? Qual è stata l’evoluzione del tuo linguaggio poetico a tal riguardo?
Nei miei libri, esiste un costante riferimento, sottile e sottinteso, alla poesia come dimensione libera, l’unica forse in grado di dialogare con aspetti diversi dell’esistenza, come l’umano e il divino, i mondi vegetali, minerali e animali per restituire ad ognuno la bellezza dell’unicità, la sacralità e il rispetto che ogni specie merita senza distinzione. Dialogare e dar voce ad ognuno di questi aspetti che “mi compongono” significa abitarmi come un luogo dove tutto può accadere. Del resto, come ha ben scritto Franca Alaimo nella prefazione a La fragilità del bruco, “l’osservazione della realtà circostante, da cui si origina ogni testo della raccolta, viene dilatata fino a comprendere la vastità simbolica di ogni elemento che immette il lettore in una sorta di spazio sacro, in cui piante, animali, acque, terra e cieli sono allo stesso tempo concreti e spirituali.” Elementi che divengono tutti parte di una realtà non più separata ma infinitamente ricca e variegata nelle differenti unicità.
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Nella tua poesia la punteggiatura scarseggia o è assente. C’è qualche legame tra questo e la tua visione del fluire delle cose, del ciclo, dell’ascolto dell’impercettibile?
La punteggiatura col tempo è sparita del tutto, proprio perché le pause in poesia, se non dettate dal silenzio, rischiano di non far fluire l’incanto della molteplicità della vita con tutte le emozioni, la passione che infine ci incalza a vivere. Come ha intuito Claudia Manuela Turco, a proposito della mia poesia, “la punteggiatura è divenuta superflua, quindi è scomparsa, e con la sua sparizione si sono arricchiti anche i significati dei segmenti di poesia in movimento.” Questo ultimo concetto in poesia diviene una sorta di caleidoscopio dove le immagini si trasformano, si aprono e divengono altro, una visione, un linguaggio, uno spazio che si apre e che ognuno può sentirsi libero di abitare.
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Infine, la spiritualità è una ricerca costante. Ti definisci ricercatrice nel campo della poesia, delle arti pittoriche e visive. Come comunicano tra di loro per te queste tre arti e a quali esiti ti porta il crocevia che si crea tra di esse?
Preferisco definirmi una ricercatrice nei campi dell’arte e della scrittura, piuttosto che poeta, pittrice o altro, perché questo mi permette di scandagliare le forme in cui posso dipingere o scrivere, creare immagini, installazioni, senza dover appartenere necessariamente a un gruppo, una corrente filosofica, poetica o pittorica, anche perché ho attraversato diverse fasi e persino vite, pur se molte in questa stessa e ogni volta mi sono riscoperta simile e completamente diversa, ed è per questo, ad esempio, che anche la mia scrittura non è mai uguale. In comune queste arti mi danno la possibilità di percorrere colori e segni ancestrali attingendo a significati che la storia dell’umanità ci ha lasciato in eredità. Nella pittura mi esprimo con il linguaggio a me più congeniale, quello del colore, scrivo frequenze che posso comporre e leggere, le arricchisco di segni, ideogrammi, che servono a creare storie da raccontare e far sentire attraverso le emozioni e così nella poesia, vorrei far respirare queste frequenze, vibrazioni, allo stesso modo che nei miei quadri, perché conducano il lettore a far vibrare, per assonanza, il proprio suono interiore che va a costituire quell’accordo immenso di cui tutto l’universo vibra.
[1]Mirella Crapanzano (Agrigento, 1959) è pittrice e ricercatrice nel campo della poesia, delle arti pittoriche e visive. Ha pubblicato la raccolta Le stanze del fiore nero (Lietocolle, 2014), la silloge Terracqua (Terra d’ulivi, 2016) con la quale ha vinto il primo premio Castello di Prata Sannita L’Iguana 2017, dedicato a Anna Maria Ortese, per la poesia edita e il poemetto Il Labirinto (Il Convivio, 2018), per essersi classificata seconda al Premio, per sillogi inedite, Pietro Carrera. La fragilità del bruco (Macabor, 2020). Sue poesie sono presenti in diverse antologie, alcune edite da Lietocolle, Fara editore, Terra d’ulivi e Macabor e su varie riviste poetiche online.
Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.
Franco Arminio è un poeta da sempre promotore di battaglie civili, come ad esempio la lotta contro la chiusura dell’ospedale della sua Bisaccia, il paese dov’è nato nel 1960 e vive, in provincia di Avellino. Gli sta a cuore lo spopolamento delle aree interne dell’Irpinia, che rende attraverso un nostalgico confronto tra passato e presente, palesato da una scrittura che si sviluppa per immagini.
Sacro minore (Einaudi, marzo 2023) è forse la sua raccolta più rivoluzionaria, poiché esprime una dimensione spirituale che è strenuamente invocata attraverso concetti tipici della vita, semplici e cari a tutti. Quasi che un’altra dimensione, aulica e celeste, non sia possibile da individuare e quindi la si debba ricreare nelle situazioni quotidiane.
I ricordi intangibili, diventano sacrosanti e venerabili, proprio perché identificati in un benessere che abbiamo avuto senza esserne consapevoli. “Sacra è la grazia della vita ordinaria / di cui ci accorgiamo solo quandoarriva / una brutta notizia”.
Sacra è la vita, così come l’infanzia e il mondo di chi ormai ha concluso il suo cammino. Nulla è banale, se pensato al cospetto della meraviglia dell’essere al mondo, qui e ora. “Sacro è che io sono qui / perché alcune persone dentro di me / non devono morire.”
Ecco quindi che il corpo diventa veicolo attraverso il quale vivere le esperienze. Esso gode a lungo delle sensazioni e le trattiene. “Sacri sono gli abbracci / che fanno luce nelle ossa.”
La morte è un continuo, affatto un’interruzione. I defunti vivono nell’ambiente circostante, nessuno li dimentica. “Sacro è immaginare / cosa dice, cosa vede / il morto che esce a fare quattro passi / in una notte di neve.”
Anche i gesti più semplici diventano memorabili, perché universalmente condivisi. “Sacro eraquando mia madre / mi portava alla Standa, allora / anche comprare un pettine / era una speranza.”
Leggere queste micro poesie può essere una valida terapia, che dà sollievo. Perché mortale è il corpo, mentre un altrove non è possibile e non resta che evocarlo. Diventa involucro sacro, appunto, dal momento in cui assume un legame col trascendente. Non potendo vedere quel che non esiste, il poeta costruisce una sorta di sacro minore, nel tentativo di evidenziare ciò che c’è di mirabolante in quel che ci circonda, inteso come oggetti concreti. Un filo d’erba; una radiografia; una lumaca, tanto per fare degli esempi.
La poesia è intesa come preghiera, ma solamente suggerita. Un sacro “piccolino”, quotidiano. Di corpi che si incrociano e interagiscono, ma poi si allontanano dalla dimensione terrena.
Per concludere, Sacro minore è una raccolta composta da versi brevissimi in forma di epigrammi, vivamente consigliata.
Da tenere con sé, magari per leggerne un componimento al giorno e gustare così la potenza dei versi. Per ritrovare la stessa familiare sensazione di paesi che sono cambiati nel tempo, di persone che hanno fatto parte del nostro mondo e adesso non ci sono più. Padri e madri passati a miglior vita, che hanno rappresentato la parte più felice della nostra fanciullezza e vorremmo ancora incontrare.
Comune è quella sensazione nostalgica, d’impotenza. Un universo parallelo in cui i vivi e i morti si alternano, riconoscendo la sacralità del passato, diventa invece una coperta con la quale avvolgersi nei giorni più freddi, con una sensazione di attesa. Uno stupore che porta alla gratitudine, come nuovo modo di concepire il presente.
Un diverso sistema di pregare, suggerisce il poeta. Però questa raccolta di poesie è degna di nota proprio perché sprigiona benessere e consolazione. Tanta meraviglia in chi vacilla nella fede.
Basta la geografia, una parola. In fondo, è tutto quello di cui abbiamo bisogno per non ritenerci orfani del passato. Una consapevolezza appagante, che fa sentire meno soli.
Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore/l’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.