I Diari di Kurt Cobain (Aberdeen, 1967 – Seattle, 1994) secondo il mio parere non può essere considerata propriamente un’opera letteraria, ma è un testo che comunque va tenuto presente rappresentando una sorta di Santo Graal della musica definita grunge. Nell’opera si ritrovano le origini del nome del gruppo musicale dei Nirvana e meditazioni personali del suo leader indiscusso.
Il gruppo era costituito da Kurt Cobain (chitarra e voce), Krist Novoselic (basso) e Dave Grohl (batteria e voce). Una miscela di musica forte, sregolatezza e assunzione di droghe e acidi avvolge l’esistenza e il successo di questa band controversa. Lo scopo sarebbe quello di produrre videoclip musicali che riflettano sui mali della società mediante l’adozione di testi folli, con prevalenza di colori tendenti al nero e al giallo paglierino, copertine “demoniache” e messaggi che incitano alla violenza, amplificano il dolore e parlano di morte. In tal modo Kurt Cobain è riuscito a esorcizzare la società americana degli anni ’90 attraverso temi ritenuti scandalosi quali la droga, il disagio giovanile, la ribellione dei figli verso i padri, l’aborto e la depravazione sessuale.
Dai Diari l’idea di musica che fuoriesce, per Kurt Cobain, è quella di una strada in grado di condurci in universi psichedelici dove il dolore è caricato come energia (sì, ma distruttiva!); strada percorsa da Cobain con le sue passioni, per lui fonti d’ispirazione per la sua breve e intensa vita. Accanto alla musica, c’è spazio per la concezione sull’Arte, concepita da Cobain come una lingua non per tutti, ma solo per pochi poiché la maggior parte delle persone la concepiscono solo come strumento da abusare per ostentare e far emergere la propria ridicola perversione ludico-sociale. Concezione, questa, in cui rientra anche la categoria dell’arte musicale vista come uno spazio in cui potersi liberamente rappresentarsi ed esprimersi senza nessun limite e confine, proprio come fece il punk e il punk-rock durante gli anni ’90.
Un cantante e artista dall’immensa profondità spirituale che gli permette di concepire la Vita come un esilio, come una dea in grado di trasformare le idee altrui e come uno stupro lessemico-narrativo dal quale devono nascere oneste espressioni linguistiche, verbali, sintattiche e grammaticali. Una concezione esistenziale che, secondo Kurt Cobain, si può realizzare attraverso i sogni, concepiti come una lente d’ingrandimento con la quale osservare la Vita nella sua vera forma. La vita prende la forma, nel leader dei Nirvana, come un mortifero cammino in grado di creare esistenze spettrali e anonime. Vita quale salvaguardia delle ombre a noi più care e infine, come una strada per trovare il nostro vero destino.
L’esistenza di Cobain è densa di ribellione: contestazione verso i propri genitori, guerriglia sociale, confusione emotiva, sesso degenerato. I giovani secondo lui devono basare la loro esistenza sulla Rivoluzione Sociale e avere la forza di combattere contro il potere. Fra i suoi vari pensieri contenuti nei Diari, c’è anche spazio per il ricordo della moglie Courtney Love (San Francisco, 1964), da lui concepita come una creatura con ali di pavone, come una femme fatale e infine, come un’irremovibile pallottola nella testa. Ella fu soprattutto una guida che cercò (forse senza successo) di portarlo sulla retta via e di farlo allontanare dalla vita depravata da lui esacerbata. Nel diario l’occhio vuole la sua parte e si notano in maniera netta le varie grafie adoperate, le frequenti cancellature e i disegni che mostrano la fragilità umana, il caos interiore e l’insicurezza di Cobain.
STEFANO BARDI
L’autore del presente testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere a seguito di riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.
Il poeta anconetano Franco Scataglini (1930-1994) nel 1977 diede alle stampe la raccolta So’ rimaso la spina, opera dal titolo fortemente simbolico; qui la Vita è intesa come una creatura che ci spolpa, proprio come l’irruenza delle onde del mare. Un primo tema è quello della Vita, che ci priva di qualsiasi cosa per noi importante, ci cancella, ci azzera e ci immerge in un oceano colmo di solitudine e di emarginazione. Un’esistenza, quella terrena, che è paragonata alla scrittura, poiché come essa è un cancellare gli errori dopo gli sbagli e un canto disperso, nel dolore quotidiano[1]. Vita che ha la sua parte oscura ch’è la dipartita, concepita dal poeta anconetano come una Vita senza energie, sogni, passioni e in particolar modo senza profumi.[2] Un Vita che è paragonata agli invernali moli, luoghi dove non c’è vita, solo malinconia e vite in decomposizione. In tale cornice, gli uomini di Scataglini finiscono per apparire come una sorta di pupazzi di neve, ovvero come delle creature dal cuore glaciale e dalle mortifere parole[3]. A dominare, negli spiragli della silloge, è forse il tema dell’amore, inteso come un qualcosa che ci “cucina” la carne e lo spirito fino all’osso[4], ma anche come il principale motore delle azioni e nella nostra vita[5].
Vorrei allargare il mio pensiero critico e la mia riflessione riferendomi a due poeti contemporanei: Valtero Curzi e Marco Ausili. Il filosofo, poeta e scrittore Valtero Curzi (1957) nel 2017 ha dato alle stampe la raccolta Il tempo del vivere è mutevole. Varie sono le chiavi di lettura, una prima è quella con la quale il poeta paragona la dolcezza esistenziale alla dolcezza del ciliegio che, anche se muore al primo vento, rimane per sempre dentro di noi.[6] La vita è concepita come una dolce melodia che culla la nostra mente e ci conquista con i suoi sensuali arieggi.[7] Per una lettura accessoria credo che bisogni chiamare in causa la canzone Come le onde del mare di Gianmaria Testa. Le onde di Curzi e di Testa strappano i nostri sogni e i nostri affetti per farci immergere in mondi animati da una pacata oscurità.[8] Centrale è la tematica dell’amore che ritorna nella lirica “Ti vengo a cercare”. Testi dove l’Amore, con le sembianze di una donna, è visto come una creatura da amare, lodare, glorificare e contemplare nelle sue brume, nei suoi viaggi psichici e nei sui labirinti spirituali.[9] Accanto al tema della Vita, c’è posto anche per il tema dell’Uomo e del cammino esistenziale. Uno Uomo che non è fatto di carne e di ossa per il poeta senigalliese, ma è un’ombra che vaga all’interno di un mondo annebbiato, alla ricerca di una Terra Promessa sulla quale approdare.[10] Nella poesia “Stazione Centrale” è rappresentato un effimero viaggio in treno, dove non ci sono fermate ma solo partenze.
L’opera di Curzi ha toni pascoliani, dannunziani e ungarettiani al contempo. Per quanto riguarda la reminiscenza pascoliana, dobbiamo parlare della poesia “La notte di San Lorenzo” dove le stelle cadenti rappresentano la morte delle gioie; per quella dannunziana della poesia “Piove, a Maggio” in cui è simboleggiata la tristezza in grado di calmare ogni cosa, concepita come un acqua magica.[11] Un riferimento ungarettiano lo possiamo trovare in “Una foglia”: una foglia caduta dal ramo e adagiata sulla fredda terra, che simboleggia tutta la fragilità degli esseri umani nel loro ultimo istante di vita.[12].
Concludo questa breve dissertazione ritornando nella città dalla quale sono partito, Ancona, parlando del poeta Marco Ausili (1988) che nel 2017 ha pubblicato l’opera Global carmina e altre poesie. Qui il tema è riscontrabile in tre precise sezioni, che sono: Lo spazio di un’estate, La paura della vita e Sentieri ininterrotti. Nella prima, la Vita è paragonata al mare che è visto come una fonte battesimale dalla quale far risorgere le nostre carni purificate[13] e come un baule in cui sono conservate le nostre reminiscenze, i nostri patimenti, i nostri amori e infine, i nostri defunti.[14] Nella seconda, la Vita altro non è che la Morte. Dipartita che è concepita dal giovane poeta come una sorella che ci prenderà per mano e ci condurrà alla vita eterna[15] e come la sovrana dei camposanti, intesi da Ausili come i luoghi che conservano per l’eternità le nostre gioie e le nostre melodie esistenziali. Nell’ultima sezione la vita è concepita come conoscenza e diffusione del passato[16].
STEFANO BARDI
Bibliografia di Riferimento:
SCATAGLINI F., So’ rimaso la spina, Edizioni L’Astrogallo, Ancona, 1977.
CURZI V., Il tempo del vivere è mutevole, TraccePerLaMeta Edizioni, Sesto Calende, 2017.
AUSILI M., Global carmina e altre poesie, Italic, Ancona, 2017.
[1] F. Scataglini, So’ rimaso la spina, Ancona, Edizioni L’Astrogallo, 1977, p. 23 (“[…] tuta scancelatura / dopo dulor de sbai. […]-[…] el biatolà d’un dindo / spèrsose ‘nte la piova.”)
[2] F. Scataglini, So’ rimaso la spina, Ancona, Edizioni L’Astrogallo, 1977, p. 26 (“[…] Pei morti ai quatro venti / ‘st’asenza de perfumo.”)
[3] F. Scataglini, So’ rimaso la spina, Ancona, Edizioni L’Astrogallo, 1977, p. 76 (“Né tera né cielo / è i omini, fiola, / ma pupi de gelo / co’ morta parola. […]”)
[4] F. Scataglini, So’ rimaso la spina, Ancona, Edizioni L’Astrogallo, 1977, p. 67 (“[…] Spolpato sopra e soto / so’ rimaso la spina.”)
[5] F. Scataglini, So’ rimaso la spina, Ancona, Edizioni L’Astrogallo, 1977, p. 120 (“[…] Tuto è corpo d’amore / mischiato al bene e ‘l male, / tuto è ‘l fenomenale / èssece: serpe o fiore / ortiga o albaspina / infedeltà, costanza / fortuna, malandanza / sesso d’omo o vagina / e te, dialeto caro / che da l’infanzia sorti / t’ha cinguetato i morti / su l’alto colombaro […]”)
[6] V. Curzi, Il tempo di vivere è mutevole, TraccePerLaMeta Edizioni, Sesto Calende, 2017, p. 21 (“[…] Terrò l’ultimo fiore / nel mio sguardo.”)
[7] V. Curzi, Il tempo di vivere è mutevole, TraccePerLaMeta Edizioni, Sesto Calende, 2017, p. 23 (“[…] M’ascolto sereno / senza mutar nulla nel mio pensare / lasciando l’armonia conquistarmi.”)
[8] V. Curzi, Il tempo di vivere è mutevole, TraccePerLaMeta Edizioni, Sesto Calende, 2017, p. 27 (“[…] E io sento in quel morir placido / il viver che ci contiene / mi perdo / nei miei pensieri / ed è già subito sera.”)
[9] V. Curzi, Il tempo di vivere è mutevole, TraccePerLaMeta Edizioni, Sesto Calende, 2017, p. 80 (“Ti vengo a cercare / nella tua incertezza / che ti percorre / e ti inseguo / nei meandri dei pensieri / che t’avvitano. […]”)
[10] V. Curzi, Il tempo di vivere è mutevole, TraccePerLaMeta Edizioni, Sesto Calende, 2017, p. 75 (“Cerco il mio tempo / dove posarmi / come alla sera / nel guardar le stelle disperse / nell’universo scuro di chiaro offuscato. […]”)
[11] V. Curzi, Il tempo di vivere è mutevole, TraccePerLaMeta Edizioni, Sesto Calende, 2017, p. 66 (“[…] Piove lieve e fermo / come dolce malinconia / che tutto quieta. / Piove come il meditare / nella matura esistenza percorsa / in ogni pensiero nato e appena sbocciato.[…]”)
[12] V. Curzi, Il tempo di vivere è mutevole, TraccePerLaMeta Edizioni, Sesto Calende, 2017, p. 64 (“[…] Mi serra il cuore / quel tuo stato sottile / d’immensa fragilità / che ci coglie. / Sento doloroso / l’adagiarti ormai morta / sull’arida terra. / Ti guardo… / e fuggo dai miei pensieri.”)
[13] M. Ausili, Global carmina e altre poesie, Italic, Ancona, 2017, p. 19 (“[…] Risalivano. La meraviglia / del respiro, come ora usciti / dall’amnio. Tra le dita / il trofeo immacolato.”)
[14] M. Ausili, Global carmina e altre poesie, Italic, Ancona, 2017, p. 22 (“[…] Ancora nell’orecchio chiuso / il rumore del mare / come fatto si fosse conchiglia / pescata dall’acque. / La mente festante di ricordi / infine piegandosi tacque.”)
[15] M. Ausili, Global carmina e altre poesie, Italic, Ancona, 2017, p. 29 (“[…] Lo sento, sta arrivando. / E presto i suoi passi passeranno / dove passi ogni tanto, / senza avvertire il mio passaggio / il passato, perduto mio transito.”)
[16] M. Ausili, Global carmina e altre poesie, Italic, Ancona, 2017, p. 62 (“[…] Non siamo mai chiusi / dentro una stanza, / siamo comunque nel mondo, / della sua medesima sostanza.”); M. Ausili, Global carmina e altre poesie, Italic, Ancona, 2017, p. 63 (“[…] Passerà l’intera mattina / a ricostruire sereno tutto / il figlio contento di creare, / con calma, senza lutto.”)
L’autore del presente testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere a seguito di riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.
Questo breve articolo è volto a ricordare il poeta, scrittore, giornalista e insegnanteRaul Lunardi(1905-2004), cittadino illustre del comune di Sassoferrato, vicino a Fabriano. Un intellettuale di cui oggi si rammenta per lo più l’attività di scrittore con opere quali “Diario di un soldato semplice” (1952) e “Un eroe qualunque” (2000). Intensa fu, però, anche la sua attività poetica, oggi raccolta in un volume che la compendia in forma generale. La critica poco si è espressa su tale intellettuale, se si eccettuano interventi di Carlo Bo e di Teresa Ferri.
Per praticità e per una più organica presentazione della sua opera poetica, dividerò la sua produzione in due diverse fasi. Nella prima troviamo poesie che vanno dal 1920 al 1983, raccolte in “Poesie 1923-1983” (1998) e quelle dalla seconda metà degli anni ’80 al Duemila in “Preghiera del centenario: poesie” (2003). Numerosi sono i temi da lui affrontati nelle due raccolte . Un primo tema riguarda la Politica, intesa da Lunardi come creatura dalle mani sporche di sangue e di letame, con le quali i suoi funzionari non fanno altro che denigrare la società degli Uomini, sottomettere la razza umana e trasformare lo Stato nella loro casa: un Inferno. Un secondo tema riguarda i versi poetici che sono intesi dal poeta come i flussi sanguigni, poiché come quest’ultimi, anche i versi lirici sono strutture linguistico-grammaticali frenetiche, palpitanti e meditative. C’è anche il tema della terra, della sua regione, delle Marche autentiche, da lui considerate come una Regione elisiaca, dall’eterna giovinezza, dalla viva campagna e dalle reminiscenziali primavere. All’interno di tale realtà c’è un vivido omaggio alle grotte di Frasassi, concepite dal poeta come un Eden mistico dal quale Adamo ed Eva diedero inizio alla vita.
Il poeta marchigiano Raul Lunardi (1905-2004)
“Preghiera del centenario” (2003) è un’opera che l’autore ha volutamente costruito come una moderna “Divina Commedia” dantesca; anche la sua opera è divisa in tre gironi: “Poesie al Neutrone” (configurabili col dantesco Inferno), “Dolce Colore D’Oriental Zaffiro” (configurabili col Purgatorio) e “Dalle Stalle alle Stelle” (configurabili col Paradiso).
Un girone infernale, quello del poeta sassoferratese, in cui possiamo vedere spiriti privi di anima che sono qui collocati, poiché da vivi hanno sostituito l’amore, la gioia e la compassione con la falsa e tecnologia figlia a sua volta della aberrante globalizzazione. Anime, queste, che sono eternamente condannate a non amare più; anime senza amore carnale e spirituale, ma anche profondamente emarginate nell’animo, poiché da vive hanno percorso la strada delle estremità.
Un Inferno che è animato da più anime dannate che saranno da me analizzate nelle loro principali figure. Una prima schiera è costituita dalle oscure ombre di Uomini violenti, che nella loro vita terrena hanno avuto comportamenti maneschi, usato parole brutali e creato leggi per passare negli sguardi degli altri, come dei santi ma pronti a morire durante la loro esistenza per ogni giudizio etico colmo di verità. Una seconda schiera è costituita dalle anime che durante la loro vita sono state avide verso i loro fratelli pensando solo alla cura della propria immagine. Una terza schiera è costituita dagli Uomini cyborg, paragonati agli orologi perché, al pari di essi, compiono le stesse cose impegnati unicamente a consumare i giorni della loro vita. Uomini, ma anche Donne, che sono meretrici, in questo inferno lunardiano. Puttane che nella loro vita hanno illuso i loro amanti donandogli solo un finto amore. Dannate a dolori fisici sono le anime lunardiane; esse sono anche costrette a lasciare nella vita il loro viso nel cuore di coloro che le hanno amate, senza riuscire a dare risposte a questi spettrali visi.
Ci sono anche le impersonificazioni dell’Europa e della Poesia. Il nostro continente è delineato quale creatura ambigua e dalle carni incomplete, che ha regnato solo per mezzo della schiavitù, mentre la Poesia è vista colma di silenzi spirituali e di brumosi pensieri.
Il Purgatorio del poeta marchigiano è contraddistinto da anime che espiano colpe per la conquista del Paradiso Celeste attraverso il ricordo di arcani sapori e ubriacanti odori. Espiazione che si deve basare sulla riscoperta della fola e sul cammino nel dolore. Un girone in cui c’è spazio anche per l’Uomo moderno e la sua vita pregna di super tecnologia, con la quale è fortemente convinto di potersi sostituire alla vita creaturale creata da Dio e crede di poter prendere il posto di Dio. Quest’ultimo, la divinità, è concepita da Lunardi come un geniale direttore d’orchestra che dona all’Uomo i suoi occhi per farlo camminare su una strada luminosa, le orecchie per ubriacarlo con dolci melodie, i piedi per farlo camminare nella compassione e il cuore per fargli diffondere amore.
Sia Inferno che Purgatorio in Lunardi hanno delle affinità con i celebri gironi danteschi. Centrale rimane, comunque, il cruciale tema della globalizzazione quale oscura sovrana, che ha costretto l’Uomo ad abusare della tecnologia per il soddisfacimento delle sue ingordigie più sfrenate. Globalizzazione dalla quale, però, secondo il poeta sassoferratese, l’Uomo se ne libererà rituffandosi nel brodo mistico dell’Alba Tempi, dal quale ricomincerà una nuova vita nel segno della purezza e della beatitudine spirituale.
Per concludere va rivelato che il Paradiso lunardiano è abitato da angeliche creature dal brumoso anelito luminoso, dalle rosee e marmoree membra simili a quelle della dea Afrodite. Accanto a queste creature c’è spazio anche per la Donna, qui rappresentata attraverso un intimo ricordo che ce la mostra come una creatura dalla dorata capigliatura, dallo spirito garbato. Una donna, quella liricizzata dal poeta sassoferratese, intesa come un angelo che riscalda l’uomo, quale creatura sessualmente libera e vera regina che tira i fili dell’Universo.
STEFANO BARDI
(*) Una prima versione di questo articolo, col titolo “Cultura. Sassoferrato, città d’arte e di poesia. Omaggio a Raul Lunardi, 1905-2004”, è apparsa sulla rivista “Lo Specchio Magazine” in data 27/11/2018 (disponibile a questo link). L’articolo viene riproposto con sensibili modifiche rispetto alla precedente pubblicazione, con l’assenso dichiarato da parte del relativo autore.
L’autore del presente testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere a seguito di riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.
Sabato 27 ottobre alle ore 17 presso la Sala “Cecchetti” della Biblioteca Civica “Silvio Zavatti” a Civitanova Marche (MC) si terrà la presentazione al pubblico dell’antologia benefica curata dall’Associazione Culturale Euterpe di Jesi dedicata interamente al mar Adriatico. L’iniziativa si terrà con il Patrocinio Morale del Comune di Civitanova Marche e della Provincia di Macerata. Il volume, pubblicato a dicembre 2017 e curato da Stefano Vignaroli, Lorenzo Spurio e Bogdana Trivak, è stato presentato nei mesi scorsi a Pesaro, Ancona, Senigallia, Roseto degli Abruzzi, San Benedetto del Tronto, in eventi dedicati nei quali si è parlato a trecentosessanta gradi del nostro mare Adriatico. Un volume prestigioso, che ha ottenuto i riconoscimenti e i patrocini morali di numerosi Comuni, Province e dell’Ambasciata della Repubblica Albanese in Italia, oltre che dei Comuni croati di Spalato, Sebenico e Pola.
Durante la nuova presentazione, che sarà aperta dai saluti e dalla descrizione del progetto per mezzo di due dei curatori, Lorenzo Spurio (Presidente Ass. Euterpe) e Stefano Vignaroli (Consigliere Ass. Euterpe) prenderà parte il cultore locale Stefano Bardi con un intervento sulla poesia del poeta locale Sandro Bella. Ad impreziosire la serata sarà la lettura del poemetto in dialetto messinese “Addiu Siracusa” scritto da Vincenzo Prediletto. Nel corso della serata si terrà un reading poetico con poeti della zona invitati dall’Associazione Euterpe e la performer Amneris Ulderigi eseguirà alcune letture scelte dall’antologia.
Il ricavato derivante dall’antologia in oggetto, detratti i costi di stampa, com’è avvenuto in precedenza, verrà donato all’Istituto Oncologico Marchigiano (IOM) sezione Jesi e Vallesina che l’Associazione Euterpe, con le sue iniziative, sostiene.
Fin dall’alba dei tempi, il tema del mare è stato sempre prediletto nella letteratura, come è dimostrato da numerose opere a partire dalla Sacra Bibbia e dai Vangeli. Un mare che simboleggia i principali aspetti di Dio, ovvero il castigo (Mosè e la sua attraversata del mar Rosso) e la salvezza (l’acqua battesimale). Mare che sarà poi ripreso dalla letteratura greco- romana e bizantina, dove, come tematica, ricoprirà un ruolo prettamente sacrale visto nell’acqua intesa come energia esorcizzante e antidemoniaca.
Un tema, quello del mare, che sarà trattato anche dalle grandi firme della letteratura italiana dal Medioevo fino ai giorni nostri, passando per la poesia cantautoriale come per esempio il Cantico delle Creature di San Francesco d’Assisi, il De Jerusalem celesti e il De Babilonia civitate infernali di Giacomino da Verona, la poesia scherzosa di Cecco Angiolieri, la Divina Commedia di Dante Alighieri, il Dialogo della Natura e di un Islandese di Giacomo Leopardi, la natura sommersa di Salvatore Quasimodo, il mare, anzi l’oceano esistenziale, di Domenico Modugno in Oceano (infinito mare), il mare tombale di Lucio Dalla in Com’è profondo il mare, il mare come luogo magico dove rifugiarsi in Sharazan e il mare come cadavere in decomposizione in Notte a Cerano entrambe di Albano Carrisi. Tanti altri nomi si potrebbero e si dovrebbero fare, ma troppo lunga sarebbe la lista.
Il mare come ambiente e concetto è presente anche nella poesia marchigiana come è dimostrato dal mare scenografico di Elvio Angeletti, dal mare reminiscenziale di Michela Tombi, dal mare civico-umanitario di Marco Bordini, dal mare chimerico e “divino” di Mario Rivosecchi e, in particolar modo, dal mare intimo, nostalgico e cantastoriale di Alessandro Bella (meglio noto come “Sandro”, nato a Civitanova Marche nel 1929) che ci ha lasciato due bellissime opere di poesia marittima, ovvero Quagghiò lo porto (1988) e Li “Portési” (2007). Opere queste, dove al centro c’è sempre la città di Civitanova Marche colma di turismo, arte, inebrianti sapori, popolata da una vasta comunità multietnica. Dire Civitanova Marche o “Citanò”, nell’idioma dialettale locale, vuol dire sopratutto mare e porto, con la sua millenaria storia fatta di rapporti commerciali e con la sua storia moderna, imbevuta da rievocazioni marittimo-culinarie e culturali.
Il poeta civitanovese Sandro Bella in uno scatto durante la sua pluridecennale attività di barbiere
Un’opera, quella del 1988, dedicata sì al porto di Civitanova Marche, ma il porto marittimo fa da scenografia anche ad altri temi. Un primo tema riguarda il porto marittimo dalle origine Picene e Romane, che nel passato viveva di pesca, mercato ittico e ambulanti che sostavano con le loro mercanzie e che oggi vive sì con la pesca, ma anche con fabbriche di vario tipo ad esso vicine.
Un secondo tema riguarda il vento d’estate, inteso dal poeta come un dolce e chimerico sospiro che ci conduce in fantasiosi universi, immersi nella pace e nella gioia.
Un terzo tema riguarda un intimo ricordo e, più nel dettaglio, quello legato alla figura di suo padre. La figura paterna è ricordata come un uomo colmo di nobiltà d’animo, profondo ossequio verso gli altri e, in una parola sola, come esempio virtuoso di vita.
Nell’altra sua opera citata, pubblicata nel 2007, ritroviamo arcane sapienze marittime ormai dimenticate, arcaiche parole dialettali, il difficile e doloroso legame dell’Uomo con il mare e tanto altro ancora. In particolar modo leggiamo poesie in cui i marinai e i pescatori sono concepiti dal poeta civitanovese come dei moderni menestrelli e cantastorie che ricordano le loro avventurose battute di pesca con le loro lancette che, fra intemperie e tempeste, sfidavano dio Nettuno.
Un’opera, infine, che tratta in versi anche la figura della donna, vista dal poeta come un’immensa Madre Universale che domina il mondo intero con la sua magica eloquenza dialogativa, il suo tenace spirito da guerriera, il suo amore dolce e la sua fraterna compassione.
STEFANO BARDI
Chiaravalle, lì 15/10/2018
L’autore del presente testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere a seguito di riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.
Il 1968 fu un anno importante per l’Italia: tanti giovani si riversarono sulle strade con le parole e con i bastoni, per cambiare il loro futuro. Cambiamenti che riguardarono pure la nostra letteratura, portando alla “morte” della Neoavanguardia e alla nascita della cosiddetta letteratura postmoderna, dove non è più possibile intravedere le linee letterarie di rilievo, le precise muse ispiratrici, né le poetiche letterarie del passato, bensì un linguaggio e una grammatica, che non hanno nessuno scopo investigativo o psico-sociale. Anche la poesia ebbe i suoi cambiamenti, che durarono, però, fino agli anni Ottanta, poiché molti poeti di quel tempo trattarono tematiche troppo legate alle proteste giovanili sessantottine e al boom economico italiano, senza riuscire ad andare fuori da questi due binari. Tematiche che per l’appunto videro molti poeti essere dimenticati e “schiacciati” negli anni Ottanta, dalla resurrezione della novella e, in particolar modo, dalla resurrezione del cosiddetto romanzo commerciale.
Eppure non tutti i poeti si adeguarono a quella poesia e alla trattazione di quelle tematiche, creando così una nuova lirica denominata neo-orfica o neoermetica che dir si voglia, proiettata verso l’esaltazione magica della poesia, verso la forza della parola immaginaria ancora in grado di scoprire legami e messaggi oceanici della realtà e verso la divulgazione di poesie “eterne” attraverso lessemi sublimi, “divini”, e vigorosi. Una poesia, questa, che ebbe la sua massima espressione attraverso il poeta, scrittore e drammaturgo Dario Bellezza (Roma, 5 settembre 1944-Roma, 31 marzo 1996). Uno scrittore che purtroppo è per lo più dimenticato ai giorni nostri, sembrerebbe non per motivi letterario-ideologici, bensì per motivi di carattere privato: la sua omosessualità e la sua morte per AIDS. Elementi, questi, che fecero vedere quest’autore a molti critici del suo tempo come uno scrittore osceno e scandaloso.
La poesia di Dario Bellezza può definirsi coma una lirica senza lustrini e brillanti, una poesia realistica in cui sono liricizzati i ragazzi amati velocemente dal poeta, che non appartenevano al mondo dell’amore sentimentale, ma a quello della prostituzione e del sesso mercenario. Amori veloci e puramente sessuali che erano volutamente ricercati dal poeta romano, poiché lui medesimo, per tutta la sua esistenza, ebbe uno legame ambiguo con il suo corpo, concepito come un universo colmo di rabbia, ansia, animosità ed esecrazione. La sua poesia può essere vista come un’infinita rampogna composta da lessemi inaciditi, amari, arroganti, eccitanti, come un sistema composto da stonati “frammenti” musicali.
Dario Bellezza
Il 1971 fu l’anno della raccolta poetica Invettive e licenze, dove possiamo vedere i temi che caratterizzeranno la sua intera opera, ovvero l’ambiguità sessuale e la dipartita, temi vissuti dal poeta romano con straziante rimorso e mancanza di coraggio. Più nel dettaglio sembra giusto osservare che il sesso sia da lui concepito come un mondo composto di peccati e dissolutezze, che fanno nascere nello spirito del poeta un sentimento di vergogna, per gli amori incoerenti da lui vissuti e sperimentati. La dipartita, invece, simboleggia una notte colma di oscurità, paure e consapevolezze etico-esistenziali. Opera dai toni biografici, poiché nei testi qui raccolti, Bellezza ci mostra se stesso nella sua vicenda umana, nella sua angoscia e nei suoi calorosi amori all’interno di una quotidianità che vorrebbe distanziare, ma in cui dimora senza soluzione e senza trovare una nuova strada esistenziale. Opera nella quale si può toccare con mano la viscida autenticità intima del poeta, liricizzata attraverso due vie: quella di una lacerante e nobile compassione e quella di una eccitata narrazione lanciata verso il tragico, per mezzo dell’uso di una densa enfasi. Quest’opera può definirsi come una raccolta dell’estrema disubbidienza, rappresentata dal poeta attraverso una sintassi e una grammatica giornaliera, con tematiche che proiettano nella mente del lettore immagini feroci ed estreme, attraverso liriche corporali che si trasformano in poesie maniacalmente ansiose.
Nel 1982 venne pubblicato Libro d’amore in cui ritorna il tema del sesso, del voyeurismo cadaverico e della dipartita. Temi che sono affiancati mediante le immagini dei castighi corporali del poeta, che si fondono con la sua gentile e orgogliosa voce che fortemente declama lo spregevole e il divino fino a creare delle vere e proprie scene poetiche teatrali. Anche la giovinezza perduta e consumata è presente in questa raccolta. Una giovinezza che è rimembrata dal poeta come un’età dolce e luminosa, della quale purtroppo rimane ai suoi giorni una folle notte e la dipartita. Temi che sono espressi dal Nostro, attraverso un linguaggio esplicito.
Il 1990 fu l’anno della raccolta Libro di poesia, opera dal perfetto equilibro melodico conquistato grazie all’utilizzo di registri medio-elevati che ben si fondono con le tematiche dell’ardente fuoco passionale, della sconfitta sociale, dell’emarginazione etico-spirituale, della falsità umana e del rimorso della gioventù perduta. Anche in questa raccolta ritorna il tema dell’erotismo, non più visto come qualcosa di perverso, ma come qualcosa di puro, aulico, dolce. Una scrittura, questa, che può definirsi come una scrittura corporale e che evidenzierà gli aspetti più trasgressivi e barocchi della sua vita autolesionista.
Nel 1996 venne data alle stampe la raccolta Proclama sul fascino che può essere vita come l’opera della maturità del poeta romano, poiché le poesie presenti in questa raccolta sono colme di consapevolezza e sapienza, essendo il frutto della probità poetica e dell’ansia morale vissute in prima persona. Liriche che trattano temi intimi e privati del Bellezza come per esempio lo strazio esistenziale, la vitalità, la puerilità e la consumata fanciullezza, infine la dipartita, che dalla prima alla sua ultima raccolta è sempre presente.
STEFANO BARDI
Bibliografia di Riferimento:
Della Bella, Sacro e diverso. Percorsi genettiani nell’opera di Dario Bellezza, Bologna, Il Lavoro Editoriale, 1990.
Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1992, 2 vol., Tomo II.
Lorenzini, La poesia italiana del Novecento, Bologna, Il Mulino, 1999.
Asor Rosa, Letteratura italiana del Novecento. Bilancio di un secolo, Torino, Einaudi, 2000.
Lorenzini, Poesia italiana del Novecento, Roma, Carocci, 2002, 2 vol., Tomo II – Dal secondo dopoguerra a oggi.
Cucchi – S. Giovanardi, Poeti Italiani del Secondo Novecento, Milano, Mondadori, 2002, 2 vol., Tomo II.
Raffaeli – F. Scarabicchi, Dario Bellezza: album, Ancona, Centro Studi Franco Scataglini, 2002.
L’autore del presente testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere a seguito di riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.
Sabato 10 marzo alle 17:30 presso la Sala del Consiglio comunale di Cupramontana (AN) si terrà “Sei donna”, un evento poetico voluto e organizzato dalla Associazione Culturale Euterpe di Jesi, durante il quale verrà presentato l’ultimo libro del poeta senigalliese Elvio Angeletti, Refoli di parole, pubblicato nel 2017 con la casa editrice Intermedia di Orvieto. […]
Monte San Vito è un piccolo paese dell’entroterra marchigiano con appena 6.887 abitanti. La sua economia si basa principalmente sulla produzione dell’olio e del vino. Uno dei suoi figli più illustri, sebbene sia per lo più dimenticato, è il poeta Giuseppe Gerini, qui nato nel 1895. Non si conosce il luogo e la data della sua morte; per poter avere maggiori note biografiche è necessario riferirsi alla storica Sandra Cappelletti[1] che riferisce che il poeta fu sempre legato al suo paese natale dove spesso ritornava durante i periodi estivi, per poter godere della calda affettuosità della gente ritrovandovi la sua interiore spiritualità.
Per mezzo delle ricerche condotte dalla Cappelletti emerge il “Gerini ardito” far part, nel Primo conflitto mondiale, al Reparto d’Assalto delle leggendarie “Fiamme Nere” e in seguito aderire al nascente Partito Fascista di cui – pare – condivideva le finalità. Di certo della sua vicenda umana si ricorda del suo insegnamento presso la scuola media di Fiume dove poi, da giornalista, fonderà, nel 1935, la rivista Termini. Presidente dell’Istituto di Cultura Fascista della Provincia del Carnaro, allo scoppio della Seconda guerra mondiale lo si vedrà lasciare l’incarico per arruolarsi, di nuovo, nel Reparto d’Assalto delle “Fiamme Nere”.
Un’opera di Giuseppe Gerini
Come poeta Gerini ha lasciato numerose opere: Bonae manus (1928), Alanda (1929), In ascolto (1932), Nel mio eterno (1940), Armonie velate (1943), Motivi e canti (1944), Dentro celeste sponda (1949), Alba migliore (1952), Tre pietre (1956), Canti di Boccadasse (1959), e l’opera omnia Poesie 1928-1962 (1963).[2]
Poeta che può essere definito come vate lontano dalle canoniche ombrose tematiche della poesia italiana; le sue liriche siano colme di dolcezza, musicalità e trasparenza. I suoi sono versi dove traspaiono ansiose problematiche e interrogazioni al mistero che trasformano la sua lirica in una poesia atavica e immanente.
La sua produzione poetica ha origine dagli affetti familiari, in particolar modo esaltati ricordando con riferimento alla madre; nella poesia “Il pulcino” la figura materna viene concepita come una donna buona, generosa, spiritualmente straziata per la morte dei suoi quattro figli.[3] Madre, vista dal poeta di Monte San Vito, con gli occhi di un bambino, anzi di un pulcino, nel quale egli si riconosce e s’immedesima. La perdita materna, assieme a quella della figlia Magda[4], è ricordata nell’opera omnia Poesie 1928-1962, nell’ultima sezione dal titolo Elegie per Magda.
Accanto ai temi familiari, anche il tema della terra natia è presente nella poesia geriniana. Se ne ha conferma attraverso la poesia “Terra marchigiana”, dove la terra natale è vista dal poeta come un luogo magico in cui nascono fantastiche storie, che volano fino al firmamento celeste trasformandosi in nuvole, dalle forme familiari.[5] È nella poesia “Ridiscendo la costa” che il poeta, attraverso il potere magico della pioggia, rivede i suoi luoghi natali (campagne e campi di grano), come i luoghi dell’infanzia[6], nei quali egli stesso si sente protagonista sotto la forma di nuvola creata dal dolce suono di zufolo[7].
Famiglia, terra natia, natura, tutto questo si riscopre attraverso le poesie: “L’albero, il fiore”, “All’usignolo”, e “Il sole prigioniero”, quest’ultima dai toni futuristici come poi vedremo nel susseguo dell’analisi. Nella prima lirica questi due elementi naturali, sono concepiti dal poeta come delle creature con un’anima che, al pari degli Uomini, sono sottomesse all’amore che è gioia, bontà, fratellanza, ma anche lacrime, strazi, dipartite e, come gli Uomini, anche questi figli di Madre Natura, si godono attimi di quiete e consumano esistenze senza lacrime.[8] Nella seconda lirica c’è un forte rimando alla poesia “Il passero solitario” di Leopardi. In entrambi i poeti il meraviglioso canto degli uccelli viene messo in risalto poiché il loro canto, da sempre, conserva la sua trasparente, dolce musicalità. Niente di questo, però, è paragonabile al maestoso canto della natura costituito dal silenzio, che neanche il canto umano osa spezzare[9]. La terza e ultima lirica può essere considerata come una poesia futurista poiché, al pari della poetica marinettiana, la natura geriniana è una natura meccanica e bellica, dove i suoi uccelli d’acciaio, portatori di morte, sono dotati di un’oscura anima capaci di esaltare violenza, strazio, innocenti pianti.
Uno scorcio di Monte San Vito, piccolo centro dell’Anconetano dove il poeta nacque.
Altri due temi sono trattati dal nostro poeta, ossia quello di Dio e quello sulla morte. Per quanto riguarda il primo, dobbiamo riferirci alle poesie “E, se ritorni” e “Siamo la tue messe”. Nel primo testo Dio è concepito dal poeta marchigiano come l’unico e vero “padrone” di tutti noi poiché, solo Egli, può comandare ogni nostra intenzione e solo Lui è capace di fermare ogni nostra mala azione.[10] Più precisamente un padre, che ci farà risorgere dopo la nostra dipartita, per vivere assieme a Lui un’eterna esistenza.[11] Nella seconda poesia, invece, gli Uomini sono paragonati a dei chicchi di grano in mano a Dio che saranno da Lui seminati per poi crescere in nuove Terre, senza che nessun vento oscuro li possa scalfire[12]. Per quanto riguarda il tema della morte o dell’eterno sonno dobbiamo prendere in considerazione la poesia “Cimiteri”. Luoghi, questi, dove l’unico linguaggio usato dal poeta è quel silenzio che a volte all’improvviso spezzato dal demoniaco canto del merlo, fa di conseguenza sanguinare il firmamento, accompagnando le anime che camminano sugli andini sacri dei cimiteri.[13]
STEFANO BARDI
Bibliografia di Riferimento:
Antognini Carlo, Scrittori marchigiani del Novecento, Ancona, Bagaloni Editore, 1971, 2 vol., Tomo II – Poeti.
Calcaterra Carlo, Scrittori dell’Ottocento e del primo Novecento, Torino, Società Editrice Internazionale, 1936.
Cappelletti Sandra, Monte San Vito: castello terra comune, Monte San Vito, Comune di Monte San Vito, 1999.
De Robertis Giuseppe, Scrittori del Novecento, Firenze, Le Monnier, 1958.
Spurio Lorenzo, Convivio in versi. Mappatura democratica della poesia marchigiana, Sesto Fiorentino, PoetiKanten, 2016, 2 vol., Tomo I-Poesia in lingua italiana.
[1] Sandra Cappelletti, Monte San Vito: castello terra comune, Monte San Vito, Comune di Monte San Vito, 1999, p. 312.
[2] Lorenzo Spurio, Convivio in versi Mappatura democratica della poesia marchigiana, Sesto Fiorentino, PoetiKanten, 2016, 2 vol., Tomo I-Poesia in lingua italiana, p. 435; C. Antognini, Scrittori marchigiani del Novecento, Ancona, Bagaloni Editore, 1971, 2 vol., Tomo II – Poeti, p.120.
[3] Giuseppe Gerini, Poesie 1928-1962, Parma, Guanda, 1963, p. 25 (“[…] or che degli otto folletti / quattro ti dormono in fila nei letti / del cimitero […].”)
[5]Ivi, p. 13 (“[…] La seta dei miei versi, / perché tessa nell’aria / care forme.”)
[6]Ivi, pp. 8-11 (“[…] Ridiscendo la costa, / anni belli, / zufolo / a quella stria di nuvole leggere.”)
[7]Zufolo = strumento a fiato tipico della Sardegna costruito in legno, che emette il suono di un fischietto.
[8] Giuseppe Gerini, Poesie 1928-1962, Parma, Guanda, 1963, p. 37 (“Creature, senza parole / schiavi d’amore e morte / anch’essi, / colgono l’ora serena, / l’attimo senza pena, […].”)
[9]Ivi, p. 67 (“[…] lo spirito notturno delle valli / non la gola dell’uomo ti risponde.”)
[10]Ivi, p. 111 (“[…] a Lui che tiene il mondo, tiene tutto, / regola il ritmo delle vene ai polsi: / regola e ferma […].”)
[11]Ibidem (“[…] Sarà per sempre tuo penso, / quanto ne avrai: e ciò che è tutto. / Si, tutto. Veramente.”)
[12]Ivi, p. 112 (“[….] E quali, lo sai tu che ci raccogli / e ci riposi. Siamo la tua messe, / Signore. E di noi / forse seminerai tutt’altri campi / al d là degli spazii oltre il tempo / per fioriture nuove e senza morte.”)
[13]Ivi, p. 147 (“[…] Segui le nere spole / che suonando improvvise / rigano l’aria e si occultano / nelle verdi dimore. / Odi il canto del merlo / lungo i mesti viali. / Adàgiati, se puoi / ad ascoltare come stanno i morti.”)
L’autore del presente testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere a seguito di riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.
L’Associazione Culturale Euterpe ha organizzato per sabato 20 gennaio alle 17:30 alla Biblioteca “La Fornace” di Moie di Maiolati Spontini (AN) la presentazione del volume collettaneo di interventi critici su poeti marchigiani a cura di Lorenzo Spurio, Scritti marchigiani. Diapositive e istantanee letterarie (Le Mezzelane, Santa Maria Nuova, 2017 – con nota di postfazione di Guido Garufi).
Volume nel quale Spurio – già autore della corposa antologia di poeti marchigiani in due volumi nel 2016, Convivio in versi – ha raccolto saggi, recensioni e note di approfondimento su intellettuali marchigiani del Secolo scorso e della contemporaneità. In esso si trovano critiche letterarie su Franco Matacotta, Massimo Ferretti, la fabrianese Anna Malfaiera, i poeti Feliciano Paoli, Michela Tombi, Elvio Angeletti, Piero Talevi (solo per citarne alcuni). Il libro si chiude con un ricco apparato fotografico di località suggestive del nostro territorio, scatti eseguiti dallo stesso Spurio negli ultimi anni, da Marzocca ad Ascoli Piceno, dal Tempio del Veladier di Genga a Cupra Marittima Alta (Marano) e tanto altro ancora.
Durante l’evento, che vedrà la presenza e la relazione dell’autore su alcuni aspetti del volume (già presentato a Marzocca di Senigallia alla “L. Orciari” , a Fabriano alla “R. Sassi” e a Pesaro presso il sontuoso Alexander Museum Palace Hotel nei mesi scorsi), interverranno il poeta di Sassoferrato Antonio Cerquarelli (pluri-accademico e autore di numerosi lavori poetici) e il collaboratore della rivista di letteratura “Euterpe” Stefano Bardi che ricorderà la poliedrica figura di Luigi Bartolini, poeta e scrittore di Cupramontana ben più noto quale incisore e pittore.
Luigi Bartolini
A intervallare il pomeriggio d’approfondimento sulla poesia della nostra Regione sarà la lettura di brani poetici degli autori Francesca Innocenzi (Cingoli), Cristiano Dellabella (Cupramontana), Ilaria Romiti (Monte San Vito), Luciano Innocenzi (Cingoli), Luciana Latini (Maiolati Spontini), Elvio Angeletti (Senigallia), Valtero Curzi (Senigallia), Piero Talevi (Colli al Metauro – PU), Michela Tombi (Pesaro), Andrea Pergolini (Fossombrone), Oscar Sartarelli (Jesi), Michele Veschi (Senigallia) e Benedetta Dui (Jesi).
Ad arricchire la serata gli interventi musicali al violino ad opera del giovane Tommaso Scarponi (Scuola Musicale “Gian Battista Pergolesi” di Jesi) e le letture poetiche a cura di Patrizia Giardini. Info:
La nuova presentazione del ricco volume antologico curato dalla Associazione Culturale Euterpe di Jesi, interamente dedicato al mar Adriatico, si terrà il 16 dicembre a partire dalle ore 17 presso la Biblioteca Comunale “Luca Orciari” di Marzocca di Senigallia (Via del Campo Sportivo). In collaborazione con il Centro Sociale Adriatico, l’evento sarà imperniato sulla presentazione […]
Quando in Italia si parla di Mafia e Mafie, ecco che si sentono risuonare, anzi riecheggiare nell’aria le potenti parole di un martire dell’antimafia, vissuto nel nostro lontano e vicino 1900, un secolo che ancora oggi è un tema di ampie discussioni, di qualsiasi tipo, da quelle storiche, a quelle sociali, fino ad arrivare a quelle giovanili. Il martire di cui sto parlando, è stato un uomo che ha indossato le semplici e umili vesti ecclesiastiche, e non quelle da magistrato come la coppia Falcone-Borsellino o quelle da giornalista come Giancarlo Siani o quelle da poeta e speaker radiofonico come Giuseppe Impastato, bensì la semplice veste nera da sacerdote. Non sto parlando di Don Pino Puglisi, ma del presbitero, scrittore e capo scout campano Don Giuseppe Diana, “Don Peppe”, al quale voglio dedicare questo articolo, partendo dalla sua biografia, per arrivare ai suoi insegnamenti.
Don Giuseppe Diana nasce il 4 luglio del 1958 a Casal di Principe (NA). Nel 1968 si licenzia in Teologia Biblica nel Seminario di Aversa e si laurea in Filosofia all’Università Federico II di Napoli. Nel 1978 entra nell’Agesci divenendo capo scout di Aversa, e nel 1982 prende i voti da sacerdote. Insegna Letteratura presso il Seminario Francesco Caracciolo, Religione Cattolica presso l’Istituto Tecnico Industriale Statale “A. Volta” e all’Istituto Professionale Alberghiero di Aversa. Il 19 marzo 1994, nel giorno del suo compleanno, muore a Casal di Principe in un attentato di matrice mafiosa, per opera di Giuseppe Quadrano che gli sparò vari colpi in faccia, aiutato da Mario Santoro e Francesco Piacenti, sotto la commissione della famiglia camorristica dei De Falco, i quali per scagionarsi dall’omicidio cercarono di far cadere la colpa sulla famiglia camorristica degli Schiavone. La lotta che Don Giuseppe Diana condusse contro la Mafia, gli fece conquistare la medaglia d’oro al valore civile. Pur essendo lucidamente cosciente dei pericoli che correva, non rinunciava a esporsi pubblicamente contro la camorra, fino a cadere in un brutale omicidio nella sacrestia, mentre si preparava per celebrare la Messa.
Don Peppe, come lui stesso amava definirsi, è stato un semplice uomo di chiesa, e si inalberava fortemente con coloro che lo definivano un martire dell’antimafia . Sacerdote vicino ai giovani, anche e soprattutto alla sua attività nell’Agesci di Aversa al fianco degli Scout. Un sacerdote animato da una profonda umanità e compassione che andava oltre al sacro e che spingeva gli altri a cercare chi erano veramente e a cercare Dio.
La sua lotta alla Mafia è stata una lotta combattuta attraverso la Sacra Parola del Vangelo, la quale ci rende veramente liberi e capaci di saper scegliere, proprio come ci insegna il messaggio originale del Cristianesimo. Un Vangelo che ci insegna a non tacere davanti a nessuna illegalità e oscurità e che ci “obbliga” a seguire l’unica via possibile per la redenzione e la salvezza spirituale e carnale, che è quella dell’annunciare la parola del Vangelo liberatore in nome di Cristo.
Un altro strumento utilizzato da Don Giuseppe Diana nella lotta alla Mafia è stato quello dell’Oratorio Parrocchiale utilizzato anche da Don Pino Puglisi; per Don Giuseppe Diana questo ambiente doveva essere un luogo per eventi che andavano dallo sport allo spettacolo. Per questo sacerdote l’Oratorio era solo uno strumento di difesa contro la Mafia, ma niente di più. Don Giuseppe Diana ci lascia come eredità un bellissimo testo dal titolo Per amore del mio popolo che fu diffuso nelle chiesa di Casal di Principe e in tutte le chiese aversane nel Natale del 1991, che insieme alla sua firma è accompagnato anche dalle firme dei parroci della foranìa di Casal di Principe. Un testo che ci dice come l’uomo debba combattere la Mafia e le Mafie, ovvero, essere in primis noi stessi dei Profeti e come loro andare in giro per il mondo e diffondere un messaggio di Giustizia, di Legalità, e di Libertà. Un testo che merita di essere analizzato meglio.
Il testo di Don Giuseppe Diana è incentrato sulla figura dei Profeta e come lui l’Uomo deve vedere l’illegalità, la deve denunciare, deve ricondurre l’uomo al disegno originario di Dio, deve ricordare il Passato, e farne uso nel Presente per non ricadere nell’Oscurità, deve suggerire la strada della vita, e lui medesimo deve consumare la fratellanza nel patimento. Come il Profeta, deve camminare sempre e per sempre sulla strada della Legalità e della Giustizia sociale e spirituale. Attraverso questo testo, Don Peppe ha cercato di salvare i ragazzi di Casal di Principe dalle oscure grinfie delle bande camorristiche locali. Subito dopo la sua morte si è cercato di infangare la sua figura attraverso articoli di giornale sui quali fu fatto passare come un frequentatore di prostitute e un pedofilo. Dichiarazioni infamanti e calunnie che caddero il 27 marzo 2003 quando ci fu la Sentenza di Appello che condannò Giuseppe Quadrano come esecutore del suo omicidio; in tal modo la figura di Don Peppe poté ritornare a risplendere di una luce buona e giusta, per la felicità della sua famiglia, dei suoi confratelli, e per la gioia di tutti i ragazzi e adolescenti che ancora oggi combattono la Mafia in suo nome.
Non solo Per amore del mio popolo, ma anche altre parole vanno ricordate della sua lotta alla Mafia. Iniziamo con un suo intervento che fece nell’anno prima di diventare sacerdote, e più precisamente, ritorniamo al 19 marzo 1981, dove ci dice che dobbiamo incontrare Dio, rendendolo attuale ai tempi in cui viviamo. In noi stessi, come ci suggerisce Don Peppe, devono essere presenti la ricerca e la scoperta del Tu, che devono portarci e donarci la pace e la calma. Altre parole sono quelle contenute in un suo libello scritto in brutta dal nome Capo-Sacerdotale. Dimensione sacerdotale (Liturgia-Preghiera). Parola preghiera vita che dovrebbe risalire al 1987. Un testo che non è mai stato pubblicato, ma che è di vitale importanza, poiché si concentra sulla sfera sacerdotale del capo scout e dello scoutismo più in generale, il quale è concepito da Don Peppe, come il racconto morale del Regno Divino, poiché come il Padre Celeste, anche lo scoutismo contempla e valorizza le semplici e umili azioni giornaliere. Il capo scout, proprio come il prete e l’ecclesiastico, ha l’obiettivo e si pone il compito di mostrare Dio al Mondo, e di condurre il Mondo a incensarlo.
Fondamentale è anche l’intervista del 1992 rilasciata al Giornale locale Lo Spettro dal titolo “I preti anticamorra. La parola di Dio, spada a doppio taglio ”, in cui afferma che la Chiesa debba essere solo un mondo che s’impegni nel sociale, nell’aiuto dei poveri, e nell’aiuto agli emarginati, cioè una Chiesa di denuncia-annuncio. Un’ultima importante intervista è quella che rilasciò il 19 marzo 1992 dal titolo “Educare alla legalità”. Un’intervista che si concentra sul suo maggiore testo antimafia, che è il già citato Per amore del mio popolo, inteso dal suo stesso autore come un simbolo di rottura e contraddizione sociale a Casal di Principe, dal Natale del 1991 in poi. Inoltre ci dice anche che la lotta alla legalità è un qualcosa di profetico, ma non deve essere unicamente fermo allo stadio mentale, bensì deve essere un cammino pratico e “materiale”. Non solo attraverso queste interviste e attraverso il suo documento possiamo ricordarci di Don Giuseppe Diana, ma anche grazie al Comitato don Peppe Diana nato il 25 aprile 2006 a Casal di Principe, composto dall’Agesci Campania, dalla Scuola di Pace don Peppe Diana, dall’Associazione Jerry Essan Masslo, dal Progetto Continenti, dall’Omnia Onlus, dall’Associazione Legambiente circolo Ager, e dalla Cooperativa Sociale Solesud Onlus. Il Comitato don Peppe Diana dal 2003 cerca di costruire a Casal di Principe una Comunità Anticamorra. Anche la Scuola ricorda questo uomo di chiesa attraverso l’intestazione avvenuta il 21 aprile 2010 da parte dell’Istituto d’Istruzione Superiore di Morcone e attraverso l’intestazione dell’Istituto Comprensivo 3 di Portici. Anche la fiction televisiva (finalmente in maniera giusta), ci ha fatto ricordare la sua vita e il suo insegnamento, grazie alla fiction prodotta e trasmessa il 18 e il 19 marzo 2014, in onore del ventesimo anniversario della sua morte, dal titolo Per amore del mio popolo, con l’attore Alessandro Preziosi nei panni di Don Giuseppe Diana.
Oggi più che mai la voce e le parole di Don Giuseppe Diana riecheggiano forti e potenti, contro quell’Universo che Giuseppe Impastato definì come “una montagna di merda”, e che prende il nome di Mafia. La voce di Don Peppe, sarà per sempre una voce che riecheggerà nei nostri cuori, ogni volta che si parlerà di Mafia. Un Profeta che ha combattuto questi oscuri universi con il Vangelo. Ecco chi è stato Don Giuseppe Diana. Anche Noi dobbiamo seguire i suoi insegnamenti e diventare Profeti in quanto battezzati in nome di Cristo, e anche la nostra voce dovrà riecheggiare anno dopo anno, e secolo dopo secolo, contro la Mafia. Insegnamenti che oggi più che mai devono trovare spazio nella società odierna, come per esempio a Ostia dove vige omertà e paura nei confronti di clan mafiosi che comandano a piede libero, con atteggiamenti mafiosi e camorristici.
Insegnamenti che già da tempo a Chiaravalle, per esempio, sono messi in pratica dai ragazzi della Parrocchia di Santa Maria in Castagnola che ogni sabato nel Chiostro adiacente all’abbazia educano le nuove generazioni attraverso l’Oratorio; e li chiamerò con il nome di fantasia Legality Boys (Ragazzi della Legalità). Questi Ragazzi della Legalità usano come Don Peppe lo strumento dell’Oratorio per educare i nostri ragazzi al rispetto fra le persone, alla fratellanza, alla pace, all’amore, e alla contemplazione e diffusione della Parola del Vangelo e di Dio. Tutto questo lo fanno fondendo l’insegnamento di Don Peppe, con lo strumento usato da Don Pino Puglisi, ovvero il gioco inteso come uno strumento per la crescita sociale, civile ed etica, ovvero come qualcosa che può far diventare i nostri ragazzi, dei veri Cittadini del Mondo che non hanno paura di niente, perché illuminati dalla luce di Dio. Come disse Giovanni Paolo II, “non abbiate paura” e impegniamoci a contrastare la mafia, nelle sue forme più o meno grandi e luride.
STEFANO BARDI
Bibliografia di Riferimento:
Don Giuseppe Diana, Per amore del mio popolo, Casal di Principe, 1991.
R. Giuè, Il costo della memoria. Don Peppe Diana. Il prete ucciso dalla camorra, Roma, Edizioni Paoline, 2007.
(*) Una versione precedente di questo articolo è stata pubblicata, con il titolo “Vangelo vs Mafia: l’insegnamento di Don Giuseppe Diana” sulla rivista di letteratura “Euterpe”, n°15, Marzo 2015. L’articolo viene qui riproposto dietro proposta e consenso dell’autore.
L’autore del presente articolo dichiara, sotto la sua unica responsabilità, di essere frutto del suo unico ingegno e di non riprendere in tutto o in parte testi di terzi tutelati da DD.AA.
Ugo Betti (Camerino, 1892-Roma, 1953) è uno scrittore ormai per lo più dimenticato, tranne – forse – nelle Università, dove a volte si dedicano corsi monografici sul suo teatro e, meno, sulla sua attività poetica.
Fratello del giurista Emilio Betti, Ugo studiò legge a Parma, per arruolarsi come volontario allo scoppio della prima Guerra mondiale. Fu catturato a Caporetto e incarcerato a Rastatt, insieme agli scrittori Carlo Emilio Gadda e Bonaventura Tecchi, diventandone loro amico. Alla fine della guerra terminò i suoi studi e si laureò come giudice. Al termine della Seconda guerra mondiale lavorò come bibliotecario al Ministero della Giustizia e, sebbene abbia scritto molti drammi durante il periodo del Regime Fascista, i suoi lavori più famosi furono da lui creati e partoriti durante gli anni Quaranta. Nel 1945 insieme a Fabbri-Benelli-Bontempelli, creò il Sindacato Nazionale Autori Drammatici (SNAD), nato per difendere i lavori dei colleghi e degli scrittori teatrali. Morì a 61 anni in una clinica romana, dove era ricoverato per una grave malattia.
Lo scrittore e drammaturgo di origini marchigiane Ugo Betti. Foto tratta da http://www.provincia.mc.it/curiosita-cms/concittadini-illustri-ugo-betti/
Il teatro bettiano si basa sull’impossibilità di riuscire a dividere la luce (il bene) dalle tenebre (il male) e di seguire una Giustizia concreta e valida. Nelle sue opere si percepiscono le trame di una vita svuotata, quasi dominata da un’essenza superiore. Nel suo teatro c’è una forte fiducia nella continuazione della vita dopo la dipartita. Morte che per Betti è uno strumento di vitale importanza, per superare le solitudini e le brume, ed è vista come una resurrezione. Fiducia ultraterrena e turbamento spirituale, intesto quest’ultimo come pazienza e speranza dell’esistenza ultraterrena. Un teatro, quello bettiano, da molti definito come una Tragedia Moderna, nella quale si cerca di conquistare gradualmente la verità e l’onestà, attraverso l’inchiesta.
Un’inchiesta, che vuole palesare la bontà dell’Uomo, le sue doti di azione, i suoi demoni e le sue lussurie, insieme alle loro paure di essere giudicati probi. Non sempre, però, l’indagine o l’investigazione bettiana raggiunge il traguardo desiderato, arrivando solo al conflitto vicino alla verità, anzi molte volte mette i protagonisti uno contro l’altro. Personaggi bettiani, che a questo punto (forse) sono destinati a vivere eternamente nella solitudine e nel vuoto esistenziale. Eppure non possiamo affermare che lo l’obiettivo dell’inchiesta bettiana sia il niente, ma bensì un lento e frammentato procedimento investigativo.
Un altro tema di vitale importanza è quello dell’omicidio, che simboleggia il caos, da Betti raffigurato come un organismo logicamente e linguisticamente inspiegabile. Tragedia e allo stesso tempo non tragedia, ma più precisamente, dramma. Un dramma privo di impavidi, in grado di mutare il destino oscuro degli Uomini. Seppur l’impavido esiste nel teatro bettiano, è un personaggio che non ha coraggio, persuasione, né gloria, ma solo una forte esigenza di compassione e benignità. Altri tema del suo teatro sono quelli della sconfitta o caduta della legalità, della verginità, della libertà/pace e della compassione. In questa sconfitta, o caduta che a dir si voglia, l’uomo conosce se stesso e incontra Dio. Da questo incontro si abbevera di commiserazione.
La sua opera più rappresentativa è il dramma in prosa del 1944 dal titolo Corruzione al Palazzo di Giustizia. Qui il processo giudiziario è visto come una ricerca individuale della conoscenza. Questo dramma ha lo scopo di far rinascere una legalità corretta e positivamente fruttuosa. Un’opera che va oltre la normale inchiesta giudiziaria, poiché, oltre a investigare nella realtà, lo fa anche nell’oltretomba. In particolar modo ci mostra la figura del giudice, concepito dall’autore camerinese come un uomo colmo di peccati da declamare, per essere così espiati e purificati. Secondo lo scrittore la dignità e la libertà devono essere conquistate e riconquistate, solo con una feroce protesta verso le istituzioni, attraverso una forte convinzione nella rivolta intesa come purificazione etico-spirituale. Questa rivolta che deve essere etica, sociale, ed esistenziale deve ridare la fede all’Uomo e la giustizia a Dio.
STEFANO BARDI
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