“Mi limitavo ad amare te” di Rosella Pastorino, recensione di Gabriella Maggio

Recensione di Gabriella Maggio

Mi limitavo ad amare te, il nuovo romanzo di Rosella Postorino edito da Feltrinelli, è ambientato durante il conflitto tra Serbia e Bosnia Erzegovina, nella primavera del 1992. Sulla trama della grande storia s’inserisce quella di tre bambini che per motivi diversi vivono in un orfanotrofio a Sarajevo, Omar, suo fratello Sen, Nada. Tra questi, Omar è il più sensibile e soffre per la separazione dalla madre che non ostante il pericolo quasi ogni settimana lo va a trovare. Omar “aveva dieci anni, e da cinque viveva nel tormento della sua mancanza, passava la settimana alla finestra, in ginocchio su una sedia ad aspettare”. Al contrario il fratello Sen, che già fuma e si atteggia ad adulto, non vuole incontrare la madre di tanto in tanto” come se fosse una zia “e non va mai all’appuntamento. La narrazione ha inizio con l’ultima passeggiata di Omar insieme alla madre quando “le finestre tremarono, i colombi si scagliarono in volo, la girandola girò e cadde dal vaso, ma il bambino non se ne accorse: una raffica d’aria lo strappò all’abbraccio scaraventandolo via….”corri!” Il bambino girò di scatto la testa: era la voce di sua madre, ma da dove veniva? ”Mamma “. La cercò nella calca…”Dove sei” gridò correndo…” Da questo momento Omar  vive  nella speranza di ritrovarla viva, “Non aveva mai avuto un amico, non aveva mai anelato la compagnia di nessuno, a parte la madre, il fratello. Ma ora quella bambina era diventata un desiderio”. La  piccolaNada è stata abbandonata dalla madre, trascorre il tempo a disegnare da sola, è taciturna e cerca di nascondere la mancanza di un anulare per non essere derisa o offesa dagli altri bambini. Il suo nome in serbo significa Speranza e per Omar soprattutto rappresenta la possibilità di un affetto, di una solidarietà. Quando l’orfanotrofio viene bombardato tutti i bambini sono trasferiti in Italia su un pullman dell’O.N.U. Durante il viaggio Omar, Sen e Nada conoscono Danilo, un ragazzo benestante che la famiglia, umiliata dalle violenze dei soldati, incita ad abbandonare Sarajevo per sottrarsi ai pericoli e all’abbrutimento della guerra. Da questo momento le loro vite s’intrecciano in un sodalizio che surroga il legame con la famiglia, lontana o inesistente, con la terra d’origine, con la lingua, che purtroppo cominceranno a dimenticare. Sen e Danilo reagiscono subito positivamente allo sradicamento dalla loro terra, vogliono vivere, inserirsi nella nuova società e lasciarsi il dolore alle spalle. Omar invece resta per sempre legato alla madre, al rimorso di non averla cercata dopo l’esplosione e, diversamente da Sen, rifiuta l’inserimento nella famiglia adottiva e nella scuola. Nada non viene adottata forse per il suo carattere ribelle e rimane nell’istituto che l’ha ospitata da profuga, coltivando la sua passione per il disegno, fino a quando, dopo una breve relazione con Danilo,  non mette al mondo  un figlio e deve trovare un lavoro per mantenerlo. Danilo, preso dagli studi e dalla volontà di affermarsi, di fidanzarsi con una ragazza italiana, non dà più notizie di sé a Nada e per nove anni sarà ignaro anche della sua paternità. Ne viene a conoscenza quando è già sposato e sta per avere una figlia. Omar invece si è isolato da tutti, vive con disagio la sua condizione sempre tormentato dai suoi fantasmi.  La narrazione, suddivisa in quattro parti secondo un ordine cronologico, variato talvolta dall’analessi, si svolge in terza persona, tranne nel capitolo 55 della quarta parte in cui è Nino, il figlio di Nada, il figlio della speranza, a raccontare. Solo attraverso questo bambino, amato ed accettato da tutti, anche se il padre non gli si rivela e resta soltanto come amico, può sciogliersi il nodo esistenziale di Omar. Ma questo è anche un modo per ribadire il tema fondante del romanzo: la complessità spesso drammatica della relazione figli – genitori. Figli perduti e ritrovati, ma anche figli rifiutati o figli semplicemente amati, naturali o adottivi. Attraverso la storia dei protagonisti, prima bambini, poi adulti, viene ribadita l’importanza dell’infanzia che determina la vita di ciascuno. Per loro l’esperienza della guerra è stata particolarmente tragica perché ha sconquassato l’ambiente in cui bene o male provavano a vivere. Il romanzo affronta anche altri temi come quello dell’identità culturale costituita dalla lingua e quello religioso, come assenza di Dio dalla storia e dalla vita di ciascuno: “Ma Dio era in esilio, lo era sempre stato” e di conseguenza quello della teodicea. La crudezza della guerra è affidata alle pagine in corsivo che completano la narrazione, avvicinandola al romanzo storico. In una di queste si legge intero lo sgomento della scrittrice, che si fa interprete del rovesciamento dei valori operato dalla guerra:  “Per chi le scrivo, queste pagine, io? Per la morte di una zanzara sul muro della mia stanza, per la morte che è ovunque, mentre voi parlate della vita, e la chiamate dono… Ma se la vita può putrefarsi nel buio fetido di un cassonetto, allora è nascere il peccato”. Ma anche la sua determinazione a dare un senso universale alla sua opera sollevando il velo dei luoghi comuni e conferendo alla scrittura il compito di svelare il vero senso delle azioni degli uomini. Il titolo del romanzo è un verso di Izet Sarajlic, poeta, storico, filosofo bosniaco, tratto da “Cerco la strada per il mio nome”: “Cosa facevo io mentre durava la storia?/ Mi limitavo ad amare te.” L’apprezzamento del romanzo è certamente legato alle qualità dello stile narrativo e del linguaggio preciso e sintetico, ma anche al periodo storico che stiamo vivendo, all’aggressione dell’Ucraina dove si ripetono le violenze e le atrocità proprie di ogni  guerra.

GABRIELLA MAGGIO

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“Il grande progetto” di Maja Herman Sekulić, recensione di Lorenzo Spurio

Recensione di Lorenzo Spurio

Il grande progetto. È un titolo poderoso, che non può passare inosservato, quello che campeggia sulla copertina di questo libro edito da Il cuscino di stelle di Pereto (AQ), casa editrice gestita da Armando Iadeluca particolarmente attenta alla cultura internazionale, alle opere di poeti in giro per il mondo, magicamente “versate” nel nostro idioma dalla poetessa e traduttrice bolognese Claudia Piccinno.

Questa volta la Piccinno ci presenta l’opera di una poetessa di origini serbe di sicuro spessore: Maja Herman Sekulić; a testimoniarcelo è anche la prefazione di Dante Maffia, noto poeta e cultore letterario la cui adesione al progetto editoriale, oltre a impreziosirlo, ne detta in maniera energica e incipitaria il valore e il prestigio tanto dell’autrice quanto della sua opera.

Nutrita di successi e di avvenimenti entusiasmanti è la carriera letteraria della Sekulić che, per motivi di brevità, cerchiamo di passare in rassegna tra i tratti che sembrano particolarmente distintivi. È nata a Belgrado, capitale della Serbia, nel 1949; oltre ad essere poetessa – veste per la quale la Piccinno l’ha scoperta e ce la fa conoscere – è scrittrice, saggista e traduttrice. Le sue origini, miste, la vedono come figlia tanto dei Balcani quanto degli USA sebbene nel suo lungo percorso non sono mancati periodi di formazione e permanenza anche in altri paesi tra cui la Francia, l’Inghilterra, la Germania e l’Italia. Attualmente si divide tra New York e Belgrado ed è membro di spicco della Serbian Literary Association e della Serbian Literary Society. Ha insegnato alla prestigiosa Princeton University nel periodo 1985-1989 e alla Rutgers University dal 1982 al 1984, è stata inoltre lettrice alle Università di Harvard, dello Iowa e altre ancora. Collaboratrice di associazioni e realtà culturali di vari paesi, ha preso parte a riviste. Il suo impegno culturale è stato volto anche al sostegno nei confronti di un’idea unitaria di cultura e lingua che unisse le varie anime del popolo balcanico, un tempo stato unitario e ora frammentato in varie repubbliche tanto che nel 2017 sottoscrisse la Dichiarazione sulla lingua comune per Croati, Serbi, Bosniaci e Montenegrini, progetto che, se da una parte apparve come utopistico, senz’altro era mosso da nobili e alti intenti.

Avvicinandoci alla produzione letteraria della Nostra va rivelato che si tratta di un’autrice prolifica avendo all’attivo una quindicina di volumi pubblicati, tra raccolte di poesie, romanzi, saggi critici, dissertazioni che vanno ad aggiungersi a una copiosa presenza di recensioni, prefazioni e testi apparsi in riviste, antologie e volumi di terzi. Una intellettuale, dunque, completa: non solo interessata ai suoi libri e a rincorrere le spire della sua creatività, ma in continuo e attento dialogo con il mondo, in confronto con la realtà culturale, autrice di volumi, ma anche fine critica e studiosa. I suoi volumi sono stati pubblicati tanto in lingua serba che in inglese e, nel caso del volume in oggetto, grazie all’intermediazione linguistica della Piccinno, in italiano. Sue opere singole, tra cui componimenti poetici, hanno visto la luce anche in altre lingue tra cui il francese e il tedesco. Per la poesia ha pubblicato Kamerografija (Camerography)[1] nel 1990; Kartografija (Cartography) nel 1992; Iz muzeja lutanja (Out of the Museum of Wondering) nel 1997; Iz puste zemlje / Out of the Waste Land[2] (1998); Lady of Vincha / Gospa od Vinče nel 2017. Copiosa la produzione narrativa mentre, per la saggistica, segnaliamo il volume Skice za portrete / Sketches for Portraits che contiene una raccolta di colloqui con amici, autori americani e internazionali, da Joseph Brodskj a Bret Easton Ellis; Prozor u žadu (1994), un libro che contiene saggi e divagazioni elaborate durante una serie di viaggi nel sud Est Asiatico tra cui in Tailandia, Vietnam, Myanmar e Cambogia; Who was Nikola Tesla? The Genius who gave us Light (2015) un saggio interamente dedicato allo scienziato Nikola Tesla (1856-1943), illustre serbo e inventore, tra le altre cose, della lampadina con accensione senza fili. Autrice anche di racconti per l’infanzia e, per quanto attiene al mondo della traduzione, rilevante è stato il suo apporto nel far conoscere alla comunità internazionale una serie di poeti serbi che ha tradotto in inglese.

Avvicinandoci al volume Il grande progetto (2020) è impossibile non riportare – dato l’acume critico e la grande espressività figurativa del tono – alcuni estratti della dotta prefazione di Dante Maffia, nella quale è possibile leggere: «È libro impegnato e lirico insieme; libro che sa porre l’accento sulla condizione umana e sui valori; libro che sottolinea in maniera dolce e corale, […] le ragioni delle radici; libro […] civile […] che pone in essere problematiche vive, palpitanti, attuali, a cominciare dallo sfaldamento della Jugoslavia fino ad arrivare alla pandemia del coronavirus» (6).

Ed in effetti dell’autrice serba si apprezzano la vastità dei riferimenti e delle intenzioni se pensiamo, che nella scelta di liriche qui tradotte dalla Piccinno, si parla di molti argomenti diversi, apparentemente distanti e slegati tra loro. Tuttavia, se ci si avvicina con attenzione e si cerca di capire il retroterra nel quale determinate riflessioni sono nate, ben si comprende come ogni ambito del quale la Nostra parla sia irrelato e contiguo alla sua sostanza vitale, in altri termini alla sua biografia. È la vicenda di una donna che è nata ed è vissuta in un Paese che non c’è più, com’era allora, continuamente rivisto dalle soluzioni e derivazioni della storia, a seguito di dittature, guerre e trattati a tavolino. Si parte, dunque, dai Balcani delle origini, per passare poi, sull’onda di vari viaggi effettuati in giro per il mondo, a una selezionata scelta di liriche che concernono la visita al vecchio regno di Burma, la Birmania dei nostri testi scolastici, oggi Myanmar, quel paese tanto distante sulla carta geografica che da tempo vive la nefandezza di una spietata dittatura militare.

È la stessa autrice a informarci che la poesia “Figlia di Sisifo” è espressamente rivolta a ricordare un fatto denigratorio per l’umana specie, quello delle barbarie della dittatura titina sulla Jugoslavia. Il componimento che segue, “Una genealogia del ventesimo secolo”, diviso in tre ampie e articolate stanze, è stato inserito con la volontà di introdurci a un pensiero ricorrente nella Nostra, quello del dissidio insito nelle terre dei Balcani che ha condotto a guerre logoranti ma anche alla sua formazione di donna e intellettuale composita, mitteleuropea, dotata di una ricchezza culturale e umana emanata e consolidatasi proprio in ragione di un sincretismo culturale e di una grande fiducia nella promozione dell’istituto della solidarietà empatica e partecipativa. «Una parte di me è vecchio / sangue mitteleuropeo / una fetta di torta sacher inattiva / su una terrazza ad Abazia / […] Quanto sono lontani gli altopiani / da Agram?// […] // L’altra metà, quella sinitra, / proviene dal proletario, dal popolino, / da arterie contadine / di rifugiati tedeschi, rivoluzionari del 1848 / […] / Il palazzo di Eltz, ricordato / nel libro di Magris»[3] (13-14): nel giro di pochi versi la poetessa ricostruisce il legame con la terra, percepisce la sua eredità di cittadina europea, nelle sembianze delle tipicità delle terre a lei più o meno contigue, nelle tradizioni nazionali, nei respiri di etnie che sente, nei prodromi e nella sensibilità, a lei genitrici e amiche al contempo.

La Sekulić tocca continuamente i temi dell’appartenenza storica e geografica e con essi anche quelli della memoria, della resistenza, delle lotte civili, dell’universo di coloro che hanno sofferto la repressione, la violenza, di chi ha dovuto espatriare, tentare rifugi di fortuna, abbandonare il proprio Paese, riscrivere la propria vita, elaborare lutti, confrontarsi con l’altro: «Scriviamo una nuova toponomastica, / gli indirizzi, / […] / Siamo tutti nati / di nuovo. / Tutti rifugiati» (16).

Nel volume c’è una poesia dedicata al grande scienziato Nikola Tesla sul quale la Nostra ha scritto un saggio che ripercorre la sua vita e la sue importanti scoperte che hanno dettato un miglioramento nella vita dell’uomo contemporaneo: «cercando di entrare nella sua testa / […] / su come ha illuminato la prima città con l’elettricità / di come ha scoperto le onde magnetiche / e riguardo all’energia terrestre / […] / viviamo / nel suo mondo / come lui vive / nella mia poesia» (19).

Colpisce della Nostra la sua capacità di coinvolgimento e il sincero interesse e trasporto che nutre in relazione a episodi, manifestazioni e realtà che geograficamente non la riguardano direttamente e da vicino ma con le quali sente affinità, vicinanza, solidarietà, nutrendo partecipazione alle sorti di genti lontane. È il caso, ad esempio, della realtà delle donne yazide di cui accenna nella poesia “Le Super Lune”. Parimenti si raccolgono – come già ricordato – alcune poesie scritte in Birmania, durante una sua permanenza nella penisola asiatica, nelle quali ci affresca il potente fiume Irrawaddy, il più grande del Paese con una lunghezza di circa duemila chilometri e l’accecante cupola color oro della Pagoda Shwedagon Paya nella vecchia capitale Yangoon.

A costellare alcune liriche del volume sono delle chiose introduttive da altrettante opere letterarie, principalmente della letteratura inglese, da Samuel Taylor Coleridge nella “romantica” Ballata del vecchio marinaio alla romanziera Elizabeth Bishop.

Lo sguardo sociale non è restio al cambiamento dei tempi correnti difatti la poetessa non si esime dal dedicare un componimento – di indubbia efficacia e pathos – al dramma relativo alla situazione pandemica del Covid-19. In questo testo, che la poetessa ha voluto “leggere” e inserire nel contesto del nostro Belpaese con riferimenti a Roma e Venezia e un collegamento con la sua seconda casa, gli Stati Uniti, si legge: «Il Corona ha attraversato l’Oceano. / Mangia la Grande Mela dal centro. / La pandemia globale di Wuhan ha irrevocabilmente cambiato il mondo» (40). Ed è su quel “irrevocabilmente” che la poesia intende porre i suoi quesiti attorno a questo presente labile e insicuro che attualmente cerchiamo di vivere, riappropriandoci lentamente dei nostri spazi con tanto disagio e insicurezza, perturbati da un’ansia che sembra difficile da allontanare, dopo che i nostri occhi sono stati spettatori silenti e partecipi del dramma: «Roma città eterna e deserta / […] / Milano sanguina. Bergamo singhiozza» (40). E così, ogni altro angolo del mondo. Il ripristino della normalità e la disinfezione dal Male purulento che ci ha devastato vengono iscritti dalla Sekulić in un ipotizzabile e speranzoso intervento divino da parte della dea Sunna (della tradizione nordico-germanica), sembianza di luce salvifica, affinché possa «rianimar[e] la Terra e ripulir[la] [da] tutte le cellule del mio essere» (40).

LORENZO SPURIO

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[1] Il titolo dell’opera è in lingua serba translitterata in segni grafici dell’alfabeto internazionale e, tra parentesi, tradotto in inglese.

[2] Edizione bilingue serba/inglese.

[3] La “torta Sacher” fa riferimento all’Austria di cui è uno dei dessert tipici; la città di Abbazia, un tempo italiana, è oggi croata e nota con il toponimo Opatija e appartiene alla regione litoraneo-montana della Croazia ed è adagiata sul mar Adriatico. “Agram” starebbe per Zagabria, capitale della Croazia, termine in tedesco utilizzato dalla Nostra nel corso della poesia. Il “Palazzo di Eltz”, più propriamente il “Castello di Eltz” è un castello dall’architettura fiabesca stile disneylandiano situato nelle prossimità di Wierschem sulle colline che sovrastano la Mosella tra Coblenza e Treviri, in Germania.

Zagreb di Arturo Robertazzi

 Zagreb di Arturo Robertazzi

Aisara Edizioni, Cagliari, 2011, pp. 124

ISBN: 9788861040748

Recensione di Lorenzo Spurio

Il romanzo di Arturo Robertazzi, giovane autore italiano residente a Berlino, è come un pugno sullo stomaco. Non lascia indifferenti. E’ un romanzo di guerra. Ma non parla molto di trincee, combattimenti o scontri corpo a corpo. Narra di una guerra già vinta e della malvagità d’animo di coloro che possono considerarsi i “vincitori”.  L’incipit è così diretto e tagliente da risultare sconvolgente nel lettore: «Quel mattino era un bel mattino. Facemmo fuori quattro persone» (7).

Quello che colpisce, ancor più della serie interminabile di fucilazioni che il protagonista assieme al collega sanguinario Alex deve compiere su richiesta del Comandante, è come l’uomo riesca ad essere tanto malvagio nei confronti dei suoi simili. Il protagonista riconoscerà in quei tanti occhi e tante gambe che affollano le celle quelli del suo professore ma non è addolorato né tantomeno disturbato dal fatto che alcuni giorni dopo sarà proprio lui a doverlo uccidere proprio perchè «il professore era uno di loro» (17). C’è un continuo contrasto nel romanzo tra noi e loro, due entità contrapposte che stanno a significare i due diversi bandi del conflitto che però non vengono mai nominati in maniera esplicita. A chi si riferisce il ‘loro’, alla gente che ha «stessa lingua, stessa religione, stessa faccia» (13)? Non è semplice dirlo perché non ci sono chiari riferimenti e spiegazioni in tal senso. Se ci rifacciamo al titolo, Zagreb, ossia Zagabria in lingua croata, possiamo allora immaginare che abbia qualcosa a che fare con una qualche guerra che ha riguardato la Croazia. Allora viene alla mente il conflitto serbo-croato degli anni ’90 tragicamente noto per le violente pulizie etniche di Milosevic e la strage di Srebrenica.

Dunque loro sono i croati o i serbi? Robertazzi non nomina mai i nomi dei due popoli ma pochi e celati elementi ci consentono di capire che i “noi” sono i serbi, gli aguzzini, i persecutori, gli assassini e i “loro” i croati, un popolo diverso per lingua, religione e cultura che reclama la sua indipendenza. Credo però che Robertazzi, pur facendo riferimento a un particolar contesto geografico, non voglia delimitare il campo d’analisi e di riflessione su questa storia. Non si riferisce solo ai croati, ma anche agli albanesi del Kossovo, all’etnia Tutsi in Rwanda, ai cattolici in Somalia e così via, solo per citare alcuni esempi. Si riferisce cioè, in maniera più estesa, a tutti i popoli, alle etnie, religioni, entità linguistiche che hanno dovuto soffrire violenze da parte del nemico, essere torturate, deportate, messe a tacere, assassinate nei peggiori dei modi. Allora il libro va letto come una metafora di ogni totalitarismo ma anche di ogni fondamentalismo religioso. Non è importante il contesto storico-geografico che circonda una storia di questo tipo che è analoga per la sua insensatezza e spietatezza dell’animo umano a miliardi di altre storie.

Robertazzi ci offre così con un linguaggio spigliato e diretto uno squarcio di guerra che più drammatico non potrebbe essere; i vinti, i prigionieri, oltre ad aver perso la loro battaglia hanno perso la loro dignità e, così come vengono descritti, non hanno più nessuna parvenza di umanità: vengono descritti come animali, come topi. La loro condizione di perdenti, sottomessi, vinti li eguaglia a una sorta di regressione allo stato bestiale, che è dissacrante e invereconda: «Non erano uomini, non più. Quello che mi appariva, invece, era una creatura informe con cento occhi e cento gambe. Ogni cella, cento occhi. Ogni cella, cento gambe. Ogni cella, un’unica Bestia terrorizzata» (15).

L’aspetto che più ritengo encomiabile di questo romanzo è la scrittura espressionistica, come se Robertazzi dipinga una tela a pennellate quando ci fornisce episodi crudi, violenti, come quello dell’estrazione di una pallottola dal ginocchio dell’amico ferito. E’ questo laconismo struggente, questo frammentismo evocativo a rappresentare il vero punto forte di tutto il romanzo. Ma la storia è avvincente anche perché è originale: il violentatore, il soldato vincitore che prima ha dalla sua parte le armi per minacciare e offendere chiunque passa poi all’altra sponda, a cercar di rifuggire la Bestia. Quella violenza cieca che domina in entrambi gli schieramenti in ciascuna guerra. E così il giovane Emir, bambino che ha dovuto indossare gli abiti del cecchino, quando il protagonista gli dice che assieme andranno in Italia, in un paese dove non bisogna combattere, il bambino osserva: «Ma… se in Italia non c’è la guerra,cosa si fa?» (61).

Ogni guerra ha le sue violenze, i suoi massacri, le sue stragi e i suoi soprusi. In questa narrazione Robertazzi fa del Cane l’emblema malvagio dell’animo umano, della perversione sadica portata ai massimi livelli, della bestialità e della freddezza del comportamento del militare “vincitore”. Il Cane spara e uccide uomini quasi con la stessa frequenza con la quale respira. La sua giornata è fatta di fucilazioni sommarie quasi che, come un vampiro di una storia fantasy, è assetato da questa voglia di sangue, da questo desiderio di veder scorrere via la vita dai corpi. Se pensiamo al contesto serbo-croato allora possiamo vedere nell’efferatezza del Cane (non tanto in quella del Comandante) personaggi come Mladic o Milosevic, sterminatori, criminali e violentatori dei diritti umani. Ma come si diceva all’inizio Robertazzi elimina al massimo le indicazioni che ci consentano di circoscrivere la storia e allora nel Cane possiamo vedere Hitler, Mussolini, Franco, Caesescu, Saddam Hussein o Gheddafi. Non solo. Il Cane è un personaggio che si fa metafora del male, della violenza, dell’indifferenza verso l’altro, aspetti che, pur fuori dal contesto bellico, possiamo trovare in alcuni uomini che ci circondano. E’ il marchio di un male atavico che è presente nel mondo perché vivo nei recessi di spietati cuori di ghiaccio.

LORENZO SPURIO

9 Luglio 2011


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