“Sara libera” di Serena Maffia il 3 maggio a Roma

Seven Cults presenta “SARA LIBERA” di Serena Maffia con Lucia Ceracchi e Stefano Refolo sabato 3 maggio 2025 al Teatro Tor bella monaca di Roma.

Sara sarà libera? Da cosa? Una commedia che finisce in tragedia o una tragedia che finisce e basta? Chissà quante volte un uomo vi ha umiliate, vi ha derise, ha dettato leggi, vi ha fatto male. Siate libere: dovete volervi bene! Rispettatevi e pensate prima di tutto a voi stesse, perché ciò che conta è la vostra felicità. Cambiamo il mondo, cambiando prima di tutto noi stesse. È un testo della stessa Maffia, autrice dello spettacolo evento per il quale è possibile acquistare il biglietto cliccando qui.

“L’impronta lorchiana nella poetica di Emanuele Marcuccio”. Saggio di Lorenzo Spurio

Nel periodo immediatamente successivo alla diffusione della notizia della fucilazione del poeta granadino Federico García Lorca, avvenuta nell’agosto del 1936 nella campagna sterrata tra Víznar ed Alfacar, un gran numero di intellettuali, soprattutto di nazionalità spagnola e che avevano avuto l’opportunità di averlo conosciuto di persona e non solo tramite i suoi scritti, come oggi è dato a noi posteri, scrissero e dedicarono liriche, più o meno intimiste, talora aggressive e sfiduciate verso l’abominio della guerra civile, tal altra incentrate sugli sprazzi di amicizia rievocati nella tragica occasione. Tra di loro Antonio Machado, celebre per le raccolte poetiche Campos de Castilla e Soledades nelle quali è possibile rintracciare una pagina vivida di alcune tra le più importanti tendenze di inizio secolo scorso: il novecentismo e il modernismo.

Antonio Machado, che apparteneva a una generazione precedente a quella di Lorca, e ad un ambiente regionale profondamente diverso dall’Andalusia torrida e fiera dei romances di Lorca, ossia quello della Castiglia autentica, di quello scenario castizo nel quale la tradizione ci dice che fu culla della lingua e della cultura castigliana prima e spagnola poi, dedicò al granadino scomparso la celebre poesia “El crimen fue en Granada” volendo intendere con Granada non tanto la città dove pure Lorca con la sua famiglia visse per vari anni ma, come si dice in spagnolo, el entorno, ossia la zona di provincia ad essa prossima dove, appunto, secondo le documentazioni più attestate, avrebbe trovato la morte. Il condizionale è d’obbligo perché dalla data della sua fucilazione, modalità dell’esecuzione sulla quale gran parte degli storici sono concordi quasi da descrivere una posizione unanime, sino ad oggi si è prodotta una grande quantità di testi improntati a una resa biografica delle vicende di Lorca e vere e proprie cronache documentarie fatte di investigazioni, repertazione di materiali e tanto altro per cercare di poter scrivere in maniera più verosimigliante alla realtà quanto di drammatico accadde.

La stampa spagnola ha llevado a cabo, ossia ha portato avanti, nel corso degli anni e in maniera sempre più attenta e scrupolosa in tempi a noi più vicini, un particolare interesse documentario verso gli ultimi istanti della vita dell’uomo, del luogo del suo assassinio (ancora dibattuto e non localizzato con certezza) e soprattutto del seppellimento. Persistono, infatti, considerazioni diverse in merito al luogo di sepoltura che negli ultimi anni alcuni gruppi ideologici che conservano la memoria del poeta sono giunti alla richiesta di scavo di alcune delle zone identificate con i materiali documentari per provvedere all’esumazione del corpo ed, eventualmente, ad esami del DNA. Ma tale direzione delle ricerche storiche, che debbono essere necessariamente condotte per poter far chiarezza e cancellare la possibilità della formulazione di piste revisioniste che ne infangherebbero la memoria, è stata ben presto sbarrata dalla famiglia García Lorca quando decise di non dare il consenso all’esumazione dei possibili resti del congiunto per motivazioni di carattere personale.

Alcuni studiosi hanno anche avanzato la possibilità che Federico García Lorca in effetti non si troverebbe sepolto in qualche recondito spazio della campagna andalusa dato che uno dei suoi ultimi amanti, l’uruguayo Enrique Amorim, grazie alle sue fornitissime possibilità economiche avrebbe provveduto alla traslazione (o al vero e proprio furto?) della salma fatta arrivare sino a Salto (Uruguay) dove oggi sarebbero conservate le sue ossa in una cassa murata all’interno del monumento in onore a Lorca. Posizione questa che ha avuto poca eco e che non è mai stata accreditata sebbene lo scrittore peruviano Santiago Roncagliolo abbia deciso di dedicare un intero volume, con documenti alla mano, a sostegno di questa tesi[1]. Senza ombra di dubbio restano documentati l’affetto e l’amore di Lorca per Amorim al quale dedicò pure dei bozzetti e con ampia probabilità una serie di poesie che hanno finito, poi, per costituire la raccolta di Poemas del amor oscuro, ma reputo azzardata (pur non avendo letto il volume di Roncagliolo) la sua posizione soprattutto alla luce di una impraticabilità dell’esumazione dei resti avvenuta in sordina dalla famiglia, dagli enti locali e dalla Spagna tutta.

Ma per ritornare ad Antonio Machado nella lirica citata ci troviamo dinanzi a una elegia che utilizza un tono indignato con parole dure, tese a fotografare l’attimo di dolore catturato nella viltà della fucilazione: Mataron a Federico / cuando la luz asomaba. / El pelotón de verdugos / no osó mirarle a la cara […] / Muerto cayó Federico / -sangre en la frente y plomo en las entrañas[2].

Il pianto che parte da Granada, dal luogo del tragico misfatto, si fa nazionale, internazionale e cosmico abbracciando quanti hanno indefessamente difeso l’ideologia repubblicana (democratica) contro il franchismo (il totalitarismo). Il dolore è pungente, totalizzante e disarmante, privo di retorica e le descrizioni lapidarie di Machado sono altamente visive, tanto che riusciamo a veder scorrere sotto ai nostri occhi le immagini dell’abominio.

La seconda strofa del carme luttuoso che si intitola “El poeta y la muerte” è come un lento passaggio su uno stradello che ci incammina al camposanto. Il poeta ora non è più in compagnia del nemico, del torturatore, dell’annientatore delle libertà ma al contempo non è neppure solo: Machado trasmette qui un ultimo accorato tentativo dialogico di García Lorca; quasi non accettando la sua dipartita fa ancora parlare l’amico Federico in uno squarcio di conversazione profondamente lirica in cui il poeta appena deceduto si intrattiene con la Morte. Il crimine, come recita il titolo della poesia, accadde a Granada ma esso fu pianto in ogni angolo del mondo.

Pablo Neruda, con il quale García Lorca strinse una conoscenza piuttosto importante per entrambi durante gli anni di frequentazione della Residencia de Estudiantes a Madrid in una lirica a lui dedicata (prima della sua morte) lo definiva in maniera alquanto poetica con l’espressione sintetica di un naranjo enlutado[3] ravvisando nel Granadino sia la componente più primitiva, naturalistica e popolare caratterizzante la sua appartenenza all’Andalusia, terra di zagare e profumi speziati, sia una infelicità o una turbolenza di fondo nell’animo del poeta (forse dovuta dalla critica situazione politica venutasi a creare in Spagna con l’avvento della guerra civile e il fatto che venisse stigmatizzato dalla cultura ufficiale o ancora la sua condizione di omosessuale di certo non apprezzata né consentita dalla società ultra-moralizzatrice del periodo).

Queste sono solamente due delle testimonianze alla memoria di García Lorca che debbono necessariamente essere tenute da conto quando ci si avvicina alla sua poliedrica personalità come avviene in questo caso in cui l’amico e poeta palermitano Emanuele Marcuccio pone alla mia attenzione due liriche ispirate e dedicate al poeta granadino. Sono poesie già di mia conoscenza sia per averle apprezzate in lettura, sia per averle commentate in almeno una presentazione dei libri dell’autore ed anche per essermi occupato delle relative traduzioni in spagnolo.


Per uno come Emanuele Marcuccio che si è formato sui classici ed ha amato instancabilmente la poesia tradizionalista, si veda Leopardi, anima d’influenza notevole nella sua prima produzione e poi Pascoli e Carducci, aver posto l’attenzione nei riguardi di Federico García Lorca è cosa già di per sé notevole: sia per aver allargato lo sguardo verso una letteratura straniera, sebbene sia praticamente “sorella” di quella italiana, sia nello specifico per essersi interessato alla figura di un intellettuale come quello di García Lorca che ha al suo interno un universo di mondi tutt’altro che tradizionalisti e canonici. Di García Lorca in questi suoi due componimenti a Marcuccio non interessa tanto la sua produzione poetica (che dimostra, comunque, di conoscere per la scelta azzeccata e consona di alcune terminologie e simboli) né quella teatrale (García Lorca fu uno dei maggiori drammaturghi del secolo scorso, influenzato nel suo teatro da varie ispirazioni: dal surrealismo al comico-burlesco, sino alla serie dei drammi rurali, nonostante in Italia il suo nome venga richiamato spesso unicamente in relazione alla sua attività poetica), ma un evento determinante della stessa componente biografica dell’uomo: la sua morte.

García Lorca morì nel 1936, nell’anno che detta l’inizio di una dolorosissima guerra civile dove i repubblicani si scontrarono contro la frangia nazionalista dei militari appoggiati anche dai monarchici, dai carlisti e dalla Chiesa. Le tante battaglie che infuocarono il paese non furono solo dettate da una strenua difesa delle rispettive ideologie ma riguardarono per l’appunto anche la dimensione religiosa tanto che esponenti del bando repubblicano (socialisti, comunisti, anarchici, laici) provvidero anche a una serie di attacchi, saccheggi e distruzioni di luoghi religiosi con un gran numero di preti massacrati e giustiziati in processi sommari.

Chi conosce l’universo poetico di García Lorca sa che esiste nella sua visione del mondo una dimensione religiosa, un Dio, spesso insito nell’ambiente che lo circonda sebbene eviti di appellarsi a lui, di invocarlo o di pregarlo in una maniera che ci consentirebbe di definirlo una persona animata da un sentimento cattolico. Sappiamo anche che dal punto di vista ideologico e per il suo serio impegno nel sociale che lo portava sempre a schierarsi in prima linea per la difesa e la tutela dell’emarginato, il poeta si collocava all’interno della dimensione anti-militare, anti-nazionale. I nazionalisti, strenui difensori di un concetto di moralità intoccato e devoti al potere dell’onore, si scaglieranno duramente contro García Lorca ritenuto un rojo pericoloso perché persona con un grande seguito e portavoce di ideali repubblicani, democratici.

Ed è così che poco dopo le attività del teatro itinerante “La Barraca” ideato assieme ad Eduardo Ugarte sono stroncate e messe a tacere del tutto perché Lorca viene a rappresentare per i nazionalisti una spia comunista, un acerrimo nemico, profondamente temuto proprio per le grandi masse che lo apprezzano e lo seguono. Qualcosa di simile avverrà con la messa in scena dell’opera teatrale Yerma nella quale Lorca mette in scena la storia di una donna che, a causa della sua infertilità e della anaffettività e trascuratezza del marito, finirà per perdere la testa e rendersi colpevole di uxoricidio. Nell’opera, al di là del tragico epilogo, la finalità era quella di diffondere e inscenare un universo domestico in cui la donna (che nella visione dei nazionalisti deve essere assoggettata all’uomo, l’unico padrone, perché ad egli è inferiore) non solo non accetta i divieti coniugali che le impongono di essere relegata in casa e di non intrattenere conversazioni con nessuno, ma addirittura si arma della propria forza fino ad allora repressa ed affronta, con violenza, il marito, fino a vincerlo e ucciderlo. Sono contenuti, questi, estremamente pericolosi che mettono in scena un ribaltamento sconveniente per i nazionalisti nel modo di intendere la famiglia spagnola: non più il patriarca o padre-padrone che comanda e la donna che esegue, ma la donna che, stanca e sfiduciata, razionalmente portatrice di una visione ugualitaria, cerca ed ottiene l’equiparazione dei sessi, smitizzando i pilastri della società retrograda.

Perché García Lorca viene assassinato? È presto detto: perché è una persona temuta e fastidiosa per il neonato regime totalitario, perché è portavoce di ideali repubblicani nutriti dalla difesa della democrazia e dal rispetto delle libertà, perché è un intellettuale di spicco con una grande presa sulla società, perché con la sua letteratura (il teatro itinerante “La Barraca” e la trilogia drammatica) è portavoce di una società provinciale retrograda e dispotica in cui la donna è considerata inferiore, perché sfida lo stringente concetto di onore di impronta settecentesca, lo minaccia, lo de-costruisce e ne mette in luce le idiosincrasie nel suo periodo; perché è omosessuale e in quanto tale portatore di una stravaganza di fondo che non collima con la rettitudine e l’austerità del pensiero anti-liberale dei nazionalisti difensori dell’idea del “sesso forte”.

Ma non è solo questo, infatti in tempi a noi più recenti alcuni studiosi hanno voluto leggere nell’omicidio di Lorca non il motivo ideologico-politico ben noto a tutti, quanto, invece, un terribile episodio di vendetta, un regolamento di conti tra esponenti di famiglie storicamente avversarie nella Vega[4] granadina. In particolare è Miguel Caballero Pérez il difensore di questa tesi che viene esposta in maniera documentata nel suo recente libro nel quale non manca di portare episodi concreti di animosità e vere e proprie lotte familiari per il controllo e il prestigio nella zona.[5] Questo per dovere di cronaca per quanti vorranno effettuare maggiori letture ed analisi in tale direzione ben tenendo in considerazione, comunque, che a tutt’oggi la pista più creduta e credibile, data per ufficiale, sia quella che vide Lorca assassinato per ragioni ideologiche (la sua adozione alla Repubblica) e per oscenità/discredito della morale (la sua omosessualità).

Per tornare ai componimenti di Emanuele Marcuccio è necessario osservare come il linguaggio tendenzialmente rilassato del poeta si faccia in queste liriche fortemente spietato, condensato nelle immagini e pregno di desolazione. In “Assassinio: Terzo omaggio a García Lorca”[6] (poesia scritta il 18 dicembre 1997):

Putrida vena,

d’un orizzonte disseccato.

I nardi esplorano

il loro chiacchiericcio inconsueto,

e nuvole di fango inondano

coi loro piombi infuocati.

Un’alba azzurra

si stende solitaria

su ambiguo crocevia,

e un riverbero di verde luna

si accende, su occhi di fumo.

Marcuccio esordisce con un verso forte dal quale traspare vivida una suggestione olfattiva nauseante collegata da subito al tema della corporeità e del sangue (una delle immagini-simbolo nella produzione di García Lorca): “putrida vena”. Il Nostro però sembra volersi interessare qui, più che al fermo immagine di una scena di guerra in cui la morte è fagocitata dal processo di decomposizione del corpo che produce un olezzo “putrid[o]” alla definizione del paesaggio, cioè al tratteggiamento del locus che ospita la nefanda azione umana. È quello di uno scenario abbandonato, stepposo, arido e apparentemente privo di presenze umane; quell’ “orizzonte disseccato” è uno spazio-trappola nel quale il Sole, unico indiscusso sovrano e il silenzio dei campi sembrano eludere ogni altra presenza che, invece, si farà viva e in maniera alquanto sadica nel corso della lirica.

L’occhio del Marcuccio si posa con meticolosità negli “angoli” di quella campagna che apparentemente è una campagna comune e che non ha nulla di particolarmente rilevante se non fosse che i nardi (fiori che pullulano di vita nelle poesie lorchiane[7]) vengono colti nel loro “chiacchiericcio inconsueto”. Sono i primi testimoni del massacro, la natura è pavidamente spettatrice dell’abominio che di lì a poco si consumerà dinanzi ai propri occhi, impotente e addolorata essa stessa. Le “nuvole di fango”, se si eccettua il verso d’apertura, è la prima immagine perturbante che interviene nella lirica a descrivere un cielo coperto e minaccioso, ben diverso da quel sole accecante che il lettore ha potuto cogliere, non nominato, nei precedenti versi che descrivevano un “orizzonte disseccato”.

Inizia in questo modo la parabola degradante della poesia: Marcuccio costruisce in primis con soverchia attenzione il setting dell’azione passando poi a connotarne con particolarità alcuni degli elementi che lo compongono sino a che il cielo sembra abbuiarsi di colpo e farsi di “fango”, indistinto, melmoso, viscido e pesante; il grigiore vacuo del cielo lascia ben presto il posto a quello ben più doloroso delle munizioni d’artiglieria colte nel momento del fuoco.

Il silenzio della campagna, prima armonizzato dalla presenza di un lieve “chiacchiericcio” dei nardi, ora è rotto per sempre in maniera irreparabile. I “piombi infuocati” sono stati azionati e hanno colpito i bersagli[8]. È il momento della morte fisica del poeta, della sua caduta scomposta a terra, faccia sull’erba secca, della fine delle speranze e al contempo un ammutinamento della natura che, indifesa e oltraggiata, non è capace di osservare il sangue che cola a terra.

La poesia è sapientemente costruita tenendo in considerazione un’ampia realizzazione temporale che si delinea in un prima della fucilazione e in un dopo. Il post-mortem lorchiano è investito da una “alba azzurra” che ha perso, però, la coralità autentica della natura e il conforto del cantore del popolo e infatti essa appare “solitaria” quasi da stonare con quella scena di morte che si è consumata nelle ore precedenti sotto di essa.

Tutto a questo punto resta galleggiante nell’indefinitezza, nell’impossibilità di caratterizzazione, ora che è morto il poeta che più di ogni altro aveva cantato la Terra: l’alba è “solitaria” e anche il crocevia nei pressi dei luoghi della tragedia è “ambiguo”. Sia perché, come detto sopra, il luogo dell’esecuzione di Lorca non venne mai identificato con indubbia certezza e permangono ancor oggi posizioni discordanti in merito, sia perché è inutile dinanzi alla Morte che esacerba dolori e sconfigge il tempo utilizzare un metro toponomastico: non ha senso identificare quale sia il crocevia della Morte perché in ogni spazio ora si rammenta il lutto e ci si strugge.

Marcuccio mostra di aver letto con profondità le liriche del Nostro e di conoscerle con doviziosità, soprattutto nel momento in cui mostra interesse verso la componente cromatica degli elementi, aspetto che costituisce uno dei nerbi costitutivi della liricità lorchiana. Ed ecco che dopo il giallo accecante dei campi “disseccat[i]”, il grigio scuro delle nuvole, l’argento pesante del piombo fuso, il rosso dell’incandescenza dei colpi d’arma da fuoco e del sangue, sopraggiunge prima l’azzurro a rischiarare l’ambiente come una sorta di purificazione e ancora, la luna nel suo “riverbero di verde”. La luna quale simbolo nella “mitologia” lorchiana è sempre sintomo o sinonimo di morte così come lo è il verde: si pensi ad Adela in La casa de Bernarda Alba che, contro il parere della madre che la obbliga a vestire il lutto per la morte del padre, decide d’indossare l’abito verde e deroga a una serie di atteggiamenti che le sono stati imposti tanto da divenire una delle “ribelli” lorchiane più note. Chi conosce il dramma sa anche che a dispetto di tanto vitalismo ed energia (altro significato del verde visto nel cambiamento e nella fertilità) al termine la ragazza troverà la morte in una delle scene più commoventi dell’intero teatro del Nostro.

Ed è così che in chiusura, dopo aver tratteggiato l’ambiente naturalistico che accoglie la morte e avendoci fornito l’immagine sonora della fucilazione, che Marcuccio ritorna a serrare le fila sul corpo martoriato del poeta. I suoi “occhi di fumo”, ormai vacui ed eternamente incantati, privi di lucidità e di movimento sembrano rilucere sotto quella luna argentea e rimandare l’errore sperimentato negli ultimi istanti di vita. La luna è così testimone di una morte dolorosa che ogni notte, con il suo lento incedere nel cielo, sembra riproporsi con la sua inaudita ferocia. Quegli occhi svuotati, ormai fatti cenere rappresentano lo sguardo mitico di un uomo che ha combattuto con la parola in difesa del diverso e che ha ricevuto l’oscuramento dell’esperienza visiva quale condanna estrema, proprio lui che era affranto di luce e signore indiscusso nell’utilizzo della tavolozza dei colori.

Nell’altra poesia lorchiana di Marcuccio (“Omaggio a García Lorca”, scritta il primo maggio 1997)[9]

Felce d’azzurro,

scrosci di tempesta vespertina,

autunno vaporoso e nodoso,

rammarico dell’ormai svanito,

vita rossa di sangue coagulato,

erpici identici e convessi

in un plotone di fucileria,

schizzi incandescenti trasvolano

per la dura terra,

per un cielo di speranze placate,

di ardente divampamento di luce

a foggia di croce,

verso un punto centrale.

ritroviamo il livore del colore azzurro, ora legato all’immagine muschiosa della felce a descrivere uno scenario naturalistico più paludoso e umido, differente rispetto al precedente in cui l’azione bruciante del sole aveva prodotto campi “disseccat[i]”.

Pur condividendo una sintassi aspra e tagliente, in linea con la durezza degli elementi evocati, questa poesia si discosta dall’altra per aver maggiormente i connotati di una vera e propria elegia. La lirica, infatti, non fotografa il momento della fucilazione, del trapasso dell’uomo, e ha piuttosto la fisionomia di una commemorazione nei tempi successivi all’assassinio: si parla di “autunno vaporoso e nodoso” benché Lorca venne ucciso nell’estate del 1936 ed è da intendere, allora, il ricordo doloroso che Marcuccio ne fa attraverso il tempo, ripensando all’atto nefando che provocò la morte del poeta. Non a caso è richiamato il “rammarico dell’ormai svanito”: a questo punto la storia è stata scritta e non c’è niente da fare se non tributarne il ricordo (diversamente dall’altra lirica che, invece, verseggia l’accadimento nefasto quasi in presa diretta).

Il sangue non è liquido e neppure caldo, non sgorga dal corpo, i zampilli non imbevono la terra (come avveniva nell’elegia Llanto por Ignacio Sánchez Mejías che Lorca dedicò all’amico e torero) poiché il sangue si è rappreso, il sole lo ha seccato e il trascorrere del tempo lo ha “coagulato” privandolo della sua materialità fluida da divenire roccia di una vita ormai tramontata. E conseguentemente segue il ricordo visivo del momento dell’esecuzione con gli “schizzi incandescenti” di vita del poeta che, trivellato da colpi alle spalle, finiva per esalare gli ultimi respiri.

La terra si è fatta “dura” perché le stagioni l’hanno appiattita, impoverita, sfruttata ma anche perché è l’uomo che l’ha esacerbata e oltraggiata con l’azione ignominiosa e perché è lui a essere duro (cinico e insensibile). La vita, vista nel regolare scorrere dei fluidi, ha subito un arresto che l’ha condotta a un processo di deumidificazione e vera e propria corificazione. Solo il cielo, allora, proprio come avveniva nella lirica precedente, sembra mantenere il suo stato di materia, vacuo e aeriforme, uno spazio incontaminato che, però, fa da cappa stagnante a quanto sulla terra accade. L’accecante luce di un “ardente divampamento” sembra quasi il riflesso di un rogo disumano che ha la sembianza indistinta di una forma ectoplasmatica dotata di luce propria, impossibile da concepire che marca il luogo della disfatta e della viltà umana.

Le immagini costruite dal Marcuccio, la “putrida vena”, le “nuvole di fango”, gli “schizzi incandescenti”, l’ “ardente divampamento”, apparentemente stridenti perché costruite spesso su sistemi di sineddoche e sinestesie trasmettono con vividezza la scena di dolore e sono altresì capaci di far risaltare dimensioni sensoriali quali l’udito nel boato del fucile, la caduta, goffa, del corpo a terra e di far echeggiare quel silenzio massiccio e pungente che come un manto torna a coprire la scena dopo l’oltraggio al mondo della natura. La meticolosa resa visiva delle immagini tanto da poter parlare di un concretismo materico iperrealista, contribuisce nettamente alla trasposizione di un sentimento profondamente indignato e offeso verso lo scempio perpetuato. I tragici quadri paesaggistici ed emozionali si fanno così proclami di un’ingiustizia dolorosa dovuta alla messa al bando delle libertà fondamentali e al contempo costruiscono visivamente un manifesto convinto alla lotta non violenta e alla salvifica confessione nella Parola.

LORENZO SPURIO

Jesi, 10 agosto 2015 


[1] Santiago Roncagliolo, El amante uruguayo. Una historia real, Alcalá Grupo Editorial, 2012.

[2] “Ammazzarono a Federico / quando la luce spuntava. Il plotone dei boia / non osò guardarlo in faccia […] / Cadde morto Federico / -sangue alla fronte e piombo negli intestini”.

[3] Un arancio in lutto.

[4] Pianura.

[5] Miguel Caballero Pérez, Las trece últimas horas en la vida de Garcia Lorca: el informe que da respuesta a todas las incognitas sobre la muerte del poeta: ¿Quién ordenó su detención?, ¿Por qué le ejecutaron?, ¿Dónde está su cuerpo?, La Esfera de los libros, 2011.

[6] Emanuele Marcuccio, Per una strada, SBC, Ravenna, 2009, p. 75.

[7] Si legga ad esempio l’incipit del “Romance de la luna, luna”: “La luna vino a la fragua / con su polisón de nardos” (“La luna arrivò alla fucina / col suo paniere di nardi”).

[8] Anche se ci interessiamo alla sorte del poeta va osservato che venne fucilato assieme ad altre persone che vennero poi gettate in un’unica fossa.

[9] Emanuele Marcuccio, Per una strada, SBC, Ravenna, 2009, p. 74. Entrambe le poesie fanno parte di un ciclo di quattro che, scritte tra il 1997 e il 2000, Marcuccio ha dedicato al grande poeta spagnolo, con l’intento di rivisitarne lo stile. L’intero ciclo è edito in Per una strada e nel marzo 2013 è stato da me tradotto in lingua spagnola. 


Questo saggio è stato pubblicato sulla rivista «Quaderni di Arenaria – Nuova Serie», Palermo, vol. VIII, 2015, pp. 20-27, link: www.quadernidiarenaria.it/volumi/quadernidiarenaria-volume8.pdf, Sito consultato il 05/05/2021 (Si ringrazia il prof. Lucio Zinna per la pubblicazione sulla rivista) ed è stato riproposto sul profilo personale Academia.edu dell’autore.


La pubblicazione del presente saggio, in formato integrale e/o di stralci, su qualsiasi tipo di supporto, non è consentita senza l’autorizzazione da parte dell’Autore.

“L’urlo più alto è tagliente”, poesia di Lorenzo Spurio con un commento di Lucia Bonanni

“L’urlo più alto è tagliente”

Poesia di Lorenzo Spurio©

 

Non potevi sapere che il cielo

indossa tacchi alti quando

le nuvole, nei fianchi, lo scuotono.

Ecco perché le punte si vedono

anche quando credi che la forma

si sciolga in filamenti pervinca.

Quella povera dannata non ha respirato:

l’hai conficcata nella terra più nera.

L’animo libero e frugale ma

un cuore dilaniato per l’amore rinchiuso

in una cella di silenzio senza vani

aggiuntivi, per una fuga tra polvere spessa.

Ha saputo fare un cappio così saldo

e separato per sempre la notte dal giorno

nell’acqua che d’estate sembra muoversi

mentre un grillo s’acquatta deluso.

Bernarda, che imponi il silenzio eterno,

non sai che il cuore palpita di metallo

nei meccanismi rabbiosi, ingranaggi senz’olio

che non danno tregua al presente.

Nelle lacrime fluenti d’un’intera famiglia

dove trovi il potere di annullare ciò che è stato?

Giungeranno mille villici, ubriachi e sbandati

a pretendere le verdi carni delle tue figlie, caste

e vergognose – imèni ispessiti dagl’anni-

nel grido di lotta che Adela comanda dall’aldilà,

vento tagliente che scuote, percuote e aizza

l’animo che narra la perdita e cerca fiducia

per brandire la verità contro la legge dello sprezzo.

Romperai la quiete della campagna

e ritornerai fanciulla gaudiosa.

 

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Commento critico di Lucia Bonanni

Risuonano nel componimento di Lorenzo Spurio “L’urlo più alto è tagliente” fruttuose conoscenze che danno vita ad ampie scritture e portano il lettore a immedesimarsi con quella che è l’ alma presente di Federico García Lorca nei vari elementi della Natura, una realtà sempre utile e benevola e mai ostile per l’uomo, un binomio ancestrale che sa custodire il segreto della forma ubiqua, assunta dal poeta dopo il monstruoso crimen político.

Il livello simbolico e le modalità evocative, oltre che alla componente ecologica, rimandano anche alla profonda attenzione che Federico riserva al mondo degli emarginati. Infatti, “privo di qualsiasi tessera di partito, fu sempre considerato eversivo da parte dei nazionalisti proprio per il suo magnetismo filantropico”[1] e la risposta alle insidie degli oppositori sono sempre le mani intrecciate “in un crocevia di fiumi” che nel canglore dell’assassinio trovano fine nelle “fontane spente” dei suoi occhi. Anche l’attenzione alle vicende femminili, sia nel linguaggio del teatro che si fa vita che nelle varie ambientazioni rurali e cittadine, denota la passione empatica che Lorca nutre verso i più deboli e l’urgenza di dare identità a chi è vittima di violenze e soprusi. Quindi la sua poesia, sempre tesa al riscatto degli ultimi, è poesia etica e sociale. Tra l’altro, nel saggio “Sulle poesia civile: riflessioni”, Spurio si chiede come i tre aggettivi “civile, sociale ed etico” possono interscambiarsi ed essere perno di un genere poetico con carattere universale, essere veicolo di comunicazione, impegno civile e denuncia delle problematiche sociali per certe caratteristiche quali “aspetto democratico, ambientale, emozionale, multidisciplinare, interlocutorio, un linguaggio lineare e pragmatico”[2].

Già il titolo di questa sua nuova poesia, “L’urlo più alto è tagliente”, può essere letto come un frammento lirico, un bozzetto ideato per un evento tragico, una sincope musicale, un canto soffocato. La combinazione tra i lemmi “urlo, alto, tagliente” si volge in formula alchemica, esplicata mediante un tipo di espressività visiva che scuote e resta impressa nella mente. L’urlo è un qualcosa che squarcia il silenzio, fa trasalire, graffia la quiete, acuisce la sensazione di disturbo, lascia impronte di disagio tanto più, se nell’accezione di comparativo e di predicato nominale è assimilato a un’arma dal taglio affilato, netto, che incide e va a fondo mentre nell’aggettivo “tagliente” è insita la locuzione della sindrome del coltello più volte evocata da Lorca nei suoi drammi rurali. Il cielo è archetipo primordiale che rimanda al maschile, invece le nuvole, con la loro bellezza e il loro movimento, creano forme da interpretare quali metafore del mistero, della fecondità, della leggerezza e della vanità della vita.

Nei primi versi quel cielo che si alza verso lo spazio, se le nubi ne pungolano i fianchi e le cui punte possono essere viste anche quando la forma delle particelle d’acqua si muta in una luminanza color pervinca, richiama la passione amorosa, la sensualità dell’abbraccio e la sfida alle tante retoriche sulla convivenza infruttuosa. E qui non è dato eludere il richiamo a Yerma, un “orbo pompelmo”, una donna infeconda con le “mammelle avvizzite dalla disperazione” e incapace di dare frutti per colpa di un marito che si attarda con lei in abbracci freddi e rinsecchiti come i cardi che popolano le zone campestri. Ma Adela, la farfalla verde, non è una donna stantia, anela alla libertà e sa incanalare la propria femminilità nell’amore per Pepe il Romano, già promesso sposo di una delle sorelle. È l’autorità di Bernarda, donna tutt’altro che rasserenante, che tutto impone e dispone, a confinare la giovane in una gabbia di silenzio e a renderla una dannata, confitta nelle zolle di una terra nera, spasimo e terrore tenebroso che la induce a intrecciare non un nodo d’amore, ma una legatura di morte, parabola ingiuriosa che la farà fuggire tra la “polvere spessa” dell’oscurità.

I personaggi femminili delle opere lorchiane sono emblema della necessità del poeta di porre sotto una luce diversa le ingiustizie subite da esseri deboli e tormentati. Così “il ribellismo di Adela dovrà fare i conti con le militaresche imposizioni dell’arcigna madre (e) morirà giovanissima in un suicidio indotto; Yerma, addolorata per la sua infertilità, finirà per farsi dominare da uno spirito di morte, uccidendo il marito; Mariana Pineda finirà per diventare eroina della causa, mettendo a serio rischio la sua incolumità”[3].

Nei versi di Spurio si nota il tema dell’acqua che nell’opera lorchiana assume carattere di iterazione semantica e funzione allegorica. Il poeta andaluso distingue tra “un’acqua di vita e un’acqua di morte”, la prima è quella chiara e pulita che scorre e fluisce, portando fertilità alla campagna mentre l’altra ristagna nei pozzi, imputridisce e manda cattivo odore, lasciando spazio alla necrosi dei corpi. L’acqua menzionata da Spurio, è un’acqua venenosa perché in essa è immersa la separazione tra la notte e il giorno, tra la luce dell’amore e l’ombra del distacco, scelta indotta e mediata e poi voluta da Adela col suo atto estremo. È un’acqua strana “che d’estate sembra muoversi” in cerca dell’amore negato per una separazione perentoria senza possibilità d’appello; ma il palpito dell’animo come una presenza terribile non consente quiete al dolore acre “di un’intera famiglia”, un gineceo dominato da una madre che non concede proroghe e obbliga a una reticente mascherata circa il pudore perduto della figlia.

Si può affermare che quella di Adela e Pepe il Romano, è una coppia fatale, soggetta al potere di Eros e Afrodite come lo sono alcune coppie della mitologia greca narranti situazioni in cui gli dei dell’amore non si peritano ad agire dove esistono legami di coppia per cui alla perdita della compagna o del compagno, segue sempre uno strazio raccapricciante. Per questo Adela fugge dalla vita per cercare una morte che sia luce, perdendosi nel chiaroscuro di impronte scalfite di un luogo dove non esiste sorriso e là può involare l’indaco del suo cielo “mentre la gente cerca silenzi di cuscino/(e lei palpita) per sempre definita nel suo anello”[4]. Ma poi, nuova Lisistrata, come vento che sferza le coscienze la giovane dannata incita le sorelle alla rivolta e saranno i villici che si accompagnano al coro dei mietitori con gesti rudi a violare il candore annoso di quelle donne sfiorite, adesso disposte a “brandire la verità” al pari di un’arma affilata contro le velleità sprezzanti della madre. E conclusione del ciclo stagionale come Persefone anche Adela tornerà sulla terra per rompere il silenzio allucinato della campagna e con la sua prorompente giovinezza far germogliare le sementi e ricoprirla di fiori e fronde rinverdite in un abbraccio ideale che sa colmare anche il vuoto della perdita.

Un componimento visivo, amorevole,  appassionato in cui l’autore esprime grande sensibilità, senso etico e  attenzione sociale; un  fluire di versi che sono acqua di vita e sanno generare la freschezza del sentimento e la malinconia dell’addio in un crescendo di pathos che sfocia nel lirismo incontaminato del distico che in un tempo circolare chiude e sembra riaprire il componimento medesimo mediante l’uso di una sintassi lineare, pragmatica  e forte di contenuti.

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Spurio Lorenzo, “Un nardo reciso. Le ultime ore di Federico e il lutto della poesia” in AA.VV., La memoria, a cura di Michele Melillo e Giancarlo Micheli, Ladolfi, Borgomanero, 2016.

Spurio Lorenzo, “Sulla poesia civile: riflessioni”, saggio online

Spurio Lorenzo, Tra gli aranci e la menta. Recitativo per l’assenza di Federico Garcia Lorca, PoetiKanten Edizioni, Sesto Fiorentino, 2016

García Lorca Federico, Poesie, Newton Compton, 2007

[1] Lorenzo Spurio, “Un nardo reciso. Le ultime ore di vita di Federico e il lutto della poesia”, in AA.VV., La memoria, a cura di Michele Melillo e Giancarlo Micheli, Ladolfi, Borgomanero, 2016.

[2] Lorenzo Spurio, “Sulla poesia civile: riflessioni”, rif.

[3] Lorenzo Spurio, “Un nardo reciso. Le ultime ore di vita di Federico e il lutto della poesia”, in AA.VV., La memoria, a cura di Michele Melillo e Giancarlo Micheli, Ladolfi, Borgomanero, 2016.

[4] García Lorca, “La bambina annegata nel pozzo” in Poesie, Newton Compton, 2007, pag. 311

 

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La giornata della memoria delle foibe. Una poesia di Nazario Pardini per riflettere

Foibe istriane

Per ricordare la Giornata in memoria delle foibe che ricorre oggi propongo a continuazione una poesia drammaticamente bella, profondamente espressiva dedicata proprio al massacro che riguardò gli esuli istriani sotto il regime comunista di Tito.

 

Carso

di NAZARIO PARDINI

Sopra i suoli dei declivi

del Carso, ci apparve poi una donna

novantenne, coi fiori nelle mani

tremolanti. Sopra quella neve

(rossa neve di morte fu il suo dire

del quale noi restammo assai perplessi

e certamente avvinti) rovistava

per dissodare un varco. Poi si aprì

ai nostri occhi una voragine di un

cunicolo di monte. Sono tipiche,

in quei pianori carsici, le foibe.

Pochi i raggi di sole incastonati

in quei tepali brevi di stagione

tra la neve macchiata dal livore

delle rocce supreme. Con la voce

rotta dall’emozione volse l’occhio

al nascosto strapiombo: “Inverne fosse

che contenete i resti di mio figlio

in fondo al ventre buio, ricevete

questi colori memori di luce.

Fate che questi sprazzi di giardino

che vide i nudi piedi barcollanti

di lui che fu bambino,gli ricoprano

i resti mescolati assieme a tanti

di cui conosco i nomi. Il solo cippo

al quale posso dire una preghiera

è questa nuda pietra, silenziosa

compagna di due legni messi in croce

che solo io conobbi e solo io

ne eressi l’esistenza. Troppe voci

non si udirono più, troppo potere

si scordò di quel sangue”. La mia anima

si rivolse alla donna che in silenzio

chiedeva solamente

rispetto del dolore. Ripeteva 

le solite parole un po’ sconnesse

tra di sé. “Coi camion, mi dicevano,

li portano al lavoro. Camion zeppi

di giovani, di vecchi. Ma tornavano

vuoti. E vuoti ritornavano dai lividi

sentieri. Mi dicevano che i camion

li avrebbero portati sul lavoro

in cima al monte. E muti ritornavano,

ritornavano vuoti verso il piano”.

Poesia estratta da NAZARIO PARDINI, “Si aggirava nei boschi una fanciulla”, ETS, Pisa, 2000, pp. 43-44.

“La luna e i falò” di Cesare Pavese, recensione di Anna Maria Balzano

La luna e i falò
di Cesare Pavese
Newton & Compton, 2010
ISBN: 9788854118911
Numero di pagine: 143
Costo: 10 €
 
Recensione di Anna Maria Balzano

LA_LUN~1Non mi sembra un paradosso affermare che La luna e i falò di Cesare Pavese è un romanzo in bianco e nero. Scritto nel 1950, appartiene al miglior neorealismo italiano: si pensi a Roma città aperta di Rossellini (1945), Ladri di biciclette (1948) e Umberto D (1952) di De Sica. Nel romanzo di Pavese, però, non è la città, ma il mondo contadino che fa da sfondo ed è protagonista al tempo stesso della narrazione. Una prosa limpida rende la lettura immediata e scorrevole: la parola corrisponde esattamente al suo significato, senza alcun abbandono a metafore o allegorie, ma con qualche sporadica libertà dialettale.

La narrazione procede in prima persona, nella migliore tradizione autobiografica, che lascia il dubbio sulla perfetta coincidenza tra protagonista e autore; come sempre in questi casi, il racconto viene filtrato dal punto di vista del narratore. Qui la storia procede come un viaggio nella memoria di un giovane emigrato che torna al paese d’origine dopo aver fatto un po’ di fortuna. Ma è proprio sull’origine che si richiama immediatamente l’attenzione del lettore: del protagonista-narratore non ci viene detto neanche il nome, ma solo il soprannome Anguilla; di lui si sa però che è un bastardo, allevato da contadini con la prospettiva di disporre in futuro di braccia valide da impiegare nei lavori dei campi.

Radici fragili, dunque, quelle di Anguilla, radici superficiali come quelle delle viti piuttosto che profonde come quelle di altri frutti. Eppure l’esigenza di un ritorno alle origini è così naturale nell’uomo che Anguilla non esita a tornare nei luoghi dell’infanzia anche a costo di rinnovare umiliazioni e ferite sofferte; e il realismo descrittivo di Pavese suscita profumi e odori penetranti, crea immagini di corpi deformati dalla fatica dei campi, dipinge scene di coralità campestre, con una tecnica quasi cinematografica, dove la parola fa da supporto all’immagine e l’immagine dà significato alla parola.

imagesI ritmi della vita contadina sono inevitabilmente legati al succedersi delle stagioni e alle credenze popolari:  dunque la luna non è solo l’astro che diffonde il suo raggio luminoso accentuando il mistero nascosto tra le vigne delle Langhe, ma è il punto di riferimento per le attività contadine, così come i falò vengono accesi per evocare la pioggia con l’umidità evaporata dal terreno.

Il racconto di Pavese, però, non concede nulla all’idillio: la tragedia della guerra civile che dilania l’Italia degli anni quaranta, è in agguato nel racconto ed esploderà alla fine, come esplode la vita di chi, consumato da ritmi faticosi e stressanti, non regge alla durezza del lavoro quotidiano e compie una strage: è il caso di Valino, che lascia il piccolo storpio Cinto alle cure di Anguilla e Nuto.

L’amore stesso s’accompagna alla morte, come nel caso di Irene e Silvia le cui esistenze si concludono tragicamente: quasi un presagio nella storia personale di Pavese. E la più bella delle tre sorelle, Santa, non sfugge a un tragico destino. In cerca d’una felicità sempre negata, come le sue sorelle, si lascia andare ora all’uno ora all’altro, incurante se siano d’opposti schieramenti politici. Il suo corpo straziato dalla fucilazione verrà arso sul luogo stesso dell’esecuzione: da esso si alzerà il più crudele e macabro dei falò. Come a voler affermare che non c’è luogo, neanche il più lontano dalla lotta civile e politica, dove la pace possa regnare se essa non alberga nel cuore dell’uomo. 

ANNA MARIA BALZANO

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