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Invisibili tracce percorrono le pagine dei libri a scolpire la forma dei tanti significati. Nell’ariosità di un esser luogo di verità segrete – ma da scoprire là dove avviene il confronto dialettico –, ciascun libro manifesta un’identità rotonda lungo le fasi di un processo creativo, spogliandosi di qualsiasi declinazione lo collochi entro i confini di sequenze di coordinazione e subordinazione, e agendo in favore dell’organica verità di un io fedele a immagini che si trasportano all’esterno al pari di un mosaico da visualizzare in un’incessante, quanto intrepida, formazione.
Senza riserva alcuna, l’orientamento sembra indugiare laddove «le realtà» dei libri allestiscono uno scenario di attraversamento in virtù di una forza che è tanto di compensazione, quanto rivelatrice di un crescendo nel cui riflesso vibra l’eco della tessitura narrativa di Virginia Woolf – unica e irripetibile nel pieno di un’identità dei tanti io confluenti in una scrittura che è specchio personale, stretta in una complicità con quanto all’occhio (in)fermo sulle facciate esterne delle cose è negato; intollerante nei confronti di tutto quanto rimarchi la passività sospesa sulla superficie.
In occasione dei centoquarant’anni dalla sua nascita (nacque, infatti, nel 1882), è a Virginia Woolf, alla sua semantica dell’essere che dedico quel che mi piace definire un breve viaggio che mi permette di esplorare la tematica assai cara di quel che il libro è, vale a dire, specchio di un io molteplice e variabile; specchio di un io da scrivere a lettere minuscole per sottrarsi al predominio della parola «Io» e per l’aridità che provoca la sua ombra (…)1. Al centro di questa tessitura è l’intimità di una coscienza che dà voce alla particolare abilità narrativa di Virginia Woolf, e che ancor oggi invita il lettore a lasciarsi sorprendere dalla (…) illusione che non siamo incatenati in una mente sola, ma che possiamo assumere brevemente, per qualche minuto, i corpi e le menti degli altri (…).2 Nell’entrare in un contatto diretto con i mondi unitari dei tanti io che si riflettono nei suoi libri, ci viene altresì concessa l’occasione di penetrare il circuito delle elaborazioni immaginative calibrate in una realtà che, infine, diventa a noi familiare. Che sia questo uno degli obiettivi della sua creatività narrativa?
Avida lettrice ella stessa – coinvolta in prima persona nell’esercizio di un’intuizione che le permette di offrire qualcosa che non sia effimero al lettore affinché possa entrare in familiarità con l’intera forma del libro – Virginia Woolf è sempre presente ad accompagnare la lettura-esplorazione dei vari aspetti correnti delle sue opere letterarie, aspetti che, esattamente dai suoi scritti «altri» (e tutt’altro che marginali) – biografie, diari, lettere, saggi –, promanano a modellare i suoi pensieri.
«Esiste una qualche qualità del pensiero che può esser resa visibile senza l’ausilio delle parole? Essa deve possedere la rapidità e l’indolenza; saettare con immediatezza ed evanescenti perifrasi. Ma possiede anche, soprattutto nei momenti d’emozione, la forza di creare un’immagine, la necessità di scaricare il fardello sulle spalle di un altro; di permettere ad un’idea di filare via al suo fianco. La rappresentazione del pensiero è, per qualche ragione, più bella, più accessibile, più disponibile del pensiero stesso.3»
Seguendo questa esplicita linea di condotta, ci avviamo, quindi, alla ricerca dei dettagli segreti dai quali la forma risale a farsi preambolo di un mosaico delle relazioni che alla scrittura woolfiana danno alito di vita; scopriamo come le sue operazioni letterarie siano specchio delle esperienze di un vivere unico e, ancora, configurino la parabola crescente delle sonorità che una coscienza vigile costruisce a partire da un progetto cadenzato da tempi intensamente individuali, nei quali le cose vivono la loro interezza, refrattarie nei confronti di una letteratura arroccata a replicare gestualità plastiche, quanto impregnate di un’inautenticità che ne marca l’egoistico isolamento. Rotondo e pertinente quanto la stessa Virginia Woolf scrive:
(…) mi rendo conto con maggior chiarezza –– come la vita di ciascuno sia un mosaico di pezzi e come per capire una persona occorra considerare come un pezzo sia compresso e l’altro incavato e un terzo si espanda, e nessuno sia realmente isolato; (…)4
L’uscita dal cerchio delle convenzioni sta alla base di quella che può essere identificata come l’idea che la Woolf mette in pratica con uno stile narrativo che le è di aiuto nel sottrarsi a un controllo esterno che spinge a regolare e, per questa via, a logorare la coscienza di un io versato al continuo emanciparsi da quel che altri non è che uno schema prevedibile e che ai suoi occhi appare indifferente a qualsiasi suggestione, a qualsiasi tentativo di affrontare l’ardito compito di penetrare la superficie (La mente umana è tanto suggestionabile che la ripetizione di questo unico termine – Virginia Woolf si riferisce al romanzo – crea un danno considerevole. Il lettore arriva a pensare che, siccome tutte queste varianti di libri hanno lo stesso nome, devono avere anche la stessa natura5).
Ci troviamo, quindi, al cospetto di una vera e propria rivoluzione culturale che affida ai libri il delicato ruolo svolto dalle parole: di fatto, così come le parole elaborano cerchi vibranti di emozioni, i libri-realtà scenica della Woolf modellano le fasi dell’esistere sollevandole dal peso di qualcosa di permanente e, al contempo, di effimero sospeso nell’esclusiva contrazione frontale che lo specchio dell’opinione altrui rimanda6. Un artifizio, questo, a danno di un sentirsi parte della realtà, se non, addirittura, un voltar le spalle alla vita, a cui la Woolf risponde propendendo per un’immagine panoramica, nella quale l’unione di detto e di non detto delle cose traccia il territorio chiaroscuro di concretezza e creatività in quello che è, per lei, specchio narrativo di un’identità scomponibile:
«Supponiamo che lo specchio si infranga, l’immagine scompaia, e che non ci sia più la romantica immagine tutta circondata dalla profondità di verdi foreste, ma rimanga solo quel guscio di persona che gli altri vedono – che mondo senz’aria, piatto, nudo, banale sarebbe quello! Un mondo dove non poter vivere. (…) E i romanzieri in futuro si renderanno conto sempre di più dell’importanza di queste immagini riflesse, perché naturalmente non c’è una sola immagine, ma un numero quasi infinito; quelle sono le profondità che esploreranno, quelli i fantasmi che inseguiranno, lasciando sempre più fuori dalle loro storie la descrizione della realtà sempre più fuori dalle proprie storie, dandone per scontato la conoscenza, (…)7»
Da quest’immagine di insieme è possibile trarre un’idea quasi pionieristica, secondo la quale il libro crea tutto all’interno di sé8 agendo su un piano che, proattivo alla scomposizione-ricomposizione, rinnova la genesi narrativa delle cose in una visione che ne coglie l’interezza affidandosi agli slanci possibili di una (auto)coscienza lungo l’essenzialità dell’oltremente, lungo, cioè, quel territorio che si forma a partire dalle cose (il «libro stesso» – avverte la Woolf –non è forma visibile, ma emozione sensibile, e quanto più intense sono le sensazioni dell’autore, tanto più esatta, priva di scivoloni o crepe è la loro espressione verbale9). A voler guardare fino in fondo, ciascuna operazione narrativa è, di fatto, assimilabile a una piccola, ma decisa rivoluzione adottata ai fini di uno stravolgimento dei ruoli. Ed è, infatti, uno stravolgimento che permette alla Woolf di individuare l’equilibrio idoneo a rendere l’unitarietà di due mondi (beninteso, quei mondi che la letteratura allineata ai soli fatti distingue su fronti oppositivi: il mondo della ragionevolezza da una parte e il mondo della sensibilità dall’altra). Nella tessitura woolfiana i due mondi sono tutt’altro che sovrapponibili: al contrario, essi aderiscono continuamente nel reinventare una coerenza del tutto personale e che si manifesta in un ordine sempre nuovo di parole impresse di significati. In concomitanza, nella tessitura narrativa woolfiana le due forme mondane provvedono all’architettura di un territorio in persistente costruzione, talora incedendo a piccoli passi – dove vige il rigoglio di una meditazione che rende prominente l’invisibile e rigenera l’ambiente di bisbigli e di ricordi che sopraggiungono con fervida immaginazione; talaltra, amplificandosi fino a sollecitare la correlazione concreta di spazi incisi da segrete intonazioni. A trarne vantaggio non è la sola libertà d’espressione, quanto lo scenario che permette di recuperare nei libri lo specchio di un io di volta in volta intero (dove manca una mescolanza di questo genere, l’intelletto sembra predominare e le altre facoltà mentali indurirsi e isterilirsi10).
Ancora una volta, il pensiero estetico di Virginia Woolf appare fondante all’idea di un processo che ha svolgimento sulla pagina in una varietà di cromie, di relazioni mai replicabili, quanto di inattese divergenze, dalle quali ricevere una visione allo specchio – che, pertanto, – è immensamente importante, perché carica la vitalità11. Ed è proprio questa distintività a restituire l’effigie di un’artista della parola e che tale è nella misura in cui, sottraendosi a qualsiasi forma di corruttibile dis-memoria, si lascia cogliere nell’atto di comporre un lavoro che è incontro e che dell’io rimanda la metonimia di complete sensibilità (Il nostro vero io è questo che si trova sul marciapiede, in gennaio, o è quello che si affaccia al balcone, in giugno? Sono qui, o sono là? O forse la nostra vera personalità non è né questa né quella, né qui né là, ma qualcosa di così vario e vagabondo che soltanto quando diamo libero sfogo ai suoi desideri e le permettiamo di fare ciò che vuole senza alcun freno, siamo finalmente noi stessi?12). Non solo: nell’universo woolfiano la visione della realtà vibra di arte nel momento in cui la capacità comunicativa rigenera un quadro schietto di quel che accade quando all’azione del guardare si sostituisce un occhio che «non si accontenta» di ristagnare nell’abitudine (L’occhio non è un minatore – ella scrive – nonè un sommozzatore, non è un cercatore di tesori sepolti. Ci trasporta dolcemente sulla corrente, si riposa, si sofferma, forse il cervello dorme mentre guarda13). Evidente come la stessa Virginia Woolf viva intimamente la realtà in tutte le intonazioni e le traduca poi con un linguaggio nel quale convergono tanto la parola-pensiero divergente, quanto la consistenza e l’emozione in un intreccio che, innanzitutto, conferma l’azione del leggere le cose prima di procedere al loro cruciale smontaggio e riposizionamento conseguente, tale che l’esperienza del libro echeggi di una coralità necessaria a rendere accessibili le stanze metaforiche che compongono la struttura mentale di una realtà che è sì flessibile, ma altresì duratura:
«(…) noi siamo urne sigillate galleggianti su quella che per convenienza chiameremo la realtà; in certi momenti, senza alcun motivo, senza sforzo alcuno, si apre una fenditura nel sigillo; e la realtà ci invade; cioè una scena – e queste non sopravviverebbero intatte a così tanti rovinosi anni se non fossero fatte di una sostanza durevole; questa è la prova della loro “realtà”. È questa suscettibilità ad accogliere scene l’origine del mio impulso a scrivere? (…) S’intende che io ho coltivato questa facoltà, perché in tutti i miei scritti (romanzi, critica, biografie) ho quasi sempre dovuto costruire delle scene; quando scrivo di una persona devo trovare la scena che meglio rappresenta la sua vita; e quando scrivo di un libro devo trovare la scena rappresentativa nei versi o nel racconto. O forse non si tratta della stessa facoltà? 14»
È assai comprensibile, a questo punto, il modo in cui il libro diventi artefice primario di effetti simili ai bisbigli prodotti da fotografie strappate di getto e ricomposte seguendo un ordine che ha origine da un’intuizione, vieppiù aprendo le proprie stanze metaforiche alla piena consapevolezza delle cadenze della realtà. A tali cadenze Virginia Woolf non riserva né il distacco, né l’estraneità, né, tantomeno, ad esse affida un ruolo secondario. Su questo versante ci spingiamo ad interpretare la sensibilità con cui la Woolf penetra i meandri significativi di una vita nel suo incessante scorrere, per poi unificarne i bisbigli in una narrazione poetica:
«La vita è quello che si legge negli occhi della gente; la vita è ciò che essi imparano, e, dopo averlo imparato, mai cessano, per quanto tentino di nasconderlo, di essere consapevoli – di cosa? Che la vita è così, pare.15»
Quel che avviene lascia trapelare la profondità di un segreto codice che dà forma a una vera e propria sintesi poetica. Una sintesi conclamata da simultaneità – come tale è la poesia, nella quale le immagini si susseguono incessantemente, senza ordine e incontrollate16 – nel momento in cui a un allineamento di fatti per sequenze che infila, uno dietro l’altro, il prima, un egoistico durante e un qualsiasi fumoso dopo, replica con una diversa direzione anche nell’uso puntuale e rigorosamente personale della punteggiatura, che pure interviene a tradurre il ritmo delle emozioni su un piano lirico di ombre e mezze luci .17 Così lo scrivere di Virginia Woolf si associa a un abitare le intimità della vita e si diffonde tra le pagine dei libri: questo il territorio del confronto e questo, ancora, è lo spazio unitario di una narrazione che la vede una e nuova di volta in volta (Come si può imparare a scrivere, se si scrive soltanto sulla stessa persona?18). Parimenti, dai libri-evento scaturisce un’immagine che non si posiziona mai a definirsi, né a concludersi in un guscio solitario e sono gli stessi libri a guidare la svolta: non già «nello» specchio i libri-creatura di Virginia Woolf si trattengono, giacché, intrappolati nell’inquadratura del riflesso, tenderebbero a rimpicciolirsi in una postura contraffatta, esaurendo, finanche, il valore del dire in un oblio che nella frontalità si protrarrebbe indistinto. Su un altro versante è il comportamento che anima i libri-specchio dell’io woolfiano: rimando all’autenticità di un continuo iniziare, a una varietà di voci estensibili in una compiutezza che evoca la perenne impressione che le cose procedano contemporaneamente a livelli differenti.19
NOTE
* Il titolo del presente saggio è ripreso da una definizione che Virginia Woolf attribuisce a se stessa nella lettera indirizzata alla sorella Vanessa in data 19 aprile 1932:
(…) questa lettera, anche se è una lettera terribile per una scrittrice nata – e non puoi negare che io lo sia – non una brava scrittrice ma una scrittrice nata – (…) è lunga e appassionata, e piena delle più delicate sebbene tacite emozioni – ma non sono proprio questi – quelli taciti – i sentimenti più delicati?
Da Lettere 2573-2585 – Aprile-maggio 1932, in «Falce di Luna – Lettere 1932-1935» (1978), a cura di N. Nicolson e J. Trautmann, Einaudi, Torino, 2002, p. 63
V. Woolf, Una stanza tutta per sé (1929), Newton Compton, Roma, 1993, p. 85
V. Woolf, A zonzo per le vie di Londra (saggio pubblicato su Yale Review, 1927, e raccolto nel volume postumo The Death of the Moth and Other Essays, 1942), in «Sono una snob? (1936) e altri saggi», Piano B edizioni, Prato, 2010, p. 53
V. Woolf, Sul Cinema (pubblicato sulla rivista Arts, 1926; successivamente su Nation and Aetheneum, New Republic), a cura di S. Matetich, Mimesis, Milano, 2012, p. 13
V. Woolf, Momenti di essere – scritti autobiografici (1976, pubblicazione postuma), La Tartaruga Edizioni, Baldini & Castoldi S.p.A., Milano, 2003, p. 38
V. Woolf, Che cos’è un romanzo? (pubblicato in Weekly Dispatch, 27 marzo, 1927), in «Voltando pagina – saggi 1904-1941» – a cura di L. Rampello, il Saggiatore, Milano, 2011, p. 243
Cfr. V. Woolf, The Common Reader (1932), Vol. II, Vintage Classics, London, 2003, p. 89:
Nothing exists in itself. (…) All value depends upon somebody else’s opinion. For it is the essence of this philosophy that things have no independent existence, but live only in the eyes of other people. It is a looking-glass world, this, to which we climb so slowly; and its prizes are all reflections.
Traduzione a cura dell’autrice del presente saggio: Nulla esiste in sé. (…) Tutti i valori dipendono dall’opinione di qualcun altro. Questa è, pertanto, l’essenza di una filosofia secondo la quale le cose non hanno una propria esistenza, ma vivono esclusivamente negli occhi degli altri. Si tratta di un mondo a specchio sul quale ci arrampichiamo; e tutti i riconoscimenti non sono altro che immagini riflesse.
V. Woolf, Lettera a J. E. Blanche, 20 agosto 1927, in «Spegnere le luci e guardare il mondo di tanto in tanto – Riflessioni sulla scrittura», a cura di F. Sabatini, Minimum Fax, Roma, 2017, p. 49
V. Woolf, Sul rileggere i romanzi in «Genio e inchiostro – le più belle recensioni per il Times Literary Supplement» (2019), a cura e traduzione di S. Sullam, Harper Collins, Milano, 2021, p. 143
V. Woolf, Lettera a Ethel Smyth, lunedì 17 dicembre 1934, in «Falce di Luna», op. cit., p. 442
V. Woolf, Lettera a un giovane poeta, in «Voltando pagina», op. cit., p. 377
V. Woolf, Lettera a Stephen Spender, 10 luglio 1934, in «Falce di Luna – Lettere 1932-1935», op. cit., p. 394
BIBLIOGRAFIA
V. Woolf, «Tutti i racconti di Virginia Woolf», a cura di S. Dick, La Tartaruga, Milano, 1988
V. Woolf, Una stanza tutta per sé (1929), Newton, Roma, 1993
V. Woolf, «Falce di Luna – Lettere 1932-1935» (1978), a cura di N. Nicolson e J. Trautmann, Einaudi, Torino, 2002
V. Woolf, The Common Reader (1932), Vol. I – II, Vintage Classics, London, 2003
V. Woolf, Momenti di essere – scritti autobiografici (1976, pubblicazione postuma), La Tartaruga Edizioni, Baldini & Castoldi S.p.A., Milano, 2003
V. Woolf, «Sono una snob? (1936) e altri saggi», Piano B edizioni, Prato, 2010
V. Woolf, «Voltando pagina – saggi 1904-1941», a cura di L. Rampello, il Saggiatore, Milano, 2011
V. Woolf, Sul cinema (1926), a cura di S. Matetich, Mimesis Edizioni, Milano, 2012
V. Woolf, «Spegnere le luci e guardare il mondo di tanto in tanto – Riflessioni sulla scrittura» – a cura di F. Sabatini, Minimum Fax, Roma, 2017
V. Woolf, Non saper il greco (1925), traduzione di G. Maugeri, Garzanti, Milano, 2018
V. Woolf, Tutto ciò che vi devo – Lettere alle amiche, L’Orma, Roma, 2018
V. Woolf, «Genio e inchiostro – le più belle recensioni per il Times Literary Supplement» (2019) – cura e traduzione di S. Sullam, Harper Collins, Milano, 2021
V. Woolf, Le tre ghinee (1937-1938), Feltrinelli, Milano, 2021
D. Kotnik, Virginia Woolf – La Minerva di Bloomsbury, Rusconi, Milano, 1999
T. Marino, La scrittura visiva di Virginia Woolf – Diari, saggi, romanzi, Edizioni Nuova Cultura, Roma, 2019
L. Rampello, Il canto del mondo reale – Virginia Woolf. La vita nella scrittura, il Saggiatore, Milano, 2005
L. Woolf, La morte di Virginia, Lindau, Torino, 2015
P. Zaccaria, Virginia Woolf – Trama e ordito di una scrittura, Dedalo Libri, Bari, 1980
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Questo testo viene pubblicato su questo dominio (www.blogletteratura.com) all’interno della sezione dedicata relativa alla rivista “Nuova Euterpe” a seguito della selezione della Redazione, con l’autorizzazione dell’Autore/Autrice, proprietario/a e senza nulla avere a pretendere da quest’ultimo/a all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ vietato riprodurre il presente testo in formato integrale o di stralci su qualsiasi tipo di supporto senza l’autorizzazione da parte dell’Autore. La citazione è consentita e, quale riferimento bibliografico, oltre a riportare nome e cognome dell’Autore/Autrice, titolo integrale del brano, si dovrà far seguire il riferimento «Nuova Euterpe» n°01/2023, unitamente al link dove l’opera si trova.
Non vorrei essere intesa in termini realistici se consiglio (un invito che formulo dall’adolescenza) di utilizzare le pirandelliane duecentoquarantasei Novelle per un anno da specchio della vita quotidiana, giorno per giorno, con il suo intricato contesto moltiplicato in un macrocosmo di fatto infinito, perché coinciderebbe con il ricordare quanto l’esistenza sia un travaglio, un’avventura faticosissima, una lotta ininterrotta. Tuttavia questa raccolta, tra i risultati più eminenti della narrativa, se percepita come proiezione metaforico-letteraria della dimensione reale, immanente, appare in grado di mostrare lo sconforto ma, al tempo stesso, le vie di uscita operative (non alludo, in tal senso, alla “follia”) alla realtà di per sé contraddittoria: comprensiva com’è di una famiglia succube di incombenze e responsabilità schiaccianti, hic et nunc preferito di finzioni, norme sociali, impegni di lavoro alienati, ciclici, deprimenti, poco apprezzati, mal retribuiti.
In un ambito del genere è corretto anche valutare l’input implicito nella catena della violenza, espressa in svariate manifestazioni: ad esempio in Cinci[1] (1932) – composta nella maturità, provvista di un impianto veristico – dove lo splendore della disperata vicenda conduce alla certezza ricavata dalla scoperta dell’Inconscio offerta dalla psicoanalisi (lo sappiamo bene: Luigi Pirandello la conosceva) nonché della sua aura onirica: ciò a cui assistiamo – non solo nel racconto – è vero o falso? È opera del Conscio o dell’oscurità dell’Inconscio inaccessibile? Una simile domanda, circa cento anni dopo, pur nelle diverse ipotesi create dalla scuola freudiana e dalla psicologia analitica junghiana, attende ancora risposta.
Proprio all’interno delle sue soluzioni aperte, dunque, scaturisce la proposta di percorrere un iter dell’οὐ-τόπος (utòpos) che consista nell’accogliere le metafore dell’angoscia esistenziale – tanto centrale in questi racconti – nella loro matrice cognitiva, liberatoria, all’altezza di smascherare in chiave maieutica la strategia fatale del teatro delle Maschere nude, le medesime da indossare in ogni luogo o nei confronti di chiunque sia. Come riuscire nell’intento? Svelando, in compagnia del Maestro, i messaggi principali – pericolosi, magari cruenti, attivi e ingombranti – nella dicotomia che separa la nostra concreta entità del Super-Io dalla relativa immagine impressa nello specchio della vita collettiva, pubblica e privata, sentimentale e razionale.
L’iterazione dei criteri regolativi, il ripetersi della norma a cui siamo abituati viene sconfitto dall’arte pirandelliana in quanto, spiega l’autore, «la singolarità vera e nuova, l’originalità, non è cosa che si procacci di fuori; si ha dentro o non si ha; e chi l’ha veramente non sa neppure di averla e la manifesta con la maggiore semplicità, ed è nuovo sempre»[2]. Di un analogo sguardo inedito, all’altezza di infrangere il confine tra la morte e la vita, rimane testimonianza esemplare il Colloquio con la madre (1915), inserito nella cornice dei Colloquii coi personaggi. Il brano è inaugurato e scandito da una sorta di “anafora in prosa”, dalla ripetizione della domanda «Ma come, Mamma? Tu qui?», quasi all’improvviso il figlio, con un’interiorità esclusiva, la scorgesse come in effetti non l’avesse mai veduta: «È seduta, piccola, sul seggiolone, non di qui, non di questa mia stanza, ma ancora su quello della casa lontana, ove pure gli altri ora non la vedono più seduta e donde neppur lei ora, qui, si vede attorno le cose che ha lasciato per sempre, la luce d’un sole caldo, luce sonora e fragrante di mare […] è voluta venire per dirmi quello che non poté per la mia lontananza, prima di staccarsi dalla vita». [3]
Se introduciamo lo specchio in un discorso – non solo critico, piuttosto associativo – sulla poetica pirandelliana, allora immediato appare il sistema referenziale del romanzo Uno, nessuno e centomila. Il main character Vitangelo Moscarda, rilevando un’insospettata autonomia della sua immagine riflessa, a parere dello studioso Francesco Baccega diventa campione modellare della suddivisione proposta dallo psicologo sociale Hugh Christopher Longuet-Higgins il quale parlava di una tripartizione interiore: il sé attuale (ciò che io penso di me stesso), il sé ideale (ciò che voglio essere in futuro), il sé imperativo (ciò che gli altri vogliono io sia e come mi rappresentano).
In aree semantiche analoghe, Pirandello espande con il romanzo l’intelaiatura logico-intuitiva della suddivisione del Sé (Es, Io o Semi-conscio, Super-Io): le loro discrepanze causano depressione e ansia sociale, ma si presentano unite a un’articolata metodica per oltrepassarle. Il protagonista, infatti, osservandosi continuamente allo specchio alla ricerca di difetti prima ignoti, cerca di distruggere le immagini che la gente ha di lui; sviluppa così un’altissima consapevolezza capace di persuaderlo a combattere l’austero relativismo presente in se stesso e negli altri: allontana la moglie Dida, vende la propria banca a dispetto degli avidi soci Firbo e Quantorzo, investe il denaro per fondare il suo “nuovo mondo” costruendo un «ospizio di mendicità» dove si ritira a vivere. Insomma, spiega Baccega: «Per combattere l’ansia sociale che scaturisce da questa pluralità di rappresentazioni di Vitangelo, il Moscarda decide di contraddire le stesse visioni di sé negli altri»[4]. Appagato infine in uno status spirituale di carità e rinascita, in un progress assiduo il protagonista dichiara: «Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro trèmulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo».[5]
Poiché Pirandello amava l’esoterismo, ricordiamo che tra i simboli di uno stato di cose assoluto è compreso l’albero della vita e dell’immortalità, all’orizzonte supremo: «Il centro è la zona del sacro per eccellenza, quella della realtà assoluta», spiega lo studioso rumeno Mircea Eliade: «Ugualmente, tutti gli altri simboli della realtà assoluta si trovano anch’essi in un centro. La via che conduce al centro è una “via difficile” (in sanscrito, dūrohaṇa) e questo si verifica a tutti i livelli del reale: […] smarrimenti nel labirinto, difficoltà di chi cerca il cammino verso il sé, verso il “centro” del suo essere, ecc».[6] Il bancario pirandelliano non sembra, di conseguenza, un fallito simile a tanti altri o un benestante irretito dalla noia al punto di smarrire di colpo la ragione convenzionale. Anche per lui, in analogia ai modelli delle società arcaiche studiate da Eliade nei loro riscontri attuali, sembra necessario un «rito di passaggio» capace di condurlo «dall’effimero e dall’illusorio alla realtà e all’eternità». Per l’anti-eroe di Pirandello la trasformazione radicale equivale (utilizzo ancora le parole di Eliade) «a una consacrazione, a un’iniziazione; a un’esistenza ieri profana e illusoria, succede ora una nuova esistenza, durevole ed efficace».[7]
E poiché, in questo sdoppiamento dell’arte rispetto alla vita nella poetica di Luigi Pirandello, ho fatto riferimento a un romanzo, ricordo che il plot di Uno, nessuno e centomila aveva avuto origine dalla novella Stefano Giogli, uno e due[8] (1909) presente nell’Appendice al secondo volume delle novelle. In un articolo uscito sul periodico “Le Grazie di Catania” nel 1897, Pirandello delineava con grande lucidità alcune funzioni tipiche dei diversi generi narrativi, spiegando come la novella sia vòlta a raffigurare il “grado zero”, cui la narrazione giunge nel suo sforzo designatorio di oggetti, personaggi e situazioni; ed essa si realizza solo quando tutti questi elementi non sono suscettibili di ulteriore sviluppo narrativo e devono essere mostrati in un Essere che sta diventando un Esserci. A differenza del romanzo, la novella non enfatizza le origini, gli stadi emotivi e le passioni, cioè «le relazioni di quelle con i molti oggetti che circondano l’uomo […], ma solo gli ultimi passi, l’eccesso insomma».[9] Lo scrittore organizzava la struttura semiologico-semiotica delle proprie short stories per proiettare all’estremo il significato dell’esserci.
Sono sempre stata convinta della misura in cui Pirandello stesso usufruisse per primo del principio di moltiplicazione conoscitiva e sentimentale della sua novellistica in termini, in senso lato, di intervalli quasi quotidiani, poiché ne scrisse poco meno di trecento nell’arco di mezzo secolo: dall’esordio adolescenziale con Capannetta (1884), pubblicata su “La Gazzetta del Popolo della Domenica”, sino all’età matura con Effetti d’un sogno interrotto (1936), apparsa sul “Corriere della Sera” il giorno precedente alla morte.
Giovanni Macchia rimarcava come il nostro novelliere non disdegnasse in alcuni punti di collocare, accanto alla narrazione in sé, digressioni speculative, ragionamenti di ordine filosofico, ad esempio la riscrittura della gnoseologia bergsoniana rappresentata dalla figura di Socrate, il servitore di Leone Gala ne Il giuoco delle parti (1918): commedia tratta anch’essa, al pari di gran parte della produzione teatrale, da una novella, in particolare Quando s’è capito il giuoco[10] (1913). L’approccio speculativo non comportava però assiomi astratti, né teorici, bensì carichi di una ποιητική τέχνη (poietiké tècne) esplicita in atto. Macchia descrive «acquazzoni filosofici o pensieri polemici, temi insistenti e “concetti” che rimbalzano come palle elastiche da un’opera all’altra, a volte con le stesse parole e non sempre personali. Frasi di Binet, di Séailles, di Blondel vengono scaricate senza molti complimenti in pagine di romanzo, in battute di commedie, anche famose». [11]
All’interno di questa indubbia disinvoltura nel gestire al meglio dentro la propria Weltanschauung il pensiero e il volere artistico altrui, è lecito presupporre un’affinità dell’atmosfera esistenziale pirandelliana con la citata psicologia analitica di Carl Gustav Jung: «La vostra visione», scriveva il medico svizzero, «diventerà chiara solo quando guarderete nel vostro cuore. Chi guarda all’esterno, sogna. Chi guarda all’interno, apre gli occhi». Dunque, la τύχη (tiùche), la sorte benigna, parente stretta dal χάος (càos) dove le ceneri di Pirandello sono state disperse, potrebbe avvisare – con quella novella pubblicata il giorno prima della scomparsa – quanto la morte dello scrittore abbia coinciso con il perpetuare una imperitura visione terrena delle cose, sebbene proiettata e immersa nell’interminabile sviluppo della civiltà, nel continuo flusso della memoria.
In un tale campo referenziale, torniamo alle ricerche di Mircea Eliade, il quale evidenziava «l’impotenza della memoria collettiva a conservare gli avvenimenti e le individualità storiche, se non nella misura in cui essa le trasforma in archetipi».[12] La morte conclude la storia dell’individuo, ma il ricordo post mortem di questa “storia” è limitato: le passioni, gli avvenimenti, l’individualità propriamente detta, vengono a dissolversi insieme all’esistenza terrena. Quindi, spiega Eliade, «soltanto la possibilità e la memoria legata alla durata e alla storia possono essere chiamate una sopravvivenza».[13] Nel macrocosmo di Pirandello la θάνατος (thànatos) svolge un ruolo fondamentale nella funzione di verifica utopica dell’esistenza, di replay perenne, riproduzione continua: ma essa trattiene le “categorie” e disperde gli “avvenimenti”, tramanda gli “archetipi” e non i “personaggi”.
Tra le svariate novelle attinenti lo sdoppiamento consentito dal messaggio artistico alla vita attraverso l’alternativa metaforica della morte, rammento La vita nuda[14] (1907), posta all’inizio dell’omonima raccolta del 1910 e oggetto della mia tesi di laurea in Storia della Critica Letteraria dal titolo Organicità e dialettica nella poetica pirandelliana.[15] Lo sguardo esegetico contenuto nel titolo pirandelliano La vita nuda, nonché la vicenda raccontata, rievocano il Gorgia (Γοργίας-Gòrghias) di Platone, niente affatto ignoto a uno studioso del mondo classico come il Maestro: «Al tempo di Crono, e ancora nei primi anni del regno di Zeus, viventi giudicavano altri viventi ed emanavano la sentenza nel giorno stesso in cui ciascuno doveva morire. […]. Disse però Zeus: “Non giusti sono i giudizi e questo per il fatto che al momento del giudizio chi viene giudicato è vestito, essendo giudicati mentre sono ancora vivi. Molti, che posseggono un’anima malvagia, sono rivestiti di bei corpi, di nobiltà, di ricchezza […] Avviene che giudici si lascino impressionare da questo apparato; non solo, ma essi stessi si giudicano essendo vestiti, avendo l’anima velata dagli occhi, dagli orecchi, da tutto l’insieme del corpo”». Come superare l’ostacolo? La soluzione del Gorgia accomuna il filosofo greco allo scrittore siciliano: donne e uomini «dovranno essere giudicati da morti, cioè spogli da tutti questi ostacoli, e nudo, cioè morto, dovrà essere anche il giudice». [16]
Lascio la conclusione alle parole dello svizzero-francese Georges Piroué: «Come i maestri che si è dato, Pirandello ha lo sguardo nudo. Il mondo che gli si offriva, egli si è rifiutato di scoprirlo quale gli altri lo avevano modellato col potere dei loro discorsi. Appartenere a quegli uomini di cultura che per secoli hanno riposto nel guardaroba dell’eloquenza [N.d.R., titolo di una novella del 1909] di che abbigliare le loro sensazioni, gli ripugnò sempre. “Dove non c’è la cosa, ma le parole che la dicono; dove vogliamo esser noi per come le diciamo, c’è, non la creazione, ma la letteratura”».[17]
Un ringraziamento, che è anche un ricordo, ai professori della Facoltà di Lettere de “La Sapienza” che mi hanno seguito nella tesi di laurea: Mario Costanzo Beccaria, ordinario di Storia della Critica Letteraria, e Adriano Magli, ordinario di Storia del Teatro e dello Spettacolo.
Un pensiero affettuoso alla famiglia Devenuto-Mariti per l’immagine di copertina della mia tesi.
[1]Cinci, in “La lettura”, Milano, giugno 1932, ora in Novelle per un anno, vol. II, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, VI ed, 1966, pp. 807-812.
[2]“La camminante”, in “Gazzetta del Popolo”, Torino, 17 gennaio 1909, ora in Saggi, poesie, scritti varii, a cura di Manlio Lo Vecchio-Musti, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, IV ed. 1977, p. 992.
[3]Colloquio con la madre, in “Giornale di Sicilia”, Palermo, 11-12 settembre 1915, ora in Colloquii coi personaggi, II, in Novelle per un anno, vol. II, cit., pp. 1190-1191.
[14]La vita nuda, in “Novissima. Albo d’arti e lettere”, albo 1907, Roma, ora in Novelle per un anno, vol. I, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, VI ed. 1966, pp. 247-260.
[15] Cinzia Baldazzi, Organicità e dialettica nella poetica pirandelliana, relatore Mario Costanzo Beccaria, correlatore Adriano Magli, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, anno accademico 1977-1978.
[16] Platone, Gorgia, trad. Francesco Adorno, in Opere complete, vol. V, Bari, Laterza, 1975, pp. 249-250.
[17] Georges Piroué, Pirandello, trad. Alfonso Zaccaria, introduzione di Leonardo Sciascia, Palermo, Sellerio, 1975, p. 23.
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L’elemento fisico, e con esso la metafora, dello specchio risultano, se si volesse fare una disanima in termini cronologici, senz’altro uno dei temi, tanto da divenire topos, della letteratura di tutti i tempi e di ogni luogo. Si pensi, solo per accennare in maniera alquanto vaga, quanto la sua presenza sia importante nel mondo della favola e della tradizione popolare in generale ma anche nel mondo del teatro dove, probabilmente, non si può eludere di ricordarsi di Riccardo II, il povero regnante plantageneta che, nella penna del Bardo Inglese, assiste alla sua decadenza proprio dinanzi a uno specchio che non dà più il riflesso di quell’immagine sicura del sovrano e che, nella rottura del vetro riflettente, palesa l’ineludibile disintegrazione della sua identità e, con essa, del suo regno. Questo per dire quanto lo specchio, oggetto del quale oggigiorno non possiamo assolutamente fare a meno, sia rilevante nell’ordinario di ciascuno di noi per la sua capacità di rivelare un altro da noi che, però, ne è sembianza. Nel nuovo romanzo della campana Annella Prisco, Specchio a tre ante (Guida Editori) ciò si evidenzia sin dal titolo che “rispecchia” – si consenta il doppiogioco – la centralità di questo oggetto che, ben al di là di mero suppellettile, diventa rivelatore dell’identità, della realtà circostante, confidente, presenza tacita che accompagna la protagonista Ada nel corso delle sue varie vicende. Addirittura è uno specchio a tre ante, che si specchia nello specchio, accrescendo il sistema di prospettive e di vorticismo, in base al grado di apertura di una delle ante e, ovviamente, alla posizione dell’osservatore.
La citazione del portoghese Pessoa, genio degli eteronimi (che non sono che specchi d’identità), in apertura al volume va subito nella direzione della particolarissima capacità dello specchio di recepire immagini per trasfonderle e duplicarle e, al contempo, per riflettere spiragli e bagliori imprevisti a seconda delle fasi di luce del giorno e alla posizione del soggetto. Qui, infatti, si parla dell’esigenza di “dare ad ogni emozione una personalità”, ne discende che lo specchio, in questo continuo – a tratti ricercato, altre volte fortuito – percorso volto a una ricerca di confronto non può che assurgere a catalizzatore primario della storia contenute in questo romanzo.
Le vicende di Ada sono narrate con perizia e grande padronanza del linguaggio dall’autrice Annella con un escamotage utilissimo e agevole, tanto per chi scrive che per chi legge, che è quella d’istituire, man mano che la narrazione prosegue, due piani temporali differenti. L’intenzione non è propriamente quella di dare un plurimo punto di vista su una medesima storia – come tanta narrativa ha fatto e continua a fare – né di prendersi gioco del lettore. Tutt’altro. L’avvicinarsi alla materia narrata talora in prima persona e il distanziarsene – sembrerebbe – in terza persona dà alla narrazione quel respiro che diversamente non avrebbe e non farebbe l’opera così ben riuscita, compatta, fluida, da portare il lettore a leggersela senza staccare mai gli occhi dalle pagine. Questa doppia impalcatura ha anche un altro effetto molto positivo che è necessario sviscerare: nei periodi che segnano un cambio di piano temporale, nell’avvicendarsi tra un “qui” e un “lì”, tra un “io” e un “sé”, tra un presente e un passato prossimo, il lettore intuitivamente mette in moto tutta una serie di processi intellettivi e mnemonici che gli consentono di “collaborare” fattivamente alla costruzione della storia. Ciò sembra qualcosa di paradossale si dirà: la storia è quella che ha scritto l’autore e non è che il lettore può leggere in essa ciò che, sulla carta, non appare. E questo è immancabilmente vero. Ma è anche vero che ogni buon libro di letteratura – non solo di narrativa, dunque – come già osservava Umberto Eco – è in grado di fornire una lettura ampia e allargata, potenzialmente infinita, proprio grazie a quel procedimento di mimesi e di riconoscimento (che spesso ha davvero qualcosa di analogo all’empatia verso un personaggio) che si origina (e viene mantenuto) tra lettore e la storia. C’è, in altre parole, un qualcosa d’inspiegabile che porta, nel profondo coinvolgimento che si vive leggendo una storia d’altri che potrebbe essere la nostra, quella del nostro vicino o quella di nostra sorella, a una sentita esigenza di leggerla (per intero, subito) e farla propria con foga, di viverla proprio come gli stessi protagonisti.
La narrazione segue la storia di una donna matura che, pur dotata di un carattere ben solido e dall’animo intraprendente, non ha remore di affrontare la vita e di rimboccarsi ogni volta le maniche dinanzi alle delusioni, agli scoramenti, ai momenti che potrebbero aprire a una depressione e che, invece, lei sperimenta ed elabora con coscienza e grande animo. Annella Prisco con questa narrazione affronta numerose tematiche che, in fin dei conti, non sono che sfilacci della vita odierna di tante famiglie, di tante donne alle prese con dissidi interiori, velleità, desideri che sempre più s’imprimono e che necessitano un felice appagamento. Ritroviamo in questo romanzo – arricchito in chiusura da una sintetica ma puntuale nota critica della scrittrice Isabella Bossi Fedrigotti – le ragioni e le criticità che s’impongono tra le mura domestiche dinanzi alla verità – scottante e spesso difficile da accettare – della fine di un matrimonio con tutto ciò che questo comporta. Anche le recenti statistiche non hanno mancato di sottolineare come le coppie, per una miriade di ragioni, sono sempre più vulnerabili e non solo quelle di recente formazione. Può succedere, infatti, che ci si scopra annoiati dalla vita, veramente frustrati, insoddisfatti della propria relazione coniugale data un po’ per scontata, sterile e fossilizzata, priva di grande entusiasmi, solamente quando una nuova occasione s’interpone al normale e ossidato corso degli eventi. Ecco che Ada, sulla spinta di uno stato di disagio col quale vive da tempo (forse come fanno tante madri solo per non dare un dispiacere al proprio figlio evitando che la decisione della rottura col padre agisca in termini negativi sulla sua crescita) dinanzi a un marito disattento e completamente abulico. Deciderà di non lasciarsi scappare una possibilità di rivincita. Comprende, infatti, che la felicità non è qualcosa di distante e impensabile per lei ma che può ritornare ad albergare in lei: dovrà solo concedersi agli eventi favorevoli che si prospettano. Dinanzi a una storia che, pur tra molti bassi e tanta indifferenza, si è protratta per anni si comprende che non è affatto semplice – soprattutto per non minacciare il benessere del figlio – prendere una decisione drastica, che in un istante, come con un colpo di spugna, cancelli tutto il “prima” ed apra a un “poi” radioso.
L’incontro fortuito con Libero (importante questo nome che, già in sé mostra il segno di una ritrovata libertà e pacificazione per la protagonista) è il preludio a una storia d’amore che, come la Prisco ben narra, non mancherà di mostrarsi nelle sue pieghe più passionali e ardenti. È il recupero di quella voglia dimenticata forse perché rimossa dalla quotidianità appiattita e dal disinteresse generale che la coppia pluridecennale in taluni casi può produrre. Tuttavia nulla è lasciato al caso e questo personaggio, ai fini della storia, è molto più di questo. Vengono richiamate altre tematiche come il dolore per la malattia e la morte della moglie, i disturbi alimentari dell’unica figlia che vive in una struttura che se ne prende cura. Entrambi, Ada e Libero, sono anche esempi di persone intraprendenti in campo professionale, spinte da nuove sfide, dalla ricerca, dalla continua voglia di migliorarsi, mettersi in gioco, approfondire studi, che danno dimostrazione di una grande capacità intellettiva e di resilienza. Sono, infatti, gli incontri di questo percorso di formazione che avvengono a Firenze – una città che non è la loro – i primi piccoli germi di questa veloce conoscenza che ben presto sboccerà in un amore vigoroso.
Una particolare nota di merito va manifestata nei confronti dell’attenta descrizione degli spazi: la protagonista vive a Roma, sebbene nel suo cuore abbia un posto intatto l’infanzia e i ricordi della casa di Acciaroli, nel Cilento, dove pure ritorna, per staccare la spina e ritrovare se stessa, ritrovare i suoi spazi, interpellare la sua anima. La gran parte della narrazione vede come scenario il capoluogo toscano con attentissime descrizione degli spazi (bella la scena al noto Caffè “Le Giubbe Rosse” di Firenze in Piazza della Repubblica), delle caratteristiche vie cittadine, dei colori, degli effluvi che si sentono passeggiando finanche delle pietanze prelibate che rendono caratteristiche determinate città. Molti degli incontri, dei dialogici e dunque delle occasioni di confronto e di conoscenza si sviluppano proprio durante appuntamenti per pranzare o cenare insieme e gli alimenti assieme ai vini vengono ad assumere un significato che è quello comunemente inteso: di gusto per il bello (e il buono) e di un piacevole conversari. Tra le città citate non va dimenticata neppure la porzione di testo che ha come ambientazione Bologna dove i due si recano per visitare la figlia di lui.
Continui, nel corso del romanzo, i riferimenti all’oggetto specchio sul quale Ada, nelle varie città dove si trova, di varie abitazioni e anche della cabina della nave crociera dove andrà con Libero, non può fare a meno di richiamare. Si tratta, come si vedrà, di un oggetto che nutre un fascino particolarissimo in lei, sempre nuovo e accentuato, che amplifica di volta in volta quel desiderio di ricerca interiore e di confronto con un’alterità che va ricercando da tempo. Vediamo a continuazione le varie occorrenze dello specchio nel corso della narrazione e i relativi universi semantici e simbolici che essi arrecano. La prima volta che viene richiamato lo specchio è alle pagine 20-21 dove leggiamo: “Da sempre, ancora quando era un’adolescente acerba e prossima ad affacciarsi alla vita, Ada aveva avuto un rapporto molto forte con lo specchio, forse per il bisogno di ritrovare in quell’immagine che le restituiva la superficie levigata di un portacipria, di uno specchietto da borsa o ancora di più di uno specchio di ampie dimensioni, una conferma alla propria identità”. A questa citazione, poche pagine dopo, entriamo nel mondo autentico di Ada bambina, ora che ha fatto ritorno nella casa d’infanzia nel Cilento, dinanzi a un possente specchio tripartito molto particolare: “Un oggetto d’altri tempi, ma in perfetta sintonia col suo temperamento, e che aveva esercitato su di lei da sempre un richiamo particolare perché le tre ante nelle quali sin da ragazza amava specchiarsi, le restituiscono in questa serata di giugno la sua immagine di oggi, ritrovando il suo viso di donna interessante, certo non più giovanissima, con quelle pieghe d’espressione accentuate stasera ancor di più dalla stanchezza del viaggio […] Sorseggiava un succo di pomodoro estratto dalla borsa termica sistemata nel fondo dello zaino, pur non avendo ancora trovato la risposta al perché la sua vita si sia scissa su due binari, le due ante laterali di quell’oggetto antico, che riflettono i due profili diversi, ma combacianti del suo viso” (pag. 39). Lo specchio si mostra rivelatore dello stato fisico della donna: oltre a definirne i caratteri fisiognomici e somatici ne detta in qualche modo l’età e il grado di stanchezza. Nelle occorrenze successive, invece, quando il rapporto tra Ada e Libero si concretizza ed esplode in amplessi appassionati, lo specchio diviene talora elemento di soddisfacimento d’immagine e di esuberanza, di un sano narcisismo e di godimento della bellezza, fino a una vera esaltazione del corpo, dell’intreccio dei corpi che, nella sua sembianza riflettente, invade la stanza e amplifica l’ardore e il coinvolgimento dei due. Vediamo gli esempi più distintivi di quanto si sta dicendo. Alle pagine 98-99 così possiamo leggere: “Liberatasi rapidamente dagli abiti che indossava, Ada scavalcando il bordo del piatto doccia in ceramica bianca, si accorse di un lungo specchio verticale che era posizionato proprio di fronte alla cabina a cui si era accostata incominciando a far scorrere l’acqua […] Vedere l’immagine del suo corpo completamente spogliato riflesso nel lungo riquadro che la fronteggiava, accelerò la pulsione erotica che da più ore le bruciava dentro, e contemporaneamente ravvisava nell’immagine riflessa la sagoma del suo corpo che le appariva gradevole con la certezza di poter suscitare attrazione e interesse” e poi, ancora, alle pagine 125-126[1]: “Fu una notte lunga e appassionata in cui fecero l’amore in più riprese, dapprima in piedi contro la parete a specchio che restituiva, nel riflettere le immagini dei loro corpi abbracciati, messaggi densi di erotismo, e poi abbandonati sul letto a baldacchino”.
La scrittrice napoletana Annella Prisco, autrice del romanzo “Specchio a tre ante”
Attratta dagli specchi quasi fino ad esserne ossessionata, anche durante l’unione carnale che si consuma nella stanza privata durante la crociera Ada non può mancare di vederne uno. In questo momento, però, succede qualcosa diverso: la donna sembra non riconoscersi. La stanza non è avvolta da una luce completa, è vero, e la visibilità potrebbe essere ridotta ulteriormente anche dal fatto che ha bevuto del vino e dunque non riesce a visualizzare in maniera distinta. Ma è anche vero che qualcosa del genere, come si è visto nell’elencazione degli estratti dove lo specchio viene richiamato, non era mai accaduta. Esso aveva sempre rappresentato un mezzo per vedere, per riconoscersi, Ada lo aveva impiegato per ritrovarsi, per vedersi riflessa e avere visione del suo corpo, della realtà. In questo momento, invece, è come se si fosse anteposta della foschia, una cappa indistinta che occulti la libera visione dell’oggetto. È un qualcosa che ha, se non proprio del premonitore, senz’altro del preoccupante: viene da pensare l’azione di chi si sporge verso la cavità di un pozzo volendone scorgere il fondo, o per lo meno vedere l’acqua, e non trova che il nero più fitto. Si tratta di un’increspatura di quel libero vedere, mostrarsi e riflettersi, che Ada ha sempre dato e ricevuto dal rapporto con lo specchio. Riportiamo i relativi estratti: “L’abitacolo era caldo e accogliente, con le pareti rivestite di radica, un comodo armadio a muro dagli sportelli a soffietto e un confortevole letto ad una piazza e mezzo ricoperto da una morbida trapunta di piume d’oca, e su di un lato uno specchio stilizzato, con faretti luminosi sugli angoli” (pagine 156-157) e “Spensero ogni interruttore, lasciando acceso soltanto un faretto posizionato in un angolo dell’abitacolo. Ada attratta dalla superficie dello specchio che fronteggiava il letto, per qualche attimo quasi non si riconobbe, perché l’effetto del vino già si faceva sentire” (pag. 161).
Il ritorno alla casa di Acciaroli, con il quale si apre e al contempo si chiude il romanzo, in questa narrazione che non solo è ciclica ma per scaglioni e frastagliata come s’è detto, è significativo perché è un ritornare a vedere. Dopo l’offuscamento sperimentato dello specchio e l’interdizione dinanzi all’accaduto (…) Ada, donna di grande forza che ha imparato a ergersi sopra alle ingiustizie della vita fortificandosi, ritrova la luce che riconsegna l’immagine di sé. Così scrive Annella Prisco nella pagine finali di questo stupendo romanzo: “Intontita si avvicina al comò e guarda fissa l’immagine del suo volto disfatto e segnato, riflesso nelle tre ante della toilette antica. I due profili del viso, pur con impercettibili differenze, combaciano e si ricompongono nell’interezza dello specchio centrale” (pag. 167) e “L’enigma si scioglie nel suo specchio a tre ante, dove da sempre, tante volte, si è rispecchiata… Il suo, uno dei rari nomi palindromi, racchiude il significato di una vita intensa, doppia, che si legge e si vive su un percorso di andata e ritorno, su due piani speculari, paralleli e complementari” (pag. 169).
Questo ritorno ad Acciaroli, questo ritornare a specchiarsi (e a vedersi) nello specchio a tre ante non è una conclusione in quanto tale, ha più la forza di un’illuminazione catartica e salvifica al contempo, motivo trainante di un ulteriore gradino della vita superato, pur con difficoltà. Lo specchio a tre ante che fa dialogare passato e presente e che pone in superficie non solo la Ada del momento, ma la summa delle Ada che fin lì l’hanno contraddistinta, permette quella ripartenza necessaria verso un oltre a cui la protagonista dovrà darsi per cercare di seguire in quel cammino di luce nel quale ha creduto e dovrà distinguere tra le fosche ombre che l’attorniano. Lo specchio per la protagonista – un po’ come per noi tutti nella nostra vita – mostra la sua duplice funzione – speculare, appunto – nel rimandare l’immagine che gli si para innanzi ma anche, in maniera meno visibile, di ricercare e rimestare nell’interiorità del singolo, permettendo l’auscultazione del profondo, come una radiografia dell’anima.
Le vicende che la Nostra dipana nel corso del libro sono quelle della vita ordinaria dell’uomo che è improntato sempre alla ricerca della felicità. Elaborate le ragioni che dettano l’impossibile conservazione della felicità (o il ripristino della stessa) Ada – come in una progressione da Bildungsroman – comprende che non ha senso (e non andrebbe a suo beneficio a lungo andare) essere remissivi nei confronti della vita e adagiarsi passivamente su quel che di poco si ha e saggiamente mira altrove perché sa che la vita è una e la felicità è un qualcosa che sempre può essere conquistato. La completa apatia del marito è un lasciapassare vigoroso in questo lento processo di autoconsapevolezza che, pian piano, le permette di fidarsi di un altro uomo, di innamorarsi e di donarsi a lui. È la seconda possibilità che tutti abbiamo (o che dovremmo avere), la grandezza di una donna sola come Ada (si parla sempre e solo di lei in funzione dell’assente marito e dell’amorevole figlio, ma mai di un’ipotetica amica, cosa che la fa essenzialmente una donna sola) è quella di sapersi reggere autonomamente sulle proprie forze, di osare, di non darsi per vinta. Questo amore che nasce con Libero, allora, non può che essere considerato come il traguardo più benevolo e meritato dinanzi alle tante delusioni e i foschi avvilimenti che la vita negli ultimi tempi le ha donato. Ecco perché – non si svelerà qui il finale perché sarebbe ingiusto e tutti i lettori hanno il diritto di sorprendersi dall’explicit tutt’altro che pronosticabile – questo è un romanzo d’amore ma è anche un romanzo di formazione, finanche una sorta di diario personale che prende nota dei vari spostamenti tra città, regioni. Ha il sapore di una storia che conoscevamo già ma che avremmo voluto leggere. Un romanzo che accompagna anche a riflettere in chiave psicodinamica su atteggiamenti e passività umane, su debolezze e sogni che, pur non avendoli rincorsi come avremmo fatto da adolescenti, prima o poi arrivano e stravolgono in bene quel presente asfittico e monotono dal quale pensavamo di non uscire più.
LORENZO SPURIO
Jesi, 31/12/2020
[1] Prima di questo citato vi è un ulteriore estratto nel quale è richiamato l’oggetto dello specchio; esso compare alla pagina 110 e in esso possiamo leggere: “Cercava come sempre di stemperare tensioni ed ansie guardandosi allo specchio, per leggere una risposta in quel pomeriggio da quella lastra quadrata che sovrastava il lavabo nel piccolo bagno dell’appartamento”.
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ATTIMO[1]di MARZIA CAROCCIOmbre su specchidai lividi incantidove muore riflessauna parte di me;ironico il mio sguardo…nel silenzio assordantementre resta sospesal’evanescenza d’un pensieroche scivola via sul vetrocome fresca rugiada.INCANTO[2] DI EMANUELE MARCUCCIOCalma, pacata immensità dell’universo,palpito dell’infinito:sogno, immergersi rapito,palpitar d’acque tremolanti,risorsa ai sonori ardori,attimo immobile e incantato,anelito ad emergere,rimaner sopito,rifuggire sommerso.Rifulge lo specchio che traluce,che trapassa, si allontana:pur divampa, pur s’immerge,senza tempo.1 aprile 1998Emanuele MarcuccioCommento critico di Luciano Domenighini
La quartina iniziale (5, 6, 7, 7), scolpita nella sua musicale cadenza, ha per argomento l’autoidentificazione visiva ed esordisce con un esposto contenuto e difeso nelle criptiche metafore dei due brevi versi di apertura (“Ombre su specchi/ dai lividi incanti) per poi aprirsi in un distico scandito in tronca, nitido, esplicativo, folgorante descrizione dell’attimo (“dove muore riflessa,/ una parte di me;). Malgrado la confezione un po’ convoluta dell’incipit, a ben guardare in questa strofa è notevole la capacità di sintesi descrittivo-concettuale nel rappresentare il processo autoidentificativo nella percezione temporale dell’istante. La composizione, coniugando intelligenza e immaginazione, è una prova di virtuosismo poetico.
È la sapiente, dettagliata descrizione di un attimo, di una frazione dell’hic et nunc che prosegue ingentilita da un distico di settenari, sospeso ed elegante il primo, (“ironico il mio sguardo”) ossimorico il secondo (“nel silenzio assordante”), mentre la quartina conclusiva, lievissima, aggraziata, racconta di un pensiero, “sospeso”, “evanescente”, “scivolante via”, “fresco come rugiada”.
Se Marzia Carocci ha saputo scomporre e colorire di parole il fugace spazio di un momento, Emanuele Marcuccio con la sua lirica celebra una dimensione cosmica, una percezione panica della natura e la connette con uno stato d’animo incantato e pago, rapito e sognante.
Leggere la sua lirica dal tono grandioso e pacificante è come immergersi in un’atmosfera protetta e protettiva, assolutamente incontaminata e mettere il proprio cuore in sintonia con il battito dell’universo.
Il bagaglio lessicale scelto, d’altra parte, è alquanto suggestivo: il respiro, la luminosità e l’acquatica mobilità di questa empatia cosmica sono resi dall’ampio ventaglio delle forme verbali (“immergersi”, “palpitar”, “emergere”, “rimaner”, “rifuggire”, “rifulge”, “traluce”, “trapassa”, “si allontana”, “divampa”, “s’immerge”) e dalla scelta dei sostantivi (“immensità”, “infinito”, “palpito”, “sogno”, “ardori”, “attimo”, “anelito”), dagli aggettivi (“rapito”, “tremolanti”, “immobile, “sonori”, “incantato, “sopito”, “sommerso”) e dalle locuzioni semanticamente audaci (“immergersi rapito”, “risorsa ai sonori ardori”, “rifuggire sommerso”) a rappresentare un clima magico e atemporale siglato dalla locuzione avverbiale dell’ultimo verso (“senza tempo”).
Luciano Domenighini
Travagliato (BS), 13 agosto 2014
[1] Marzia Carocci, Némesis, Carta e Penna, 2012.[2] Emanuele Marcuccio, Per una strada, SBC Edizioni, 2009. Ri-edita nella quarta di copertina dellʼAntologia del concorso nazionale di poesia Lʼarte in versi. I Edizione – 2012, Photocity Edizioni, 2012.
Recentissima l’uscita di un brano, composto dalla rock band femminile “Le rivoltelle”, che affronta nel testo il tema dell’anoressia e dei disturbi alimentari.
Il titolo, di per sé, è già una provocazione: “Taglia 38”, l’obiettivo-ossessione di molte, troppe donne.
La canzone si ispira alla vicenda della ballerina solista Maria Francesca Garritano (in arte Mary Garrett) che, dopo aver rilasciato un’intervista all’Observer in cui parlava dei problemi alimentari legati al mondo della danza, è stata licenziata dal Teatro La Scala con la motivazione che le sue dichiarazioni avevano leso l’immagine del teatro: «il Teatro si è visto costretto a risolvere il rapporto di lavoro con la signorina Maria Francesca Garritano in seguito alle interviste e dichiarazioni pubbliche da lei rilasciate ripetutamente in un ampio arco di tempo; dichiarazioni nelle quali si è concretizzata una lesione dell’immagine del Teatro e della sua Scuola di Ballo, nonché la violazione dei doveri fondamentali che legano un dipendente al suo datore di lavoro, facendo venir meno il necessario rapporto fiduciario che è alla base di tale legame»
Maria Francesca aveva raccontato semplicemente la sua storia e quella di molte altre sue colleghe: donne per le quali il corpo è il principale mezzo di espressione, almeno sul palco. La danza, oltre che un’arte o una passione, è una disciplina ferrea che impone ore e ore di allenamento intenso, una cura ossessiva di sé e del proprio fisico che deve arrivare quanto più vicino possibile, in un infinito e perverso asintoto, alla perfezione.
Ho studiato danza anch’io per un periodo e, se c’è una cosa che ricordo bene, è la frustrazione vulnerabile del non essere perfetta. In mezzo a quegli enormi stanzoni completamente disseminati di specchi che riflettono e proiettano ovunque immagini e pezzi di te, con indosso nient’altro che un misero body pensato appositamente per rivelare il più possibile centimetri di muscoli, fibre, pelle. Vicino a altre ragazze costituzionalmente più adatte, a un’insegnante votata alla danza letteralmente anima e corpo. Ballare con movimenti innaturali, perfino dolorosi a volte, sotto gli occhi esigenti di maestre e colleghe che da te si aspettano sempre il massimo e anche di più.
Fintanto che gli occhi più esigenti, alla fine, diventano i tuoi. Giudici severi e assolutamente parziali, sono lì per registrare ogni fallimento, imperfezione, mancanza. In questo, ancora, non c’è nulla di patologico ma il passaggio può essere davvero molto breve.
“Sogno la perfezione le mie ossa un manifesto il mio corpo un’ossessione questo mondo mi sta stretto come quel vestito addosso devo essere perfetta perfezione maledetta”
Così recita il testo della canzone, mentre la protagonista del video si scruta e si misura di fronte allo specchio. E dentro lo specchio, anche se non ce ne accorgiamo, c’è tutto un coro di voci che urla.
Sono le voci dei nostri echi passati: gli scherzi da bambini, le battute poco divertenti degli amici, le critiche affilate dei fidanzati e dei datori di lavoro, i commenti poco gentili dei passanti per strada. Tutte voci che ci sembra di non udire, ma che ci entrano in testa come una musica orecchiabile che torniamo a canticchiare quasi inavvertitamente.
E in più ci sono le immagini: corpi magnifici, scultorei, mozzafiato. Pelli che non rivelano nessun segno: né dell’età, né della stanchezza, né di nessun tipo di espressione. A volte mi sono chiesta come facciano certe attrici, modelle e anche ragazze comuni a sorridere senza che si formino segni… Sarò strana io ma a me, quando sorrido, il viso cambia completamente e diventa una cartina fatta di fossette, rughe agli angoli degli occhi e delle labbra e, per di più, mi si notano tutte quante… Sempre in tema di stranezza: io quando sono stanca, ho le occhiaie come i panda, la pelle spenta e la faccia tesa. E mi chiedo perché mai dovrei vergognarmene o nasconderlo. Sono un essere umano qualunque: mi emoziono, piango, rido, mi stanco, mi arrabbio e mi indigno. E tutta questa umanità mi si disegna sul viso come un quadro che tutti possono osservare e, eventualmente, interpretare.
Se analizziamo il linguaggio pubblicitario dei prodotti di bellezza restiamo colpiti da quanto spesso troviamo parole come ‘nascondere’, ‘coprire’, ‘mascherare’ e addirittura ‘eliminare’ o ‘cancellare’. Termini che, di fatto, rimandano linguisticamente a concetti come magagne, errori, sbagli da correggere e colpe da emendare.
Colpe. Da quando la stanchezza, la gioia, la fatica, l’età sono colpe socialmente perseguibili? Da quando e perché devo coprire, mascherare, correggere ciò che non è sbagliato ma semplicemente umano e normale?
Pochi giorni fa, in uno di quei giorni che definire ‘non certo dei migliori’ risulta un vano tentativo di sdrammatizzare, il barista da cui prendo il caffè ogni tanto ha disegnato con la cioccolata un cuore sul mio solito macchiato. “Si vede signorina che è triste oggi…” Ho ringraziato: il mio stato d’animo era evidente persino a un perfetto sconosciuto. Probabilmente dovrei cambiare correttore. O forse stato d’animo, ma per quello un caffè non basta, anche se aiuta…
In un sorprendente studio degli anni ’30 Kracauer osserva che : “la corsa ai numerosi istituti di bellezza è anche determinata da una preoccupazione per la propria esistenza, l’uso dei cosmetici non è sempre un lusso. Per la paura di essere dichiarati fuori uso come merce invecchiata le signore e i signori si tingono i capelli, e i quarantenni praticano lo sport per mantenersi snelli. Come devo fare per diventare bello?”
Siamo ormai abituati a sentirci consumatori, più o meno critici, di una globale società di consumo; siamo abituati anche a sentirci target di un meccanismo di marketing sempre più pervasivo che innesta volutamente (o, a seconda dei casi, esaspera) un senso di colpa, di inferiorità per spingerci a comprare sempre di più, dando il nostro contributo al proliferare di mercati e giri di affari che coinvolgono settori come quello della cosmesi, della moda, della chirurgia.
Ma quali conseguenze ha tutto questo nel nostro quotidiano? Almeno una: il senso di disagio. L’idea di avere delle lacune, delle mancanze che possono essere colmate a suon di diete, palestre, trattamenti, cosmetici e affini. Questo può portare da un lato a un processo costruttivo di miglioramento di sé, dall’altro però, nel peggiore dei casi, anche a un processo distruttivo: la pericolosa spirale della perfezione, un labirinto di specchi nel quale perdersi è fin troppo facile.
“Devo essere perfetta. Perfezione maledetta”. La perfezione non esiste, verrebbe da dire. In realtà la perfezione esiste in quanto perfetta strategia di mercato che ci vede non solo consumatori (acritici) ma anche merce: un prodotto che deve essere il più possibile capace di acquisire clientela e creare domanda, sfruttando competitività e concorrenza.
Di tutto questo, troppo spesso, ne siamo passivamente inconsapevoli. E, alcune volte, vittime.
Servono nuovi occhi per guardarsi allo specchio: occhi che non siano solo giudici pronti a condannare, metri con cui misurare, magazzini e depositi di immagini preconfezionate ad arte.
Servono occhi vigili e allo stesso tempo benevoli. Per essere belle non bisogna soffrire. E non bisogna soffrire per essere belle.
Rita Barbieri
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Laura y Julioromanzo di JUAN JOSE’ MILLASRecensione di Lorenzo Spurio
Il destino sembrava scritto nei fatti banali, nei dettagli periferici, nei sobborghi dei fatti[1]
Il romanzo Laura y Julio di Juan José Millás presenta delle caratteristiche tipiche della narrativa dell’autore: il partire da episodi quotidiani e domestici, l’attenzione per il dialogo e lo scambio d’opinione, la mancanza d’affiatamento coniugale e di un rapporto amoroso autentico e sentito, la fragilità interiore, la perdita d’identità e l’acquisizione di una nuova identità dopo una fase di transizione, o meglio di metamorfosi. Quest’ultimo aspetto ben richiama il processo di cambiamento di Elena Rincón, madrilena quarantenne protagonista del romanzo La soledad era esto, vincitore del Premio Nadal nel 1990. Il processo di cambiamento, di metamorfosi, è la base del romanzo stesso e più in generale della ricerca e dello studio che Millás fa attentamente sui suoi personaggi.
La storia che viene narrata in Laura y Julio in apparenza sembra essere quella di una comune coppia sposata da diversi anni dopo molti anni di fidanzamento. In realtà non è così, la coppia è solo una struttura apparentemente valida ed efficace per loro due. La coppia sembra essere priva d’amore (per lo meno in questo momento della loro vita, dato che riferimenti alla loro gioventù non vengono forniti) e per di più non ha figli. L’immagine di un rapporto coniugale strano, sghembo e d’indifferenza è spesso al centro della narrativa di Millás (presente ad esempio nei romanzi precedenti La soledad era esto, Volver a casa). Tutta la loro vita è pero impostata sulla presenza di una terza persona, Manuel, loro vicino di casa. La presenza del vicino è per entrambi (in maniere diverse) costante tanto che non riuscirebbero a vivere senza di lui, né tantomeno lui senza di loro. Al momento in cui Manuel ha un grave incidente stradale e viene condotto in ospedale in fin di vita, Laura e Julio iniziano, individualmente, a sviluppare un movimento di pensiero e un loro fare impostato a partire dalla persona di Manuel: Julio si introdurrà in casa di Manuel di nascosto e vivrà lì alcuni giorni, impadronendosi dei i suoi abiti e assumendo le sue tendenze; Laura invierà una serie di mail al computer di Manuel in cui gli parlerà a cuore aperto del suo amore per lui, dell’inettitudine di suo marito (Julio) e del fatto che sta aspettando un figlio da lui. Le mail verranno lette da Julio che oramai, nelle vesti di Manuel e calatosi nella sua personalità, deciderà alla fine (quando oramai Manuel in ospedale è morto) di inviarle una mail di addio molto significante appunto nelle vesti di Manuel.
Come si è precedentemente accennato, Julio si introduce nella casa di Manuel e comincia a vivere la sua vita, cominciando a vestire come Manuel (anzi, i panni di Manuel) ed a mangiare ciò che mangiava Manuel; tutto questo lo porta ad avere l’idea che per un attimo sia riuscito a raggiungere l’altra parte dello specchio. Quando ancora viveva con Laura dal suo appartamento aveva sempre visto Manuel dalla sua parte, dal suo punto quotidiano, ora lui si trova dall’altra parte, al posto di Manuel. La presenza di Julio nelle vesti e nell’identità di Manuel non è, però, quella di un semplice scambio d’identità, egli infatti è come se fosse un morto o un’ombra. E’ un altro o forse è semplicemente l’ombra di un altro che oramai non c’è più, perché agonizza in ospedale. Alla stessa maniera <<pensò che il suo fantasma, o il suo riflesso (forse la sua ombra) si trovava nella casa al lato, vicino a Laura>>[2]. Abitare l’altro lato dello specchio significa abitare un’altra porzione di sé stesso. Non si tratta di un processo semplice e l’autore, oltre a sottolineare che Julio si era ormai impossessato di tutto ciò che c’era di Manuel (la casa, i vestiti, il cibo, il profumo, gli abiti), <<cercò di pensare ai suoi problemi con la testa di Manuel>>[3]. Da questa nuova prospettiva Julio, ormai impadronitosi completamente degli interessi e delle peculiarità di Manuel, osserva quello che ora è l’altro lato (e che prima era stata la sua parte): osserva Laura.
Quando Laura chiama il marito per chiedergli di recarsi a casa a prendere tutte le sue cose Julio, entrando, si sente quasi male e non riesce a riconoscere la casa, si sente spaesato e disorientato: è il chiaro segno che oramai la sua vecchia identità si è disintegrata e lì, nella vecchia casa, per lui non c’è più niente di familiare e, l’autore ci dice che <<notò che già era uno straniero [in quella casa]. Si muoveva per la casa come un intruso e si affacciava alle camere come un vagabondo>>[4]. Non solo, il profumo di sua moglie diffuso per la stanza, che negli anni precedenti sempre aveva sentito e riconosciuto ora gli era sconosciuto ed era come se appartenesse ad un’altra donna. Nel raccogliere la sua vecchia roba la paragona con quella di Manuel notando che la sua era è di scarsa fattura (oramai non le piace più) e gli sembra qualcosa di inclemente, di troppo austero, <<le sembrò gli abiti di un morto>>[5].
Il senso di cambiamento d’identità (e di vita) di Julio che si sviluppa dal momento dell’annuncio dell’incidente di Manuel ai giorni che seguono la morte dell’amico in ospedale viene chiaramente definito come metamorfosi e Millás con la sua tecnica attenta riferendosi a lui dice <<Camminava come se fosse un altro, o come se fosse abitato da un altro che governava i movimenti del suo corpo con la destrezza di un pilota esperto>>[6]. Alcune pagine più avanti, ci rendiamo però conto che questa metamorfosi non si è ancora compiuta nella sua interezza giacchè viene detto che Julio <<dedicò i giorni seguenti a perfezionare le sue abitudini>>[7]. Sue nel senso le abitudini che erano proprie di Manuel, abbandonando nello stesso tempo quelle che erano state autentiche di sé come l’amore per la moto. Più avanti viene detto che <<aveva acquisito alcune abitudini gastronomiche di Manuel>>[8], si capisce che il percorso di metamorfosi da uno ad un altro non è facile ma necessita di tempo e soprattutto di analisi dell’altro e delle sue tendenze.
Verso la seconda parte dell’opera Julio ha come delle visioni e si vede in un’altra epoca, in altre situazioni e contesti a lavorare in una lavanderia. Pensa che gli abiti portati sporchi in lavanderia in fondo sono pregni di vita e d’identità mentre l’atto del lavaggio è solo un <<processo di spersonalizzazione>>[9]. Con questo processo l’abito torna, sì, pulito come nuovo, ma è come se non appartenga a nessuno, o possa appartenere a chiunque.
Quando oramai Manuel si sta spegnendo in ospedale, corrisponde in Julio uno stesso momento di perdita di vitalità, si dimagrisce diversi kili e sembra che il suo corpo non contenga più istinti vitali tanto che <<Chi teneva la febbre ora era la realtà>>[10]. Lui non aveva febbre, non aveva più temperatura, era ormai come morto, cosi come era deceduto fisicamente l’amico Manuel. <<Tutto aveva la febbre, tutto era malato, perché tutto –anche oggetti semplici come il rasoio elettrico- era vivo>>[11]. Tutto, tranne lui.
Nel momento in cui Julio oramai sta compiendo la sua metamorfosi per divenire Manuel, legge le mail che sua moglie Laura aveva spedito clandestinamente a Manuel con il quale aveva avuto una relazione amorosa clandestina e Julio giunge a chiedersi il perché nelle mail di risposta a Laura Manuel parlava tanto di Julio e l’autore conclude dicendo <<intuì che entrambi, Manuel e lui, erano oscuramente uniti per dei vincoli che erano più forti rispetto a quelli dell’amore e dell’odio>>[12]. Nella parte finale dell’opera, Laura avverte una certa presenza in casa di Manuel (il suo odore nel pianerottolo delle scale), in realtà è Julio che ha assunto le caratterizzazioni di Manuel. La metamorfosi è compiuta interamente quando Julio, oramai Manuel, decide di rispondere alla mail della moglie dicendo <<Cara Laura, non è cosi strano che hai sentito nell’ambiente alcuni segnali miei. Avevi ragione: esiste un’energia indipendente dal corpo. Grazie ad essa ho viaggiato durante gli ultimi giorni il mondo al quale sono appartenuto per congedarmi da lui dato che sapevo che la mia fine era vicina. […]. Mi sono convertito, come tu supponevi che accade ai morti, in una forza invisibile ma reale obbligata a partire per un lungo viaggio>>[13]. Al termine della lettera Julio (oramai di forma Manuel) dice alla moglie, che lo crede essere davvero Manuel <<credo che il padre [del bambino] debba esser Julio. […]. Julio ed io, nonostante tutto eravamo uniti da un legame di complementarietà. […]. In un certo modo, questa creatura che tieni nel grembo è figlia di tutti e tre>>[14]. Più avanti, nelle pagine finali segue però l’avocazione quasi gloriosa a sé del figlio (quando in realtà era stato concepito, materialmente da Laura e Manuel), l’autore ci dice, riferendosi a Julio <<sentì […] che il figlio era suo e di Manuel, che Laura non era altro che lo strumento necessario affinchè loro due –l’unione dell’astratto e del concreto- potessero procreare>>[15]. Infine, Julio decide di abbandonare gli abiti e le abitudini di Manuel, <<si lavò il collo e la faccia per eliminare il profumo dell’odore di Manuel e si cambiò i vestiti indossando degli abiti propri>>[16], ritorna a casa da Laura (la quale convinta che la mail ultima era stata scritta da Manuel e rappresentasse una sorta di suo testamento) riprende con sé suo marito Julio con il quale, come aveva voluto Manuel (ossia Julio) crescerà il nascituro, al quale per volontà, desiderio, ricordo, amore ed elogio viene messo il nome di Manuel.
Millas è attento al termine della storia a spiegare il gioco minuzioso e abile di realtà e finzione di cui è un grande artefice della postmodrnità dicendo <<Solo Julio avrebbe conosciuto la differenza tra la storia reale ed il mito perché c’è sempre qualcuno […] che per sua sfortuna conosce di più dell’altro. Forse, con gli anni, Laura sarebbe caduta nella tentazione d raccontare a suo figlio, in segreto, chi era stato veramente suo padre […] e che modo misterioso avrebbe adottato affinchè a lui continuasse ad ingannare Julio. In questa maniera, la leggenda si trasmetterebbe di generazione in generazione, durante secoli, come un racconto familiare>>[17].
[1] Gli stralci di testo riportati qui nel saggio sono una mia traduzione dal testo in lingua spagnola Laura y Julio di Juan José Millas (2006), Booket, Seix Barral, Barcelona. Pag. 149, righe 11-13