La Lucania è terra che ha dato i natali a poeti di intenso spessore che inevitabilmente hanno cantato il fascino dell’essenzialità e della durezza di una regione che, come poche, intesse continuamente relazioni creditizie e debitorie con la Storia; quella generale ma soprattutto la propria. Una terra che ha dato vita a straordinari poeti, da Rocco Scotellaro a Leonardo Sinisgalli, da Albino Pierro ad Assunta Finiguerra.
Accanto a questi nomi merita sicuramente menzione Mario Trufelli, lucano di Tricarico, lo stesso paese natio di Scotellaro. Premio Saint-Vincent per l’intensa attività giornalistica, ricordiamo che fu responsabile della Testata Giornalistica Regionale lucana della RAI. Di Sinisgalli fu allievo e amico e nel 1992 vinse il Premio Flaiano per la silloge Prova d’Addio. Ho scelto di ricordarlo attraverso i versi di una splendida poesia dal titolo, appunto, Lucania, parte della silloge L’indulgenza del cielo, che «con le sue 153 poesie, ha il merito di condurre il lettore in un viaggio unico con l’autore, lungo il suo straordinario e pluriennale percorso poetico e culturale» (N. Vitola)[1].
Io lo conosco
questo fruscio di canneti
sui declivi aridi
contesi alla frana
e queste rocce magre
dove i venti e le nebbie
danno convegno ai silenzi
che gravano a sera sul passo stanco dei muli.
È poca l’acqua che scorre
e le vallate son secche
spaccate, d’argilla.
Di qui le mandrie migrano
con l’autunno avanzato
per la piana delle marine
tuffando i passi nelle paludi.
Di qui è passata la malaria
per le stazioncine sul Basento
squallide, segnate d’oleandri.
Da noi la malvarosa è un fiore
che trema col basilico
sulle finestre tarlate
in un vaso stinto di terracotta
e il rosmarino cresce nei prati
sulle scarpate delle vie
accanto ai buchi delle talpe.
Da noi riposa il falco e la civetta
segna la nostra morte.
Da noi il mondo è lontano,
ma c’è un odore di terra e di gaggia
e il pane ha sapore del grano.
Una lirica intensa che intreccia alle raffinate evocazioni descrittive delle immagini di contesto una profonda riflessione, taciuta, nascosta, appena evocata in segnali semantici sparsi lungo tutto il dettato del componimento.
«(…) Silenzi / che gravano a sera sul passo stanco dei muli» oppure «le mandrie migrano / con l’autunno avanzato (…) / tuffando i passi nelle paludi» o ancora «la malvarosa è un fiore / che trema col basilico»… Tutti lievissimi accenni (straordinario il tremolio della malvarosa che quasi lascia intuire il resto dei dettagli stagliati sullo sfondo) a un movimento lento, impercettibile in un panorama di quasi assoluta fissità.
Trovo splendida questa poesia non solo per le meraviglie catturate e dipinte in un’atmosfera di lentezza e malinconia che mi paiono indiscutibili: i colori sono quelli dell’autunno e della sera, quasi sorprendenti nell’affresco di un panorama legato a una regione del Sud che probabilmente ci si aspetterebbe barocca di sole e di luce. Ma anche a questo non rinuncia il poeta, anche in questo caso racchiude l’evocazione dentro i suoi effetti, misurandola ancora in modo da non sconvolgere il panorama generale dato alla lirica: «È poca l’acqua (…) / le vallate son secche / spaccate».
Epperò è il non detto a sorprendere davvero: un “silenzio” (oltretutto esplicitato – come significante e non casualmente – in un verso dove viene affiancato alla parola “convegno” insieme a nubi e nebbie) che dà all’intera lirica una forza che sembra quasi mancare alle delicatissime dinamiche rappresentate e che mi pare si esprima in due atteggiamenti l’uno celato, l’altro quasi sottinteso.
Il primo: lo sguardo, celato appunto. I «declivi aridi / contesi alla frana», il passo stanco dei muli e delle mandrie, l’acqua che scorre e le vallate secche e spaccate; le paludi, le scarpate e i buchi delle talpe sembrano quasi oggetti di un’osservazione concreta che non stacca mai lo sguardo da terra, quasi a testa bassa in un atteggiamento che potrebbe essere percepito come rassegnata malinconia in un figurato passeggio: si ha quasi la sensazione di vedere il poeta, mani in tasca e – appunto – testa bassa, affondare i passi nella sua terra e descriverne tutto ciò che gli sale alla vista. Eppure non è rassegnata malinconia quella che si avverte.
Il secondo elemento, il sottinteso, conferisce all’intera lirica un carattere diverso e un sentimento più forte, direi di appartenenza che si esprime in un accenno di rivendicazione, un appena indicato tentativo di reazione. L’incipit assoluto «Io lo conosco» con un accento evidente sulla prima parola, l'”io“, sembra quasi voler sottintendere una negazione taciuta, una specie di “non tu” o “non voi” che sfuma le delicatezze descrittive di ogni verso con un colore più vivace, quasi polemico, risentito… e che trova eco negli iterati «da noi», «da qui»,, non da altre parti, non altrove.
Non casualmente la poesia termina con due chiuse: la prima è l’unico momento in cui quello sguardo a testa bassa si stacca da terra per osservare più in alto e incontrare la civetta che «segna la nostra morte» nella finale consapevolezza dell’inutilità e dell’ineluttabilità dell’assoluto; mentre la seconda («Da noi il mondo è lontano») sembra quasi l’identificazione finale di quel “tu” taciuto: il mondo, quello fuori dai confini metastorici qui rappresentati.
È un abbraccio stretto alla propria terra, una dichiarazione d’amore e di appartenenza che non ha vergogna di alludere anche a sentimenti diversi e più decisi. E il contrasto rende la lirica una sublime esaltazione di ciò che resta, tanto sul piano reale quanto su quello immaginifico, tanto sul piano semantico quanto su quello filosofico: l’essenzialità dell’ «odore di terra e di gaggia/ e il pane ha sapore del grano».

È poesia con la P maiuscola quella che intesse al suo interno un profondo legame fra il detto e il taciuto e attraverso la perfezione delle immagini lancia ponti di percezione affinché il lettore si addentri in quello stesso percorso quasi guidandone i passi fino al punto di spiegarne i “perché” che qui sono tutti e semplicemente appartenenza e amore per la propria terra dove l’accento va, in modo particolare, sulla parola “propria”. Eppure non c’è un solo aggettivo possessivo in tutta la lirica! Non un “mio” o un “nostro” né un “tuo”. La potenza di tale significato è tutta affidata ad altro significante che qui è proprio la reiterazione dei «da qui» e «da noi» appena indicati.
La poesia avrebbe potuto intitolarsi tranquillamente “Terra MIA” ma forse l’identificazione netta, così come per le immagini descritte all’interno della lirica, con il nome della propria terra, la Lucania, è anche il nome di un amore vissuto, partecipato, vero; quasi della “persona” amata in un rapporto di scambio che è evidentemente biunivoco e reciproco o, per lo meno percepito, come tale.
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Questo testo viene pubblicato su questo dominio (www.blogletteratura.com) all’interno della sezione dedicata relativa alla rivista “Nuova Euterpe” a seguito della selezione della Redazione, con l’autorizzazione dell’Autore/Autrice, proprietario/a e senza nulla avere a pretendere da quest’ultimo/a all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ vietato riprodurre il presente testo in formato integrale o di stralci su qualsiasi tipo di supporto senza l’autorizzazione da parte dell’Autore. La citazione è consentita e, quale riferimento bibliografico, oltre a riportare nome e cognome dell’Autore/Autrice, titolo integrale del brano, si dovrà far seguire il riferimento «Nuova Euterpe» n°01/2023, unitamente al link dove l’opera si trova.
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[1] N. VITOLO in Francavilla Informa: https://www.francavillainforma.it/2020/06/29/lindulgenza-del-cielo-raccolta-di-poesie-di-mario-trufelli/








Antonietta Langiu
Mare! Tema questo che è stato sempre presente nella poesia italiana dal Medioevo agli anni Duemila e che negli ultimi anni del secondo Novecento è stato usato come specchio della Vita, proprio come è dimostrato dalla raccolta d’esordio La terra del rimorso del giovane poeta Stefano Modeo (Taranto, 1990) del 2018.
Venerdì 8 marzo alle ore 17:30 presso il Chiosco-Caffè della Villa Comunale di Isernia si terrà la presentazione del libro “Iridio” (L’Erudita, Giulio Perrone, Roma, 2019) del poeta e scrittore Antonio Vanni. Il volume, la prima antologia dell’autore molisano, contiene al suo interno le precedenti prefazioni alla sua opera a firma del noto critico letterario Giorgio Barberi Squarotti rispettivamente del 1992 e del 1997. Il titolo del volume, “Iridio”, deriva dall’eponima lirica ivi contenuta che Vanni ha deciso di dedicare al poeta e scrittore, noto esperantista Amerigo Iannacone (Venafro, 1950-2017) recentemente ricordato, nel novembre 2018 con un Premio Speciale “Alla Memoria” in seno alla premiazione della VII edizione del Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi” di Jesi. Amico e collaboratore di Iannacone, Vanni ha deciso di dedicare il volume a questo grande uomo di cultura per Isernia e il Molise tutto al quale, in apertura, scrive “Sul tardi lascerai il Caffè/ dove attendevi noi,/ corpi educati alle latomie/ degli spazi/ tra destino e amore,/ colto il più bello tra i fiori/ del chiaro giorno infinito“.
Antonio Vanni (Isernia, 1965) lavora nel Reparto di Psichiatria del locale ospedale civile. Ha iniziato a comporre versi all’età di dodici anni divenendo a diciotto anni, con la raccolta “La Nube”, membro onorario dell’Accademia di Scienze Umanistiche del Brasile. Poeta e autore di racconti brevi, in parte inediti. Ha pubblicato i volumi di poesia “La Nube” (1984), “Alcadi” (1986), “Viale dei Persi” (1987), “L’albero senza rami e la luna” (1992), “Diario di una nuvola bassa” (1994), “L’Ariel” (1997), “Plasmodio” (2017). Nel 1995 il giornalista Fulvio Castellani pubblicò la monografia “Dai giardini del tempo e del sogno – Introduzione alla poesia di Antonio Vanni”. Dal 2016 al 2018 ha diretto, per il mensile “Il Foglio Volante – La Flugfolio” la rubrica di poesia dei giovanissimi, “L’Aquilone”. Cura una collana di poesia.


Diciassette anni passarono prima di una nuova raccolta, L’estate degli ulivi, che uscì nel 1973. Ancora la Puglia come protagonista. Qui, però, a differenza della raccolta del 1950, si vivono più intensamente gli affetti familiari, letti come sentimenti veri e compassionevoli. Inoltre in questa raccolta la Puglia è rappresentata in tutte le sue mistiche e meravigliose ambientazioni paesaggistiche. La Puglia, e più in generale il Meridione, vengono concepiti come degli strumenti per indagare le loro spazio-temporalità, ormai ferme e immobili nella vita e nel tempo, che in queste modo non riescono a oltrepassare la normale esistenza. Solo attraverso il canto dei sui elementi naturali la Puglia potrà liberarsi dal suo secolare ed eterno patimento sociale. Il Sud è concepito da Serricchio come l’unico custode e protettore di un universo epico immensamente “calmo” e “affettuoso”, grazie anche a una spirituale sacralità colma di moralità e di dogmaticità.