Schegge di femminismo in poesia: Eleonora Della Genga

Articolo di Stefano Bardi

Genga è un piccolo comune nell’entroterra anconetano di circa 1.700 abitanti che nell’XI secolo, all’interno del proprio castello, vide l’insediamento della famiglia nobiliare denominata Conti della Genga dalla quale nacque la poetessa Eleonora (o Leonora) della Genga. Poetessa della quale si conosce poco, tra cui la sua nascita a Fabriano (AN) nel 1360. Non si hanno, invece, dati certi in merito sulla sua dipartita tranne che morì giovane. Della sua produzione poetica ci sono stati tramandati solo pochi versi che vennero raccolti da Giovanni Mario Crescimbeni, Luisa Bergalli Gozzi e Guido Marcoaldi[1].    

Un primo sonetto in volgare è “Tacete, o maschj, a dir, che la Natura” che può essere considerato forse come uno dei primi componimenti poetici femministi della Storia in quanto la poetessa fabrianese ci mostra la donna come un individuo pari in tutto all’uomo, tanto nelle dinamiche delle relazioni sessuali, quanto nella politica, nell’amministrazione e nella guerra d’armi. In particolar modo pone l’attenzione sul riconoscimento del diritto della donna di vivere, gioire, soffrire e piangere come meglio credere senza dover chiedere il permesso a nessuno perché creata a perfetta somiglianza della Madonna[2].

Un secondo sonetto in volgare è “Dal suo infinito Amor sospinto Dio” che oggi possiamo credere che per quei tempi fosse abbastanza scandaloso, poiché ad occuparsi della storia religiosa era una donna, dando una sua illustrazione della vita dopo la dipartita corporale[3]. Un terzo e ultimo sonetto in volgare è “Coprite, o muse, di color funebre” dedicato all’amica poetessa fabrianese Ortensia di Guglielmo, scritto sotto forma di elogio funebre. Quest’ultima è poetizzata da Leonora della Genga    quale nobile spirito capace di diffondere compassionevoli parole nel mondo, come le sacre parole divulgate dalla Madonna

STEFANO BARDI


[1] GIOVANNI MARIO CRESCIMBENI, L’istoria della volgar poesia, Venezia, L. Basegio, 1731; LUISA BERGALLI GOZZI, Componimenti poetici delle più illustri rimatrici d’ogni secolo, Venezia, Antonio Mora, 1726; GIULIO MARCOALDI, Sonetti di tre poetesse fabrianesi del secolo 14, Cortona, Tipografie Riunite, 1914. 

[2] ELEONORA DELLA GENGA, Tacete, o maschj, a dir, che la Natura, “[…] In ogni cosa il valor vostro cade, / Uomini, appresso loro. Uomo non fora / mai per torne di man pregio, o corona.”, da: https://blog.libero.it/bibliofiloarcano/12249327.html

[3] ELEONORA DELLA GENGA, Dal suo infinito Amor sospinto Dio, “[…] Ma per dar la natia sua forma a l’huomo / sparse il suo sangue sù la Croce Dio, / perche fosse color da pinger l’huomo. / O mirabile Amor del nostro Dio, / che per poter morir, già si fece l’huomo, / accioche l’huom si trasformasse in Dio.”, da: https://blog.libero.it/bibliofiloarcano/12249327.html.  

L’autore del presente testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere in relazione ai contenuti del testo e a eventuali riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.

“Spirito e corporalità: la poesia di Nichi Vendola”, saggio di Stefano Bardi

Saggio di Stefano Bardi 

Bari, città di 319.482 abitanti dislocata su un territorio che inizia a nord nella città di Giovinazzo e termina a sud-ovest, nella città di Loseto. Territorio il barese costituito da fasce pianeggianti denominate conche che si espandono fino nelle città di Capurso, Triggiano, Bitritto, Modugno e Bitonto. Città accarezzata da un clima mediterraneo con inverni miti ed estati calde, afose e temporalesche; la cui economia è principalmente basata sull’agricoltura orto-frutticola, sull’industria chimica, petrolchimica, tessile, meccanica e sui servizi. Città che si dispiega nelle prossimità delle note Murge, altopiani carsico-tettonici inizianti nel barese e terminanti nel territorio della città di Matera. Il territorio murgese è costituito da rilievi collinari calcareo-rocciosi, da doline, da gravine e, nel caso dell’interno del territorio provinciale barese, da rilievi montuosi al di sopra dei 600 metri, dalla scarsezza di fiumi e dalla presenza di corsi d’acqua sotterranei.           

La città di Bari, come mostra il critico e accademico Daniele Maria Pegorari, è dal punto di vista letterario e poetico, rappresentata da due principali correnti stilistiche: la poesia sperimentale nata alla fine degli anni Sessanta per arrivare fino ai giorni nostri, rappresentata dai poeti Lino Angiuli e Francesco Giannoccaro. Angiuli poetizza la sua natalità geografica, antropologica, in chiave comico-irreale dove i reminiscenziali manufatti e gli intimi luoghi cari al poeta si uniscono fra di loro per creare un nuovo mondo animato da ombre e corporalità. Il dialetto è concepito da Angiuli come un gigantesco campo in cui la lingua italiana e il dialetto si fondono fra di loro in modo così da creare una nuova lingua poetica dai toni elegiaco-liturgici. Giannoccaro, invece, concepisce la poesia come un cammino nel quale incontrare nuovi amici in grado di capire, patire, conservare gli altrui patimenti spirituali ma anche, come desolato e triste pianto di ribellione contro la società dei suoi tempi governata dall’assenza dei valori. Un pianto, infine, in grado di liberare gli intimi affetti del poeta imprigionati in forme di tenebrosità sociale. La seconda corrente poetica si basa, invece, sulla poesia del quotidiano e sulla poesia impegnata raccolte nell’esperienza della rivista barese Vallisa dal 1981 ai giorni nostri. Poesia ben rappresentata dalla lirica proletaria e operaia in chiave etica di Daniele Giancane, dalla poesia intesa come una fotografia della quotidiana decomposizione sociale di Enrico Bagnato, dalla poesia popolare in chiave angelico-evangelica di Anna Santoliquido e dalla poesia cosmica, antropologica, corporale e filosofica di Fortunato Buttiglione[1].

Accanto a queste due correnti poetiche ne andrebbe aggiunta una terza basata sulla spiritualità e sulla carnalità trattata dal poeta Nicola Vendola detto Nichi Vendola (Bari, 1958), maggiormente noto per essere stato Governatore della Regione Puglia dal 2005 al 2015 (aspetto che qui non ci interessa, in nessun modo, trattare). La sua attività poetica, che si sviluppa nel periodo 1973-2003, è stata raccolta nell’opera Ultimo mare (2003).

51CEzcMbOVL._SX351_BO1,204,203,200_Il 1983 fu l’anno della raccolta Prima della battaglia contente le poesie scritte nel periodo 1973-1983. Opera in cui la battaglia simboleggia il cammino terreno verso le braccia della Morte. Cammino che, come mostra Vendola, rivela la Vita per quello che in realtà è ovvero, una nave popolata da spettri dagli occhi versanti lacrime, dalle nostalgie brumosamente[2] luminose e dalle carni “musicalmente paradisiache”[3]. Spettri che altro non sono che i riflessi della nostra anima dannatamente alla ricerca di verginei e ambigui amori[4]. Spettri che simboleggiano gli Uomini poiché condannati a conservare nel loro cuore i palpitanti, frenetici, passionali, fugaci, dolorosi amori da loro consumati durante la loro terrena esistenza[5] e ormai mutati in nostalgie dalle sacre parole e dalle infettanti lacrime, che, si lasciano stringere dalle calorose braccia della Morte[6]. Un’altra condanna per gli Uomini durante il loro cammino, è quella di vedere i propri sogni mutare in vacue e anonime fotografie dagli infettanti visi femminili[7] ma anche in flash-back capaci di mostrarci il terreno corpo come un mondo animato da depravate carni[8] e ansiosi profumi[9]. Carni, infine, che lanciano urla colme di un arcaico dolore in grado di uccidere i più luminosi pensieri e allo stesso tempo declamanti canti purificatori, in grado di trasformare i nostri amori in chimeriche visioni durante l’eterno riposo[10].

Il 1997 è l’anno della raccolta La debolezza contenente le poesie del periodo 1983-1997. Debolezza qui poetizzata da Vendola come la fragilità degli Uomini divisa in cinque sezioni: La debolezza, L’alba di poi, Angeli, Dissipazioni e Filo rosso. Fragilità declamanti timide e impaurite parole innanzi alla Morte che acceca i loro taciti e ancestrali sguardi[11] che vengono accarezzati e schiaffeggiati nel loro silenzio, da un vento colmo di gioie[12]. Fragilità dalle brumose ombre e dall’incerto cammino pari al terreno cammino poiché seguono le folli strade che conducono nelle braccia di Satana[13]. Fragilità, infine, dalla paurosa voce che si nutre dei suoi stessi dolori, in grado di infettare le verginità e le puerilità della sua anima[14]. Debolezze quelle umane che, secondo Nichi Vendola, non sono solo destinate al patimento più lacerante, ma anche alla divina purificazione in modo da poter rinascere in dilucoli[15] bagnati da umide brezze, in grado di far fiorire a nuova vita rimpianti cosmico-ancestrali[16]. Dilucoli poetizzati da Vendola come dei mondi non illuminati da intensi colori e animati da palpitanti emozioni, ma come universi popolati da scheletrici fiori d’acciaio, coccolati da funerei requiem in grado di mutare i timidi sogni in sanguinanti incubi. Anima, quella degli angeli vendoliani, in eterno cammino all’interno di riflessi che riproducono abbracci e pianti di commiato intrappolati in interminabili viaggi di spettrali velieri[17]; angeli dalle membra emananti aspre e fuligginose ombre rappresentanti perfette nudità terrene del tutto estranee ai loro velati sguardi[18]. Membra, infine, destinate a consumare la loro esistenza in un cammino di sangue che muta le loro reminiscenze, in insipidi flash-back psichici, insignificanti ombre prive di vita e destinato a concludersi in un dolce commiato dalle reminiscenziali nostalgie diventate ormai affetti, parole, sguardi e voci insignificanti[19].             

Il 2001 è l’anno del poemetto Lamento in morte di Carlo Giuliani dedicato all’attivista no-global deceduto il 20 luglio 2001, durante gli scontri del G8 a Genova. Poemetto dai toni denunziatori ed epici, poiché mostrano la città di Genova come un luogo governato dall’avido sangue della Legge[20] che inquinò la Democrazia[21]. Legge totalitaria da Vendola condannata attraverso la voce degli innocenti ingiustamente incarcerati poiché solo la loro voce è in grado di mostrarci che cosa realmente significa il potere totalitario. Attraverso questa opera Vendola, con la denuncia di quei fatti di sangue, vuole simboleggiare la conquista della Libertà[22].

Il 2003 è l’anno della raccolta Ultimo mare inserita nell’opera omnia ricompilativa, sempre delle stesso anno, insieme alle raccolte poetiche fin qui analizzate. Opera, quest’ultima, dal poeta intesa come una guida di viaggio per gli uomini attraverso i punti cardinali incominciando dalle estremità profumate di morte e di silenzio[23] per giungere alle ignude, misteriose, confuse ed erotiche quotidianità animate da incomprensibili partenze, assenze, ritorni sterili, arrugginite emozioni, affannate fughe e ombre confuse[24].                                          

    STEFANO BARDI

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Bibliografia:

CATALANO ETTORE, Letteratura del Novecento in Puglia 1970-2008, Bari, Progedit, 2009.

VENDOLA NICHI, Ultimo mare, San Cesario di Lecce, Manni, 2003.

 

NOTE

[1] DANIELE MARIA PEGORARI, La poesia in Terra di Bari in ETTORE CATALANO, Letteratura del Novecento in Puglia 1970-2008, Bari, Progedit, 2009, pp. 154-156, 158-159, 161-163, 165-166.  

[2] Con l’aggettivo brumosamente si rimanda alla nebbia. 

[3] NICHI VENDOLA, Ultimo mare, San Cesario di Lecce, Manni, 2003, p. 119. “[…] Domani morirò con triste grazia. / Domani, ieri / e mordo nei ricordi. / Ai corpi vili, s’adattano gli accordi”. 

[4] Ivi, p. 121. “[…] Ignaro di orologi / vago tra la palude ed il deserto / in cerca di cristalli / di rose. / Amo anche le ombre”.

[5] Ivi, p. 124. “[…] Tu che corri che fuggi che inciampi / che vivi”.

[6] Ivi, p. 127. “[…] Amor mio, amor mio / parlami ancora le tue parole d’incenso / e di neve struggenti  / stringi questa mano che stringe la tua morte […]”.

[7] Ivi, p. 138. “[…] gocce di chemio / e di rimmel. / Questa donna che spacca il muso / pure gli angeli”.

[8] Ivi, p. 137. “[…] questo tuo corpo emigra / da lampione a lampione / senza tregua”. 

[9] Ivi, p. 143. “Black-out dell’odore / e un letto che muore sudore. / Perle, schizzi di nulla: […]”.

[10] Ivi, p. 135. “[…] Il cerchio disperante / della roccia / si chiude attorno al tempo mio / che non ha tempo / come una spirale di nulla / che sfiora ma non rompe / la tua rotondità”.

[11] Ivi, p. 45. “[…] al collo meridiano dei silenzi / al punto estremo della mia / radice”.

[12] Ivi, p. 47. “[…] al battito di brezza / del lutto permanente”.

[13] Ivi, p. 51. “[…] a passi svelti / come un’impostura”.

[14] Ivi, p. 57. “[…] di fughe di cicoria e anfetamina / è come sfinge sotto un temporale: / finge, seduce e – sibillina – / alla Nube sacrifica i ragazzi”.

[15] Dilucoli = sinonimo di albe.

[16] Ivi, p. 63. “[…] Germogliano rimpianti / mattutini”.

[17] Ivi, p. 94. “[…] di specchi / vorticosi / narciso mio / straniero / tramonto e congettura / d’un veliero”.

[18] Ivi, p. 96. “[…] dei nudi corpi in nuda prospettiva / lungo una gotica siepaglia […]-[…] (arato amato annerito / rinnegato)”.

[19] Ivi, p.112. “[…] Sognare, forse Nino / come perduto dentro il suo maglione / come fanciullo dentro un’equazione / e gli occhi gli occhi / dopo ogni perché”.

[20] Ivi, p. 21. “[…] la morte all’imbrunire / lontano dal cancello / chiuso dentro l’imbuto / di un altro carosello / di carri armati e irati / di un celerino a uccello / ti spezzano i carati / del sogno tuo degli anni / l’ora del manganello / rintocca nei tuoi panni / l’ostia di nuovi giorni / si frange a questo luglio […]”.

[21] Ivi, pp. 28-29. “[…] Una maglietta sporca / Un grido senza soglia / Cova una morte porca / La sua più viva voglia / Lasciate questa stanza / Lasciate i ragazzini / Lasciate quei capelli / Lasciate gli orecchini / Lasciate gli occhi belli / L’idrante non li spegne / Piange il termosifone / Mattanza dei calzini / Urlano i rubinetti / Crocifissi assassini / Scappano le pagelle / Inciampano i volantini / Volti di casco nero / Guanti senza più tatto / Spezzare braccia al pero / Pisciare in faccia al gatto / Strappare i riccioloni / Ammutolire il matto / Al Diaz questi bambini / Imparano lo sfratto / L’igiene dei celerini / Il fascio al suo contatto […]”. ; Ivi, pp. 31-33. “[…] Grida non supplicare / Vola con le falene / Nudo da scorticare / Nella palestra oscura / Morire di paura / Ore da cavalcare / Sibila triste notte / Tenebra muta e botte / Sull’occhio tumefatto / Dal guanto che ti fotte / Olfatto / Non sentire / Il sangue che raggruma / La vita e le sue spire / La fine a spuma a spuma /Mamma vieni che sfuma / L’alba delle mie ire / Mi sento di morire / Mi portano lassù / Nel bianco corridoio / In piedi a nessun gesù / Ecco ora muoio muoio / Mamma non vieni più / Mi strappano gli anelli / Mi segano nel cuoio / Ancora manganelli / Presto presto che muoio / Mi sputa nella bocca / Mi sputa nella bocca / Mi sputa nella bocca / Saliva d’albicocca / Saliva che mi fende / Straripa tra le tende / Ogni mio corpo tocca / Tracima ficca offende / Saliva come un veto / Nell’atrio a Bolzaneto / Che lenta al dopo ascende / Guardiana nel pineto / Rotoli come onde / Di un mare scolorato […]-[…] Lasciami tacere / Lascia ch’io non ti veda / Ascia ascia e colpire / La nuca il mento il cuore / È lunga lunga strada / Io non cammino più / Mi fermo a Bolzaneto / Non grido e scendo giù”.         

[22] Ivi, p. 27. “[…] non dire al carabiniere / cos’è la verità / morta con l’estintore / è un guizzo d’autorità […]-[…] nel cielo tuo a spirale / nella tua morte lesta / nel lutto che ci desta / al corpo tuo che sale”.

[23] Ivi, pp. 15-16. “[…] le ossa dei bambini disseccati / i nostri geroglifici laccati / delle macerie all’ora della cena / la polvere da sparo e le trielina / il cielo imploso e rosso e bianco e nero / e questo rutilante cerchio assiro / che chiude i conti dell’eternità […]-[…] quando resta la nostra carcassa / tu ti calcoli un rapido sonno […]”.

[24] Ivi, p. 18. “[…] Fu un secolo avvolto nel telo / di troppe partenze spartite partite / sparite / e ritorni penitenze astinenze / dal sogno. / Giorni di bassa marea / di astri ossidati nel volo / di corse braccate dall’asma / a sgranare le ombre di sabbia […]”.

Osvaldo Anzivino e Raffaele Lepore, poeti dialettali foggiani

Articolo di Stefano Bardi  

Vorrei parlare di Foggia e della sua cultura poetica dialettale. Luci e tenebre di una città che conserva il suo patrimonio architettonico-culturale in maniera esemplare anche grazie, allo studio e alla divulgazione del suo dialetto risalente all’XI e XII secolo nato dal linguaggio della pastorizia, dell’agricoltura e dell’allevamento contaminandosi durante il suo cammino storico con lessemi napoletano-abruzzesi per giungere fino ai giorni nostri perdendo però, la sua originalità sintattico-linguistica e verbale. Dialetto che è stato usato in particolar modo nei secoli nella poesia, come è dimostrato da due poeti del secolo scorso, Osvaldo Anzivino e Raffaele Lepore.

OSVALDO ANZIVINO (1)Osvaldo Anzivino (Foggia, 1920-2011) dal punto di vista editoriale ci ha lasciato le raccolte Quatte passe pe Fogge (1975) e Archi del tempo (1978 e 1984). Opere che, come ci dice il poeta, scrittore e saggista Sergio D’Amaro sono fortemente legate al suo paese natale e in particolar modo alla figura del ferroviere che tanto sangue versò nel 1943 per liberare i foggiani e gli italiani interi, dal Nazifascismo. Più nel dettaglio è concepito dal poeta, come una guida spirituale che aiuta i foggiani nella lotta sociale e civile per la libertà, la pace universale e la fratellanza fra gli Uomini[1]. In Quatte passe per Fogge l’elemento naturale del mare è visto come un iroso padre che schiaffeggia i suoi figli purificandone gli oscuri respiri e uccidendone le carnali infezioni[2] mentre la luna è vista come un’inarrivabile compagna esistenziale, ma anche come una silenziosa madre che dispensa ai suoi terreni figli dolci, buone e compassionevoli parole colme d’amore.[3] In Archi del tempo, gli archi del titolo simboleggiamo delle spazio-temporalità in cui il poeta rivede il suo passato, qui rappresentato da Foggia e dall’universo mezzadro. Tale città è vista come una dolce reminiscenza marchiata a fuoco sul suo cuore, come un eccitante sogno e un intimo universo in cui rivedere le vecchie amicizie di una volta.[4] Universo mezzadro, infine, rappresentato dalla figura della contadina, concepita come una creatura condannata a stremanti lavori che terminano con insignificanti cibi, che procurano ferite e carnali infezioni, che creano disagi socio-esistenziali all’interno della famiglia e che mutano la contadina in una creatura sbeffeggiata addirittura dal firmamento celeste.[5]

RAFFAELE LEPORE.jpgIl secondo poeta è Raffaele Lepore (Foggia, 1923-1989), fortemente legato alla sua città da lui concepita attraverso il passato e attraverso la modernità per lui del tutto indecifrabile, come si evince dai titoli Quann’ére uaglione (1967), Carosello foggiano (1970) e ‘I timbe so cagnàte (1980). Nella raccolta del 1967 leggiamo poesie sulla sua infanzia rimembrata come una vita fatta di solitari passi, di offuscate luci, di spirituali dolcezze, di gioie etico-sociali, di quotidiani incontri familiari e poesie sulla figura del padre defunto, dal figlio poeta rimembrato come un’ombra emanante gioia, come un padre intensamente legato agli affetti filiali e come una paradisiaca ombra sempre presente, nella terrena vita del figlio.[6] Accanto a questi temi compaiono quelli legati alla sua infanzia e più precisamente ai suoi giochi, ricordati come momenti di puro godimento. Nella raccolta del 1970, quella di maggior successo, si possono leggere liriche sul mare dal poeta visto come un grande arcobaleno dagli accecanti colori e come un cammino esistenziale che deturpa, contamina e come un avido padre che soffoca il suo passato.[7] Mare affiancato dai temi riguardanti la Religione e il Natale. Tema – la Religione – che è poetizzato attraverso la figura del rosario, dal quotidiano rapporto matrimoniale fra marito e moglie fatto di angherie, soprusi e lacrime. Tema invece quello del Natale, dal poeta trattato attraverso il giorno della vigilia concepito come un frenetico giorno composto da assordanti rumori, soffocanti voci, inebrianti sapori. Opera infine quella del 1980, dove la città natale dell’ormai maturo Lepore non è cambiata nel suo cammino esistenziale e nelle sue architetture ma lo è a livello umano in un universo dove le vecchie amicizie del poeta si sono trasformate in impercettibili fantasmi.[8] Città, infine, che si è trasformata in un universo dove i suoi momenti infantili sembrano essere diventati insignificanti ombre del passato, quali lontani ricordi a lui ormai del tutto estranei.[9]    

STEFANO BARDI

L’autore del presente testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere in relazione ai contenuti del testo e a eventuali riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.

 

Bibliografia e Sitografia di Riferimento:  

CATALANO ETTORE, Letteratura del Novecento in Puglia 1970-2008, Progedit, Bari, 2009. 

Foggia, da Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Foggia

Poesie Osvaldo Anzivino, dal link: http://toniosereno.altervista.org/pagina-845487.html 

Poesie Raffaele Lepore, dal link: http://ildialettodifoggia.altervista.org/raffaele-lepore.html   

           

 

[1] SERGIO D’AMARO, Poeti in Capitanata in ETTORE CATALANO, Letteratura del Novecento in Puglia 1970-2008, Progedit, Bari, 2009, p. 115. 

[2] OSVALDO ANZIVINO, Acque e scoglje, dal link http://toniosereno.altervista.org/pagina-845487.html  consultato il 23/12/2019 (“[…] L’acque, lundane, e’ fèrme; nen zze mòve, / ma sop’e scoglje corre, sbatte e ‘ndorne, / piggh’a sckaff’i prete, zombe a l’àrje, / s’apre a vendaglje e ccade sckattijànne / pe nderre cumie vitre de becchire.”)  

[3] OSVALDO ANZIVINO, Luna chiène, dal link http://manganofoggia.it/osvaldo-anzivino/ consultato il 23/12/2019 (“[…] Crijatùre, ggiuvenòtte, / òme fatte, / ci amme tenùte sèmbe cumbagnìje/ passànne nzime tande e ttanda notte. / Ije t’accundàve tutt’i fatte mìje / quanne che nnìnde m’ ’a pigghiàve a ffòrte, / e ttu rerènne, ‘a facce ‘a mèla còtte, / decive doje paròle de chenffòrte. […]”)   

[4] OSVALDO ANZIVINO, Fogge, paèse mìje, dal link http://toniosereno.altervista.org/pagina-845487.html  consultato il 23/12/2019 (“[…] Fogge, paèse mìje, / tu staje stepàte / ind’a qquistu còre. / Anne dop’ anne, / sforze, sedòre, / strazzàte i panne, / o, forse, segnòre, / ije, cum’e ttanne, / ije te pènze angòre. […]-[…] i vìje de Fogge, ‘a case ndò sò nnàte; / ‘a tèrre che chemmògghie ‘a ggènda mìje; / tanda parìnde, tutt’ ‘a cumbagnìje / ch’ agghie rumàste da tand’ anne fa.”)                

[5] OSVALDO ANZIVINO, ‘A tarrazzàne, dal link http://toniosereno.altervista.org/pagina-845487.html  consultato il 23/12/2019 (“[…] Ha ffadegàte tutte ‘u jùrne sane / ind’a na pèzze, / ch’i pìde sènza scarpe / mmìzz’ ê spìne, / e na stòzze de pane / l’ha ssuppùndàte ‘u stòmeche. […]-[…] e i màne, / pòveri màne! / So ttutte aperte, lòrde de tèrre. […]-[…] Nenn e’ ffenùte angòre sta jurnàte: / s’ha da ‘bbadà a i crijatùre: / a ‘u piccule ca chiàgne e vvòle ‘u làtte; / s’ha da penzà a mmagnà / ggià vòlle l’àcque. […]-[…] I stèlle tremelèjene / cum’ e llambìne / a mmìll’ a mìlle. / Dumàne ‘u tìmbe e’bbùne! / Dumàne… sì, dumàne / e’ n‘ate jùrne lunghe de fatìche.”)          

[6]              RAFFAELE LEPORE, A papà mije, dal link http://ildialettodifoggia.altervista.org/raffaele-lepore.html consultato il 24/12/ 2019 (“[…] ‘U vulèvene bène tutte quande, / ére allègre, ‘i piacève ‘a cumbagnije! / Gènde de tutte spècie ‘u respettave, / pecchè teràve a tutte ‘a sembatije; […]-[…] Vulève ‘ a cumbagnije d’i figghje suije: / ‘u baciamme, e cundènde s’a revève… […]-[…] Tu rire angòre, d’a fotografije, / ma a nuje nenn’esce manghe na parole, / sole n’Avemmarije,… papà mije.”)     

[7]              RAFFAELE LEPORE, Mare, dal link http://ildialettodifoggia.altervista.org/raffaele-lepore.html consultato il 24/12/2019 (“[…] E’ bèlle, tène cinde sfumature, / cagne chelore d’a matìne ‘a sère, / d’o vèrde, ‘o rusce, ‘o blù, quanda petture / l’hanne guardàte quanne s’arravògghje! / L’acque se move, nen se fèrme maje, / azzoppe, torne ‘ndrète, po’ se ‘mbrogghje, / se ‘ngrèspe, face ‘a sckume, cacce ‘a ‘ddore, / se sfasce ‘a lonne, po’ ne vène n’âte, / cke n’âta forme, cke n’âte remòre. […]-[…] ‘A vite nen se fèrme, e tu nèmmanghe, /pèrò, jurne pe jurne qualche cose / rumàne ‘ndèrre e ‘nde n ‘accûrghe manghe. […]”)           

[8]              RAFFELE LEPORE, Doje piume, dal link http://ildialettodifoggia.altervista.org/raffaele-lepore.html consultato il 24/12/2019 (“[…] Pe quìstu viche, ‘u timbe nn’è passàte, / e se defènne, e stipe, amminze ‘e mure, / lùcchele e voce ca ‘nze sò cagnàte, / umedetà e ‘ddore de fretture. / Ck’a scuse d’accattà nu cuppetille, / ‘a frutte, ‘i pelanghille, doje carote, / ce passe apposte ind’a stu vecarille: / là vède angòre Fogge de na vote!”)       

[9]              RAFFAELE LEPORE, Scagghjûzze, dal link http://ildialettodifoggia.altervista.org/raffaele-lepore.html    consultato  il 24/12/2019 (“[…] turnàje ‘ndrète de parècchj anne, / e revedije, cûme si fosse aire, / jurnàte ca passàvene zumbanne: / ‘ i lite, ‘i jûche fatte annand’a scole, / ‘u scagghjuzzàre ck’a stagnère annanze, / ‘u pianine, ‘u bellome ck’i varole, / tarrazzane ck’i ciste e ck’i velànze! / Fra ‘i poche cose ca ce stanne angòre, / de quilli timbe bèlle e spenzaràte, / stanne ‘i scagghjûzze càvede ck’a ‘ddore, / pure si peccenùnne e arresecàte. / Nu sfûglje sicche sicche, color d’ore, / arresecàte, sì, redutte a ninde, / e t’è sta attinde quanne isce fôre: / si agàpre ‘a carte,… s’i carrèje ‘u vinde! […]-[…] hagghje accattàte solamènde ‘a ‘ddore!”)               

“Vita e guerriglia: introduzione alla lettura di Ernesto Guevara” a cura di S. Bardi

Articolo di Stefano Bardi  

Ernesto Guevara, detto il “Che”, nacque a Rosario nel 1928 e morì a La Higuera nel 1967;  simbolo della ribellione sociale nel nome di una società che concepisca gli uomini vedendoli come fratelli, di un’economia che sappia valorizzare il prodotto interno di una politica che sappia disfarsi delle retoriche per scendere in mezzo al popolo. Un rivoluzionario che ancora oggi è richiamato e impiegato come una bandiera socio-politica senza, però, capirne il significato che va rintracciato nei discorsi inerenti alla guerra di guerriglia, al suo diario boliviano e del diario della rivoluzione cubana.

Una prima opera da considerare è il saggio La guerra di guerriglia e altri scritti politici e militari (1967) in cui la rivoluzione popolare si basa sul nemico con il suo esercito militare statalista e sul suo avversario rappresentato dal popolo, costituito da contadini, operai,  pescatori. Guerrigliero da Ernesto Guevara considerato ancor di più del semplice brigante, poiché è rappresentato dal contadino che ben conosce le sofferenze sociali che vive in prima persona, sulla sua pelle, i soprusi del potere dittatoriale. Angherie che spingono il guerrigliero a ribellarsi al potere totalitario; il rivoluzionario è il Salvatore delle masse, che deve trionfare nella lotta di guerriglia dove la sconfitta non è prevista. Vita, quella del guerrigliero, che si carica di un significato trascendentale, poiché la sottrazione della Vita del guerrigliero da parte del nemico. Elemento importante della lotta di guerriglia è la strategia operativa. Pianificazione caratterizzata dalla capacità d’azione del combattente che gli consente di fuggire da un contrattacco difensivo nemico, di muoversi meglio durante la notte, di prendersi gioco tatticamente dell’avversario, di attaccare improvvisamente il fronte nemico, di sfruttare a suo favore ogni fallimento del nemico e di conquistare la vittoria nel più breve tempo possibile. Strategia che, però, non può sussistere senza il boicottaggio che a sua volta non deve essere rivolto alle coltivazioni e alle lavorazioni mezzadre, ma, verso le centrali di energia elettrica, le centrali idroelettriche e le centrali di gas che simboleggiano il potere totalitario. Boicottaggio che deve avvenire attraverso un attacco aereo poiché è l’unico strumento in grado di creare danni irreparabili e perché consente di colpire precisamente le principali vie di comunicazione. Tattica e boicottaggio vanno affiancate alla cura dei feriti e al rispetto della popolazione civile. Il rivoluzionario è inteso da Guevara in due modi: educatore sociale e combattente. Educatore sociale che deve eliminare un organismo ingiusto (la dittatura) per sostituirlo con uno nuovo (la democrazia) che deve basarsi sulle sue conoscenze militari e sociologiche personali, ma anche sulle azioni e sui precetti da insegnare agli altri guerriglieri durante un determinato momento di lotta. Accanto all’educatore sociale c’è il combattente che deve essere originario del luogo in cui si sta svolgendo la guerriglia perché gli consente di usare a suo piacimento tutti i vantaggi del terreno. Combattente che deve essere coraggioso, avere una perfetta strategia bellica e deve trovare la luce anche nelle situazioni più sfavorevoli.

Non scordiamoci, inoltre, della figura del medico che è di vitale importanza; non si limita solo a curare le ferite causate dalla lotta, ma sostiene il guerrigliero eticamente e gli si mostra come un “divino protettore” che lo proteggerà fino alla fine. Accanto a guerriglieri ci sono le loro compagne, da Guevara viste pari ai loro compagni, in grado di usare le armi e di combattere, ma anche di organizzare la comunicazione segreta fra i vari gruppi guerriglieri. Operazione che consente di trasportare munizioni, armi, soldi, informazioni e di essere più libera dalla sorveglianza nemica perché ritenuta un soggetto non pericoloso. Un secondo e ultimo ruolo di vitale importanza è l’educazione dei bambini che gli consente di inculcare nelle nuove generazioni l’ideologia rivoluzionaria.

Importante è la propaganda della guerriglia che deve essere messa in atto attraverso i giornali locali e la radio, poiché sono in grado di diffondere i discorsi dei guerriglieri, gli attacchi nemici e di avvisare indirettamente il popolo alleato.

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Una seconda interessante relativamente agli argomenti da me trattati è il Diario del “Che” in Bolivia o più semplicemente Diario in Bolivia (1968, postumo) la cui edizione completa e definitiva è da considerarsi quella del 2005. Questa opera contiene il resoconto guerrigliero di Guevara contro la dittatura di René Barrientos Ortuño nelle foreste boliviane, dal 7 novembre 1966 al 7 ottobre 1967, ovvero fino al giorno prima della sua dipartita. Diario dove il nemico non è visto come un avversario da eliminare ma come un alleato da recuperare e convertire. Operazione che può riuscire solo seguendo una determinata linea politica, da Guevara intesa come l’unica via da perseguire perché il non rispettarla significava esporsi gratuitamente al fuoco nemico. Altro fattore che risalta da questa pagine è l’accampamento, dal rivoluzionario argentino inteso come uno spazio vitale e dai toni mistici da proteggere, poiché lì risiede la linfa esistenziale del guerrigliero. Accampamento in cui viene attuata la condivisione degli alimenti e degli oggetti fra i vari guerriglieri, che simboleggia la fratellanza e attesta la fedeltà dei guerriglieri alla causa per cui stanno combattendo. Esercitazioni e azioni guerrigliere sono viste, infine, come le principali vie per diventare guerriglieri.   

25326455.jpgUna terza e ultima opera è il Diario della rivoluzione cubana (1996, postumo), ristampato nel 2002, dove leggiamo le fasi della rivoluzione fino al giorno cruciale di Santa Clara ovvero la conquista di Cuba e la caduta del regime dittatoriale di Fulgencio Batista y Zaldívar che porta alla nascita della dittatura di Fidel Castro. Opera dove leggiamo altri aspetti non meramente bellico-militari: l’igiene intima e l’alimentazione giornaliera, dal rivoluzionario visti come dei fabbisogni vitali in grado di mantenere i guerriglieri in ottima salute e di mutarli in esseri sovrumani, imbattibili e immortali; la cura dei nemici feriti per ordine di Fidel Castro, da lui visti sì come nemici, ma, ancora prima come Uomini da rispettare e da lasciar liberi di scegliere se arruolarsi nelle milizie ribelli o vivere come Uomini liberi. Accanto alla cura dei feriti nemici c’è la cura dei feriti ribelli che non sono visti come dei compagni d’armi ma come degli educatori che, dopo la vittoria su Batista, devono educare socialmente, civilmente e politicamente le nuove generazioni alla ideologia castrista. Un ultimo aspetto riguarda l’esecuzione dei traditori, da Ernesto Guevara intesa come una giusta punizione per il tradimento della fiducia dei propri compagni d’armi e come una punizione per l’infedeltà verso la causa della rivoluzione cubana.              

 STEFANO BARDI

 

Bibliografia di Riferimento:

GUEVARA ERNESTO, Diario del “Che” in Bolivia, Feltrinelli, Milano, 1968 e 1969, 1972, 1977, 1973, 2005.

GUEVARA ERNESTO, Diario della rivoluzione cubana, Newton, Roma, 1996 e 2002.

GUEVARA ERNESTO, La guerra di guerriglia e altri scritti politici e militari, Feltrinelli, Milano, 1967.

 

L’autore del presente testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere in relazione ai contenuti del testo e a eventuali riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.

“Dialetto e musica del Salento: Officina Zoè e Antonio Castrignanò”, articolo di Stefano Bardi

Articolo di Stefano Bardi 

Salento, terra dall’arcaica storia e dall’arcaico dialetto come per esempio quello leccese in continua evoluzione e molto parlato ancora oggi. Dialetto che è usato nella letteratura popolare fatta di musica e di parole da gruppi locali come Briganti di Terra d’Otranto, Tamburellisti di Torrepaduli, Zimbaria, Alla Bua, Manekà, I Calanti, Lu Rusciu Nosciu e il gruppo Officina Zoè nato nel 1993. Questo gruppo è formato attualmente da Cinzia Marzo (voce, flauti, tamburello, castagnette), Donatello Pisanello (organetto diatonico, chitarra, mandola, armonica a bocca), Lamberto Probo (tamburello, tamborra, percussioni), Giorgio Doveri (violino, mandola), Luigi Panico (chitarra, mandola, armonica a bocca), Silvia Gallone (tamburello, tamborra, voce) e Laura De Ronzo (danza). Le sue produzioni si basano su musiche tradizionali con testi in salentino trattanti temi legati al lavoro in campagna ma anche temi amorosi, etici, sociali e altri ancora.

0006206_terra-officina-zoe_550 (1)Il 1996 è l’anno dell’album autoprodotto Terra, che sarà poi ripubblicato nel 2005 da Anima Mundi. Terra, qui, intesa sia come Salento in cui far fiorire magici amori sia come campagna, in cui possiamo vedere la sua carne lacerata, con addosso ferite che versano per l’eternità. Lettura quest’ultima che è rappresentata dal forte utilizzo musicale del tamburello salentino che musicalizza i dolorosi aneliti, gli straziati battiti spirituali e i laceranti pianti della campagna salentina.

Una prima tematica è di stampo religioso attraverso la figura di San Paolo, ovvero, il protettore celeste delle vittime tarantate che sono da esse purificate attraverso la sua dolce voce in grado di uccidere la demoniaca tarantola e di riportare l’amore nel cuore della tarantate. Parole, quelle del santo, che sono simboleggiate dal suono del tamburello, non costruito da mani umane, ma nato dal puro spirito divino e in grado di scatenare nelle carni delle tarantate un’intesa eccitazione, che le obbligherà a compiere un ballo liberatorio.

Una seconda tematica è legata alla terra e, più nel dettaglio, alle lavoratrici di tabacco considerate come inutili cerature da umiliare nella canzone “Fimmine fimmine”, alle contadine viste come schiave nella canzone “La tortura” e alle contadine malpagate e sfruttate nella canzone “Lu sule calau calau”.

Una terza tematica riguarda l’amore, dal gruppo salentino musicato come una ragazza dalle divine carni, dai magici e luminosi sguardi, dalle tenebrose e chimeriche chiome, dalle ubriacanti movenze fisico-corporali e dal cuore divoratore di uomini.

Una quarta e ultima tematica riguarda la mitica origine del mare salentino nella canzone “Lu rusciu de lu mare”, dove le cristalline acque sono le dolorose lacrime versate dalla figlia di Nettuno, a causa delle umane cattiverie nel Mondo.

Il 2000 è l’anno dell’album Sangue vivo pubblicato da CNT-Cantoberon. Sangue che è inteso come l’ardente sangue dei salentini tutti, ma anche come resurrezione allo stesso tempo. Sangue letto attraverso il tema del vento nella canzone “Jentu”. Vento sanguinante di passioni che ci abbeverano l’aspra bocca, ci quietano lo straziato spirito, ci riscaldano la bocca di affettuosi baci, ci immergono in elisiache primavere e ci fanno consumare la Vita in nome della frenesia. Vento e sale attraverso la canzone “Sale” che ci allontana dalle luminose esistenze del Padre Celeste per tuffarci in false materialità terrene. Sangue dai toni ancestrali nella canzone “Mamma la luna”, poiché come la luna muove il mondo e i suoi abitanti, lacera le carni e lo spirito e infine, ci affoga nell’eterno sonno per farci poi rinascere come creature ultraterrene dal candido, vergineo e cristallino spirito. Un sangue infine dal passato storico, attraverso la canzone “L’America”, che racconta la partenza dal Sud di molti ragazzi per raggiungere la nuova Terra Promessa, ovvero, l’America. Stato questo in cui si trovava la fortuna e allo stesso tempo però ci si scordava delle proprie mogli, che, ormai da anni senza più notizie dei loro mariti, si rifacevano una nuova vita.

Il 2004 è l’anno dell’album Crita pubblicato da Polosud Record. Un primo tema è sviluppato nella canzone “Ferma ferma”, dove l’erotismo è visto come un lussurioso gioco carnale e come il motore che anima i piaceri, le spiritualità, le luminose gioie, gli inebrianti profumi e i divini amori del Mondo. Erotismo che, però, si basa sull’amore qui musicato nelle canzoni “Anima bella” e “Allu sciardinu”. Nella prima canzone è rappresentato con le sembianze di una dolce fanciulla vista a sua volta come un dolce e caloroso sogno, come una divina ombra da osannare e come un prezioso tesoro da proteggere dalle cattiverie. Nella seconda canzone, invece, è concepito come un magico giardino dalle elisiache atmosfere. Album con tematiche dai magici toni, attraverso le canzoni “L’acqua ci te llavi” e “Tambureddu meu”. Nella seconda canzone, il tamburello salentino è concepito come un magico strumento in grado di creare frenetiche melodie, di accendere l’erotica passione nel cuore dei ragazzi. Album questi affiancati da altri album in studio e live del gruppo salentino, senza però che nessuno degli altri possieda la stessa potenza poetico-musicale di quelli da me analizzati e che rappresentano ad oggi, il testamento poetico-musicale degli Officina Zoè.

Sempre per rimanere nella tradizione e per iniziare un discorso di innovazione, dobbiamo occuparci del cantante e tamburellista salentino Antonio Castrignanò (Galatina, 1977). Il 2010 è l’anno dell’album Mara la fatìa prodotto da Felmay, composto, musicalmente parlando, da pizziche e da tarantelle che musicano il maro, ovvero, l’amaro e aspro universo dei mezzadri salentini. Universo questo trattato nelle canzoni “Mara la fatìa”, “Lu Sule Calau” e “Tremulaterra”. Una canzone, la prima, dove la fatica mezzadra è vista come una necessità economica imposta da altri sulla propria pelle, come un massacrante sforzo psico-fisico, come una straziante lacerazione delle carni e come un universo animato da irreali e spettrali amicizie. Una fatica, che, come ci viene mostrato nella seconda canzone, è regolata dal sole visto come un padrone che tutto decide e che regola la Vita contadina, non tenendo conto delle gioie e dei dolori umani. Campagna infine vista nella terza canzone, come una creatura che si nutre del sudore e del sangue dei braccianti. Sangue e sudore, che sono i principali alimenti delle giovani ninfe partorite dalla campagna salentina. Tematiche queste affiancate da quelle riguardanti la figura del carrettiere e la figura della donna. Carrettiere trattato nella canzone “Cantu a trainiere” dove è visto come una creatura dall’infernale voce, in grado di lacerare le carni, di creare fantastiche storie e di trasportare gli Uomini in chimerici universi. Donna infine poetizzata attraverso la canzone “Signora Madama” e che ci mostra la donna salentina come una schiava del proprio marito, ma anche, come una creatura avara, passionale, focosamente erotica e pia.

antonio-castrignano-fomenta.jpgIl 2014 è l’anno dell’album Fomenta prodotto da TUK Record. Termine fomenta in italiano come infiammazione e che rimanda, alle emozioni che ardono, infiammano, consumano e bruciano lo spirito attraverso canzoni tematicamente forti e accompagnate da tradizionali musiche salentine contaminate da sonorità balcaniche, zingaresche e arabo-gitane che rappresentano l’innovazione poetico-musicale di Antonio Castrignanò. Una prima tematica la possiamo trovare nella canzone “Core meu”, dove il padre e la madre gli vengono nel sogno, il primo con parole colme di sangue e la seconda con parole colme d’amore. In particolar modo attraverso il ritornello, la madre è rappresentata come una creatura colma di amore, bontà, luminosità, dolcezza e come una saggia consigliera per quello che riguarda l’eterna giovinezza, dall’artista salentino riprodotta attraverso il suono del tipico tamburello salentino in grado di salvare gli Uomini dalla terrena Morte e farli vivere, in un universo animato da dolci nostalgie e commoventi reminiscenze. Una seconda tematica la troviamo nella canzone “Fomenta”, dove la Vita è vista come la taranta, ovvero, come un’ardente, passionale ed erotica danza all’interno di una Vita composta da laceranti dolori, da sofferenti croci esistenziali, da oscure brume spirituali e popolata infine da Uomini che muoiono e rinascono ogni giorno. Dolori e sonni eterni che possono essere curati attraverso la pizzica vista come una creatura dalla divina voce, in grado di farci rinascere come paradisiache creature dai dolci aneliti, dalle leggiadre carni, dalle ubriacanti movenze, dall’ardente sangue e da un candido spirito che profuma di libertà. Il tutto musicato da sonorità salentine e gitano-zingaresche realizzate da violini, fisarmoniche e tamburelli a sonagli che simboleggiano gli umani singhiozzi colmi di sofferenza e di lacrime. Una terza tematica è racchiusa nella canzone “Li culuri te la terra” dove l’amore è concepito come una tavolozza dai mille colori simboleggianti dolci reminiscenze, amare ombre esistenziali, accecanti allucinazioni paradisiache e ardenti amori passionali come la melodia della pizzica, le parole della taranta e le sanguigne lacrime della campagna salentina.

Una quarta tematica, la possiamo leggere nella canzone “Furtuna” dove è trattato il dolore spirituale dell’io costretto a consumare i suoi giorni, all’interno di una società insensibile alle emozioni e all’amore. Una quinta tematica, la possiamo ascoltare nel brano strumentale “Terraferma” dove la musica salentina e arabo-gitana simboleggino il cammino migratorio degli Uomini fatto di dolore, lacrime, sangue e morte. Un cammino quello umano che vuole condurre i suoi figli, a una nuova Terra Promessa dove poter vivere nella pace psico-fisica, nell’amore spirituale e nella purificazione carnale. Una sesta e ultima tematica, la rintracciamo nella canzone “Luna otrantina” dove la luna di Otranto è vista come uno specchio riflesso, dove vediamo immagini riguardanti l’esistenza di questa città animata da fatiche marittime, da dolci e amari sogni e da interminabili notti.     

STEFANO BARDI

 

Discografia di Riferimento: 

Officina Zoè, Terra, autoprodotto 1996 e ristampa Anima Mundi, Otranto, 2005.

Officina Zoè, Sangue vivo, CNT-Cantoberon, 2000.

Officina Zoè, Crita, Polosud Record, Napoli, 2004.

Antonio Castrignanò, Mara la fatìa, Felmay, Torino, 2010.

Antonio Castrignanò, Fomenta, TUK Record, 2014.

 

L’autore del presente testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere in relazione ai contenuti del testo e a eventuali riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.

 

 

 

 

 

“Dolce e amara terra: la poesia dialettale del salentino Pietro Gatti”, a cura di Stefano Bardi

Saggio di Stefano Bardi 

Brindisi, capoluogo salentino di 86.811 abitanti caratterizzato prevalentemente da un’economia mezzadro-marittima a base di uva da tavola, vino, ulivi, mercati ittici. Terra di Confine è stata giustamente definita questa città divisa da un Nord, fatto di città industriali, e da un Sud composto prevalentemente da città mezzadre. Provincia che è costellata di aspre e “selvagge” cittadine Ceglie Messapica. Cittadina che ancora oggi conserva un dialetto difficile, quasi incomprensibile e difficilmente irriproducibile, costituito da due elementi: lingua cegliese e lingua messapica. Una lingua, la prima, che risente fortemente del vocabolario barese e tarantino, mentre la seconda, ormai del tutto scomparsa, altro non è che l’antica lingua illirica nata a sua volta dall’alfabeto greco e poi radicatasi nella Murgia meridionale nelle città di Brindisi e Lecce con una vasta espansione nel tarantino, fino alla fine dei suoi giorni nel 272 a. C.  Un dialetto difficile ma melodico e adatto per la poesia, come è stato dimostrato dal suo figlio più illustre, ovvero il poeta Pietro Gatti (Bari, 1913 – Ceglie Messapica, 2001). Terra, quest’ultima, in cui visse la sua infanzia e la sua intera vita.

Ceglie Messapica

Una vista del comune di Ceglie Messapica

Il 1973 è l’anno della raccolta a tiratura limitata Nu vecchje diarie d’amore (Un vecchio diario d’amore), dedicata al matrimonio della figlia Mimma, dove l’amore è visto come un bocciolo di rosa che fiorisce, un aspro dolore dalla dolce fragranza, un’avida ombra ultraterrena.    

Segue la raccolta A terre meje (La terra mia), pubblicata nel 1976. Opera dedicata alla sua amata Ceglie Messapica dove il dialetto da lui usato come sostiene l’ex Sindaco, Pietro Federico, mostra tutta l’asprezza e arretratezza di questa città con le campagne dalla rossa terra come l’argilla, con i suoi maestosi ulivi malinconici e con le sue case pitturate di bianco che rimandano all’innocenza di tanti ragazzi buttati per la strada[1]. Parole queste che vanno ampliate con quelle del critico letterario Mimmo Tardio che vede la città brindisina come una sorta di Inferno dantesco composto da villani, buzzurri, screanzati, incivili, reietti e dalle categorie socialmente più dannate.

Tema prediletto dell’intera opera è quello del legame Madre-terra che il poeta realizza attraverso la decantazione delle origini mezzadre e della terra intesa come una grande Madre Universale che ci coccola, ci perdona, ci spoglia socialmente, ci isola da tutti rinchiudendoci in un mortale sepolcro[2]. Anche le parole del critico letterario Ettore Catalano vanno aggiunte perché mostrano l’opera gattiana come una raccolta omaggiata alla sua aspra terra e allo sfruttamento dei suoi contadini, dal poeta concepiti come fatica, sangue e polvere[3].

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La terra di Pietro Gatti ha una doppia valenza, sia intesa come il luogo abitativo del poeta sia come la campagna cegliese da esso liricizzata come un dolce Paradiso Terreste e come uno scrigno colmo di nostalgie[4], un luogo dalle rosse rocce come il sangue dei contadini e dalle fragili ossa come l’umana esistenza[5], come un animale morente ormai privo di forze e infine, come una donna tutta nuda che ebbra dal sole osserva la Vita che si muove accanto a lei[6]. Terra che, però, non è solo campagna, ma anche un luogo dove il poeta viaggia nei suoi ricordi d’infanzia e dove la nenia del baracciaio[7], si trasforma in un lacrimoso lamento riguardante la sua vita fatta di miserie, sacrifici, rinunce e sogni mai realizzati[8]. L´infanzia come uno stupendo plenilunio lunare e avvolto da un’atmosfera priva di spazi, confini e materialità[9]. Una terra che simboleggia la Vita, essa che è un’asfissiante e falsa fratellanza terrena destinata a essere soffocata dalla morte, intesa da Gatti come un luogo popolato da liete ombre che vivono all’interno di luminosi Campi Elisi nell’attesa di rinascere a nuova Vita per riviverla nuovamente[10]

Il 1982 è l’anno della raccolta Memorie d’ajere i dde josce (Memorie di ieri e di oggi): memorie del passato e memorie metafisiche. Una prima memoria riguarda la sua dimora a Ceglie Messapica vecchia, concepita come il balcone del mondo dal quale osservare la paesana esistenza composta da esistenze casalinghe, da puerili schiamazzi di innocenti pargoli, da mortifere melodie ecclesiastiche e da serate illuminate dalle stelle sotto le quali giovani ragazzi si scambiamo baci furtivi. Una seconda memoria è illustrata attraverso il volo delle rondini, che simboleggia il cammino terreno degli Uomini fatto di luci, tenebre, ombre, lacrime, dolori e infine di eterni riposi riscaldati da paradisiache visioni. Una terza memoria è illustrata attraverso l’allodola, ovvero, un angelo dal divino canto[11]. Una quarta memoria riguarda Ceglie Messapica. Città dove il poeta visse la sua puerizia dai soffocanti sorrisi ma, in particolar modo, da serate avvolte da stelle sotto le quali si raccontavano fole ormai dimenticate[12]. Una quinta memoria riguarda i temporali salentini, ovvero demoniache creature che distruggono e creano nuove vite, dai puri spiriti e dalle verginee melodie. Una sesta memoria riguarda le vendemmia e in particolar modo i grappoli di uva, che non vengono raccolti a causa della dimenticanza dei contadini. Grappoli che simboleggiano le esistenziali speranze, di tutti Noi. Una settima memoria infine, è legata alla Vita medesima del poeta cegliese fatta di dolori, oscure reminiscenze, dolcezze[13], ma anche caratterizzata dal desiderio di fermare e riavvolgere il tempo per risorgere a nuova Vita.[14] 

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Il poeta cegliese Pietro Gatti. Fonte: http://www.midiesis.it/midiesis/?p=24540

Il 1984 è l’anno della raccolta ‘Nguna vite (Qualche vita) che, come mostra il critico letterario Ettore Catalano, è incentrata sulla Morte con reminiscenze emotive, terrestrità e musicata col commovente canto degli figli di Madre Natura che simboleggia lo strazio delle innocenti vittime sopraffatte dalla Vita (contadini e popolo)[15]. Si può avvicinare il noto carme Dei Sepolcri di Foscolo. In entrambi i poeti assistiamo al dialogo con i morti; nel poeta cegliese non è un colloquio con le voci illustri dei grandi Uomini ma un colloquio monovoce compiuto con l’ombra dei suoi genitori e dei suoi amici. Una madre che è ricordata dal figlio poeta come un dolce angelo dalla melodiosa voce e dal caloroso petto, come una compassionevole creatura portatrice di amore[16] e come una stupenda raccontatrice di fole[17]. Un padre rimembrato come una sapienziale fonte di Vita e gli amici infine, come dei fantasmi che si sono scordati totalmente di lui fino addirittura ad averne paura. Un’opera, in conclusione, composta da ricordi e da dolorose reminiscenze da lui spiritualmente assolte che lo accompagneranno fino alle fine dei suoi giorni[18].         

               

Bibliografia:

AA.VV., Puglia, a cura di Bruno Fratus e Rossella Tomassoni, ATLAS, Bergamo, 1982.

CATALANO ETTORE, I cieli dell’avventura. Forme della Letteratura in Puglia, Progedit, Bari, 2014.

CATALANO ETTORE, Letteratura del Novecento in Puglia 1970-2008, Progedit, Bari, 2009.

Ceglie Messapica, da Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Ceglie_Messapica.

VALLI DONATO, Pietro Gatti. Poeta. Primo volume, Manni, San Cesario di Lecce, 2010, 2 vol. – Tomo I.

 

STEFANO BARDI 

 

L’autore del presente testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere in relazione ai contenuti del testo e a eventuali riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.

 

[1] PIETRO FEDERICO, Saluti del sindaco in DONATO VALLI, Pietro Gatti. Poeta. Primo volume, Manni, San Cesario di Lecce, 2010, 2 vol. – Tomo I, p. 25  

[2] MIMMO TARDIO, La poesia dialettale contemporanea in terra brindisina, in ETTORE CATALANO, Letteratura del Novecento in Puglia 1970-2008, Bari, Progedit, 2009, p. 328.

[3] ETTORE CATALANO, Alcune considerazioni sulla scrittura poetica di Pietro Gatti in ETTORE CATALANO, I cieli dell’avventura. Forme della letteratura in Puglia, Bari, Progedit, 2014, pp. 48-49. 

[4] DONATO VALLI, Pietro Gatti. Poeta. Primo volume, Op. Cit., 2 vol. – Tomo I, p. 71 (“A terra mea bbone, / come se disce a lle muerte de case, / c’angore vìvene atturne: / le rape forte i ambunne / d’a grameggne, ca na ppué scappà a tutte sane, / scapuzzate a ffatìe, i ppo sobbe a lle mascere / da ppeccià u tiembe de fiche, / a sera tarde: i scattarizze de cardune / i vvambe sembe chhjù jerte a sserpiende de fueche / i jùcchele i zzumbe de le peccinne, / ca u core te rite chjine de priésce / scurdànnese pe nnu picche. / – Le fafarazze none, p’a cuscine.- / A terra meje, cu ttanda recuerde d’u tiembe lundane assé, / tutte appennute ô cendrone arruzzunute, / com’a ggiacchette / jinda case dìu puvuriedde; […]”)         

[5] Ivi, Op. Cit., 2 vol. – Tomo I, p. 73 (“[…] A terra meje, / totte nu colore de sanghe seccate da sembe, / chjene de petre de tuttu nu munnu sgarrate / – o pure jòssere de quanda muerte? – / anzieme cu a maledezzione / d’a stese de le pendemare; / sembe a lla ripe d’a vite, […]”) 

[6] Ivi, Op. Cit., 2 vol. – Tomo I, p. 78 (“[…] Ma none: / cà a terre dorme totta stennute / angore ambriache de sole, / sunnànnese u sole, / i dda a  ‘n giele le stelle a ttremende / fitta fitte accussì. […]”)

[7] Baracciaio = sinonimo di carrettiere.

[8] Ivi, 2 vol. – Tomo I, p. 86 (“[…] Nu cande: u traeniere. Canzone? / nu laggne d’u core, na vósce / de chjande ind’ô viende ca ì ddòsce. / Nu cande: / nu chjande. / Nu spoche d’u core. / Dulore./ De cose ca ì vvute i ì pperdute? / de cose sunnate i ccadute? / de tutte? de niende? / nô sé: nu lamiende / d’u core / ca fasce dulore. […]”) 

[9] Ivi, 2 vol. – Tomo I, p. 127 (“[…] I u tiembe cu passave / pe ind’ô sulenzie de gnne ccose come / ô fiate de le muerte, a luna dosce / sobbe a lle chjuppe ferme. / Senza tiembe.”)  

[10] Ivi, 2 vol. Tomo I, p. 102 (“[…] I ttutte ì vivve come ci sté mmore.”)

[11] Ivi, 2 vol. – Tomo I, p. 221 (“[…] Tu quase nô vite stu ttìppete de priésce de lusce, / ma u cande, stu rise de lusce / d’u ciele d’a terre de tutte, / jete na mascìe pe ll’àneme angandate; / cande, / de jedda stesse ambriache: na terreggnole.”)

[12] Ivi, 2 vol. – Tomo I, pp. 225-226 (“O paìsu mije / nange s’à ffatte maje u sciuéche d’a vendalore, / ci na ppròpete da ‘nguarchetune, pe sfìzzie, / – pe ccude c’agghje sendute cundà – / ca certe a jere vedute a ‘nguna vanna lundane. / Ci sape percé. / O pure u sacce assé bbuene. […]-[…] Janghjenne tott’a scale ô pezzule d’a strate. / Le fatte ca ne cundamme! Sscerrate. Da ci sape quand’ave.”) 

[13] Ivi, 2 vol. – Tomo I, p. 334 (“[…] totte nu recuerde / de sanghe, de nu core ca m’a mmuerte / na sacce cchjù da quanne, coru d’ate. / I mm’u sende pesà nu pisu dosce, / i ccarche u mije facche jete vive / jiddu sule, da sembe. Me suffòche.”)   

[14] Ivi, 2 vol. – Tomo I, p. 299 (“[…] Jind’a ll’àtteme / m’er’ a da ccògghje na sumende – u sacce / ji quâ – da sottaterre, cu ffiureve / jind’a sta mane agghjuse a ccungaredde / com’a nnu core, pe nn’eternetà / totta meje. […]”)  

[15] ETTORE CATALANO, Alcune considerazioni sulla scrittura poetica di Pietro Gatti, Op. Cit., p. 50. 

[16] DONATO VALLI, Pietro Gatti. Poeta. Primo volume, Op. Cit., p. 361 (“[…] jùtemè, pure tu, stinne a manodde, / m’a bbellu bbelle, attiè! cu nna tte fasce / nu male assé…”)   

[17] Ivi, 2 vol. – Tomo I, p. 382 (“[…] Uéh, ma’! cuèndeme a vite, com’a suenne / mu pe mme, m’a chhjù mmegghje, i mm’addurmesche. / Ci sape ca…”)  

[18] Ivi, 2 vol. – Tomo I, p. 420 (“[…] I ppure me trapanèscene u core jate sulenzie angandate / o affannuse spettanne – d’addà – ci ji me vote / i mme llundaggne senze… / Perdunàteme. Sine.”)

“Un urlo incompreso: la poesia di Claudia Ruggeri”, saggio di Stefano Bardi sulla poetessa salentina

A cura di Stefano Bardi  

Un dolore, quello spirituale, che ti uccide dentro, ti fa sentire vacuo, ti allontana dagli altri, ti mostra la Fede come una cura psico-carnale e ti fa intravedere il suicidio come possibile commiato dalle universali dolcezze. Dolore, questo, che, fu patito dalla poetessa Claudia Ruggeri nata a Napoli il 30 agosto 1967 e morta suicida, lanciandosi dal balcone della sua casa di Lecce, il 27 ottobre 1996.

Il 1996, oltre all’anno del suo decesso, è quello della pubblicazione della raccolta Inferno minore, che sarà poi ristampata nel 2006 con l’aggiunta dell’opera incompleta ed erroneamente chiamata Pagine del travaso, per poi essere ristampata recentemente, nel 2018, nell’opera Poesie. inferno minore. )e pagine del travaso, della giovane ricercatrice Annalucia Cudazzo. Quest´ultima si configura come un´opera critica che, attraverso il titolo in minuscolo, rispetta le ultime volontà della poetessa leccese.

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La poetessa salentina Claudia Ruggeri

inferno minore è divisa in tre sezioni: il Matto (prosette), interludio e inferno minore. Nella prima sezione viene liricizzato il tema della vacuità, intesa come un’assenza spirituale compresa e ossequiata dall’Uomo che, pur di non adirarla, la osanna con immagini nauseabonde e decorazioni kitsch. Ciò significò per Claudia Ruggeri il bianco esistenziale da riempire. Tema quello della prima sezione che è rappresentato dalla figura del Folle, che, con la sua psichedelica grammatica, riesce a esprimere i principali crucci degli Uomini, ovvero il male di vivere montaliano e le esistenziali vacuità. Grammatica, ma anche Vita, concepita dalla poetessa leccese come un foglio di carta bianco da riempire con parole in grado di portarci in universi luminosi, di contemplare la nostra carnalità, di farci amare le nostre resurrezioni, ma soprattutto in grado di farci convivere insieme alle nostre sconfitte psico-esistenziali[1]. Un Folle, infine, come metafora dello scrittore che, al pari del matto, usa la sua “lucida follia”, per creare gioie nelle tenebre più profonde e diffonderle nei cuori altrui.[2]

Nella seconda sezione, come mostra la Cudazzo, ci imbattiamo in due componimenti che omaggiano l´opera dannunziana La figlia di Iorio fino a diventarne in parte, una nuova reinterpretazione. A mio vedere tutto ciò ha maggiormente a che vedere con la “pagina incenerita”, ovvero quella della scrittura priva di messaggi profondi, parole senza scopi educativi. Il tutto grazie all’utilizzo delle parentesi lasciate volutamente aperte, per rimandare a un discorso incompleto e chissà con quanto ancora da dire.[3]

Nella terza sezione leggiamo poesie allo loro massima potenza poetico-letteraria che poetizzano i dolori spirituali e le alienazioni socio-esistenziali vissute dalla poetessa leccese. Esperienze, queste, che sono rappresentate graficamente da somiglianze ritmiche e lessematiche, sillabe omofone ripetute e da lessemi dialogativi, neologistici, slang, vernacolari e tanto altro ancora. Esperienze, infine, che la Ruggeri cercherà di superare percorrendo un cammino nel più buio e totale esilio spirituale da lei concepito come la ricerca della autentica luminosità.[4]

Passiamo ora a )e pagine del travaso. Qui per riudire la pazzesca evenienza del dattilo o più semplicemente )e pagine del travaso dove la Cudazzo ci mostra un cammino verso Dio dalla Ruggeri concepito come l’unico Padre in grado di liberarla dalle assenze spirituali e di ridarle la quiete da essa intensamente ricercata. Cammino, questo, che sarà compiuto attraverso lo studio della Sacra Bibbia, dei Vangeli e in particolar modo del Cantico dei Cantici cercando di crearne una versione moderna. Salmo moderno quello della Ruggieri, dove la libertà e la quiete vengono ulteriormente ricercate con la confessione di fede rivolta al Padre Celeste nel farla addormentare per l’eternità, in modo così da salvarla da ogni fastidioso brusio e ogni insopportabile musica esistenziale. Tema, questo, che l´avvicina al poeta magliese Salvatore Toma: in entrambi la Morte è un osannazione della Vita, una linfa che diluisce e stilla la Vita all’interno della quotidiana esistenza. Una preghiera, quella della poetessa leccese, che non vuole conquistare solo l’eterno riposo, ma trasformarla in una creatura dallo sguardo limitatamente vuoto e dallo spirito in grado di saper fondere le assenze esistenziali con la Fede.[5] Un Salmo alla ricerca di Dio, ma anche inteso come uno specchio che ci mostra la poetessa come una creatura senza memoria, emozioni, fastidiosamente trasparente e socialmente esiliata dai vivi.[6] Il tutto attraverso un linguaggio dai toni modernamente marinettiani fatto di parole minuscole alla fine e all’inizio di frase, di parole minuscole interfrasali, dall’uso del corsivo e dalle maiuscole usate non per i nomi di persona. Linguaggio che vuole mostrare le assenze spirituali e il disagio esistenziale come cose assolutamente normali, all’interno di una estrema società come quella dei giorni nostri.

61Tghx8V8iL.jpgVa ricordata anche la raccolta postuma Canto senza voce (Terra d’ulivi, 2013), un canto eseguito con voce colma di compassione, autoritarismo, follia psico-sociale, tirannica passionalità amorosa e libertà esistenziale. Opera questa divisa in cinque sezioni: I veri poeti…, Era prima la musica…, Ulivi della mia terra…, Amore… e Paesaggi.  Nella prima la Poesia è concepita come una lingua che nasce dalle più oscure profondità dell’animo umano.[7] Vita che lasciò nello spirito della poetessa leccese ansimanti aneliti di passione e paterne reminiscenze. Un padre che è ricordato come un creatore di luminose gioie esistenziali, un notturno Caronte vegliante sui riposi della figlia e infine, come il più bel fiore che sia stato raccolto dalla figlia nella sua Vita. Reminiscenze esistenziali, queste, che costituiscono la gran parte della seconda sezione. La terza, invece, è dedicata al suo Salento di cui si sottolineano il contrasto paesaggistico fra le aspre campagne e il dolce vento, che accarezza le dolci esistenze[8], la pioggia estiva che purifica le strade sotto il plenilunio[9], gli ulivi, intesi come giganti dal luminoso spirito, dagli aspri singhiozzi. C´è spazio anche per la città di Lecce. Sempre in questa sezione leggiamo liriche sull’Amore, ovvero, quell’universo dove la poetessa leccese doveva essere la regina assoluta. Un amore dai toni aspri, primitivi, trasgressivi, intimi e in particolar modo funerei.[10] Nella quinta e ultima sezione leggiamo poesie dedicate ai viaggi psico-spirituali della poetessa colmi di dolori e amori flagellati. In particolar modo due sono le città amate dalla poetessa: Parigi e Napoli. La seconda è vista come un luogo in cui l’esistenza è immortale, ovvero ancora, come un luogo che vivrà per l’eterno anche senza nessun uomo e nessuna donna sul suo suolo[11].

Vanno anche spese delle parole sull’opera critica della ricercatrice Annalucia Cudazzo. Ha ridato onore e dignità a una delle più grandi poetesse italiane che, oggi come allora, purtroppo non è ricordata da critici nazionali, considerata da molti come una poetessa scomoda e poeticamente incomprensibile. Uno studio quello della Cudazzo che ha anche uno scopo sociale nel mostrarci le donne salentine non solo come contadine e madri di famiglia, ma anche delle poetesse, andando così contro la vetusta concezione che le concepisce come creature inferiormente subordinate al marito e al padre. Opera, questa della Cudazzo, dal profondo rispetto umano, dimostrato dai titoli minuscoli delle due opere inferno minore e )e pagine del travaso rispettando così, le ultime volontà della Ruggeri. Tale volume, dal taglio adatto agli studenti, ai ricercatori universitari e agli specialisti di poesia presenta una serie di commenti a tutte le poesie riportate. Commenti che sono affiancati dalla biografia di Claudia Ruggeri e da precise note testuali che ben illustrano il percorso editoriale delle due opere. Il linguaggio è chiaro, lineare e scorrevole.

STEFANO BARDI

 

L’autore del presente testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere in relazione ai contenuti del testo e a eventuali riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.

 

Bibliografia di Riferimento:       

RUGGERI CLAUDIA, Canto senza voce, Terra d’ulivi, Lecce, 2013.

RUGGERI CLAUDIA, Poesie. inferno minore. )e pagine del travaso, a cura di Annalucia Cudazzo, Musicaos Editore, Neviano, 2018.          

              

[1] CLAUDIA RUGGERI, Poesie. inferno minore. )e pagine del travaso, a cura di Annalucia Cudazzo, Musicaos Editore, Neviano, 2018, p. 9. (“ormai la carta si fa tutta parlare, / ora che è senza meta e pare un caso / la sacca così premuta e fra i colori / così per forza dèsta, bianca; bianca / da respirare profondo in tanta fissazione / di contorni ò spensierato ò grande / inaugurato, amo la festa che porti lontano / amo la tua continua consegna mondana amo / l’idem perduto, la tua destinazione / umana; amo le tue cadute / ben che siano finte, passeggere“).

[2] Ivi, p. 15 (“ma chi nega che in tanta sepoltura / sia avvenuto al pendio un biancore vero / o lo strano brillio che ti destina se la passi”).

[3] Ivi, p. 20.

[4] Ivi, p. 25 (“ed un giorno mi diedi a distinguere / da quistu, quiddu; ma la conversazione / non dà alloggio, non rivela dov’è / la vera Serratura, se esista un dio Contrasto / che scentra qui l’Uguale / litoraneo e del vedere l’angelo”).

[5] Ivi, p. 45 (“vorrei una faccia bestia, laterale. un muso / inesplicabile di sogliola a sguardo come dire / intero sufficiente. un’anima da travaso / un’anima che risiede che sotto il gran sabbione / alleva la deessa, Macchia pulcherrima / in questa densa sinistra: giunchi falaschi guazza / neutri e coesi Ordine innanzi”).

[6] Ivi, p. 47 (“il nido del discorso nascosto, le isoipse salienti / delle rose rinviate, per rimanere immobile / senza notizie, classica, battuta chiaro / chiaro messa nella memoria e perduta di vista / per non fissare lo spazio per non sembrare una Frase”).

[7] Claudia Ruggeri, Canto senza voce, Terra d’ulivi, Lecce, 2013, p. 28 (“Si farà picchio e scaverà, / tornerà spina e strapperà / poi rabbia e coprirà. / Completerà l’eutanasia / mutando in sasso / la mia ragione / e la mia fede. / Quella di vivere.”)

[8] Ivi, p. 46 (“Braccia contorte / di dannati / da queste rosse zolle partorite / nel più azzurro dei cieli […]-[…] eppure il vento / ira i raggi nudi / fa ondeggiare un fiore.”)

[9] Ivi, p. 50 (“quando gli ultimi favori / di pioggia / rischiano / il luogo / d’erba / e d’ombra / felice a una falce di luna / tu ridi”)

[10] Ivi, p. 74 (“Ma tu non lo saprai, / fin quando un verme / non roderà la tua carcassa / dentro, / ma proprio dentro / fino al fondo. / Forse, / non troverà / che una conchiglia / vuota.”)

[11] Ivi, p. 107 (“Giocherai così nell’universo / anche dopo il ritiro delle truppe / quando l’uomo non vivrà / neppure alla tua ombra / nel tuo calco / nel mare / nell’aria / nei cubi di roccia galleggianti / dove di te, certo, / dopo il giudizio / riconoscerà l’odore.”)

“Voce senza parole: la poesia silenziosa di Pierluigi Cappello”, a cura di Stefano Bardi

A cura di Stefano Bardi  

Voglio parlare di un autore di rilievo del Friuli Venezia Giulia ovvero Pierluigi Cappello (Gemona del Friuli, 1967- Cassacco, 2017) di cui nel 1998 uscì la raccolta La misura dell’erba. Opera che mostra i temi del rapporto fra l’immobilità spirituale e il cammino esistenziale e del grave disagio del poeta nel rapportarsi e seriamente con il mondo. Problema, questo, che sarà fronteggiato attraverso uno sguardo remissivo, inerme, insensibile, che mostra gli elementi naturali, come componenti materiali privi ormai di un’anima.

Questo libro è diviso in tre sezioni: Il settimo cielo, Arie e La misura dell’erba. Un primo sottotema riguarda la vita, intesa come un foglio sul quale non c’è l’ombra di noi stessi, ma tanti doppioni di noi medesimi che nascono e vivono per cacciarsi fra di loro.

Un secondo sottotema è quello de giardini intesi come degli immensi Campi Elisi in cui ritroviamo noi medesimi, le luminosità da noi credute scomparse e dove risorgiamo a nuova Vita nel segno della luce, della gioia, della compassione e dell’amore ancestrale.

Un terzo sotto-tema dai toni intimi, in cui legge il suo corpo da disabile bloccato come un sasso e che lo costringe a vivere oscuri inverni da lui, superati attraverso il dolce vento estivo che riesce a spezzare i dolori e liberare la sua anima.

Dopo quest’opera esce la raccolta Amôrs (1999), in dialetto friulano; essa è divisa in due sezioni: Il me donzel e Amôrs. Si tratta di un’opera dove la parola ci conduce in realtà animate da sbandamenti, evasioni e sogni racchiusi in universi dove la parola è l’ombra del quotidiano patimento. In particolar modo, il friulano qui usato è inteso come una lingua che lo colloca nel passato (puerizia) o nella contemporaneità (globalizzazione) per trovare un inedito dialogatore con cui parlare, all’interno della sua misera esistenza fatta di dolore psichico, fisico e spirituale. Opera in cui ritornano gli elementi naturali e in special modo, la notte e il vento. La prima è vista come l’unica e vera pace spirituale, poiché fortemente brilla nel suo animo con le stelle senza far rumore e perché ci accompagna durante la nostra quiete esistenziale, senza impostare nessuna scadenza alla nostra Vita. Il vento, invece, è visto come un oscuro soffio, che, decompone la sua esistenza con una dolce melodia dallo scheletrico viso e dalle mani simili a irriconoscibili Campi Elisi.

covercappello.jpgIl 2004 è l’anno della raccolta Dittico. Poesie in italiano e in friulano 1999-2003 divisa in due sezioni: Inniò e Ritornare. Un’opera in cui il friulano è alla ricerca della sua terra, qui riletta in toni intimi, e concepita come un universo popolato da ombre antropologico-secolari. La sua è una lingua senza finzioni, ombre, lacrime e maschere per rapportarsi con l’inedito dialogatore. Qui si evidenzia anche il sogno, inteso come una strada da percorrere nel più totale silenzio e dove l’unica luce visibile è l’oscurità della notte.

Uno sguardo va anche alle opere più recenti: del 2010 è la raccolta Mandate a dire all’imperatore divisa in quattro sezioni: I vostri nomi, Dedica a chi sa, Restare e La strada della sete. Opera che mostra poesie sulle tenebre lessematiche, sulle solitudini socio-esistenziali, sulle amicali ombre defunte e infine, liriche sul viaggio concepito come sapienza, unione cosmico-ancestrale e delizia.

Una prima tematica riguarda la reminiscenza della puerizia nel paesino di Chiusaforte, da lui concepito come il trampolino di lancio nella Vita e come il luogo, dove le intime voci ormai defunte risuonano fraternamente nella sua testa. Voci che sono immaginate come delle energie racchiuse in un luogo elisiaco e ben protetto, dal gelido e graffiante vento dell’aldilà. Una Morte che è vista come una nuova Vita in grado di mutare ogni cosa che tocca e di donare nuova voce a coloro che risorgono nel suo nome.

Una seconda tematica riguarda la parola, dal poeta concepita come uno strumento in grado di diffondere nel mondo un dolce ozio e attraverso il quale riusciamo a ritrovare noi medesimi. Un’ultima tematica riguarda il ricordo del padre e dei suoi amici, da Cappello rimembrati come angeli custodi, come presenze eternamente vive nei suoi occhi, portatori di sogni e ombre che incutono timore, reverenza e rispetto. Tutte le opere di cui ho sin qui parlato sono state raccolte nel 2013 nell’antologia Azzurro elementare. Poesie 1992-2010 del 2013.

L’ultima fase poetica di Cappello è contenuta, invece, nel volume edito nel 2016, Stato di quiete. Poesie 2010-2016 del 2016. Si ritorna a parlare dell’immobilità fisica che costrinse il poeta a vivere fino alla fine dei suoi giorni, su una sedia a rotelle. Tale staticità non è più vista con rabbia e dolore, ma come una strada per sconfiggere le tenebre esistenziali, come un strumento per rimembrare la sua umile puerizia e come una. Immobilità, la sua, che è paragonata alle immagini fotografiche, a immagini che fissano per l’eternità i nostri sonni, le nostre emozioni. Immobilità, infine, che è paragonata alla pace esistenziale, ovvero alla Vita vissuta e consumata nelle più profonde e inaccessibili viscere del Mondo.     

STEFANO BARDI

 

L’autore del presente testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere in relazione ai contenuti del testo e a eventuali riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.

“Memoria come Resistenza: Etty Hillesum e Westerbork”, articolo di Stefano Bardi

a cura di Stefano Bardi

diario-1941-1943_41845.jpgAuschwitz, Birkenau, Mauthausen, Bergen-Belsen, Sobibòr, Fossoli! Nomi, questi, legati all’oscura pagina storica del 27 gennaio 1945 che devono essere affiancati a quello di Westerbork, campo che fu usato dai nazisti come punto di raccolta, smistamento e partenza per gli altri campi di Concentramento. Tre possono essere considerati le fasi di questo campo di concentramento: la prima dal 1942 al 1945 (rifugiati, detenuti, ebrei), la seconda dal 1945 al 1948 (agenti SS, simpatizzanti Movimento Nazional-Socialista, criminali nazisti) e la terza dal 1949 al 1971 (alloggi per molucchi). Questo campo, seppur non rientra in pieno nella logica dello sterminio di massa degli ebrei, fu comunque ideato come un campo fatto di regole ferree: detenuti accompagnati nei loro spostamenti da guardie militari, appello giornaliero, gruppi di lavoro divisi in camerate, sorveglianza diurna e notturna dei posti letto delle camerate, divieto assoluto di comunicare e ricevere posta dall’esterno. Un campo dal quale partirono 107.000 persone per i vari Campi di Concentramento e che fu liberato il 12 aprile 1945 dalla fanteria canadese.

La scrittrice olandese di origine ebraica Esther Hillesum detta “Etty” (Middelburg, 15 gennaio 1914-Auschwitz, 30 novembre 1943) visse in prima persona la deportazione ebraica prima di essere trasferita ad Auschwitz dove troverà la morte. Esperienza quella di Westerbork che sarà racchiusa in parte nel Diario 1941-1943 e soprattutto nelle Lettere 1942-1943 seppur fortemente censurate con la cancellazione dell’emittente, da parte del comandante della Polizia di Sicurezza tedesca del campo. Va subito detto che la scrittrice non fu arrestata né deportata ma scelse lei stessa di essere rinchiusa in questo campo per seguire l’infausto destino del suo popolo; lì lavorò come assistente sociale all’interno dell’ospedale civile del campo. Lavoro che le permise di annotare tutti gli orrori della follia nazista di cui, insieme alla famiglia e al fratello Michael detto “Mischa”, pagherà le conseguenze ad Auschwitz. L’altro fratello, Jacob detto “Jaap”, morirà, invece, a Lubben dopo la liberazione del 17 aprile 1945 durante il viaggio di ritorno nei Paesi Bassi.

Nel 1981 uscì postumo Diario 1941-1943 che sarà poi ristampato in varie edizioni fino a quella integrale del 2012. Esso è stato redatto fra Amsterdam e il Campo di Transito di Westerbork e si basa su due grandi concetti: esistenzialismo e spiritualismo filosofico che devono farci raggiungere, la totale armonia con la Natura. Armonia che sarà da essa trovata grazie all’abbraccio Dio concepito come un’intensa energia interiore e come la fiamma che muove ogni Vita.

Un diario estremamente analitico fatto di date, ore e momenti giornalieri in cui Etty Hillesum scrisse le sue intime pagine dalle quali fuoriesce l’immagine una donna forte, che, non fugge dall’infausto destino del popolo ebraico e l’unico elemento oscuro è il suo animo ingarbugliato, ragnatelico e represso.

Un secondo aspetto è la concezione della Vita da lei concepita come un’energia che deve essere consumata giorno dopo giorno, poiché il futuro è solo una speranza priva di consistenza; e di conseguenza vivere significa coesistere con l’esterno (vacuità) e l’interno (realtà esistenziale). In parole semplici, la Vita è intesa come unica e vera fonte sapienziale dalla quale l’Uomo deve abbeverarsi per intraprendere il suo cammino esistenziale che deve cominciare, dalla sua più profonda interiorità. Vita che deve essere però costruita con le parole! Lessemi intesi dalla Hellisum come strumenti in grado di creare case sicure animate da dolcezze e armoniosi silenzi, ma anche universi interiori con i quali emarginarsi dagli altri che sono codardi, languidi e senza protezioni psico-sociali. Parole che sono concepite come privazioni esistenziali non create, però, da mani altrui, ma dalle nostre medesime mani che strappano dal nostro cuore le gioie e le emozioni per sostituirle con ansie, offese, angherie, paure, asti, rimorsi e nostalgie canaglie.

Un ultimo aspetto riguarda il suo sguardo pieno di compassione verso i nazisti, agnelli sacrificali essi medesimi di un oscuro potere al di sopra di essi. Diario quello di Etty Hillesum che è chiuso dal alcune lettere scritte dal Campo di Transito di Westerbork che saranno da me analizzate.

Nel 1982 uscì l’opera postuma Lettere 1942-1943 che sarà poi ristampata fino ai giorni nostri, in edizioni più ampie e complete. Opera epistolare composta dalle lettere redatte dalla Hillesum ad Amsterdam e Westerbork fra l’agosto 1942 e il settembre 1943 che ci mostrano la crudeltà del Campo di Transito di Westerbork. Un campo dove l’autrice e la sua famiglia resistettero psico-fisicamente, dove si muovevano all’interno di uno spazio composto da un ospedale civile, un orfanotrofio, una stazione ferroviaria, una sinagoga, una cappella mortuaria. Un luogo costituito principalmente da baracche arrugginite e piene di correnti d’aria, panni lasciati asciugare all’aria e cuccette sulle quali patire. Il tutto accompagnato da pessime condizioni igieniche e da un’alimentazione di scarso valore nutrizionale, che portarono molti ebrei a togliersi la Vita con le proprie mani.

Etty Hillesum è una scrittrice che ancora oggi, dopo settantasei anni dalla sua morte, è ricordata nella toponomastica e onomastica in vari luoghi del mondo tra cui: la piazza nel paese di Mirano, l’albero nel Giardino dei Giusti di tutto il Mondo di Milano, la Etty Hillesum Stichting (Fondazione Etty Hillesum) di Amsterdam, il Centro di Ricerca Etty Hillesum dell’Università Gand e tanto altro ancora.          

  STEFANO BARDI

Bibliografia

Hillesum E., Lettere 1942-1943, Adelphi, Milano, 2001.

Hillesum E., Diario 1941-1943, Adelphi, Milano, 2011.

 

L’autore del presente testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere in relazione ai contenuti del testo e a eventuali riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.

“Dracula” di Bram Stoker: alcuni cenni sul vampirismo – Articolo di Stefano Bardi

a cura di Stefano Bardi

Dracula di Bram Stoker (Clontarf, 1847 – Londra, 1912) è un romanzo horror giunto fino a noi in varie edizioni e traduzioni che si basa sulle fantasie dello scrittore irlandese e su alcune sue reminiscenze, nonché documenti storico-geografici da lui studiati. La narrazione si muove attraverso gli intimi quaderni dei protagonisti, le loro epistole, gli articoli di cronaca e tanto altro ancora. Reminiscenze, documentazione storico-geografica, epistole, ma anche un romanzo dai toni scientifici, visibile per mezzo dell’elemento medico-psichiatrico dell’ipnosi usata dal Conte Dracula e da Abraham Van Helsing; il primo la usa come arma per creare sudditi mentre il secondo come indagine medico-diagnostica.

9788807901836_0_221_0_75Il romanzo contiene una storia nota e allo stesso tempo rivoluzionaria, che può essere spiegata attraverso l’analisi della principali figure che si muovono al suo interno. Una prima figura è proprio quella del vampiro, il Conte Dracula, in cui non si riscontra nessuna caratteristica storica di Vlad Tepes III, se non attraverso alcuni monologhi meditativi del vampiro. Un essere dalle mortali sembianze di un vecchio; il vampiro che abita nel castello simboleggia il demoniaco alter ego di Vlad Tepes III. Una finta anzianità è quella del Conte Dracula, che sarà rappresentata da Jonathan Harker il quale mostrerà quest’essere per quello che veramente è, ovvero, un’oscura creatura partorita da Satana in persona. Il nome del Conte Dracula provoca ansia e terrore nel cuore di chi lo sente poiché è concepito come un appellativo demoniaco, che mai deve essere pronunciato ad alta voce. Un demone che, però, non può sfuggire dalla linnea Croce che è l’arma di difesa contro le vampiresche infezioni e la strada per la sua purificazione spirituale. Legate a questo personaggio sono le sue Spose intese da Jonathan Harker come angelici esseri dalle morbide carni, dalle dorate chiome, dagli sguardi profondi. Cosa ben diversa appaiono agli occhi del loro vampiresco padrone che le concepisce come delle schiave, delle sgualdrine e come delle cagne ingorde di sangue umano.

Tra gli altri personaggi ci sono Renfield, Lucy Westenra e Abrham Van Helsing. Il primo di questo è pazzo e simboleggia la figura del debole costretto a sottostare alla tirannica e sanguinaria volontà del suo padrone dal quale sarà ringraziato con la morte per la sua subdola sottomissione. Lucy Westenra è la prima vittima del Conte Dracula giunto in terra londinese, che ha il compito una volta non-morta, di creare nuovi vampiri che portino distruzione in mezzo ai vivi. Personaggio, questo, che simboleggia la selvaggia e depravata sessualità. Il dottore Abraham Van Helsing, invece, è un uomo di Scienza, visto da Stoker come un personaggio dalla doppia personalità medico-scientifica, ovvero come un dottore e come un’esorcista poiché tutto quello che non rientra nella scienza medico fa parte dell’Esoterismo.

Tra gli altri personaggi figurano Jonathan Harker e sua moglie; Jonathan Harker è stato l’unico a vedere nelle profondità degli occhi del Conte Dracula capendo così chi è la demoniaca creatura che è stata riportata parola per parola, nel suo diario di viaggio. Diario che è concepito dallo scrittore come un’importantissima fonte storico-scientifica per comprendere e studiare l’oscura Scienza del Vampirismo. Sua moglie Mina è una donna fortemente coraggiosa che non ha paura di combattere contro le tenebre, ma anzi, dopo essere stata infettata dal demoniaco bacio del Conte Dracula, lo vuole eliminare perché è da lei concepito come un’immonda infezione. Impavida, seconda vittima del vampiro e simbologia della Femminista, che, con coraggio rivendica la sua dignità e il suo status etico-sociale di donna in grado di essere pari all’uomo. Una donna che è anche simbolo della fedeltà amorosa, che rifiuta gli oscuri e depravati sentimenti d’amore che si basano sul dolore e sulle falsità.

Bisogna di certo accennare anche al regista Francis Ford Coppola che nel 1992 produsse il film Dracula di Bram Stoker. Stessa trama e stessi caratterizzazioni sui personaggi del romanzo, tranne che per il Conte Dracula e per Mina Harker. Per quanto riguarda il vampiro lo rappresenta in maniera bipolare, sia come una crudele creatura che come una creatura dal dolce cuore in grado di provare amore, gioia, dolore. La giovane Mina Harker, invece, è cinematografizzata come una vittima del crudele Conte Dracula, come una sua schiava assetata di sangue e come la spietata assassina del suo amante.

Un piccolo approfondimento va fatto sulla figura del vampiro in Romania, vista come un non-morto dal corpo indistruttibile e che usa la sua oscura anima per vampirizzare i vivi durante le sue passeggiate notturne. Vampiri che non erano rappresentati da principi, nobili e persone di potere, ma più semplicemente dai disgraziati, asociali, nemici del popolo, che non possono essere sconfitti dalle canoniche armi, ma, con una formula papale di assoluzione dei loro peccati appoggiata sul petto del loro cadavere. Queste figure lasciarono il posto nella Romania del secondo Ottocento ai vampiri cristiani intesi come oscuri demoni con un’anima condannata a errabondare durante la notte finché la scomunica non sarà cancellata. Un’altra arma usata era la vitamina C poiché era vista come una cura per tutti coloro che da vivi avevano sofferto di scorbuto, pellagra e nictalopia. Un secondo tema riguarda la figura della donna vampiro, creatura che simboleggia il peccato etico e il sesso selvaggio; allo stesso tempo metaforizza la beltà suprema, il dispotismo assoluto, l’esistenziale eternità, l’ambiguità spirituale.

Pare interessante allargare un po’ lo sguardo e accennare al cosiddetto Vampirismo Clinico, un fenomeno che si sviluppò dal Settecento fino agli anni ’90 del Novecento che si caratterizzava da una forte pulsione erotica collegata a una frenetica voglia di osservare, percepire, gustare il sangue altrui e che si manifestava attraverso tre sintomi: Sindrome di Renfield (cibarsi di insetti), Ematodixia e Sanguinarius (vampirismo pacifico e non belligerante). Malattia che ha richiami e collegamenti anche con la necrofilia e forme di autolesionismo anatomico e fisiologico.

STEFANO BARDI

 

Bibliografia e Sitografia di Riferimento:

STOKER B., Dracula, Einaudi, Torino, 2012. 

CAZACU M., Dracula. La vera storia di Vlad III l’Impalatore, Mondadori, Milano, 2016.   

Vampirismo Clinico, da Wikipedia (https://it.wikipedia.org/wiki/Vampirismo_clinico).   

 

L’autore del presente testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere in relazione ai contenuti del testo e a eventuali riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.

 

“Una scrittura dai toni rock: Patti Smith e Jim Morrison”, articolo di Stefano Bardi

di Stefano Bardi 

Tutti in Italia, dai giovani ai meno giovani, conoscono Patti Smith come cantautrice, ma in pochi forse la conosco come poetessa e scrittrice. Una scrittura quella della cantautrice rock nata a Chicago nel 1946 che può essere definita come una grammatica colma di sangue, lacrime, blasfemi moccoli, dolore, parole ubriache d’assenzio e fragranze psichedeliche.  

Poesia, quella di Patti Smith, mista di versi e prosa, che concepisce il corpo della donna come una denuncia sociale e psichica contro le violenze da esso subite e che ci mostra, allo stesso tempo, la Donna come un’impeccabile creatura a perfetta somiglianza di Dio[1].

5964915_331988.jpgScrittura poetica anche dai toni intimo-confessionali, dove la sua folle ed estrema vita senza Dio è il rispecchiamento della vera e unica Vita, a discapito della quotidiana esistenza di tutti i giorni concepita da Patti Smith come una maledizione dalla quale se ne tiene ben lontana[2].

Figlia dalla carne dannata e lanciata verso follie psico-fisiche, ma anche dolce creatura dall’animo animato dalla bontà, dall’amore e dalla compassione[3]. Liriche scritte da una poetessa americana dove critica la società americana, concepita come un universo animato da false libertà sociali e da dittature etiche, politiche, religiose, sessuali e razziali. Contemporaneamente ci insegna che cos’è la libertà con la L maiuscola.

Il tema della Morte è assai caro a Patti Smith; esso concepito come una dolce amica che ci viene a trovare nei momenti di dolore e come una Madre, che accudisce i nostri affetti più cari[4]. Un tema che è ben liricizzato nella poesia “ala”, che può essere considerato come il suo testamento spirituale in cui la cantautrice s’immagina già morta rimembrandosi come una creatura dalle delicate carni,   dallo sguardo coraggioso, come una creatura che ha divulgato con la sua musica e le sue parole la pace, l’amore, la fratellanza.

Un tema, quello dell’acqua, che nella poesia di Patti Smith da fonte battesimale, si trasforma in acqua mortifera che affoga ogni nostro pensiero[5].

Un ultimo tema riguarda l’adolescenza persa e dannata, ovvero l’adolescenza lanciata verso una Vita fatta solo di eccessi, di follie, di anarchie e di brume spirituali. Adolescenza questa che solo dalle donne e più nel dettaglio dalle madri può essere purificata, per salvare così i propri figli da una Vita lanciata eternamente al Male[6].

Dopo la poesia passiamo ora alla scrittura, ovvero al suo pensiero espresso in prosa, per poi concludere spendendo due parole sulla rivoluzionaria scrittura poetico-prosastica della cantautrice rock. Un primo pensiero riguarda la Vita, concepita come una tirannica madre che divora i propri figli con un sarcastico ghigno sul viso e come un atto sessuale, dal quale far nascere pure, dolci, garbate e intense Vite.

Sesso inteso a sua volta e in particolar modo quello giocosamente forzato sul corpo di donna, come un atto che fonde i corpi dei due amanti in Paradisi psichedelici.

Un secondo pensiero riguarda gli asociali, che sono visti da Patti Smith come i veri uomini e le vere donne, poiché in essi convivono la purezza, la compassione e la lucidità psico-sociale.

Un terzo pensiero riguarda suo padre che è paragonato a Dio, perché come esso accoglie chi vive nella luce. Un Dio a sua volta inteso come un’entità ultraterrena in chiave negativa, ovvero come una creatura che crea leggi con le quali ingannare spiritualmente gli Uomini e penetrarli selvaggiamente, nelle loro carni.

Un quarto pensiero riguarda la musica rock, intesa come una guerriglia sociale che può portare alla giustizia sociale e fraterna, ma allo stesso tempo può trasformarsi in una valle di lacrime.

Il rock è paragonato a Dio, poiché come esso porta l’equilibrio a differenza degli essere umani, che sono concepiti dalla cantautrice e poetessa americana come dei maleodoranti e letamosi rifiuti da eliminare, per una migliore Vita della Terra.

Un quinto e ultimo pensiero, si sviluppa attraverso i ricordi di alcuni suoi amici e maestri ispiratori come per esempio il regista e sceneggiatore francese Robert Bresson, il cantante e poeta americano Jim Morrison e infine, lo scrittore, poeta, giornalista, regista e sceneggiatore bolognese Pier Paolo Pasolini. Il tutto sia in poesia sia in prosa, costruito con una scrittura rivoluzionaria fatta per lo più dalla quasi assenza dei punti finali e di minuscole dopo i punti finali, in special modo nella scrittura prosastica. Operazione questa dal doppio significato, dove il primo ci mostra la scrittura di Patti Smith come un discorso ancora aperto e il secondo, invece, ci mostra una scrittura non statica e immodificabile, ma anzi una scrittura dove possiamo togliere e aggiungere nuove parole oppure scambiare la posizione delle frasi e delle parole, per creare inedite riflessioni psichedeliche e socio-esistenziali.                

31Vt0sefwBL._BO1,204,203,200_.jpgDopo Patti Smith passiamo ora, all’ex leader dei Doors e poeta americano James Douglas Morrison o più semplicemente Jim Morrison (Melbourne, 1943-Parigi, 1971). Poeta che nel 1969 pubblicò in tiratura limitata di sole 100 copie, le raccolte I Signori. Appunti sulla Visione e Le Nuove Creature che a mio semplice e umile dire da cultore letterario, sono ancora meglio della raccolta Tempesta elettrica. Poesie e scritti perduti pubblicata nell’estate del 1971 e poi ristampata postuma nel 2002. Opere, quelle del 1969, che saranno analizzate da me in generale, poiché al pari dei Diari di Kurt Cobain, anche le due raccolte di Jim Morrison non credo siano da considerare come opere poetiche in tutto e per tutto.

Una raccolta I Signori. Appunti sulla Visione dove leggiamo liriche sotto forma di allucinazioni esistenziali, in cui il cammino degli Uomini è visto come un gioco mortale e dove il sesso depravato, malato, infettivo ne è il principale burattinaio. Un gioco, questo, che è paragonato a uno spettacolo cinematografico, dove la cinepresa cattura le nostre interiorità per poi sputtanarle avidamente e lussuriosamente al Mondo intero senza il nostro permesso. Una cinepresa che, inoltre, trasforma la Vita in natura morta che è contemplata dagli Uomini vampiro (Noi), poiché essi come la natura morta sono condannati a vivere e consumare, una vacua immortalità.

Un secondo tema è quello della dipartita dei nostri parenti, amici e compagni di Vita che si sono trasformati per noi in spettri sconosciuti, inguardabili, intoccabili e inamabili.

Una raccolta Le Nuove Creature, invece, dove possiamo vedere alcune tematiche in maniera distinta: l’adolescenza come quieta fase esistenziale, il sesso selvaggio e animalesco e infine la Morte.                       

STEFANO BARDI

 

L’autore del presente testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere in relazione ai contenuti del testo e a eventuali riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.

 

Bibliografia:

MORRISON J., I Signori. Le Nuove Creature. Le poesie di Re “Lucertola”, traduzione a cura di Lorenzo Ruggiero, Grammalibri, Milano, 1993.

SMITH P., Il sogno di Rimbaud. Poesie e prose 1970-1979, traduzione ed edizione italiana a cura di Massimo Bocchiola, Einaudi, Torino, 1996. 

                             

                                                                                                             

 

[1] Smith P., Il sogno di Rimbaud. Poesie e prose 1970-1979, traduzione ed edizione italiana a cura di Massimo Bocchiola, Einaudi, Torino, 1996, p. 11 (“con le calze di nylon o scalza / stracolma d’orgoglio o curva come l’amore / ramoscello patibolo / beccamorto o ballerina al vento / lo stesso vento ma fetido di porci / polline che dà la tosse o rosa / fantastica crudele diversa da tutto […]-[…] essere santa in qualsiasi forma”) 

[2] Smith P., Il sogno di Rimbaud. Poesie e prose 1970-1979, traduzione ed edizione italiana a cura di Massimo Bocchiola, Einaudi, Torino, 1996, p. 13 (“[…] E allora Cristo / ciao tanti saluti / da questa sera sei licenziato / posso fare brillare la mia luce / ma le tenebre vanno bene uguale / ti hanno inchiodato lassù per mio fratello / ma in quanto a me il capitolo è chiuso / sei morto per i peccati d’altri / non per i miei”)   

[3] Smith P., Il sogno di Rimbaud. Poesie e prose 1970-1979, traduzione ed edizione italiana a cura di Massimo Bocchiola, Einaudi, Torino, 1996, p. 135 (“[…] Padre ho ferito a morte / o padre non ferirò mai più / fra le spine ho danzato / sul suolo dove bruciano le rose. / Figlia che tu possa volgerti in riso / una candela sogna una candela disegna / il cuore che brucia / continuerà a bruciare / volgiti tu al cadere delle rose”)

[4] Smith P., Il sogno di Rimbaud. Poesie e prose 1970-1979, traduzione ed edizione italiana a cura di Massimo Bocchiola, Einaudi, Torino, 1996, p. 29 (“[…] la morte dilaga frusciando / nell’ingresso di casa / come lo strascico di una dama / la morte arriva in moto / sull’autostrada / con il vestito della domenica / la morte arriva in auto / la morte arriva strisciando / la morte arriva / non ci posso far niente / la morte se ne va / dev’esserci qualcosa / che rimane / la morte mi fa fatto ammalare impazzire / perché quel fuoco / si è portato via / la mia bambina […]”)

[5] Smith P., Il sogno di Rimbaud. Poesie e prose 1970-1979, traduzione ed edizione italiana a cura di Massimo Bocchiola, Einaudi, Torino, 1996, p. 29 (“[…] ma poi quante domande salgono come schiuma./ come perfetti morti: / era proprio il mar rosso? / l’uomo domina il fiume? / le/lui annegò? / per cause naturali? / di dolore? […]”)

[6] Smith P., Il sogno di Rimbaud. Poesie e prose 1970-1979, traduzione ed edizione italiana a cura di Massimo Bocchiola, Einaudi, Torino, 1996, pp. 75-77 (“[…] cittadini! è d’uopo che non si dorma. / i nostri figli corrono alla natura come stagioni. / armate la torre e fortificate le reclute. / figlie! siate voi vigili alla veglia / siate rigide e immobili e all’erta. / cittadini! risuscitate i vostri figli / da questo triste sito di marciume. […]-[…] è il grembo del ritorno, colei che protrae / stende la mano gli arruffa i capelli / gli copre il capo con un nero berretto di lana / l’urto del ferro i pianti delle donne / una notte accadrà accadrà nuovamente […]-[…] il ragazzo + il fiume nero / mentre si volge fra le braccia della natura / che adora i figli fiammeggianti di donna”)

“La terra del rimorso” di Stefano Modeo. Recensione di Stefano Bardi

Recensione di Stefano Bardi

21nNax0z7FL._SX351_BO1,204,203,200_.jpgMare! Tema questo che è stato sempre presente nella poesia italiana dal Medioevo agli anni Duemila e che negli ultimi anni del secondo Novecento è stato usato come specchio della Vita, proprio come è dimostrato dalla raccolta d’esordio La terra del rimorso del giovane poeta Stefano Modeo (Taranto, 1990) del 2018.

Un titolo questo che richiama alla memoria il saggio La terra del rimorso dell’antropologo, filosofo e storico delle religioni Ernesto De Martino (Napoli, 1908-Roma, 1965) seppur comunque con notevoli differenze, volume che tratta il tema del rimorso. Per quanto riguarda il filosofo e studioso napoletano la Terra è il Salento e il rimorso da lui studiato attraverso il fenomeno antropologico e musicale del tarantismo riguarda le ferite storico-sociali arcaiche del Salento, che erano viste da Ernesto De Martino come squarci memorialistici non più riparabili e peggio ancora del tutto estranei all’intera storia del Salento uscendo definitivamente di scena, dalla cosiddetta Questione Meridionale iniziata da Gaetano Salvemini e poi ripresa dopo anni dall’intellettuale napoletano.

Cosa ben diversa è l’opera del giovane poeta Modeo, che può essere considerata come un diario in versi e come una denuncia che riguarda la sua natia Taranto, dove l’antico rimorso è sostituito da quello odierno, ovvero il male che infetta con i sui veleni e le sue impurità questa città fino a trasformarla in un’oscura e mortale città. Un rimorso o un dolore che infetta ogni cosa dell’esistenza cittadina e che viene mostrato dal poeta attraverso il mare, da lui inteso sia come specchio nel quale vedere gli oscuri mali di Taranto, sia come elemento naturale sempre con uno sguardo sociale.

Un primo quadro, ci mostra Taranto popolata dagli offesi o più semplicemente dagli abbandonati figli di Dio che consumano una Vita senza futuro, senza etica, costretti a un’eterna vacuità psico-sociale perché hanno scelto volontariamente di non abbandonare la loro terra natia.

Un secondo quadro ci mostra una Taranto priva di affetto e d’amore, dove le piazze sono un vacuo cuore, animate da esseri umani che sono delle ombre irriconoscibili che non pronunciano più parole d’amore.

Un terzo quadro tratta un tema attualissimo, ovvero quello dei migranti; un quarto quadro riguarda il mare, che può essere visto come elemento naturale e una creatura senza vita a causa delle infezioni industriali e delle ingordigie umane; il mare è anche visto in chiave socio-lavorativa, per mezzo del popolo operaio tarantino che è costretto a lavorare fra nubi tossiche o nelle gelide battute di pesca invernali. Un popolo che a sua volta metaforizza l’intero popolo italiano dei giorni nostri dall’infausti destini, che li priva di qualsiasi ribellione socio-linguistica e che li condanna a vivere fino alla fine i suoi giorni, nell’indigenza e nella povertà.

Un quinto quadro riguarda gli operai delle acciaierie, che secondo lo sguardo del giovane poeta sono visti per la società tarantina e per i loro padroni di lavoro come dei numeri produttivi. In mezzo a tutti questi quadri di dolore, patimenti e infausti destini c’è la poesia di luce “XXII” dai toni intimi e reminiscenziali, in cui il giovane Modeo ritorna indietro nel tempo fino alla sua infanzia, per mostrarci una Taranto piena di luce, di gioia, di amore e per fare questo usa la metafora della cartolina dove è racchiusa la Taranto dalla quale un giorno tutto il male che la infetta sparirà. Insomma, un viaggio intimo e spirituale quello fatto da Modeo. Un viaggio e un urlo di denuncia per una società infettata dal male che prende il nome di sfruttamento, razzismo migratorio, droga e malavita.

STEFANO BARDI

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