Per ricordare la Giornata in memoria delle foibe che ricorre oggi propongo a continuazione una poesia drammaticamente bella, profondamente espressiva dedicata proprio al massacro che riguardò gli esuli istriani sotto il regime comunista di Tito.
Carso
di NAZARIO PARDINI
Sopra i suoli dei declivi
del Carso, ci apparve poi una donna
novantenne, coi fiori nelle mani
tremolanti. Sopra quella neve
(rossa neve di morte fu il suo dire
del quale noi restammo assai perplessi
e certamente avvinti) rovistava
per dissodare un varco. Poi si aprì
ai nostri occhi una voragine di un
cunicolo di monte. Sono tipiche,
in quei pianori carsici, le foibe.
Pochi i raggi di sole incastonati
in quei tepali brevi di stagione
tra la neve macchiata dal livore
delle rocce supreme. Con la voce
rotta dall’emozione volse l’occhio
al nascosto strapiombo: “Inverne fosse
che contenete i resti di mio figlio
in fondo al ventre buio, ricevete
questi colori memori di luce.
Fate che questi sprazzi di giardino
che vide i nudi piedi barcollanti
di lui che fu bambino,gli ricoprano
i resti mescolati assieme a tanti
di cui conosco i nomi. Il solo cippo
al quale posso dire una preghiera
è questa nuda pietra, silenziosa
compagna di due legni messi in croce
che solo io conobbi e solo io
ne eressi l’esistenza. Troppe voci
non si udirono più, troppo potere
si scordò di quel sangue”. La mia anima
si rivolse alla donna che in silenzio
chiedeva solamente
rispetto del dolore. Ripeteva
le solite parole un po’ sconnesse
tra di sé. “Coi camion, mi dicevano,
li portano al lavoro. Camion zeppi
di giovani, di vecchi. Ma tornavano
vuoti. E vuoti ritornavano dai lividi
sentieri. Mi dicevano che i camion
li avrebbero portati sul lavoro
in cima al monte. E muti ritornavano,
ritornavano vuoti verso il piano”.
Poesia estratta da NAZARIO PARDINI, “Si aggirava nei boschi una fanciulla”, ETS, Pisa, 2000, pp. 43-44.
Stupenda poesia!
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Versi intensi e significativi. Una bella penna che coinvolge emotivamente dal primo all’ultimo verso.
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Una poesia racconto, struggente ed emozionante. Un modo incisivo –da poeta- per raccontare la storia inquietante del nostro disumano, terribile secolo passato.
Il Carso nudo, innevato, solitario, una vecchia donna, novantenne, tremante, dalle parole stravolte, smangiate, porta i suoi fiori. Cerca, rovista, si muove nel labirinto carsico del paesaggio spoglio, nudo, vuoto, così simile al suo cuore, nella voragine…: ecco la foiba livida, macchiata, arida , strapiombante.
Si alza una preghiera mormorata, un monologo allucinato, perché vi nasca un giardino colorato, consolante intorno alla croce desolata. Ripete la vecchia con voce sconnessa la sua storia, il suo dolore….Quale colore ha il dolore? quale voce ha lo strazio? Di quante sintesi dolorose di pianto e di urla è fatto il silenzio? In quali memorie si annulla il tempo?
La parola della poesia, una parola smangiata, che sorge dal nulla e dal vuoto, è quella che rispecchia la vita, che non è mai un mosaico rassicurante fatto tutto di tessere piene.
Il ritmo misurato dell’endecasillabo, verso di assoluto nitore pardiniano, dà forma al racconto con un ritmo circolare perfetto, con la parola dimessa, quotidiana, così adatta al tema, e che accompagna la volontà narrativa, ti prende il cuore, la forza dell’evocazione suggerisce e commenta il dolore con sobrietà mirabile, misura classica, in un saldo equilibrio creativo fra il dire e il sentire, paesaggio e stagione.
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Una bellissima poesia, che è racconto, che è storia e che è emozione ! Pathos intrecciato alla realtà, crudele, terribile, devastante. Musicalità e ritmo nei versi, incalzanti e coinvolgenti.
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