Franco Patonico: poesia, video e teatro alla Biblioteca “Orciari” di Marzocca il 23 ott.

Domenica 23 ottobre alle ore 16:30 presso la Biblioteca Comunale “Luca Orciari” di Marzocca di Senigallia si terrà, con il Patrocinio del Comune di Senigallia, un evento culturale voluto e promosso dall’infaticabile poeta dialettale Franco Patonico. La serata si aprirà con la presentazione del suo ultimo libro di poesie, dal titolo “Cantastorie”, condotta dal critico letterario Lorenzo Spurio che presenterà l’autore e l’opera a partire dalla nota di prefazione che ha stilato per il volume. 

Durante il ricco pomeriggio verranno altresì proiettate delle video-poesie, genere che molto piace a Franco Patonico e con il quale si è espresso numerose volte anche in altre situazioni e momenti di incontro poetici.

Nella seconda parte, invece, avrà luogo una messa in scena di alcuni estratti dell’opera in vicentino “Montecchi e Capuleti” di Zeffirino Agazzi (creata sulla celebre opera del drammaturgo inglese William Shakespeare) che Patonico proporrà in una inedita versione dialettale in senigalliese. Rappresenteranno alcune scene scelte dell’opera  Sara Gasperini (Giulietta), Filippo Paolasini (Romeo) e Letizia Greganti (Governante). La rappresentazione avverrà con le voci narranti -fuori scena- di Donatella Angeletti e Mauro Pierfederici. romeo-e-giulietta-page-001

Diana Iaconetti eccelsa interprete dei versi leopardiani

 

Serata di altissima intensità emotiva quella svoltasi ieri, sabato 23 luglio, al Colle dell’Infinito a Recanati presso l’Orto di Santo Stefano per lo spettacolo recitativo “Il poeta del ‘dolce’ infinito” per la regia di Diana Iaconetti. L’evento, organizzato dal Centro Nazionale Studi Leopardiani e dal Centro Mondiale della Poesia e della Cultura è stato il secondo appuntamento del ricco programma estivo dei “Notturni leopardiani” che ha avuto la collaborazione delle Associazioni Culturali Euterpe di Jesi e Armonica-mente di Fermo.

La serata è stata presentata da Tiziana Bonifazi che in maniera leggiadra ed attenta ha introdotto l’attrice calabrese naturalizzata romana, molto impegnata in spettacoli e recital di impronta civile e la poetessa Nuccia Martire della quale la Iaconetti ha dato lettura e magnifica interpretazione della “Lettera a Leopardi”. Un testo che la Martire ha scritto l’anno scorso passeggiando per le vie di Recanati, fortemente suggestionata dall’ambiente, in un colloquio intimo e appassionato con il grande Poeta. Una lunga epistola dai toni classici con rimandi continui all’ampia opera –non solo poetica- del Recanatese a descrivere una pièce di grande impatto, una sorta di saggio sociologico, un brano dai toni elevati e dai richiami piacevolmente resi a un mondo di provincia dove il Recanatese diede sfogo al suo genio: il canto dell’ambiente, il patto con il silenzio, la riflessione sulla morte.

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Diana Iaconetti

Magistrale l’interpretazione del celebre canto poetico “L’infinito” che ha seguito la recitazione di brani immortali della nostra letteratura, dalla struggente “A Silvia” a testi delle “Opere morali” tra cui l’interrogatorio “Che fai tu, luna, in ciel?” che apre il “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” al “Dialogo della Moda e della Morte”. I brani recitati con rigore e tenerezza, con ardore comunicativo e pregnanza verbale hanno raggiunto gli astanti coinvolgendoli emotivamente. 

La voce narrante Luca Pennacchioni ha invece interpretato con indiscutibile abilità oratoria ed espressiva i “Pensieri ludici”, testi scritti da Nuccia Martire intervallandosi con la recitazione della Iaconetti.

Lunghi ed entusiastici applausi sono stati rivolti agli attori mentre sotto un cielo calmo, lambiti dalla vite tentacolare, si è respirata poesia. Con il refrigerio di questa aria speziata d’amore per la conoscenza e di fascino per il bello, incantati si è ritornati nelle proprie dimore più arricchiti di un sentimento panico e al tempo sociale verso l’ambiente.

Presenti tra il pubblico Fabio Corvatta (Presidente del Centro Nazionale Studi Leopardiani), Luciano Scala (Presidente del Centro Mondiale della poesia), Antonio Bravi (Vice-sindaco di Recanti), Lorenzo Spurio (Presidente Ass. Euterpe di Jesi) e Nunzia Luciani (Presidente Ass. Armonica-mente di Fermo).

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Da sx: la presentatrice Tiziana Bonifazi, la poetessa Nuccia Martire e i recitatori leopardiani Diana Iaconetti e Luca Pennacchioni

Dai carmi più intimi e cupi, segno di una sensibilità di un’epoca tramontata, che caratterizzano il Leopardi Romantico la Iaconetti ha interpretato il tormentoso ma lucido “Giardino della sofferenza” tratto dallo “Zibaldone”, serrata riflessione a tratti sincopata sulla società affossata da uno stato di mancanza e sfiducia percepita in un desolato giardino, dove l’albero è infestato e gli arbusti son minacciati dagli insetti o dal clima inclemente. La Iaconetti –con le sua verve recitativa- non solo ha fatto rivivere il Leopardi, raccontandocelo in tante fasi che ha attraversato, ma si è fusa con l’ambiente, con quei colli leggiadramente degradanti della campagna marchigiana, animando gli astanti a una concreta partecipazione non solo all’ascolto attento e ordinato, ma anche alla sperimentazione dei pensieri innervati sulla solitudine, sull’amore dolente, sulla tortuosità nefasta della morte.

Tutto ciò mentre la vite abbracciava il palco e gli imperturbabili ascoltatori viaggiavano in un tempo sospeso dove anche la notte veniva rischiarata dalla potenza della parola e dall’espressività degli immortali versi.

Lorenzo Spurio

“La Spogliazione” di Iuri Lombardi, prefazione di Lorenzo Spurio

Iuri Lombardi, La Spogliazione, Photocity Edizioni, 2014.

Prefazione a cura di Lorenzo Spurio 

Un condom rotto: un punto di ripartenza

Nella letteratura postmoderna o addirittura post-post-moderna (esistono in effetti vari sistemi di organizzare la temporalità che segue la lunga “era” moderna), non è più accettabile e anzi è insultante proporre una scrittura classicista, che abbia in sé una riproposizione di strutture, forme e tematiche di cui ci si è già occupati, proposti e riproposti con scadente originalità e mancanza di una chiara finalità se non quella meramente utilitaristica della scrittura votata al pulcioso intrattenimento.

E’ una fortuna che esistano nel nostro oggi persone come Iuri Lombardi, un intellettuale complesso, fortemente poliedrico e di un’inesauribile cultura, che rifiutano di mettersi in-cathedra per insegnare ma che si pongono ai margini della realtà sociale, per interagire con essa e colloquiarci. Il sistema culturale di Iuri Lombardi, il suo bagaglio di conoscenze da cui attinge e costruisce richiami e parallelismi, è una cultura che non è tanto il risultato di una “accademiacizzazione” sui classici e gli intramontabili (che pure conosce egregiamente), ma è fatta a partire da autori che potremmo definire di serie C se non di serie Z. E si badi subito bene che questa definizione non risponde a un cliché meramente estetico-qualitativo, responso dei più, ma è una considerazione indotta, pure dolorosa, che va fatta come chiara critica nei confronti di marchi editoriali, più o meno noti, che non hanno dato spazio né continuano a darlo (né sembra che lo daranno in un futuro prossimo) ad autori che non furono di nicchia (questa è la spiegazione stupida che qualcuno tende a dare) né di bassa lega, ma che, per sconclusionate e schifose leggi di mercato, si sono visti tagliare le gambe. E’ grazie a Iuri Lombardi che ho potuto conoscere autori come Giorgio Saviane, Pier Vittorio Tondelli e riscoprire Dario Bellezza (solo per citarne alcuni). Tutto questo per dire che la letteratura che fa Iuri Lombardi è una letteratura militante (non inteso in senso politico), di battaglia, fondata sull’intertesto e necessariamente collocata nello spazio iper-urbano, s-personalizzante, alienante, rombate, dove gli uomini sembrano perdere la loro identità per diventare semplici frammenti di un grande automa pre-programmato.

idu32524-ido21269-ide21206-idv21136_copertinaanterioreLa letteratura di Iuri Lombardi è una continua analisi sull’esistenza, un mettere in crisi la Ragione, è spogliare il mondo del visibile per percepire l’invisibile, è una lotta con se stesso, è una apologia del camaleontico, è un flusso di coscienza ripudiata, è un coltello appuntito che fende la materia facendola sanguinare. Questa prerogativa è sicuramente avulsa da uno scrittore che non tratta di gialli, di morti misteriose, inquisizioni, ricatti e pedinamenti, ma semplicemente della vita che si maschera a commedia. Nelle narrazioni recenti di Iuri Lombardi, infatti, assistiamo a un mondo che sembra essere arrivato al capolinea, dove le normali leggi della normalità e della convenzione sono state messe alla berlina, dove gli atteggiamenti dei protagonisti sembrano essere enigmatici, paradossali, privi di concretezza nel reale.

E’ chiaro che in questo procedimento organizzativo che Iuri Lombardi fa, che la teatralità degli eventi e degli stessi personaggi sia lampante, addirittura non voluta, ma in grado di consegnarci personaggi che in realtà sono chiaramente degli attori. Parvenze che assurgono a un ruolo, marionette che vengono mosse perché così è stato stabilito dal regista di scena che lo stesso autore è. Ne abbiamo avuto abbondantemente prova con lo scanzonato e ultra-riflessivo Iuri dei Miracoli dell’omonima opera, chiaro riflesso dell’autore-attore che si cela non visto con un’attenzione smaniosa dietro il damasco delle tende del sipario.

Ritorna in questa nuova opera l’aspetto mimico-pratico, gestuale, quello della rappresentazione scenica e non è un caso, infatti, che l’autore abbia deciso di scrivere per la sua prima volta un “dramma in versi liberi”. Pur non essendo un drammaturgo, Iuri Lombardi si cimenta con un genere letterario, quello del dramma, che ha una sua amplissima tradizione e strutturazione e mostra con maestria di saper essere in grado di mantenere la presa nel lettore. Interessanti e direi assolutamente pertinenti anche i vari squarci lirici presenti qua e là nel corso dell’opera e che sottolineano ancora una volta la grande versatilità dell’autore nel sapersi destreggiare con forme diverse di scrittura.

Il Iuri Lombardi persona trasuda da ogni verso contenuto in questo dramma che in effetti può essere considerata come ulteriore attestazione pratica del suo modo di intendere la vita dell’uomo. La Spogliazione, assieme al racconto-manifesto Iuri dei Miracoli, rappresenta di certo l’anima pensante dell’autore su una serie di questioni di rilevante importanza. Ciò per cui si batte Iuri Lombardi è l’ascesa della novità, il bisogno di proporre modelli nuovi, mai sperimentati e da sperimentare per la prima volta, abbattere le categorie e tutti i sistemi pre-costituiti per organizzare il pensiero. E’ così che la normalità intesa in senso lato deve essere rifiutata e riscritta in nome di una nuova normalità che, contravvenendo alla normalità socialmente costituita, non potrà che essere considerata dai più come un’a-normalità, una distorsione, una perversione, una blasfemia.

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Iuri Lombardi, autore del libro

Il discorso che Iuri fa sagacemente con queste pagine che il lettore si appresta a leggere è proprio questo: dal rifiuto della letteratura della casalinga di Voghera, Lombardi si proietta verso il normale innalzamento della cosiddetta denigrata low literature. La scrittura di Lombardi, infatti, propone la rivalutazione attenta del già detto mediante la rivisitazione, la ri-narrazione adottando la sensibilità della postmodernità nella quale il fenomeno del re-writing rappresenta uno dei poco curati affluenti torrenziali che conducono poi al grande fiume.

La Spogliazione non è che una riscrittura del personaggio biblico di San Giovanni Battista che viene a trovarsi nella nostra attualità. Del Battista originario c’è poco (la sua comunione con le acque, il suo essere esponente di rispetto all’interno dei testi dei Padri della Chiesa, la sua aurea di religiosità) ed esso in effetti è un punto di partenza pretestuoso per Lombardi che sviluppa una storia singolare, drammatica, che fa riflettere o che addirittura può far inalberare qualcuno. Perché in questa attualizzazione del Battista, Lombardi non può far altro che adoperare un abbassamento del personaggio (o addirittura abbruttimento) che corrisponde direttamente a una progressiva perdita della sacralità per le sue malefatte: l’essersi reso responsabile (e non colpevole, si badi bene!) a un atto di sodomia, l’aver fornicato, l’aver adottato atteggiamenti e frequentazioni poco consoni a un esponente del Clero. Tutto questo fa del contemporaneo San Giovanni un eretico, un sodomita, un maledetto, un perverso, uno schifoso e un folle. Ma in effetti il nuovo Battista, costretto a battezzare nuove anime nelle putride acque dei Navigli è espressione secondo Iuri Lombardi di nuove esigenze, di nuove forme d’espressione, dell’abbattimento di ferrei limiti, di tabù retrogradi e pericolosi.

Sul palcoscenico predomina quindi la perversione, l’atto sessuale descritto spesso da Lombardi come “l’atto del darsi” (che contestualmente presuppone l’atto del ricevere in una logica di duplice scambio), la nefandezza del pensiero pusillanime che trova compimento nella realtà, il Verbo che si fa Carne. Le domande che il lettore potrebbe farsi al termine della lettura sono in effetti tante e di sicuro ci sarà chi considererà questo scritto blasfemo, addirittura indegno, preoccupante e indecoroso nei confronti di una religione che si fonda su insegnamenti morali, civili e sociali per mezzo di parabole e vicende della Sacra Bibbia. Si potrà vedere una certa pretestuosità nel trattare dunque la religione e nel sapere che il Battista è diventato un sodomita, poi un travestito, un evangelizzatore da due soldi costretto a riposarsi in un alberghetto dappoco e in ultima battuta, tormentato dal “crimine” delle sue malefatte, della sua condotta libertina –della quale però non si sente di pentirsi- costretto a fuggire e a riparare in uno sgabuzzino dietro il palco di un teatro.

E’ un San Giovanni che diventa Don Giovanni e che come quest’ultimo cerca, invano, un avvicinamento alla cosiddetta normalità mal-rappresentata da Don Luca della Cipria (la parola “cipria” richiama il trucco e quindi un mondo falso e di finzione). Non ci sarà nessuna espiazione, proprio perché il Battista new age ha operato nella SUA normalità, senza contravvenire alle leggi del suo cuore, ai suoi bisogni e alle sue volontà. A differenza del Don Giovanni, però, che tenta fino all’ultimo di ottenere un pentimento da parte di Dio, il Battista, che è dotato della sua sacralità, decide di fare i conti da solo, scegliendosi la sua stessa fine. Fine che immaginiamo sarà l’atto ultimo dei suoi tormenti, a meno che il nostro affabulato narratore non abbia già in mente un ritorno sulle scene di San Giovanni, o di suo figlio, data la rottura del condom con la donna che ha posseduto. Condom che, rompendosi, avrà di certo riversato il suo contenuto nel liquido mare-magnum della donna, proliferando il seme della follia che rinascerà come un’acqua sorgiva il cui flusso non conoscerà mai fine.

Dal materiale spermatico di San Giovanni Battista rinascerà la Vita e il ciclo delle Acque, così, si ravviverà nel tempo, pur nell’inganno e nell’incredulità dei più.

LORENZO SPURIO 

Jesi, 28-12-2013

L’esordio poetico di Michele Paoletti: “Come fosse giovedì”, a cura di Lorenzo Spurio

Come fosse giovedì

di Michele Paoletti

puntoacapo editrice, 2015

Recensione di Lorenzo Spurio 

comefossegiovediIl giovane toscano Michele Paoletti ha recentemente esordito nel mondo della poesia con la plaquette Come fosse giovedì edita per i tipi di Punto a Capo Editrice. Titolo enigmatico e curioso quello che Paoletti ha scelto per la sua opera prima con il quale, forse, intende proiettare il suo lavoro verso una dimensione cara al quotidiano fatta cioè di piccole cose, spesso ripetitive e anonime, addirittura stancanti od alienanti dove, però, non manca mai una sana osservazione sul mondo che lo circonda.

Il volumetto (si tratta di un libriccino, ma è bene che sia così per un’opera prima, trattandosi di poesia) si costruisce di liriche dall’impianto diversificato, più o meno lunghe, sebbene sia sempre una meticolosa tecnica sintetica a privilegiare nella costruzione del verso. Paoletti sembra spesso lapidario nel suo poetare, quasi freddo e disarmante in ciò che via via presenta al lettore, provvedendo a una disanima curiosa e singolare del mondo di fuori e di quello di dentro dove non di rado sembra possibile leggere una velata nota di tormento (“il mio ottuso male”, p. 5; “compie il percorso/ tra me e il rimorso”, p. 5; “Solitudine/ un freddo di ceramica sbeccata/ ramo conficcato controvento”, p. 37).

Siamo però ben distanti da quell’ “asciuttismo” riduttivistico che potrebbe far debordare la sua poetica in un anacronistico eccesso di sperimentalismo o addirittura nell’adozione di un canone più propriamente ermetico perché in fondo i costrutti, le correlazioni oggetto-predicato, le qualificazioni aggettivali e caratteriali rimangono sempre ben note e riducibili a un chiaro intento creativo del Nostro.

Come lucidamente osservato da Mauro Ferrari nell’apparato di postfazione ci troviamo dinanzi a una “teatralizzazione” dell’esperienza vissuta, osservazione, questa, che mi sento di sposare con viva partecipazione essendo Paoletti un uomo che ha il teatro nel sangue e che ne dà traccia visiva anche nel verso ora qua ora là con espressioni, termini ed elementi che sono sintomaticamente connotati per il loro legame con l’universo drammaturgico. Se Ferrari evita quella che potrebbe essere una semplice elencazione degli stessi a me pare, invece, che ciò sia estremamente significativo fare sia per dar supporto a quanto si dice, sia per rivelare quanto ogni ambito del mondo teatrale sia d’interesse del Nostro. Non solo quella che potremmo definire l’architettura teatrale o la dimensione palco (il “sipario”, p. 21), ma anche e soprattutto gli attori ossia coloro che animano un vissuto, che lo impersonificano: persone che nel momento in cui “recitano una parte” di punto smettono di essere ciò che sono lasciando in sospeso la propria identità. Si cita così il “copione”, la “scenografia”, “la scena” che addirittura è “scorticata” a suggellare l’essenzialità della forma. È uno spazio magico quello del palcoscenico dove non è solo l’inganno che spesso Paoletti cita, forse quale espressione di rappresentazioni burlesche, buffonesche (si parla di “fantocci”, p. 18 che fanno pensare al teatro delle maschere o a quello dell’assurdo) o addirittura parodie, ma anche il processo trasformativo delle genti, la componente metamorfica delle persone a personaggi a dominare. Non sono molto convinto nel sostenere che nell’opera vi siano elementi da vera e propria tragicommedia, il cui sentimento è poi il sale della nostra esistenza, piuttosto preferirei parlare di un clima spesso cupo più incline al dramma nel senso più ampio del termine nonostante in una lirica non si parli che di “commedia”, “applausi”, “cipria”, “cerone” (p. 14) etc. ad intendere una rappresentazione probabilmente divertente o percepita tale dal pubblico. Tra le righe va colta anche una chiara e spietata denuncia che Paoletti sente di dover fare a mezzo poetico: “Quanto teatro recitato male” (p. 24) ma essendo, poi, la vita un grande teatro fatto di momenti di gioia ed altri di dolore, di euforie motivate e di depressioni lancinanti allora c’è da domandarsi, e credo che sia contenuto qui il vero messaggio dell’opera, perché recitiamo male il nostro copione della vita, ossia perché spesso viviamo male cioè siamo portati a perpetuare il male in varie forme e a vari livelli. Se è giusto osservare che sia dello stesso autore  l’intento di veicolare un simile monito di considerazione e di riflessione sulla società, allora è bene che ne facciamo testamento di vita affinché quel teatro che è la vita sia sempre più improntato a una commedia dai toni lievi e ridanciani piuttosto che a un dramma d’insolvibile fuga.

Lorenzo Spurio

Jesi, 21-08-2015

Il teatro di Iuri Lombardi in “Soqquadro”. Prefazione di Lorenzo Spurio

Iuri Lombardi, il picaro da palcoscenico

a cura di Lorenzo Spurio  

 

Sostiene che la scena sia la vita stessa:

una variazione di un motivo sempre uguale.

(La Spogliazione)

 

Il mio Dio è il piacere!

(La recita dei tiepidi)

 

Se c’è pudore non c’è libertà: la libertà

è soltanto un modo di negarsi.

(Nel nome di Giovanna)

 

A confermare che la pièce teatrale d’esordio dello scrittore fiorentino Iuri Lombardi, La Spogliazione, non fosse che un velleitario esperimento bellettristico è la recente scrittura di due nuovi drammi. Drammi in sé atipici, particolari, che difficilmente rispettano quelle che classicamente sono le norme di definizione del dramma che –manuale di storia della letteratura in mano- è codificato per mezzo di alcune peculiarità. Il termine dramma viene comunemente adottato per riferirsi a un’opera pensata per il teatro, dunque per la rappresentazione scenica e può essere di argomento estremamente diverso: può avere una dimensione comico-burlesca oppure una dimensione tragica e in questi due casi sfocerà nelle varianti della commedia e della tragedia. Caratteristiche del testo drammatico sono quelle di permettere un’interrelazione tra soggetti per mezzo di cospicue parti dialogiche e di rifiutare in via generale la prosopopea monologica, interiore, dei singoli caratteri ed ancor più è il fatto che il dramma si centralizza per porre una situazione conflittuale tra le parti (non necessariamente bellica) ossia una situazione d’incomprensione dettata da uno scontro di qualche tipo.

Iuri Lombardi  - Soqquadro
Iuri Lombardi – Soqquadro

I drammi di Lombardi, nei limiti del possibile, si avvicinano molto di più ai drammi liturgici di età medievale che non al dramma inteso nei termini dell’Antica Grecia. Dramma liturgico perché Lombardi impiega sempre caratteri che appartengono alla sfera biblica o comunque alla tradizione religiosa anche se, ed è bene che questo venga detto subito, che se ne serve non per tracciarne agiograficamente le vicende di santità piuttosto per ribaltarne i protagonisti, abbassandoli alla schiera di uomini del popolo e facendone risaltare debolezze, vizi e peccaminosità che sono del genere umano tutto. È per queste ragioni che leggendo questo libro incontreremo un San Giovanni Battista che ha perso oramai la sua aurea di cristianità per divenire un affamato pederasta che non disdegna pratiche di cross-dressing (La Spogliazione), un gesuita represso e socialmente incompreso che non ha mai superato il processo di castrazione a  cui, dandosi alla Fede, è stato relegato (La recita dei tiepidi) e una Giovanna d’Arco emblema di ribellismo femminile ma anche di immolazione per la causa comune (la donna venne proclamata Santa da Papa Benedetto XV nel 1920) che subisce negli istanti prossimi alla pena di morte su rogo un tentativo di approccio sessuale da un imprecisato ragazzo, tanto eccitato quanto irresponsabile (Nel nome di Giovanna). Chiaramente, come è facile intuire, c’è poco e niente anche del dramma liturgico del periodo medievale (mancano anche le tre unità, il coro, personaggi-comparse che incrementano il tessuto inter-dialogico) intessuto su di una profonda confessionalità e improntato alla divulgazione e all’encomio: Lombardi stravolge generi teatrali passati, ridicolizzando il classico, compiendo una coraggiosissima impresa di riscrittura popolaresca, attuale, corporea dei personaggi che nel passato sono stati elevati. Con Lombardi ci si incammina in un percorso volto alla distruzione di qualsiasi forma gerarchica al fine di ottenere un appiattimento democratico di personaggi tanto da trasferire il sacro nel perverso con un registro linguistico che non ha nulla dell’offesa né del compiacimento generale, ma è forte della difesa di una realtà inoppugnabile: la letteratura contemporanea è decodificazione e riscrittura.

Le opere teatrali di Lombardi non solo non rasentano la via “classica” del dramma che si sviluppa secondo canoni perlopiù definiti e caratterizzati, ma addirittura sembrano scostarsene con virulenza e profonda consapevolezza per almeno un paio di ragioni assai importanti: la prima è la connaturata carica ribellistica del Lombardi uomo che ne caratterizza un prototipo di intellettuale sui generis, poliedrico e imprevedibile che, seppur non dobbiamo correre il rischio di definire maudite, predilige di certo quali immagini di costruzione (non si tratta di un paradosso) proprio la rottura, l’eco indistinto, l’effetto di sorpresa e nondimeno la mera incongruenza. Elementi cementizi questi che determinano la cifra letteraria di Lombardi, prolifico poeta di tendenza civile e scrittore di narrativa breve e romanzi impegnati in un momento come il nostro in cui la letteratura sembra esser diventata poca roba e aver svilito, nel concreto, il suo significante più alto. Lo si è già visto in precedenza nella produzione breve dell’autore per la quale mi fregio l’onere di aver corredato le sue opere avanguardistiche con mie note critiche, che ciò che interessa l’autore non è tanto il mero concettismo, il viluppo contenutistico cioè la componente material-tematica degli intrecci, quanto piuttosto l’utilizzo di forme e modelli. Lombardi scrivendo ora un racconto, ora un poemetto, ora, come in questo caso, drammi in versi sciolti, dimostra di avere bene a cuore il discorso sul metro e sul genere. Si intenda bene e da subito, non si sta parlando con ciò di metrica poetica né di impiego di strutture retoriche (per la poesia) né di studiati ed ipersofisticati stratagemmi di resa delle immagini (narrativa breve) o delle scene (teatro), piuttosto del discorso interrogativo che Lombardi immancabilmente pone sulle forme di rappresentazione in campo letterario. Non è un caso che ne La recita dei tiepidi alcuni protagonisti interagiscono su tematiche quali la filosofia, la letteratura, la saggistica, la conoscenza in genere e l’ontologia, branca della filosofia cara a Lombardi che da sempre è portavoce autentico di un pensiero di risveglio della coscienza e di autodifesa di un sé personale fuori ed estraneo dall’Io soggetivizzante e iper-abusato.

Va da sé, in base a questi brevi accenni sul modus operandi del Nostro, che un’altra caratteristica dominante del Lombardi drammaturgo (anche se in realtà più che drammaturgo mi piace definirlo un “picaro da palcoscenico”) è la potenzialità di sperimentazione che in nuce ritroviamo in queste opere. L’anti-classicità, la tempestiva lettura e fruibilità, l’organicità delle forme unite alla componente dissacratoria che si nutre di messaggi subliminali da cogliere ne fa nel complesso un’opera aperta, in cui le epifanie (difficili da individuare) vengono talora denaturate e ipocaricate di significati, dunque minimizzate, tal altra trasferite da cicli di battute ad altre. Com’è nella letteratura postmodernista, di quella letteratura che ha trovato il suo terreno fertile nella società ferita e scissa del dopo 11 settembre in cui la paranoia e il delirio comunicativo ne fanno da padrona (Daniele Giglioli parla a questo riguardo della scrittura dell’eccesso[1]), Lombardi costruisce canovacci rappresentati scenicamente sulla carta e di possibile rappresentazione pratica su un palco, magari di un teatrino religioso per incentivarne la carica dirompente e blasfema, che se da una parte provvedono a fornire elementi importanti aprioristicamente (la costruzione di un incipit che dà forma a un prologo con le immancabili premesse della voce autoriale) di contro non dà tracce concrete, né segnali per l’individuazione di una conclusione auto-imponendosi di non traghettare il lettore verso determinati lidi piuttosto che altri. L’opera rimane dunque aperta, apparentemente non chiusa come magari un lettore tradizionalista la vorrebbe e lascia un sentimento di incomprensione e al contempo di nostalgia. Come i personaggi de La recita dei tiepidi rimangono sbigottiti dalla decisione finale di Bartolomeo d’Amico-alter ego di un Casanova da farsa di metter fine a quel siparietto prima tanto voluto al quale poi finisce per negarne l’importanza, il lettore condivide quel rimanere attonito sulla scena, lo stesso deluso abbandono e sconforto, una incomprensione cocente che, piuttosto che motivare una risposta corale attiva e coscienziosa di ripresa, sfocia nell’assunzione apatica di una atarassia dissonante al carattere virulento e dissacrante della trama stessa.

Iuri Lombardi durante la Premiazione del III Premio Nazionale di Poesia "L'arte in versi" a Firenze nel novembre 2015, dove era parte della Commissione di Giuria
Iuri Lombardi durante la Premiazione del III Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi” a Firenze nel novembre 2014, dove era parte della Commissione di Giuria

Ma per non dilungarsi troppo in questo apparato critico introduttivo, convinto assertore delle tesi woolfiane[2] che la grandezza e la qualità di un’opera, se vi sono, non sono mai date né accresciute da chi ne compila una introduzione critica o di presentazione, è bene però soffermarsi su altri elementi talmente centrali e determinanti nella produzione del Nostro che in queste opere vengono alla luce in maniera tanto chiara quanto evocatrice chiamando, però, a una riflessione più attenta e circostanziata. Elementi che, per il fatto di ritornare spesso in modi e forme diverse alludendo però a sfere tematiche care all’autore e nevralgiche nella sua scrittura, prenderò qui a chiamare lombardismi con una nota anticipatoria d’utilizzo: essi consacrano e contrassegnano la presenza di Lombardi nella letteratura sin alla data attuale per mezzo delle sue pubblicazioni avute sin qui e che, nel qual caso il lettore leggerà queste opere col passare degli anni, quei lombardismi tipicizzanti la sua scrittura andranno riletti per forza di cose alla luce della sua produzione più recente dato che, essendo la sua scrittura un immenso cantiere, un working-in-progress, le asserzioni critiche che qui si fanno hanno validità concreta e diretta ma non universale, cosa che, per quanto si conosca l’autore e si possa adottare un metro il più obiettivo e analitico possibile, è irrealizzabile alla data presente. Essi concernono:

  • la questione del sé e dunque il grado di rappresentazione e di analisi della coscienza. Nel prologo di La recita dei tiepidi è impossibile non scorgere nelle attestazioni di Bartolomeo D’Amico l’anima pulsante del Lombardi uomo e pensatore, per altro già espressa con esiti impareggiabili nel racconto-manifesto Iuri dei Miracoli: «Io sono perché sono adesso, presenza che occupa/ uno spazio e di conseguenza un tempo. Altri,/ altro da me non voglio essere. E anche il passato/ a nulla vale se non il presente in cui vivo, amo,/ affermo la mia posizione blasfema o ordinaria che sia».
  • la mistificazione religiosa o dissacrazione che è congenitamente presente in tutte le opere più recenti di Lombardi. Già in Iuri dei Miracoli (un racconto) si sottolineava l’attitudine di Lombardi di ricorrere con perseveranza ad immagini e simboli legati alla confessione cristiana e l’aspetto è ancor più evidente nella Spogliazione dove il Battista è abbassato tanto da divenire un sodomita, ne La recita dei tiepidi in cui il gesuita oltre che grande studioso dei testi sacri è un approfittatore e un mistificatore e in Nel nome di Giovanna dove, invece, poco ci è detto della grandiosità dell’animo ribelle e delle ragioni del martirio della donna (già note ai più) per prediligere un canovaccio intimistico con un ragazzo che cerca di possederla. Il personaggio di Donna Pia ne La recita dei tiepidi è quello che sembra essere più staccato ed estraneo al complesso caratteriale del dramma: ogni volta che la vediamo entrare in scena è severamente vestita di nero intenta a pregare o ad invocare il bisogno di pregare tanto che nel dramma viene a configurarsi una polarità della donna nelle sue estremizzazioni di puttana (Bianca Maria) e Madonna (la vecchia perpetuamente orante).
  • l’universo sessuale. Già definito in precedenza il “Don Giovanni della letteratura”, Lombardi è profeta di un modo di vivere la sessualità che fa dell’autenticità e del rigetto del pettegolezzo la norma dominante. Le scene topiche nelle opere di Lombardi, e anche qui nei tre drammi, si realizzano proprio in circostanze in cui le pulsioni sessuali dei soggetti si accrescono in maniera imprevedibile realizzando incontri ed agnizioni scioccanti che determinano profondamente la trama. Si pensi alla sola volontà di Lombardi di riferirsi ne La recita dei tiepidi al Casanova, grande seduttore veneziano e ancor più al Don Giovanni in Iuri dei Miracoli: espressioni vigorose di una sessualità improntata all’eccesso e all’esibizione che hanno una loro tradizione teatrale molto sviluppata. Se nella Spogliazione il condom rotto del Battista in uno dei suoi fugaci amplessi con donne discutibili può dar modo alla rinascita di quel ciclo delle acque (sacre, amniotiche, ma anche stagnanti come quelle dei Navigli in cui battezza), in Nel nome di Giovanna il ragazzetto voglioso con pene eretto che offre vita nella carne alla povera Giovanna che di lì a poco andrà a morire, può rappresentare a sua volta l’esigenza di un atto fisico, salvifico solo nel mondo reale e non eternante, capace di compiere il mistero della vita.
  • il meta-teatro: la rappresentazione della rappresentazione. Già nel prologo Bartolomeo D’Amico, gesuita del Meridione del quale poco si conosce tranne che ha lasciato una serie di testi e che si sia occupato in particolare della dottrina di Epicureo, tornato di riflesso nella nostra età contemporanea di smartphones e web 2.0 ci tiene a sottolineare che la farsa che ha in mente di mettere in atto è relativa al personaggio di Casanova. Ci troviamo dinanzi a un sistema meta-letterario in cui il teatro parla di un altro teatro e in cui l’intera storia è data dalla complessa interrelazione che si istaura tra queste matriosche progressive e compenetranti l’un l’altra. Bartolomeo D’Amico, infatti, che è il personaggio principale del dramma, dunque è sulla scena della rappresentazione, con l’artificio della finzione si maschera a Casanova con l’intenzione di ricalcarne un tratto della sua esistenza e di produrne una rappresentazione giocosa. Il rapporto tra le voci è questo: Lombardi autore (ri)crea Bartolomeo D’Amico e lo consacra personaggio del dramma, Bartolomeo D’Amico a sua volta (ri)crea Casanova mediante la farsa che ha in mente di portare in scena con la sgangherata compagnia di personaggi apatici. Si tratta di una autocelebrazione del teatro in cui, però, la componente drammatica finisce per prevalere nettamente su quella comica: non ci sarà, infatti, nessuna farsa o, meglio, nessun tentativo di farsa all’interno dell’opera perché l’autore-capocomico D’Amico non sarà in grado di reggerne il progetto di «nascondersi dietro Casanova [per ottenerne]/ il riscatto voluto» perché, come confesserà tormentato nelle ultime lucide battute: «Facile è dirigere gli altri, le navi al proprio porto/ restando al posto di guida, ma quando tocca a te…/tutto è diverso».
  • la riscrittura come forma creativa. Lombardi non è nuovo a opere in cui opera la rivisitazione di personaggi religiosi adoperando uno stratagemma di riscrittura originale e molto efficace: l’abbattimento dell’aurea del personaggio, la de-sacralizzazione sino alla provincializzazione e alla marginalizzazione. Nel prologo di La recita dei tiepidi la voce fuori campo di Bartolomeo D’Amico osserva: “la storia consente di recuperare, di ritornare un altro,/ di reinventarsi uomo quale sono: solo un uomo”.

 

La recita dei tiepidi impone al cauto lettore anche una doverosa analisi del titolo: da una parte la recita ci immette subito nel mondo della finzione e della rappresentazione scenica, ossia del doppio che è tipico del teatro, dall’altra la presenza di quelli che Lombardi denomina ‘tiepidi’ consente delle riflessioni. Nella Bibbia si parla di tiepidi in relazione a coloro che difettano di un’azione pratica, di una chiara volontà di pensiero e che finiscono per mostrarsi inetti, inconcludenti, passivi, o per dirla alla Dante, ignavi. Ce ne rendiamo subito conto leggendo l’opera che tutti i personaggi sono subdolamente sottoposti alle volontà e alle decisioni di Bartolomeo D’Amico che, in pratica, li comanda a bacchetta e li gestisce come vuole tanto da costringerli ad occupare ciascuno un determinato ruolo nella farsa che ha in mente di inscenare. Sono personaggi molli, apatici e inconsistenti, privi di un temperamento proprio che finiscono per farsi maneggiare con semplicità da un uomo che è più potente di loro solamente perché ha il dono della conoscenza.

La conclusione dell’opera mostrerà però come Bartolomeo D’Amico, pur essendo un dotto, un conoscitore delle Sacre Scritture, un intellettuale e un saggista, in realtà non sia capace neppure lui di dar forma a un progetto, per altro scaturito dalla sua mente, e al pari degli altri risulterà anch’esso un manichino che non sa autodeterminarsi e decidere da sé. Per queste ragioni, Bartolomeo D’Amico, grande luminare dell’esegesi religiosa e conoscitore delle Lettere, finisce per essere il più ignavo, il più ignorante e indefesso tiepido di tutta la storia. Lo sconcerto che gli altri protagonisti nutrono dinanzi a Bartolomeo D’Amico che, di punto in bianco a causa di un senso d’oppressiva moralità che non è capace di scavalcare sentenzia la fine della farsa, è rivelatore di questa incapacità di saper coniugare lo scibile (la conoscenza, il rapporto con il mondo e gli altri) e la propria interiorità (la Fede, la morale).

Echi pirandelliani sono avvertibili distintamente nella presenza umanoide della marionetta in Nel nome di Giovanna che rimanda al mondo delle maschere e delle messe in scena travisate ma anche nell’impalcatura esistenzialista dei drammi dove le personalità, già labili e sbiadite, vengono sostituite dalle parti da recitare creando un universo intricato di prese di coscienza, sdoppiamenti e personaggi nei quali immedesimarsi.

Nella tiepidezza o ignavia che dir si voglia difficile non respirare anche il torpore di molti personaggi pesanti e inconsapevoli a partire dagli indifferenti moraviani che, un po’ meno grottescamente di quanto avviene in Lombardi, anche lì son spesso accerchiati da manifestazioni estreme e non preventivabili della sfera sessuale. Si pensi, tanto per evocare il tema del conflitto determinante nel genere drammatico di cui si diceva all’inizio di questa nota, della confusione che, di colpo, si viene a creare ne La donna leopardo di Moravia in cui una serie di segnali piuttosto evidenti di tradimento all’interno di una coppia darà vita a un fenomeno ossessivo di gelosie e ripicche con adulteri incrociati e vere e proprie unioni scambiste.

Ma se l’estraniamento derivante dall’obbligo di assumere una personalità altra («Sono stanco d’essere io!» sembra urlare D’Amico), nell’atto della finzione teatrale e per il tempo richiesto per la messa in scena salvo poi riacquisire la propria congenita identità, è visto qui come costrizione perché fa fede alla volontà di D’Amico e generalmente nel teatro comporta la creazione di intrecci interessanti e curiosi in cui nessuno sa bene chi è l’altro perché sotto mentite spoglie, il travestimento e il trasferimento d’identità è vissuto in maniera critica da parte della prostituta: «Ho paura,/ timore perché non conosco questa mia reale/identità e non vorrei che nel calarmi nei panni/ altrui perda la faccia ed il cavallo...». Proprio lei che dovrebbe essere contenta di vivere, seppur nella farsa, un ruolo diverso dalla sua vera identità di meretrice, si fa dei problemi e teme che questo mascheramento possa condurla poi a un annebbiamento della sua identità della quale, con la poca erudizione del mondo che ha, è fiera e conosciuta.

Ne Nel nome di Giovanna, infine, assistiamo alla de-costruzione del mito di Giovanna D’Arco, ribelle francese che poi venne messa a morte dagli inglesi nel corso della Guerra dei Cent’anni. Lombardi, secondo la sua tecnica oramai puntuale e chiara negli intenti opera una de-mitizzazione della donna sconfessandone le realtà insopprimibili della figura eroica. Quale “pulzella” come viene ricordata ossia sembianza di verginità e candore, Lombardi fa vorticare nella mente della donna in attesa della sua imminente morte, pensieri lubrici di desideri sessuali. La necessità di sentirsi abbracciata ed amata, riscaldata e protetta, l’esigenza di dono di quel fiore della castità sempre conservato con perspicacia e caparbietà trova spazio in una più palpabile esigenza di benessere: «Solo come ultimo desiderio nutro di darmi all’altro/ come una rondine al tetto. Solo il darsi al calore/ di un corpo, intrecciarsi ad esso, mi fa credere/ancora donna e non legno da ardere, straccio/ da bruciare/ Ho desiderio di un uomo come ogni altra donna,/ desiderio di darmi per vivere in uno sputo di tempo/ quell’ebrezza che per la verità in me ho ammutolita».

Non sappiamo se effettivamente ci sarà il giusto tempo affinché Giovanna possa unirsi sessualmente al giovane con il quale ha imbastito un dialogo sull’esistenza intimandola a cogliere l’attimo e a vivere quel momento di condivisione. Ancora una volta Lombardi mette in atto il suo stratagemma di voluta mancanza di una conclusività certa della storia. La conclusione del dramma non sta tanto nella donna arsa viva secondo quanto riporta la tradizione storiografica, piuttosto nel viluppo delle considerazioni sulla morte e sull’esigenza di una dimensione sociale dove si respiri libertà. Il nerbo fondante degli ultimi istanti da viva della donna sta allora proprio nell’incontro verbale (ma intuiamo anche carnale) che ha con il giovane, presenza ultima di una Provvidenza laica che reclama un decisivo, accorato e implorante bisogno d’amore.

Con questa trilogia drammatica Lombardi ci consegna due sacrosante realtà che hanno senso tanto nella letteratura, ossia nel mondo di carta, della finzione e proiezione del vissuto, quanto nel mondo concreto di esseri che vivono più ruoli al contempo scambiandosi maschere più o meno piacevoli e battendosi per l’osservanza dei diritti inalienabili. La prima è quella che recita «Volevo apportare qualcosa di nuovo. Un intellettuale/ se non fa i conti con il reale non vale niente. Niente» ed è quello che Lombardi ha fatto egregiamente e con onestà con la stesura di questi brani teatrali. L’altra è tutta dedicata alla fumosità e alla impalpabilità del genio creativo e artistico, impossibile da contenere e difficilmente ravvisabile se non si utilizzano le lenti del cuore: «L’ingegno il più delle volte è una scrittura sull’acqua/ del fiume». Quello di Lombardi è per nostra fortuna impresso in questo volume.

 

Lorenzo Spurio

 Jesi, 01-04-2015

  

[1] Daniele Giglioli, Trauma, Quodlibet, Macerata, 2011.

[2] Virginia Woolf ebbe modo di parlare dell’argomento in più circostanze; ne troviamo traccia soprattutto nelle annotazioni dei suoi diari personali e in qualche epistola del suo immenso carteggio conservato, tra cui in una di esse leggiamo: «Quando anni fa Bernard Shaw si disse disposto a scrivere una prefazione a un libro di mio marito, rifiutammo; perchè se un libro è degno di essere pubblicato, è meglio che si regga sulle proprie gambe» (Estratto di una lettera di Virginia Woolf alla signora Easdale datata 8 gennaio 1935, pubblicata in Virginia Woolf, Spegnere le luci e guardare il mondo di tanto in tanto. Riflessioni sulla scrittura, a cura di Federico Sabatini, Minimum Fax, Roma, 2014, p. 105.

Lorenzo Spurio intervista la poetessa Anna Scarpetta

 a cura di Lorenzo Spurio  

 

LS: Lei  ha  all’attivo  un vasto numero di  sillogi poetiche  e  in tempi  più recenti si è occupata anche della  scrittura  di  poesie religiose. Da  quale  bisogno nasce  la  scrittura  di  una  poesia confessionale e quale è la finalità?   

AS: Sono lieta di questa domanda che mi viene posta, non senza aver considerato che effettivamente al mio attivo ho prodotto un vasto numero  di  sillogi  poetiche; ciascuna  con  una  tematica  differente, l’una dall’altra. I titoli sono: Poesia, (esprimo in questa  silloge la bellezza  della poesia pura); Frantumi di Tempo, in cui affronto in chiave  moderna la sottile precarietà del tempo nella vita  esistenziale  coi  suoi dolori e  le sue gioie); L’Altra dimensione  della  vita, (un’altra  silloge in cui la poesia riesce a narrare, in breve, la dimensione  di  vita  vissuta, ovvero, già  trascorsa  come scorcio di  tempo-vissuto); Le voci della memoria, (una silloge in  cui  racchiudo  le voci in un  solo  afflato, per  descrivere  meglio un  nucleo  di  memoria rimasta  fortemente legata ai ricordi e all’armonia di tante  cose vissute e mai credute perdute; in versi ogni cosa descritta, a mio parere, sembra rimanere pura e intatta); Io sono soltanto un granello di  sabbia, infine, (in questa silloge il  mio   intento è  stato quello  di ringraziare  l’Iddio per il dono generoso  della  parola, profusa  in versi, in abbondanza, credo). Difatti, Marzia Carocci,  critico recensionista  molto conosciuto, in una sua breve, ma significativa, recensione, ha affermato: “Nella poesia “Io sono soltanto  un  granello  di  sabbia”, Anna Scarpetta si  inginocchia al cospetto del  Padre  ringraziandolo con  umiltà di averle  donato la capacità di esprimersi  in poesia e avvalorando il  fatto che anche un  piccolo granello  di  sabbia in   confronto   alla  vastità  di  un  deserto, può avere un  valore inestimabile” (…).

Ebbene, già da  qui  si  può  meglio  intuire come la scrittura, di Poesie religiose, in maniera costante, sia al centro dei miei reali pensieri. Tuttavia, credo che la poesia nasca, principalmente, da un forte bisogno  di  aprirsi e scaricare  ogni  tensione  o  forte emozione. E’ vero, taluni elementi esenziali,  fungono, peraltro, da motore trainante per  un  poeta  o  scrittore. Io  credo, lo stesso si  possa dire anche per gli attori o i registi di teatro. Quali siano le finalità, è chiaro, vanno arricchire un  panorama di scrittura infinita, in chiave moderna. Se il lavoro prodotto poi saprà imporsi  all’attenzione, sia  della  critica  futura  che  del pubblico   nuovo, ancora  meglio. Ogni  scrittura, penso, sia  nel  tempo destinata ad  incontrare il suo magico momento fortunato, se  piacerà, ovviamente, o  se   dirà  cose   nuove  e  interessanti.

 

10495978_612300008889959_6492116458864762745_oLS: Secondo   alcuni  la  poesia  ha  una   funzione  terapeutica; allevia i  mali e i tormenti dell’uomo, cioè è una sorta di sofferta  confessione   con   se  stessi   per   cercare   di   individuare  una consolazione o un  miglioramento alle  proprie  condizioni.  Per altri, invece, la  poesia  è  inconcepibile se slegata  dall’impegno civico, dalla sua vena sociale  ossia non può mancare di  partire dalla  lucida osservazione del mondo per  fornire poi un monito, un canto di denuncia o una attestazione di sdegno. Che cosa ne pensa Lei a riguardo? Quale delle  due  intenzionalità  poetiche si sposa meglio al suo far poesia?

AS: La scrittura della poesia aiuta, in effetti, ad  aprirsi meglio al mondo reale, vivendo o rievocando  la  propria sofferenza, i dolori, gli amori, le amicizie  perdute  e  ritrovate. Aggiungerei, anche  il caro ricordo dei  paesaggi e luoghi, in  cui si è vissuto, sono vivi spiragli di  luce, cari al cuore e all’anima. Rievocarli, ogni  tanto, credo,  faccia  bene. Tuttavia,  la  mia poesia, è orientata,  in  maniera  costante, verso la  lucida   osservazione del  mondo che  muta notevolmente, coi suoi  reali  problemi  e tante difficoltà sociali, ancora  forti. Ebbene, non necessariamente, la poesia  sia  davvero in  grado di tale  funzione terapeutica, ovvero, che possa  alleviare i mali o i dolori, compresi  i  tormenti  dell’uomo. Sarebbe fin  troppo bello, se fosse  reale. A mio dire, solo il tempo possiede il  vero antidoto cicatrizzante per  questi  eventi  forti; se  come  supporto  non vi è  una  fede interiore dominante, così speciale e provata, in concreto, non si  superano certi eventi o perdite di  persone care. Ne so qualcosa!

 

LS: Per interesse personale e per ascendenza  familiare, Lei ha uno strettissimo rapporto con il mondo del teatro. Può rivelarci le  motivazioni del suo grande amore verso il palcoscenico e  la rappresentazione del testo?

AS: E’ vero, il teatro è sempre stato al centro del mio personale interesse, così forte, fin da ragazza. Un amore che  il  mio  papà ha saputo trasmettermi grazie  alla sua  costante   passione. Un  amore che ho  voluto approfondire, frequentando, alcuni  anni, una Scuola di Recitazione a Napoli, studiando autori importanti: Soflocle  (Antigone); Arold  Pinter   (Il Guardiano),   Fernando Pessoa, Eduardo De Filippo (Natale   in Casa Cupiello),  Luigi  Pirandello, e altri, di  notevole  fama.

 

LS: Come  mai  non  si  è  mai cimentata   nella scrittura di un testo Teatrale?

AS: Non è assolutamente vero che io non mi sia mai cimentata nella scrittura di un testo teatrale, ho scritto diversi testi teatrali. Alcuni sono andati  smarriti  durante  il  mio  trasferimento  da Napoli a Novara. Altri  scritti, invece, li ho recuperati tra le mie numerose carte, anche  se  poi  non sono riuscita  a  pubblicare  in  seguito, qualcuno, cosa  non  facile. Ma  ciò  non  significhi che non ci sia davvero spazio, nel tempo, per decidere. Tuttavia, appena trasferita, a Milano residenza di lavoro, ho avuto la mia opportunità di conoscere  persone   appassionate di  teatro. Insieme abbiamo condiviso un testo ambizioso, dal  titolo “Una barchetta di carta sull’acqua” di Ciro Menale. Atto unico, liberamente tratto da Fernando Pessoa. Infatti, siamo riusciti insieme a mettere in scena, al Teatro Litta di Milano, un  lavoro armonioso, con la Compagnia Teatrale: I passanti. In  qualità di Aiuto Regista, per  me fu davvero un’esperienza  personale  molto gratificante e nuova, davvero  forte. Il lavoro fu  presentato, il  10 Dicembre 1992, ebbe  buoni  consensi sia del pubblico che della critica.  

 

LS: Sono  innumerevoli  le definizioni del  concetto di  cultura  che sono state   avanzate   nel   corso    del   tempo ed    esse   variano  a seconda   del   periodo   storico, della   filosofia  di  influenza  e  dei propri  convincimenti. In  particolare  colpisce  una  definizione del portoghese  Fernando  Pessoa  che,   lapalissianamente,   sosteneva “Cultura    non  è   leggere  molto,  né   sapere   molto: è  conoscere molto”. Che cosa ne pensa al riguardo?

AS: Sì, esatto, le definizioni del concetto di  cultura sono complesse. A  mio  dire, anche  innumerevoli. Esse  variano e spaziano nei loro contenuti e  nelle  dimensioni  concettuali di chi li esterna; risentite, ovviamente, delle forti  influenze dei propri convincimenti personali. La mia persuasa  riflessione, però, è che la molta conoscenza debba necessariamente camminare assieme  alla  lettura. Dunque, leggere molto  fa  bene, nutre la  mente e appaga  l’animo. Io leggo tanto, e mi piace ancora leggere.

 

LS: Nel panorama  culturale   contemporaneo   i  concorsi  letterari fioriscono   come   campi a  primavera, molti  di  essi   curano  una edizione  del   premio e poi l’anno  dopo  scompare  perché  magari viene   a  mancare  una  concreta  organizzazione  dell’ente  che   lo istituiva  o  i   fondi   per  poterlo  tenere  in  piedi.  Quale  è   il  suo giudizio personale sui concorsi letterali?

AS: Ebbene, è pur sempre meglio, orientativamente, per  un   poeta o  per  uno scrittore  misurarsi con gli  altri, accettando un giudizio critico di una giuria che lo ha  analizzato  o  valutato. Non può che essere un bene per il  suo  percorso  iniziale  o  anche  in seguito. A mio dire, occorrono, purtroppo, giudizi  di esperti e di professionisti critici  seri, se  si  vuole  davvero  porsi, umilmente, dinanzi  a   tale passione così  intensa e  seria. E,  la  crescita, può avvenire  solo se esperti in giudizi  critici  sapranno  valutare, i  lavori, serenamente.  Altre  possibili  strade, per    chi  scrive e produce lavori   di  buona scrittura, non ne conosco. E’ ovvio,  poi,  bisognerà  scegliere  bene   determinate   strade  e  i vari concorsi seri, per non inciampare in talune strade che davvero  potrebbero   rivelarsi  false, senza   un  nulla  di  fatto, in  concreto.

Tuttavia, credo, che i concorsi  letterari   siano  fondamentali   per  chi  intende,   poi,  proseguire e  approfondire questo straordinario percorso  culturale. In passato, ma ancora oggi, a  dire  il  vero, mi sono sempre  cimentata   in  concorsi  seri  e   professionali, ancora esistenti, per  fortuna. Io  bado molto  ai  nomi  dei giurati, ci tengo molto   che  siano conosciuti  e  professionisti. Forse, per  questo il mio   percorso   culturale  prosegue  la sua  corsa; oramai, da  sola, in   un  panorama  assai vasto, dove è  facile perdersi e non sapere più dove andare o come proseguire.

Invero, grazie  ai vari  concorsi letterari  rinomati  ed  efficienti, in effetti, sono stata, moltissime volte, premiata in Poesia e Narrativa.

 

LS: La letteratura in dialetto ha  vissuto  di   alti e  bassi  nel  corso della   storia  e   la  questione  dell’importanza  dell’espressione  in dialetto  negli   ultimi  decenni  è  stata avanzata e posta soprattutto da sociologi, demoetnoantropologi e  cattedratici  che  si  occupano di   linguistica. Alcuni   scrittori  che  hanno  impiegato  il   dialetto (Trilussa,    Belli)     sono    parte    integrante     della     letteratura italiana   e   sbaglierebbero  di   grosso   coloro   che negassero  tale realtà. Una   delle   motivazioni   che   viene   portata  dai  dilettanti contemporanei  o  dagli  amanti del  dialetto  in  sua difesa è che il dialetto, in quanto lingua madre  (si  impara  prima  della lingua standardizzata   dell’italiano)  è   più   diretta   ed  efficace   perché oltre  a   comunicare   un   messaggio   è    capace    di   trasmettere un’emozione,  l’enfasi   del   parlante,   il   sentimento  in  maniera genuina.  Che cosa ne pensa di ciò e del dialetto in generale? Ha mai scritto nulla in dialetto?

AS: Sì, il mio amore per  il vernacolo è  risaputo. In  effetti scrivo in  dialetto, mi  piace   parlare   correttamente   e  scriverlo anche. Ho  letto  e   leggo   taluni   autori   famosi  che  hanno  scritto  in vernacolo:  Salvatore Di Giacomo, Ferdinando  Russo, De Curtis in  arte  Totò, Eduardo  De  Filippo,  Giovanni De  Caro,  Renato De Falco  ed  altri. In  futuro, credo, di voler  realizzare  un  libro in vernacolo, su concetti ben definiti. E’ risaputo che il proprio dialetto, come quello di Trilussa e Belli siano  stati  dialetti  di  una  grande  cultura sociale e  ambientale. Ma, parlando, del vernacolo, anch’esso, non di meno, possiede in realtà  delle  forti  sfumature  espressive; specie, nella pronuncia, con l’uso corrente di vocaboli e parole veraci, direi, straordinarie, che sanno trasmettere, sin  da subito, intense emozioni, così belle, calorose, davvero, irripetibili  nell’altra  lingua, in italiano.

 

LS: Se   le   nominassi    Pier  Paolo  Pasolini,  Sandro  Penna  e Antonia  Pozzi,  tre  grandi   poeti     del   secolo    scorso,   quale sceglierebbe  e perché?

AS: Sono tre  grandi  autori, speciali,  di  straordinario  interesse culturale. Essi  hanno  saputo  coniugare al meglio i loro intensi percorsi  di  vita. La  loro  preziosa  scrittura  risalta  fortemente,  i  vari  contesti   socio-politico, ma  anche  quelli  ambientali, sia  pure in maniera differente. Infatti, le loro opere letterarie hanno risentito di quel forte impulso  espressivo dei  vari periodi di vita vissuta; proprio  come  gli  scrittori e  i  poeti  contemporanei  di questo  secolo, impegnati a scrivere o a produrre nuovi lavori. A mio  parere, li  accomuna  assieme il grande amore per l’arte: il giornalismo, la bella poesia, soprattutto. Tuttavia, la  mia sottile preferenza mi dice che Pier Paolo Pasolini  sia  stato  molto  più incisivo e  poliedrico nella varietà delle sue  straordinarie  opere letterarie  lasciate, come:  regista,  poeta, scrittore  e   narratore. Egli, dunque, è stato un sagace interprete, dei tempi, in assoluto.

 

LS: Per  ritornare alla poesia, quanto è importante il  tema del paesaggio, del  mondo naturale e popolare collegato  al  luogo delle proprie  origini, secondo Lei nella poesia in generale? E nella sua poesia in  particolare, la città  di  Napoli, con i  suoi colori e le sue tradizioni, quanto compare o quanto è presente non vista, dietro ai suoi versi?

AS: Io posso ritenermi fortunata di avere le radici napoletane di una città, a dir poco, meravigliosa, così  presente  e viva nel mio cuore. E’, ormai, risaputo  che  Napoli  è  conosciuta ed è apprezzata  in tutto  il mondo per le sue  bellezze  naturali, per la  sua  bella, profonda  cultura, così  straordinaria; vanta  un mito di  numerosi artisti, bravi attori, ottimi poeti, e  musicisti. I bei luoghi della mia città, in effetti, sono  quasi  sempre  vivi, ossia, presente, nei versi e in diversi scritti. Non  riuscirei mai a staccarmi dai luoghi che mi hanno  visto crescere, con tante belle speranze e amore per l’arte, in particolare la poesia.

 

LS: Quali  sono i  progetti letterari che attualmente la vedono impegnata? Sta scrivendo un nuovo libro? Se si, può anticiparci qualcosa?

AS: Sì, esattamente, sono  già  pronta a  presentarmi  con  un  nuovo libro, di Poesie  moderne, ci ho lavorato davvero tanto. Questa volta, mi sono immersa  con  tutta  l’anima  verso  un viaggio straordinario, di terre assai lontane. Un  viaggio che  avevo, probabilmente,  già  dentro  di  me, e potrò finalmente realizzarlo. Infine, con le sillogi  poetiche, vorrei  prendermi  una  pausa di riflessione. Ho già  in mente di  occuparmi, finalmente, di cose nuove  e  diverse che  avevo già scritto, ma  le  avevo poi accantonate nel tempo, non per pigrizia.

 

 

Anna Scarpetta

Novara, lì 21 Settembre 2014

Monserrato festeggia la Repubblica con la prima dello spettacolo La III Onda di Abaco Teatro.

ABACO TEATRO

ti invita a

LA III ONDA

racconto di una lezione di storia andata oltre

adattamento e regia  Lea Karen Gramsdorff 

 

Domenica 1 Giugno ore 21 

Teatro Casa della Cultura

Via Giulio Cesare, 37 a Monserrato.

Ingresso gratuito

 

In scena Tiziano Polese, Rosalba Piras e 12 giovani attori :

 Nadia Murgia, Vala Farci, Michele Muscas, Federico Niederegger, Francesco Ottonello, Maria Francesca Autuori,

Manuela Cuccu, Maria Giardina, Alberto Marcello, Mattia Murgia, Marzia Faedda, Laura Pergola.

 

ABACO TEATRO locandina LA III ONDA (1)

 LA III ONDA :resoconto di una lezione di storia andata oltre.

“ Com’è possibile che l’essere umano sia capace di cose del genere?” domanda una delle allieve alla fine della lezione di storia sull’autocrazia. Come nasce una dittatura? Cosa accade alla coscienza dell’uomo, al libero arbitrio, alla capacità di distinguere il bene dal male? E la storia davvero insegna? Siamo o non siamo responsabili di quello che accade all’interno di una società o di un “gruppo” di cui facciamo parte? Queste le domande che porrà lo spettacolo la III Onda nuova produzione di Abaco Teatro in collaborazione con la Abaco Art Academy di Monserrato, spettacolo che andrà per la prima volta in scena  Domenica 1 Giugno alle ore 21,00 alla Casa della Cultura in via Giulio Cesare 37 a Monserrato, in occasione della ricorrenza della istituzione della Repubblica Italiana dopo il referendum del 2 giugno 1946. Lo spettacolo realizzato in collaborazione e col sostegno dell’Amministrazione Comunale Assessorato alla Cultura di Monserrato, porta in prima assoluta sulla scena un fatto realmente accaduto nel 1967.    Ron Jones, un insegnante di storia di una High School in California, decise di fare un esperimento con la sua classe. Senza che i suoi allievi ne avessero coscienza, adoperò delle tecniche di comunicazione e manipolazione di massa proprie dei regimi totalitari durante le lezioni sull’autocrazia. Col pretesto di un gioco impose nella sua classe la disciplina, con la potenza della retorica suggerì uno spirito nuovo, di squadra, di comunità. Nell’arco di sei giorni creò il movimento “ laTerza Onda “, che proprio come un’onda investì l’intera scuola. Gli studenti, esaltati ed abbagliati, si erano trasformati in giovani gregari fanatici, escludendo e ghettizzando chiunque non volesse farne parte. L’esperimento era riuscito: il professore aveva dimostrato ai ragazzi che trovarsi dalla “parte sbagliata” è questione di attimi, e che nessuno è immune al fascino del potere, del male, dell’autocrazia.Tuttavia la scoperta di aver fatto parte di un esperimento per molti ragazzi, soprattutto per i più fragili, per coloro che avevano vissuto all’interno dellaTerza Onda  una propria “rinascita” sociale, fu uno choc.

 Lea Karen Gramsdorff, attrice teatrale con un’ importante carriera nel cinema, firma la originale scrittura e la regia della III Onda. 

L’adattamento teatrale è ambientato ai giorni nostri, lo spettacolo è costruito ad hoc attorno ad un ensamble di 12 giovani attori, che si confrontano sul palco con due professionisti, Tiziano Polese nel ruolo del professore  e Rosalba Piras in quello della moglie Sara. Lo spettacolo volutamente non consegna risposte né giudizi di natura politica o umana. La vocazione è quella di consegnare domande su due grandi temi: colpa e responsabilità rispetto alla storia passata, a quella che scriviamo ogni giorno, ma anche rispetto alle storie umane che ci circondano. La scenografia, firmata da Simone Dulcis, artista con esperienza internazionale, vuole essere un tributo, un omaggio al “Holocaust-Mahnmal” di Berlino, progettato da Peter Eisenman, al monumento detto anche memoriale della Shoah.

Per ricordarsi di non dimenticare.

Intervista a Franco Pastore. A cura di Lorenzo Spurio

Intervista a Franco Pastore
A cura di Lorenzo Spurio 
 
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LS: Quando cominciò a scrivere i primi versi? La sua prima produzione era influenzata da poeti e scrittori che ha letto durante l’adolescenza? Quali?

FP: Cominciai a scrivere versi alle scuole medie, ma erano più satire che poesie. Ne ricordo, infatti, una sul mio paese, che evidenziava l’assenza di strutture e la scarsa igiene delle salumerie. Dopo una pausa piuttosto lunga, iniziai a scrivere versi al liceo, ispirato dai classici greci e latini. Ricordo che  polarizzarono la mia attenzione le traduzioni delle brevi poesie di Saffo ed Alcmane: «εδουσιδʼρέωνκορυφαίτεκαὶφάραγγες dormono le cime dei mon-ti, le vette e le valli…»; per non parlare di Pindaro: « luomo è lombra di un sogno ». La poesia latina invece faceva riflettere, ma comunque impazzivo, dell’Eneide, per i magnifici versi sulle nozze di Didone ed Enea. E che dire dei canti di Catullo, dove esterna il suo amore per Lesbia: «Dà mi bàsia mìlle, dèinde cèntum,… dammi mille baci, poi ancora cento…».  Fu  molto più tardi che fui attratto dalla poesia di Montale, dopo che avevo dedicato circa un quinquennio  al Leopardi. Verso i ventisei anni, mi dedicai alla letteratura russa, che abbandonai poco dopo il servizio militare, il mio preferito era Puskin. A trent’anni iniziai ad avvertire il fascino della poesia dialettale, soprattutto per i versi in romanesco ed in napoletano: Trilussa, Guglielmo Somma ed Antonio De Curtis. Oggi mi piace molto anche il dialetto siciliano, tanto che molti amici mi inviano le loro composizioni.

 

LS: Oggigiorno sono in molti a definirsi “poeta” per il semplice motivo di scrivere in versi o di spezzare frasi con gli “a capo”. Qual è un suo giudizio qualitativo sulla grande produzione poetica che si è sviluppata negli ultimi anni e quale tendenze/espressioni preferisce di più?

FP: Tutti oggi scrivono poesia, un po’ è una moda, ma forse è un escamotage per non essere annullati come persone umane. Il valore poetico? è rapportato alla superficialità della cultura e ad un “lavoro scolastico” sempre più povero di contenuti. Ma non mancano intuizioni liriche notevoli, magari espresse con mezzi espressivi inadeguati, ma pur sempre notevoli. Là dove è presente la cultura, anche la poesia si tracima in atmosfere ricche di toni e di pispigli. Tuttavia, non ho molta simpatia per i fraseggi e  gli assembramenti di fonemi ritmati e non, che chiamano in modi diversi, ma sono sciocchezze assurde alcuni, altri pura follia.

 

LS:  Uno degli esponenti di spicco della celebre “generazione del ‘27” assieme a Rafael Alberti, Luis Cernuda e Federico García Lorca, fu Pedro Salinas (1891-1951), importante anche per il suo impegno sociale. Salinas viene ricordato come uno dei maggiori “poetas amorosos” grazie a una serie di sillogi di importante levatura quale La voz a te debida (1933), Razón de amor (1936) e Largo lamento (1938). Le propongo la lettura di “Per vivere non voglio” (“Para vivir no quiero”) tratta dalla silloge La voz a te  debida:

Per vivere non voglio

isole, palazzi, torri.
Che grandissima allegria:
vivere nei pronomi!
Ora togliti i vestiti,
i connotati, i ritratti;
io non ti voglio così,
travestita da altra,
figlia sempre di qualcosa.
Ti voglio pura, libera,
irriducibile: tu.
So che quando ti chiamerò
in mezzo a tutte le genti
del mondo,
solo tu sarai tu.
E quando mi chiederai
chi è colui che ti chiama,
colui che ti vuole sua,
seppellirò i nomi,
le etichette, la storia.
Strapperò tutto ciò
che mi gettarono addosso
prima ancora che io nascessi.
Poi, tornando all’eterno
anonimo del nudo,
della pietra, del mondo,
ti dirò:
“Io ti voglio, sono io”.

 

FP: Se fosse possibile liberarsi di ogni preconcetto, di ogni ipocrisia, se fosse possibile liberarsi di mode, aggettivazioni che allontanano e distinguono, che grande cosa sarebbe l’uomo, nel suo relazionarsi con l’altro, con se stesso e con il mondo! E’ un po’ il concetto del nosce te ipsum, quella conoscenza del sé, nudata di ogni struttura fuorviante, di quello che è stato imposto da subculture e dottrine finalizzate, o da ignoranze ataviche, inculcate per tradizione, un γίγνωσκε σαυτὸν, alla maniera degli esoterici. Ecco come i poeti sognano e proiettano sull’anima i propri sogni.

LS: L’idea di questa intervista è quella di poter diffondere le varie interpretazioni sulla Poesia e in questo percorso ho ritenuto interessante proporre a ciascun poeta alcune liriche di poeti contemporanei viventi, per richiedere un proprio commento-interpretazione. La prima poesia che Le propongo è “Rami di mirto”[1] di Antonio Spagnuolo[2] 

 

Nel triste regno dei fantasmi il tuo fantasma

è straniero, quale fantasia che cambia colori,

sorpreso a beffare la vecchiaia,

che intorpidita sospende i miei segreti.

Qualche rimorso mi sollecita ancora:

ripiombare nel tempo abbandonato…

Come il nero che in verticale

a fatica ingombra il precipizio,

che per caso è ferita di una verità,

Basta il bagliore di un rapido tramonto,

il riflesso che abbandona lì orizzonte

per ricostruire il lamento delle manchevolezze.

Ormai poche parole inutilmente

percorrono il vermiglio sgranato,

per il sangue che ricuce i frammenti

io ho soltanto del mirto.

 

FP: E’ la liricità che preferisco: infatti, scaturisce dall’animo, come acqua pura di sorgente e ti entra dentro recando una malinconia soffusa, che lentamente si apre, come un fiore sotto il sole di maggio ed espande il profumo tipico del canto, che, dal tramonto rapido, esonda nel rimpianto e nel vivere di … poesia. Alla fine, solo il rimorso per qualcosa che non hai fatto, o che non dovevi fare, ti costringe al ricordo, ma non più di tanto, tutto scompare con il tramonto e le ombre divengono una lunga notte, ricca di silenzio essenziale.

 

LS: Di seguito, invece, Le propongo una poesia della poetessa Elisabetta Bagli[3] intitolata “Tortura”[4], di stile e contenuto molto diverso dalla precedente e sulla quale sono a chiederLe un suo commento:

Nuda, umiliata,

martoriata,
supina sull’asfalto
del mio tunnel,
aspetto.
La sua oscurità mi avvolge,
voglio liberare
la mia esistenza
con pneumatici pietosi
oscillanti sul mio corpo,
macellare la mia carne,
polverizzare le mie ossa.
Speranza incompiuta.
Sei arrivato tu.
Suadente voce
non mi hai permesso
di andare.
Mi hai preso per mano,
portandomi dentro te
nel tunnel buio
della tua anima
costellata di stelle velate
che vuoi scoprire con me.
Pizzichi la mia fantasia
come le corde di quel violino
che non vibrano senza te.
I tuoi ritmi sono dolci e irruenti
come le tue parole,
leggeri aliti di vento sul mio collo,
come il tuo vegliare su di me
mentre annusi la mia essenza.
Mia lenta,
inesorabile tortura.

 

FP: E’ sempre l’amore che vince sul buio della più nera malinconia. Chi ti ama ha il potere di tracimarti oltre ogni incomprensione di te ed oltre quell’abbandono che si fa muro tra noi ed il mondo. Ma non un amore semplice, fatto di profumi e di musica, come quello di una margherita sui fili verdi del prato, bensì un sentimento più forte, generoso ed intimo, dolce ed irruente, che parla con la musica delle parole e l’armonia del respiro, un amore che diviene eco, nel silenzio notte. Un amore fisico ed intellettuale, che ti entra dentro e, concretizzando i sogni, si impone “ come tortura inesorabile” alla mente, togliendo pace all’anima.

 

LS: Quali sono secondo lei le condizioni migliori per dedicarsi alla scrittura di una poesia? C’è un momento della giornata che predilige per “confessarsi” e trasmettere agli altri le sue considerazioni, pensieri o paure?

FP: Non vi è un momento particolare, né penso che la poesia sia una confessione. Ogni momento è fertile per esternare quell’idea che nasce improvvisa e che nemmeno tu sai dove vuole andare a parare. Spesso, può accaderti anche nel dormiveglia della notte, ma sei troppo pigro per alzarti e ti riprometti di realizzarla più tardi, quando si accenderanno le luci del mattino, ma non ricordi più nulla e stai male tutto il giorno. Che strana condizione quella che ti porta a scrivere versi, anche nei momenti di malat-tia, o dopo gravi accadimenti, a volte anche funesti! Basta un lampo nel diverticolo della memoria ed ecco che  una vecchia sensazione, un ricordo si fa presente.

Un presente misterioso, che emerge dalle ombre del mistero, dopo che tutti i frastagli del contorno reale si sono mitigati; un ricordo nudo che ti parla dentro e, con l’animo, muove la mano, mentre la poesia si concretizza. Successivamente interviene il cervel-lo, che va a verificare la musica delle parole e l’efficacia della trasmissione.

  

LS: C’è una sua silloge poetica alla quale si sente più legato? Se sì, quale è e perché ne è particolarmente legato?

FP: Non posso rispondere a questa domanda, perché una sorta di maledizione mi fa amare in modo irrazionale, sempre l’ultima silloge che vado a realizzare, togliendomi persino il ricordo delle precedenti e l’ultima è quella che s’intitola OLTRE LE STELLE e verrà pubblicata nel 2014. E’ dedicata al paese dell’amore S. Valentino Torio, in provincia di Salerno, dove sono nato 69 anni fa. Questa è la dedica: Ricordi Incessanti, / come  pispiglianti aneliti,/ l’animo catturano /ed il cuore. / Rarefatte dal tempo, / emozioni riemerse / rinnovano la mia storia. / Come ombre di memoria / sovviene l’infanzia / con l’umido delle strade / di basalto e, più in alto, / i balconi di rose, / dove m’attendeva / mamma mia … / Era l’amor di casa / e della terra mia, / che contornava / tutto di poesia. / Torna il passato / nel canto del silenzio, / ma i morti / non hanno più voce!

  

LS: Secondo lei per poter carpire al meglio il messaggio e la musicalità della poesia straniera è bene leggerla in lingua originale laddove si comprenda la lingua oppure è sempre opportuno ricorrere alla traduzione in italiano. Perché?

FP: Certamente, se si conosce la lingua, è opportuno leggere la poesia nella lingua in cui è stata composta. In caso contrario, ci si dovrà accontentare della traduzione, che non potrà mai offrire tutte quelle emozioni e sfumature, a volte così evanescenti, che sicuramente coglieremmo nella lingua di scrittura, ma spesso, la nostra limitatezza non ci permette un connubio più proficuo con l’opera.

  

LS: Il poeta galiziano Mario Villar (1965) in una sua poesia riflette sulla condizione del poeta e osserva:

Il poeta è un fingitore

ma lo fa di nascosto

quando si tratta d’Amore

per rimanere come una tortora

nell’attimo del distacco.[5]

 

Che cosa ne pensa di questa interpretazione del poeta e in che modo, invece, intende lei la figura del poeta nella nostra contemporaneità?

FP: Il poeta, oggi come ieri, è colui che vede al di là di ogni impostura, guidato si, quale esteta, a cogliere il bello, ma nel suo contorno di giustizia e di vero universale. Per questo, “fare poesia” non si può racchiudere in un assioma, né in un schema razionale; fare poesia è della persona umana, che si interessa dell’uomo, perché vive tra gli uomini in modo fertile (homo sum et nihil humani a me alienum puto), guidato da una sensibilità che lo porta a guardare gli eventi, super partes, facendo sentire la propria voce, chiara come l’acqua di una fonte, penetrante come il pianto di un bambino, forte, più di quella del demonio che è in ogni uomo della terra.

 

LS: Cosa si sente di dire ai giovani poeti che seriamente si impegnano nella letteratura cercando di trovare attenzione da parte di un pubblico sempre maggiore, rischiando il più delle volte di non trovare voce e rimanere un’ esperienza di nicchia?

FP: Bisognerebbe dire ai giovani che la poesia è una cosa seria. Non è una moda, né una sorta di scrittura a rigo stretto. Bisognerebbe pure dire che la scuola, oggi, è solo una occasione di impegno, ma che spetta ad essi formarsi, attraverso una volontà personale ed un duro lavoro di tavolino. Oggi, scrivono milioni di giovani e meno giovani, per un pubblico già refrattario alla lettura; quando poi si offrono stoltezze e masturbazioni di pensiero, allora viene a scadere ancora di più l’interesse per la poesia, tanto che oggi se ne è smarrito il senso. Allora, come si fa ad offrire agli altri i nostri “versi”, quando noi medesimi ignoriamo i grandi della poesia: i lirici greci, le tragedie di Euripide, Dante, Foscolo, Leopardi, Carducci ed ancora Jaques Prévert, Montale, Gatto e così via? Alla fine, penso che quando il messaggio della nostra anima è valido, prima o poi verrà comunque recepito da chi ama leggere poesia.

 

 Salerno, 3 gennaio 2014                                                                               

 

[1] Antonio Spagnuolo, Misure del timore – Antologia poetica 1985-2010, Napoli, Kairós, 2011, p. 170.

[2] Per maggiori informazioni sul poeta si legga la sua biografia nel capitolo-intervista a lui dedicato.

[3] Elisabetta Bagliè nata a Roma nel 1970. Vive a Madrid dal 2002. Ha pubblicato le raccolte poetiche Voce (ilmiolibro, 2011) e Dietro lo sguardo (ArteMuse Editrice, 2013). Si è occupata, inoltre, di narrativa per l’infanzia e ha pubblicato Mina, la fatina del Lago di Cristallo (Edizioni Il Villaggio Ribelle, 2013). Molte sue poesie sono, inoltre, presenti in varie opere antologiche.

[4] Elisabetta Bagli, Dietro lo sguardo, Gruppo Editoriale D & M, 2013, p. 106.

[5] cit. in traduzione italiana in Hebenon, Rivista internazionale di letteratura, anno XIX, quarta serie nn. 3-4, speciale Aprile-Novembre 2009, p. 45. In lingua originale in Miro Villar, 42 décimas de febre, A Coruña, Toxosoutos, 1994, p. 27.

Iuri Lombardi, “La Spogliazione. Dramma dialogato in versi”, il commento di Paolo Ragni

Iuri Lombardi La Spogliazione Dramma dialogato in versi

Commento di PAOLO RAGNI

 

Tre soli personaggi a tenere il campo tutto il tempo: Giovanni Battista, don Luca, Il Nano.

Riusciranno a tenere la scena?

Sì, riusciranno, e ci sono riusciti, per quanto manchino quasi del tutto le notazioni scenografiche. Testo scritto per intero in forma poetica – dialogato, riesce però a stare in piedi in forma teatrale, nudissima e scabra quanto si vuole, ma all’altezza di tenere desta la Parola e l’Attenzione.

IDU32524.IDO21269.IDE21206.IDV21136#_CopertinaAnteriorePuò risultare inquietante una manomissione così robusta della figura del Battista, ma se la guardiamo più da vicino non è proprio così. Direi che Lombardi produce uno sforzo di attualizzazione esasperato della vicenda del Battista da renderla certamente originale, stravagante e, per la gran massa, inquietante, fuorviante e decisamente fuori posto. La storia di questo moderno Battista, di questo profeta e testimone scomodo è quanto mai inusuale: per amore, troppo amore, compie in pubblico atti omosessuali, vive una vita sbandata, raccoglie poche adepti borderline come lui. Il suo tentativo di confessione con l’incerto e stupefatto don Luca della Cipria (da notare la cipria intesa come mascheramento di fronte al denudamento della confessione) non arriva a una fine, che invece parrebbe (uso il condizionale) definirsi con la morte. Ma anche questa è un’apparenza, perché dopo l’ipotetica morte sfrangiata in un lago di sangue si presenta la voce fuori campo del Battista in un’ultima drammatica appassionatissima confessione, questa volta sì, più completa ed esauriente.

Ho detto prima la maiuscolo a Parola e Attenzione. Qui il dramma della vita, lo strappo dalla comunione umana, il tentativo disperato di un colloquio con Dio sono da misurarsi con estremo rispetto e sempre e senz’altro alla luce della lettura della Bibbia, specie del Nuovo Testamento. E così pure il dramma che si consuma, ma che non sembra arrivare alla tragedia, è da vedersi come scontro durissimo tra Parola e Silenzio: solo una grandissima Attenzione vissuta in Silenzio riesce a cogliere il senso di una testimonianza difficile, nuda e disarmata come quella del Battista.

Copia di DSC_0029La Spogliazione è senz’altro il titolo giusto per un’opera in bilico fra teatro e poesia, in un’opera in cui la confessione, la messa a nudo si riferisce, prima, agli aspetti esteriori della mostra vita, nelle sue relazioni interpersonali, nel suo tentativo di smascheramento delle convenzioni comuni, nel suo mettere in dubbio tutte le mancanze di amore di cui l’umanità è comunque colpevole, specie nel giudizio e nella condanna. E, dopo, la Spogliazione diventa messa nudo di noi stessi, in una visione in cui il Battista va alla fine a somigliare di più a un Cristo sulla croce nel suo eterno darsi, nella assoluta gratuità del proprio donarsi.

La pièce potrebbe apparire, proprio per l’esagerazione voluta del suo assunto, fin troppo scoperta. Infatti l’autore, per nulla intimorito dal coraggio certo inusuale di non volersi nascondere, affronta a piene mani il tema della confessione, intesa come proclama di vita, come tesi, come concezione generale del mondo vissuta personalmente e senza sconti, in una logica in cui niente è di intellettuale ma tutto nato vissuto consumato nel fuoco di una grandissima passione.

Viene da pensare ai grandi russi dell’Ottocento, al loro gusto per l’estremo, alle grandissime confessioni / conversioni di cui, ad esempio, è maestro Tolstoj. Viene da pensare al tragico Dostoevskij, al suo continuo dramma tra adesione e ribellione, alla identità morale estrema (rivoluzionaria o conservatrice poco importa, a Dostoevskij si deve pure fare sconto sulla coerenza).

Ecco perché l’attualizzazione della figura di San Giovanni Battista in fondo si presenta come una analisi non solo teologica sulla figura di chi vive al deserto e fuori dagli schemi, ma in maniera più ricca come di chi riesce, proprio per questo, a cogliere i segni essenziali della storia. Così le periferie squallide in cui il San Giovanni di Lombardi vive, i riferimenti ai drammi delle traversate dei profughi nel Mediterraneo, i drammi della siccità, la clandestinità sono punti essenziali della vita di oggi e dell’alterità del Battista davanti all’indifferenza in cui si addormenta buona parte dell’umanità odierna.

Il Battista non è certo un anestetizzato, ma una mente e un cuore vigile, furioso forse, appassionato al punto da pagare di persona forse anche quello che potrebbe risparmiarsi. Ma non si tratta di un banale cupio dissolvi, in quanto il dramma di amore che brucia il cuore e la carne del Battista è appunto un dramma di chi ama tantissimo la vita. Anche qui l’occhio strizza a Dostoevskij e al gusto del paradosso, che, in fondo, è tipico del Cristianesimo più radicale ed estremo.

A Lorenzo Spurio va il merito di avere saputo indagare, con la consueta finezza critica, molti punti che potrebbero rimanere altrimenti in penombra, e che lui sa interpretare sulla scorta di una conoscenza completa dell’opera di Lombardi. Mi permetto solo di aggiungere che probabilmente la Spogliazione è assai più rituale e coerente con i valori cristiani di quanto sembrerebbe arguire Lorenzo Spurio. La pièce reinterpreta il nocciolo profondo del cristianesimo, in maniera che solo apparentemente ed arbitrariamente può sembrare blasfema. In realtà, è solo il nostro modo tradizionale di vedere la spiritualità cristiana che ci può fare ritenere new age il Battista. E’, casomai, molto più vicino, invece, ai grandi rivoluzionari come san Francesco e a tutti coloro che sono stati ritenuti pazzi pur rimanendo scrupolosamente all’interno dell’ortodossia. Finire al rogo per eretico non significava esserlo, in quanto l’eresia poteva consistere esattamente nell’aderenza al messaggio di Gesù Cristo, mentre eretici erano proprio i tribunali civili ed ecclesiastici. Quanto sono stati considerati eretici dal comune perbenismo i vari padre Balducci, don Gallo e don Santoro? Mi limito a citare solo questi, in quanto, probabilmente, la risposta più aderente alla Spogliazione è solo l’invito alla lettura del Quinto Evangelio, di Mario Pomilo, vero e proprio esempio di controscrittura e controrilettura dello scontro tra regola e sincerità, tra lettera e fede, tra morte e vita.

PAOLO RAGNI

01-05-2014

XVII Edizione “Premio Nazionale di Poesia Mimesis”

Indetto da Associazione Culturale Teatrale

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in collaborazione con

 Provincia di Latina

Comune di Itri – Ass. alla Cultura

Casa Editrice “ Rupe Mutevole”

 

 

Il concorso si articola in due sezioni:

 

A) Poesia inedita ( che non abbia mai avuto pubblicazione con codice ISBN)

B) Poesia edita

 

Si può partecipare con un massimo di tre liriche per ciascuna sezione, a tema libero.

 La giuria del Premio Mimesis composta da: Valentino Zeichen (Presidente), Nunzio Buono,  Sheiba Cantarano, Alessandro D’Agostini, Nazario Pardini, Abner Rossi, Lorenzo Spurio, Maria Grazia Vai, Vittorio Verducci

Selezionerà:

a) per la sezione A – poesia inedita, dodici finalisti tra i quali i tre vincitori

b) per la sezione B  – poesia edita, tre vincitori.

 Eventuali segnalazioni di merito sono a discrezione della giuria il cui giudizio è insindacabile.

 

Tutte le  liriche selezionate saranno pubblicate in un’antologia con codice ISBN edita dalla Casa Editrice “Rupe Mutevole” senza oneri per i poeti.

Sarà cura dell’Associazione avvisare per tempo i poeti finalisti e vincitori tramite mail e telefono.

I concorrenti autorizzano L’Associazione Mimesis, senza nulla a pretendere, a pubblicare le liriche sia nell’antologia del Premio che nel sito internet, pur mantenendone tutti i diritti.

La scadenza del bando è il 27 maggio 2014.

La serata di premiazione si terrà venerdì 22 agosto alle ore 21,00 nel Castello medievale del Comune di Itri (LT). Le liriche finaliste e vincitrici saranno recitate con il commento musicale di musicisti di grande rilievo, nel corso di uno spettacolo con la direzione artistica di Patrizia Stefanelli e con la partecipazione degli OAK & ALLCOCK.

Tutti i poeti presenti, saranno presentati al pubblico in una breve intervista.

 

 

Premi

sezione A

1° classificato: Contratto editoriale offerto dalla Casa Editrice “Rupe Mutevole” che prevede la pubblicazione di una silloge di max 60 poesie in 300 copie  a titolo totalmente gratuito. Targa, 10 copie dell’antologia e pergamena con motivazione

 

2° classificato: 200 euro, targa, 10 copie dell’antologia e pergamena con motivazione

 

3° classificato: Targa, 10 copie dell’antologia e pergamena con motivazione

 

sezione B

1° classificato: 500 € offerti dal Comune di Itri, targa, 10 copie dell’antologia e  pergamena con motivazione

 

2° classificato: 200 euro, 10 copie dell’antologia e  pergamena con motivazione

 

3° classificato: Targa, 10 copie dell’antologia e pergamena con motivazione

 

Una giuria di giornalisti ed editori assegnerà in estemporanea, durante la serata di premiazione, tra tutte le poesie in antologia, un ulteriore riconoscimento: Il “Premio speciale stampa”Trofeo I. P. LA C. insieme per la cultura  alla poesia di maggior impatto comunicativo.

 

Per i premi in danaro non sono previste deleghe.

Tutti i finalisti presenti riceveranno 5 copie dell’antologia e pergamena di merito

Le liriche dovranno essere inviate in formato word.doc  con carattere Times New Roman carattere 12, con l’indicazione della sezione alla quale partecipano, al seguente indirizzo e-mail: info@associazionemimesis.com.

Contestualmente all’invio delle liriche, in allegato a parte, ciascun autore dovrà specificare: il titolo delle opere inviate, il proprio nome, cognome, indirizzo, recapito telefonico, indirizzo e-mail, breve curriculum, dichiarazione della paternità dell’opera e l’attestazione dell’avvenuto pagamento della quota di partecipazione. L’autore dovrà autorizzare il trattamento dei dati personali secondo il Decreto legislativo 30 giugno 2003, n.196.

Saranno avvisati tempestivamente, soltanto i 12 finalisti e i tre vincitori delle due sezioni. Altre notizie e classifiche saranno reperibili nel sito dell’associazione Mimesis.

 

In via eccezionale, per coloro che non potessero inviare on line, le liriche potranno essere spedite, in unica copia con dati per la segreteria in calce e breve biografia  all’indirizzo: Patrizia Stefanelli Contrada Campanaro 33- 04020 Itri (LT) . In tal caso farà fede il timbro postale.

La partecipazione al premio prevede una quota di iscrizione di 10 euro per ciascuna sezione  da inviare con le seguenti modalità:

– vaglia postale indirizzato a : Patrizia Stefanelli, Contrada Campanaro 33, 04020 Itri (LT)

– ricarica postepay al n.°4023600622162693 intestata a Nicola Maggiarra

– tramite Paypal all’indirizzo info@associazionemimesis.com

–  bonifico bancario verso: Associazione Culturale Teatrale Mimesis-Itri IBAN IT 04 N 01030 74000 000000658870 MPS filiale di Itri (LT)

– in contanti (esclusivamente per chi invia il cartaceo).

Ulteriori notizie su www.associazionemimesis.com e sulla pagina facebook di “Premio Nazionale Mimesis” di poesia

 Numeri telefonici di riferimento: 3397263226 (Presidente Associazione Mimesis – Prof. Nicola Maggiarra) -3475243092 (Vice Presidente di Mimesis – Dott.ssa Patrizia Stefanelli)

 

La segreteria del Premio

Iuri Lombardi drammaturgo: esce “La Spogliazione”

La Spogliazione (dramma in versi liberi) 
di Iuri Lombardi
con prefazione di Lorenzo Spurio
Photocity Edizioni, 2013
ISBN: 978-88-6682-538-8 
 
 
Dalla Prefazione di Lorenzo Spurio si legge:

IDU32524.IDO21269.IDE21206.IDV21136#_CopertinaAnterioreLa Spogliazione non è che una riscrittura del personaggio biblico di San Giovanni Battista che viene a trovarsi nella nostra attualità. Del Battista originario c’è poco […] ed esso in effetti è un punto di partenza pretestuoso per Lombardi che sviluppa una storia singolare, drammatica, che fa riflettere o che addirittura può far inalberare qualcuno. Perché in questa attualizzazione del Battista, Lombardi non può far altro che adoperare un abbassamento del personaggio […] che corrisponde direttamente a una progressiva perdita della sacralità per le sue malefatte: l’essersi reso responsabile (e non colpevole, si badi bene!) a un atto di sodomia, l’aver fornicato, l’aver adottato atteggiamenti e frequentazioni poco consoni a un esponente del Clero.

Il libro può essere acquistato a questo link.

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