“Verso la luce” di Rita Fulvia Fazio, recensione di Ester Monachino

Recensione di ESTER MONACHINO

L’autrice del libro

Introdotta da un intenso testo di Nazario Pardini, che ben mette a fuoco i movimenti interiori che fanno da basalto nella scrittura poetica di Rita Fulvia Fazio, leggiamo la recente silloge poetica Verso la luce edita da The Writer; ben assaporiamo questo mobile momento del percorso poetico della Fazio, certamente non sedimentato in alcunché di manieristico o di scontata versificazione. Incarnate in un linguaggio vivo e mobile, le composizioni plasmano una espressività cristallina e felicemente prensile.

Tema portante è l’Amore che ha ed è Luce: il poeta nella sua ricerca incessante e consapevole avvia in sé, e specularmente nell’alterità oggettiva, un processo di riconoscimento etico ed estetico pronunciabile e pronunciato in versi.

Attingere all’ineffabile è certamente arduo ma la predisposizione alla Luce innesca nell’animo poetico uno svelamento che è conduttore alla chiarezza.

La via verso la Luce porge barlumi di interconnessione con la filosofia orientale e con la ricerca di un’illuminazione secondo le tracce del poeta Kerouac, l’aderenza ad una poetica simbolica che di certo fa da nutrimento e respiro ai versi stessi.

Uno stralcio significativo da “Aura celeste”, pag. 25:

“…la mia bianca casa

ha radici d’intelligenze pure,

evocazioni simboliche,

equilibri tersi;

…sul sentiero etereo della luce”.

Versi indicatori e suggeritori di dettato, evocatori di un magma interiore reso cristallino nell’emersione scritturale e sorgente di significati non soltanto singolari.

In “Baricentro d’Amore”, pag. 35, ultima di queste dieci composizioni, leggiamo:

“Offriamo al silenzio

il canto della vita,

nell’intreccio del rèfolo

ineludibile del mare,

che soffia

fra eros e thanatos”.

Canto d’anima senziente, fianco a fianco della natura, nell’abbraccio e nel brivido tra vita e morte, perenne dualità del vivere; roccia ferma sull’Amore e nell’Amore che è Presenza e Silenzio che tutto dice, scaturigine di Parola e speranzosa Luce.

ESTER MONACHINO

L’autrice della recensione ha autorizzato la pubblicazione su questo blog senza nulla chiedere né all’atto della pubblicazione né in seguito.

“Lettura di testi di autori contemporanei” vol. 5 di Nazario Pardini. Recensione di Lorenzo Spurio

Recensione di Lorenzo Spurio

È appena uscito, per le edizioni The Writer, il nuovo corposo volume del poeta, scrittore e critico letterario toscano Nazario Pardini che raccoglie la sua attività critica, di lettura e approfondimento, su testi e autori italiani della nostra età. Si tratta del quinto volume che viene pubblicato sotto il titolo “Lettura di testi di autori contemporanei”, collettanea di studi critici, saggi, recensioni, commenti e vari altri generi di testi dove Pardini ha fatto dell’atteggiamento speculativo, elucubrativo e di scandaglio lessicale le sue prerogative principali. Il macilento volume, che conta ben 1055 pagine, (un vero catalogo, si dirà, ben al di là di un’enciclopedia chiusa, essendo l’opera in continuo divenire data l’attività frenetica e instancabile del Nostro) è stato pubblicato in seno alla collana di saggistica “Il Melograno” e ricostruisce, nelle pagine che lo compongono, il repertorio attento di tutte le sue disamine e investigazioni critiche – soprattutto nel mondo poetico ma non solo – compiute nel corso degli ultimi due anni. In copertina, infatti, viene bel delineato il periodo (2018-2020) nel corso del quale i testi sono stati vergati e poi – chiaramente – diffusi tanto in rete, sul suo spazio frequentatissimo (il blog “Alla volta di Lèucade”), che in cartaceo quale preambolo critico ai testi che ha inteso presentare, in molteplici prefazioni, postfazione, note di lettura e altro ancora. Un consuntivo su carta e in un volume unico – agevole, per quanto la copiosità delle pagine lo rende formalmente “pesante” – che compendia l’intensa e assai apprezzata carriera di critico letterario e che si misura con testi in genere medio-brevi in cui l’autore – moderno Virgilio che accompagna in un percorso sconosciuto – prende per la mano il lettore facendogli vivere mille storie, percorrere tragitti diversi, tra le pieghe delle esistenze altrui che sono riflesso anche delle Nostre.

Non è possibile presentare in questa sede i tanti contenuti raccolti nel volume perché ciascuno meriterebbe il giusto spazio, tanto è democratico l’apporto di Pardini alla letteratura, ben restio a vedute settarie o di congreghe particolareggiate, di supposte aristocrazie poetiche e di circoli elitari. Dispensa con generosità e grande acume il suo sapere, indistintamente, a tutti quei poeti e autori – che, sì, reputa validi – gli propongono in lettura i suoi testi sapendo di trovare in lui, oltre che una persona magnanima e attenta, anche un vero e proprio oracolo. Ma anche un chirurgo delle emozioni. La sua penna attenta e sempre circostanziata non manca, neppure, in molti ambiti, di relazionare gli scritti e i versi degli autori a noi contemporanei con alti nomi della classicità e, finanche, con rimandi – sempre apprezzati – al mondo mitologico e della tradizione greco-romana.

La piccola immagine che sembra posta “ad incastro” nella cover si riferisce a un particolare di una raffigurazione miniata del periodo medievale. In essa è ritratto Sant’Agostino e Volusiano e fa riferimento al “Amanuense di Vichy” del XII secolo, opera conservata nell’Archivio Diocesano di Vichy, in Francia. È, in effetti, proprio quella dell’amanuense contemporaneo la figura di Pardini: non solo ricopiatore di versi (tanti ne vengono citati e richiamati nelle sue scritture) ma chiosatore, commentatore, osservatore e analista stesso del testo. Oltretutto, ed era questo lo scopo primario dei laboratori di scrittura in seno a biblioteche di conventi ed abazie, la sua attività – scrittoria – è tesa a una raccolta sapienziale di note e informazioni, per una raccolta dello scibile che possa avere testimonianza nelle epoche successive. È per tale ragione che un’opera come questa non è un archivio (una sterile raccolta, fissa e soggetta al decadere della polvere) quanto, piuttosto, un museo molto frequentato. Mi piace richiamare il contesto museale, più che quello ben più attinente del mondo bibliotecario, perché in effetti i suoi testi vanno al di là della letterarietà dello scritto, promanano liricità anche da un punto di vista meramente artistico, visuale, di creazione dell’opera e di figuratività.

Nel volume, oltre a un ricco numero di interventi critici di Pardini su altrettante opere poetiche, sono presenti numerosi testi critici che, invece, di riflesso, altri hanno scritto su di lui, tra cui un mio intervento dal titolo “Il colloquio con Thanatos. Il poeta toscano Nazario Pardini nell’ultimo volume della trilogia dell’approccio “ai dintorni” della vita” già apparsa su “Blog Letteratura e Cultura” il 31 gennaio 2020 e dalla quale – molto generosamente – l’Autore ha anche estratto un frammento che ha deciso di inserire nella quarta di copertina del suddetto volume.

Tra gli autori a cui Pardini ha dedicato sue riflessioni in questo volume, cito ad libitium (senza pretesa né velleità alcuna) dacché per extenso sarebbe complicato e didascalico: Ester Cecere, Claudia Piccinno, Antonio Spagnuolo, Carmelo Consoli, Anna Vincitorio, Orazio Antonio Bologna, Gianni Rescigno, Francesco D’Episcopo, Luciano Domenighini, Maria Grazia Ferraris, Maddalena Leali, Rossella Cerniglia, Edda Conte, Enzo Concardi, Marisa Cossu, Pasquale Balestriere, Sandro Angelucci, Ugo Piscopo, Umberto Cerio, Vittorio Verducci, Michela Zanarella, Pasqualino Cinnirella, Patrizia Stefanelli e Carmen Moscariello.

Un corposo tomo che va, dunque, in doppia direzione: la critica di Pardini sui testi di autori contemporanei e quella di questi ultimi sulle sue opere poetiche, in un diorama di vedute assai diversificato, esegesi a tratti particolareggiate, in altri casi lievemente didattiche e concentrate attorno a linee sinottiche che rappresentano le chiavi di svolta delle rispettive opere. In questa interrelazioni di voci, nessuno sale in cathedra, ed è questa la cosa bella di questo libro dove, ciascuno con le proprie competenze e l’acquisizione di un linguaggio più confacente al suo narrato, trasmette su carta sensazioni e amplia riflessioni, tutte in qualche modo collegate – in origine o in divenire – alla prolissa e mai scontata opera di un grande della letteratura nostrana, qual è Pardini.

Lorenzo Spurio

Jesi, 13/02/2021

E’ severamente vietato copiare e diffondere, su qualsiasi tipo di supporto, il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. La citazione, con gli opportuni riferimenti ad autore, blog, data e link è, invece, consentita.

Esce “Dagli scaffali della biblioteca” di Nazario Pardini

Segnalazione di Lorenzo Spurio

Nel corso degli ultimi anni il poeta, scrittore e critico letterario prof. Nazario Pardini di Pisa ha collaborato costantemente e in maniera continuativa con pubblicazione di suoi testi, tanto poetici che critici, su questo spazio, «Blog Letteratura e Cultura» e in particolar modo con la rivista di poesia e critica letteraria «Euterpe». Personalmente ho avuto il piacere – oltre a leggere varie sue sillogi di cui mi ha fatto generosamente dono – di intervistarlo qualche anno fa; quel testo venne pubblicato, assieme a una serie di altre interviste a grandi poeti italiani della nostra età e con una prefazione di Sandro Gros-Pietro in La parola di seta. Interviste ai poeti d’oggi (PoetiKanten, Sesto Fiorentino, 2015). Alcuni mesi fa ho avuto il piacere di leggere e recensire (clicca qui per leggere) quella che – in quel momento – era l’opera più recente di Pardini, ovvero Il colloquio con Thanatos (Guido Miano, Milano, 2019), compimento di una preziosa trilogia poetica. Ricevo in data odierna, dall’Ufficio Stampa della Miano Editore, il comunicato stampa che dà notizia di una nuova pubblicazione di Pardini dal titolo Dagli scaffali della biblioteca, per la collana “Alcyone 2000” di Miano Editore, che si apre con una ricca prefazione di Marco Zelioli. Proprio da questo testo critica d’apertura citiamo alcuni pregnanti estratti: «La prima parte della raccolta è intitolata Ricordi che pungono. È una rassegna di affetti familiari che il poeta presenta al lettore con la delicatezza di sentimento di chi contempla la fuggevole realtà come segno di qualcosa che non si comprende appieno, ma che inevitabilmente c’è, e perciò va riconosciuto come vero al di là di ogni ragionevole dubbio. […] La seconda parte dà il titolo all’intera raccolta: Dagli scaffali della biblioteca. Vi sono raccolte, semplicemente contraddistinte da un numero romano, trenta poesie di varia lunghezza. Sono immagini, momenti catturati al tempo [con] accenni a vari scrittori, non solo poeti come Baudelaire, Dante, D’Annunzio, Saba, Pavese, Cardarelli, Ungaretti, Francesco Pastonchi, Attilio Bertolucci, Giuseppina Cosco, Giorgio Caproni […] Ecco cosa “vive” negli scaffali della biblioteca del Pardini, e cosa egli ci fa rivivere, ponendocelo dinanzi: uno stuolo di poeti, ma anche un critico come Carlo Bo ed illustri filosofi, da Platone a Nietzsche. […] Le Dieci poesie d’amore, che costituiscono la terza ed ultima parte della raccolta, sono un inno alla vita. Vi si trovano immagini leggere, fresche, spontanee […], vi sono tratti paesaggistici accostati al sentimento personale, quasi a far partecipare la natura delle vicende umane. […] C’è un che di foscoliano nel verseggiare del Pardini, il quale sa ammantare lo spirito romantico tipico della “rimembranza” (che è anche leopardiano) con quello stile dolcemente neoclassico, che riecheggia la nitidezza dei versi catulliani (come non ricordare, in proposito, la foscoliana A Zacinto in parallelo ai versi di Catullo sull’amata Sirmione?). Eppure non c’è alcuna dipendenza dai modelli di riferimento, perché lo scrivere del Pardini spazia liberamente nei campi già arati da tanti illustri predecessori, il cui studio si avverte bene».

Il presente testo è stato scritto a partire dal comunicato ufficiale di pubblicazione del nuovo libro diffuso da Miano Editore opportunamente modificato e ridotto e con l’inserzione del paragrafo introduttivo.

Tre poesie inedite di Rita Fulvia Fazio

Segnalazione a cura di Lorenzo Spurio

 

Grida

 

Gradito è a te

che sempre vai

nell’universo

di quell’altro

spirito del male.

Lo sai, il maligno

che non tradisci

ti tradirà quando

al cospetto di verità

lo subirai.

 

*

 

Demiurgica salsedine

 

Sovrasta

il respiro incessante del mare

che, dell’onda,

dilegua l’oro degli scogli

traboccanti; distesi

al sole dell’inverno.

Tu, sul molo, passeggi

l’ora lenta

alla vertigine alta:

schiumosa frange

al luccichio che lampa il cuore,

stanco, al miraggio

festoso e straniante.

D’azzurro, riafferri slanci,

pupille in gioia.

È breccia il setter,

che là, a riva,

scava tra la sabbia

al vento dell’attesa.

E tu, vai,

a quel vento perdoni;

sollievi impronte gentili

sulla battigia,

volte al passo solitario

di un destino audace.

È uno strappo, e svapora

l’orizzonte smeraldino

nell’attimo di vermiglia

compassione.

Svaniscono frammenti riarsi

dell’altrui sete di vendetta.

Giustizia richiama gloria:

specchia, di conchiglia in conchiglia,

lo sguardo;

in luce tesse merletti di silenzi

e dipinge occhi di madreperla.

È gloria di isole

sparse tra le stelle

in un cielo di salsedine.

 

*

 

Vita d’amore

 

Portami con te

nel giardino di cera

esuberante

che scalza la vita

dall’incanto slavato.

Portami al sorriso di gioia;

dei fiori, il soave profumo;

alla carezza che vela

lo sguardo magico,

anima d’incanto.

Portami tra le tue braccia

candide

migliaia e più stelle,

le più belle;

all’onda salsedine;

al passo leggero;

al volo d’azzurro più in alto,

nell’incanto del canto.

Nel sole tramonta

la sera vermiglia;

la notte serena

lieve pace alletta;

profuma d’aurora estasiata

l’aria che spira

il tuo verticale, sottile silenzio,

parola d’amore.

 

IMG-20200514-WA0005Rita Fulvia Fazio è nata a Imperia, ove risiede. Ha svolto l’impiego lavorativo nel settore pubblico e privato. Ha sempre coltivato il suo spiccato interesse per l’arte e la cultura. Nata anacoreta nell’azzurro della meditazione contemplativa, depone la traccia dell’esistenza nel seme poetico poiché, dice “è in me, con me, semplice, eterno”. Condivide, infatti, pienamente, quanto scrive Platone nel Simposio a proposito del legame tra arte e conoscenza: “Individua un qualcosa che è sempre, che né cresce, né decresce […] ma in se stesso, con se stesso, semplice, eterno.” Ispirata dai riflessi caleidoscopici delle sorprese, offerte dal gioco della vita; e dal desiderio di trascendere l’animo umano per ricongiungersi nello spirituale azzurro, il suo omaggio va alla libertà. E perciò ricorda qui le celebri parole dell’Ulisse Dantesco: “Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e conoscenza.” (Inferno, XXVI, 118). È stata inserita, con il racconto “Desiderio”, nell’antologia Raccontare IMPERIA (2017); con tre poesie nell’antologia poetica Riflessi di Ponente (2018). Ha pubblicato la raccolta poetica Metamorfosi e sublimazioni (2019) e, per la narrativa, Echi di luce (2019). Ha conseguito vari premi di poesia tra cui il Premio speciale “Ossi di seppia”, il Premio speciale “La nuova poesia”, sezione poesia religiosa (2019), il Premio speciale silloge “Formigine e il suo castello 2020”. È collaboratrice del Blog Alla volta di Lèucade.  È stata recensita con varie letture, saggi da Nazario Pardini, Rossella Cerniglia; Sandro Angelucci, Elio Caterina, Mario Santoro, Anna Castrucci, Francesca Luzzio, Ester Monachino, Enzo Concardi e Mattia Leombruno.

 

La riproduzione del presente testo e dei brani poetici riportati (dietro consenso dell’autore), sia in forma di stralcio che integrale, non è consentita in qualsiasi forma senza il consenso scritto da parte dei relativi autori.

“L’aurora di New York geme. Note sul Lorca americano” saggio di Lorenzo Spurio

Sullo spazio culturale online “Alla volta di Leucade”, diretto dal professore Nazario Pardini, nella data del 6 maggio 2020 è stato pubblicato il saggio “L’aurora di New York geme. Note sul Lorca americano” di Lorenzo Spurio, introdotto da questa nota di apertura dello stesso Pardini:

La prima parte è contraddistinta da uno scritto del critico Lorenzo Spurio e, a continuazione, nella seconda parte, si trova la traduzione dallo spagnolo all’italiano fatta dallo stesso critico, di un articolo apparso ieri sul quotidiano spagnolo “La Vanguardia”. Articolo veramente interessante, da cui emerge la versatilità dell’autore che sa adattare il linguaggio a qualsiasi ambito scritturale. Conosciamo bene, oramai, l’eclitticità di Spurio, la sua vena filologica, ma soprattutto il suo impegno critico dalle innumerevoli occasioni letterarie che ha elaborato sia sulla sua importante rivista (Euterpe) che in cartaceo. E qui ne abbiamo la conferma. Nell’articolo che ha tradotto figura, nel corpo del saggio, la statua di García Lorca nella Piazza Santa Ana di Madrid alla quale è stata posta la mascherina per via del Corona virus. Nel saggio ci sono un paio di brevi accenni a questa pandemia che stiamo vivendo”.

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La statua di Federico García Lorca in Plaza Santa Ana a Madrid con la mascherina. Foto tratta dall’articolo su “La Vanguardia” citato nel saggio.

Leggi l’intero saggio su “Alla volta di Leucade”

Leggi l’intero saggio su Academia.edu

“Il colloquio con Thanatos. Il poeta toscano Nazario Pardini nell’ultimo volume della trilogia dell’approccio “ai dintorni” della vita” di Lorenzo Spurio

Articolo di Lorenzo Spurio

Il nome di Nazario Pardini, poeta, scrittore e critico letterario, docente di Letteratura Italiana, ben noto anche sulle pagine digitali da anni, meriterebbe una descrizione che forse un pamphlet non sarebbe sufficiente, tanto è estesa e prolifica la sua produzione letteraria. Non solo di poesia, per la quale ha pubblicato decine di titoli, tra sillogi più o meno ampie, veri e propri repertori dell’anima che condensano esperienze e fasi del suo vissuto, canzonieri, poemetti, raccolte meticolose, elogi, canti, e tanto altro ancora. Senza dimenticare il suo costante e fondamentale contributo alla critica letteraria mediante lo studio attento, approfondito e umano – in una sola parola “dotto” – che ha riversato verso autori più o meno noti della scena letteraria nazionale e non solo. I suoi contributi critici, oltre a permettere a vari autori di fregiarsi delle sue considerazioni ermeneutiche in opere proprie nella forma di prefazioni, postfazioni e note di lettura, sono diffusi un po’ ovunque ma anche ben raccolti nella nutrita vetrina online di scritti, Alla volta di Lèucade, (che porta il titolo di un suo fortunato libro di poesia edito nel 1999, arricchito da una prefazione di Vittorio Vettori)[1] dove il professore, con cadenza quasi giornaliera, dà diffusione ai suoi scritti, vere e proprie esegesi sempre così ricche e particolareggiate, attentissime allo stile e ai linguaggi adoperati, alle segnalazioni dei volumi e tanto altro ancora.

Se è vero che la rete consente di abbattere tempi, distanze e qualsiasi altro tipo di barriera tra un emittente e un ricevente, è anche vero che spesso può risultare dispersiva nel poter fornire una corretta e utile table of contents, per andare a ripescare testi, far riemergere saggi (magari per trarne una citazione e renderne merito nella bibliografia) o, in qualche modo, recuperare in forma agevole e sicura quel materiale critico che nel tempo, come la stratificazione di una roccia sedimentaria, si è andato accumulando descrivendo striature cromatiche diverse e, al contempo, a rendere ancor più inscalfibile la materia. A favorire questo approccio sono giunti, in tempi recenti, quattro mastodontici volumi editi da The Writer Edizioni rispettivamente nel 2014, 2016, 2018 e 2019 dal titolo Lettura di testi di autori contemporanei, seguiti dalla loro normale numerazione dei tomi, nei quali il professor Pardini ha convogliato la gran parte dei suoi scritti – vere e proprie gemme – tra recensioni, saggi, interviste a lui fatte e concesse ad altri, note di lettura, approfondimenti e tanto altro ancora. Dei cataloghi ricchissimi non solo nei loro contenuti (vale a dire le opere contemplate, gli autori letti, approfonditi, analizzati con onestà e grande scavo nel loro lessico) ma anche negli approcci di approfondimento al punto che possono di certo essere considerati come dei testi fondativi, immancabili, di lettura e avvicinamento al testo per chi, scantonando il lettore qualunquista, voglia davvero poter impiegare gli arnesi del critico, scoprendone quella che è senz’altro un arte del mestiere. Testi di critica, dunque, ma anche sulla critica, che possono indirizzare degnamente chi, amante dei libri, abbia esigenza di immergersi in quel panorama magmatico che è il campo dei significati, delle allusioni, dei segni nascosti, dei richiami, delle (epidermicamente) insondabili forme con le quali si può dire senza svelare né determinare in maniera perentoria.

Numerosi e costanti anche i suoi contributi sulla rivista di poesia e critica letteraria Euterpe nel corso dei suoi quasi dieci anni di attività continuativa tra i quali mi piace ricordare alcune poesie di grande impatto comunicativo i cui motivi si dispiegano nelle oscure trame di una memoria dai contenuti ignobili e dolorosi come in “Carso” (n°14, dicembre 2014) e “In memoria delle foibe” (n°29, luglio 2019) o, di contro, improntate a seguire liberamente di volta in volta i possibili temi di rimando proposti dai vari numeri come il saggio “Puccini o il tempo della Turandot” (n°16, giugno 2015) e “Percy Bysshe Shelley e i suoi peregrinaggi marini” (n°22, febbraio 2017) a testimonianza della vastità degli interessi e della completa e approfondita padronanza di una materia non solo classica e letteraria, bensì di ordine sociale e riferita a ogni possibile campo dello scibile, tra umanismo e tematiche di attualità. Senza dimenticare, tra i contributi più incisivi, utili e di alto pregio, gli approfondimenti critici sulla poesia propriamente detta, motivo trainante della sua intera esistenza, ravvisabili, ad esempio, in “Lingua, linguaggi e poeti” (n°24, agosto 2017) e nell’avvincente “Società, filosofia dell’utile, ruolo dei personaggi e difesa della poesia in Chatterton di Alfred De Vigny” (n°23, giugno 2017).[2]

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Nazario Pardini

Alcune note bio-bibliografiche, però, prima di poter parlare della sua ultima opera poetica, I dintorni della vita (2019), risultano necessarie. Nazario Pardini (Arena Metato, Pisa, 1937) si è laureato in Letterature Comparate e successivamente in Storia e Filosofia, è stato ordinario di Letteratura Italiana. Prolifica e di alto livello la sua attività di instancabile poeta, saggista e critico letterario, per la poesia ha pubblicato Foglie di campo. Aghi di pino. Scaglie di mare (1993), Le voci della sera (1995), Il fatto di esistere (1996), La vita scampata (1996), L’ultimo respiro dei gerani (1997), La cenere calda dei falò (1997), Sonetti all’aria aperta (1999), Paesi da sempre (1999), Alla volta di Lèucade (1999), Radici (2000), D’Autunno (2001), Dal lago al fiume (2005), L’azzardo dei confini (2011), A colloquio con il mare e con la vita (2012), Dicotomie (2013), I simboli del mito (2013), I canti dell’assenza (2015), Cantici (2017), Di mare e di vita (2017), Cronaca di un soggiorno (2018), I dintorni della solitudine (2019), I dintorni dell’amore ricordando Catullo (2019) e I dintorni della vita. Conversazione con Thanatos (2019). Molti i premi vinti fra cui il “Città di Pisa” (2000) nella terna Baudino, Mussapi, Pardini con Alla volta di Lèucade, i premi alla Carriera (“Le Regioni” di Pisa nel 2000, “CinqueTerre” di Portovenere nel 2012; “Portus Lunae” di La Spezia nel 2012, “Ponte Vecchio” di Firenze nel 2014) e la prestigiosa “Laurea Apollinaris” nel 2013 conferita dalla Facoltà di Scienze della Comunicazione Sociale dell’Università Pontificia Salesiana. Su di lui hanno scritto, tra gli altri, Mario Luzi,  Vittorio Vettori, Paolo Ruffilli, Ninnj Di Stefano Busà, Giuseppe Giacalone, Luigi Filippo Accrocca, Antonio Piromalli, Silvio Ramat, Vittorio Esposito, Antonio Nazzaro, Antonio Spagnuolo, Giorgio Bàrberi Squarotti, Neuro Bonifazi, Franco Campegiani, Fulvio Castellani, Pasquale Balestriere, Giuseppe Vetromile, Rodolfo Vettorello,  Carmelo Consoli,  Umberto Vicaretti, Ugo Piscopo, Liana De Luca, Floriano Romboli.

Poeta legato alla tradizione classica e alla poetica naturalistica (inesauribile nel suo panismo vegetale e nella comunione con le acque) ma anche alla tradizione decadente e simbolista (poeti maledetti, D’Annunzio, gli scapigliati[3]) non può non essere avvicinato, per alcuni suoi componimenti, anche all’esperienza crepuscolare, così distante dalla prosa lirica o dal frammentismo d’inizio secolo scorso essendo il suo poetare sempre sorretto da un estetismo metrico, da una ricerca di costruzione formale attenta e con richiamo della classicità.

Se si prendono in esame i titoli delle ultime opere poetiche pubblicate dal Nostro ci si rende conto di un continuo e progressivo avvicinamento a temi pervasi da introspezione, considerazione filosofica, finanche melanconia e ripiegamento emotivo. Non si allude a nessun tipo di pietismo, vittimismo e pessimismo dal momento che l’intera produzione di Pardini è tesa a innalzare il bello, a celebrare la vita, a focalizzarsi sugli aspetti di luce piuttosto che nelle normali e ineliminabili zone d’ombra, asperità, situazioni angosciose e di vero e proprio derelizione. Tuttavia, come dimostra il lavoro del 2015 incentrato sul tema dell’assenza, ci rendiamo conto di una progressivo avvicinamento a un colloquio con un’alterità indistinta perché nelle sue vesti immateriali, incorporei e vacue. Sono “dialoghi della possibilità”, vale a dire forme comunicative impiegate dal Nostro con le quali, di rimando e indirettamente, interroga se stesso, permettendo a noi lettori di appropriarci delle sue riflessioni sulla vita, delle considerazioni, inquietudini, perplessità che il poeta, dopo aver attraversato un’esistenza ricca di episodi, è in grado di porre perché, diversamente, con molta probabilità, non riuscirebbe a vivere. Sono i dilemmi comuni che, in diversa forma e in fasi diverse della nostra vita, siamo portati a porci, eppure in questi interrogativi o labili convincimenti nei quali viene a ritrovarsi, il Nostro esplica se stesso: dà senso alla poesia che è forma di vita per mezzo della confessione intima con il suo cosciente. In queste circostanze hanno trovato la loro concettualizzazione i tre volumi della fortunata e filosofica trilogia poetica del 2019 pubblicata in rigorosa e autentica veste grafica dallo storico – una delle ultime poche garanzie editoriali italiane – Guido Miano Editore di Milano, uscita dopo la speziata Cronaca di un soggiorno nel 2018.

Primo volume della trilogia è I dintorni della solitudine alla quale ha fatto seguito I dintorni dell’amore ricordando Catullo e, infine, I dintorni della vita. Conversazione con Thanatos che è oggetto di studio di questa analisi. Si dovrebbe partire dalla spiegazione – o dal tentativo di avvicinamento – al lemma impiegato nei tre titoli di questa trilogia ovvero “i dintorni”.[4] Il poeta di lungo corso – classicista, ma anche estimatore degli ermetici – sa bene che compito della poesia non è parlare della noce, semmai del mallo screpolato che la ricopre. Vale a dire non è un discorso illustrativo né argomentativo l’impegno poematico, l’atto ispirativo che dà seguito a una creazione lirica, ma allusivo, collettaneo, approssimativo, cangiante, multiforme e polisemico, stratificato. Impossibile cercare di intuire certezze e verità inoppugnabili, il linguaggio poetico adombra un concetto, lo circoscrive in nebulosa, lo vaporizza, ne estende i principi rendendoli in diffusione – per quanto la letteratura sia figlia e specchio della vita (sugli insegnamenti di Sciascia, Calvino e tanti altri ancora, citerei anche la dissociata Sylvia Plath de La campana di vetro) esse non potranno mai essere eguagliate. Ecco perché Pardini parla dei “dintorni della solitudine” vale a dire affronta il tema della solitudine cercando di approcciarla, di avvicinarsi ad essa, fornendone forse dei tratti che la distinguono secondo la sua inclinazione, un’approssimazione, una possibile lettura, formula: non ne dà mai il ragionamento esatto, la lettura sillogica inconfutabile. Non è un discorso “su” ma “circa”, “attorno”, che lambisce, percorre, si aggira, conduce un periplo attorno alla materia, la osserva, se ne occupa, la fa sua come tema, senza mai fagocitarla con la razionalità perigliosa dell’uomo. In tutto ciò – e se così non fosse non darebbe gli alti esiti che, invece, riscontriamo – non può venire meno quel senso di “chiarezza, [quella] capacità espressiva [ricca] di indizi, lemmi straordinariamente efficaci per stabilire variazioni sul tema, evoluzioni di una cifra ermeneutica di sicura originalità”[5] come ebbe ad osservare Ninnj Di Stefano Busà.

De I dintorni dell’amore ricordando Catullo, con prefazione di Rossella Cerniglia, il critico romano Cinzia Baldazzi aveva riferito con particolare attenzione alla “Lettera ad una amica mai conosciuta”, testo incipitario della silloge, sostenendo che Pardini “dichiara che il dolore – il tormento – può purificare, però l’appello non coincide con il sopportare o gestire un’assorta, inerte contemplazione. Al contrario, nella guerra perpetua, nell’ostinato conflitto dei contrari al cui interno viviamo, il ruolo a noi destinato è comunque di combattere”.[6] E questo può essere utile, quale trait d’union, per collegarci al tema e ai motivi che muovono alla costruzione del volume successivo di Pardini, interamente dedicato alle conversazioni con Thanatos. Pardini non manca di mostrarsi, anche nella complicatezza del tema del quale ha deciso di occuparsi, di essere “così effusivo e così straripante”[7] per dirla con Vittorio Vettori. Il volume si apre con una precipua e utilissima nota critica del docente pisano Floriano Romboli (assiduo commentatore dell’opera poetica di Pardini) che anticipa la trattazione del volume attorno alla “insistenza e sistematicità alla “Morte” […] L’antitesi vita/morte pervade da sempre il pensiero e le forme dell’arte degli uomini […] Seneca raccomandava di familiarizzarsi [con la morte] progressivamente […] Nazario Pardini non ignora di certo la presenza dolorosa e disorientante della morte, la sua azione distruttiva e deprivante” (9-11).

Pardini Nazario 2019 - I dintorni della vita [fronte] (1)Le poesie di Pardini sono colloqui con “la sagoma di Thanatos protesa/ come l’ombra di sera” (15)[8], la signora con la falce che nel corso della silloge è simbolo della fine delle illusioni, del dolore, della bieca cattiveria (“ci furono sottratti dalle fauci/ di un essere insaziabile”, 15) che in senso generale prende la forma delle più aberranti violenze (“ovunque sei/ c’è male e distruzione”, in “Morte”, 65), crudeltà, catastrofi e le stragi che concernono l’uomo: “terremoti,/ guerre fratricide senza fine,/ barche sperdute in mari indifferenti,/ innocenti caduti in primavera”, 15). Dal primo componimento si evidenzia l’intenzione del poeta di non voler rendere il tema della morte in forma generale, come concetto al quale riferirsi, bensì di darne nome e foggia: di distinguerla, di rappresentarla nelle sue tante forme e voluttuosità. Significativo il riferimento – che ritorna nella lirica “E quella imbarcazione?”[9] – alle ecatombe nel Mediterraneo che fanno seguito ai tanti naufragi di disperati in cerca di un futuro migliore.

Squarci di conversazione con l’Eterna compagna che prendono la forma di avvertimento: “E anche tu, morte,/ non tentare l’accesso, non ti è concesso” (in “È ingolfata la strada”, 17), di reproba denuncia: “Menefreghista,/ insaziabile carnivoro volatile/ si prende il meglio della mia giornata,/ della mia storia. Senza alcun rispetto” (in “Il tempo”, 22) con eco shakespeariano: “Quando penso che ogni cosa che nasce/ resta perfetta solo per brevi istanti,/ che questa immensa scena ci offre sol fantasmi/ […]/ mentre il Tempo distruttore cospira con la Morte/ per cambiare il tuo fresco giorno in fetida notte” (Sonetto n°15)[10]; di vero scherno: “E maledetta pure tu, morte” (in “Morte bianca”, 30); “Vai al diavolo!”[11] (in “Vai al diavolo!”, 40), c’è anche il tentativo di riconciliazione: “Non essermi nemica/ […]/ Tu che sei grande, eccelsa, immarcescibile,/ tu che tutto puoi” (in “Conversazione con la morte”, 32), e l’accoglimento della proposta: “Spero che tu mi colga nel momento/ che sto guardando il mare;/ […]/ meno duro sarà,/ meno pesante il giorno dell’addio” (in “Conversazione con la morte”, 35), continuamento di un dialogo ininterrotto: “Mi è presa la mania di parlare/ con te” (in “Conversazione con la morte”, 37).

E poi la serie di poesie dedicate, a partire da quella che ha come destinatario il “Fratello scomparso” deceduto così giovane, che il poeta anela a rincontrare (“Spero che la fortuna mi sia amica/ e che mi faccia avere il tuo sorriso/ quando verrò a trovarti, ad abbracciarti,/ caro fratello mio” in “Lettera al fratello scomparso”, 18), quella dedicata a un’anziana madre che regge a malapena la sedia a rotelle per portare in giro la figlia malata: “t’immagini morisse quella donna,/ che fine mai farebbe quell´inferma./ Perché, trucida morte, non le assisti:/ […]/ questo è il caso/ che tu intervenga ed io sono d’accordo./ Ma tutte e due insieme in un bel volo/ a sorseggiare il blu; a respirare/ aria di libertà; assieme unite/ in un abbraccio eterno, meritato” (in “Ogni giorno”, 25), lirica angosciante e di grande attualità come tema: quando è (umanamente, eticamente, civilmente, giurisdizionalmente)  giusto porre fine alla propria esistenza, in uno stato di letargia e di impossibile cura? Temi che ritornano, quelli della legittimità e del diritto alla morte, in “Oggi ti approvo, morte” in cui si legge: “sono d’accordo con te, questa volta./ Soffriva da tant’anni; il male lo rodeva./ […] senz’altro/ ha smesso di patire” (41). Una poesia è dedicata a due genitori che hanno perso prematuramente il proprio figlio (“Ai suoi lati/ padre e madre abbracciati disperati”, in “Ho visto”, 36) e un’altra a un uomo che è rimasto ucciso dal trattore che “ha sbranato l’uomo” (in “Senza rimorso”, 39), finanche la lirica dedicata a Dante, “uno dei pochi/ a vincere la morte” (in “A Dante”, 51) sulla sua tomba a Ravenna. In “Dialogo con la morte”, quest’ultima contraddistinta per essere “macilenta, scheletrita” (26), senza tergiversare Pardini annuncia il tragico appelloLo sai che prima o poi faremo i conti/ […] preparati alla fine/ […] fissa bene/ quello che ti è dintorno” (26), parole alle quale l’io lirico risponde con dignità e fermezza implorando di lasciarlo stare: “Lasciatemi in pace!/ È inutile tu venga anguicrinita/ a disturbare i giorni che mi restano./ Voglio viverli senza pensamenti” (27).

Questo volume di Pardini fa venire alla mente ad alcune delle opere più struggenti e affascinanti della letteratura mondiale che hanno posto il tema della morte al centro delle disquisizioni dell’io lirico: dalla debolezza e inettitudine dei crepuscolari immersi in tanto grigiore e aria malata che li porta di continuo a riflettere sulla morte, al decesso dei romantici e alla mania cimiteriale, finanche alla morte come slancio, dei ribelli d’animo, dei bohémien, dei maledetti, degli scapigliati, di coloro che non hanno mancato di progettare un volo ardimentoso. Più propriamente, però, sembra di respirare il linguaggio cauto e investigativo di Leopardi del Dialogo della Moda e della Morte dove rifletteva attorno – nei dintorni, appunto – alla Morte che – personificata – così esordiva nella conversazione: “Aspetta che sia l’ora, e verrò senza che tu mi chiami”.

C’è, indirettamente il Pavese straziato di “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, poesia scritta il 22 marzo 1950[12], (“Verrà la morte e avrà i tuoi occhi/ questa morte che ci accompagna/ dal mattino alla sera, insonne,/ sorda, come un vecchio rimorso/ o un vizio assurdo.// […]/ Per tutti la morte ha uno sguardo.// Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”) e, nell’humus di questa poesia di Pardini che battaglia con la morte facendo prevalere la vita, il desiderio e l’amore, anche Emily Dickinson, Federico García Lorca, Pablo Neruda, solo per citarne alcuni. Si rivela anche Giovanni Testori che, nell’opera teatrale Conversazione con la morte, dialoga con la “cara, dolce ed eterna ombra” che di volta in volta assume sembianze diverse, a volte fascinose altre terrificanti. Nelle trame della poesia di Pardini che affronta in siffatta forma il tema della morte, la transitorietà dell’umano, la spavalderia del tempo assassino e la denuncia del male, c’è anche la presenza massiccia della poesia elisabettiana: la dark lady di shakespeariana memoria e la sfida beffarda alla morte (che si ritroverà in S.T. Coleridge) nella poesia “Morte, non essere orgogliosa”[13] del metafisico John Donne. Qui si legge: “Morte, non andare fiera, se anche qualcuno/ ti ha chiamata terribile e potente- tu non lo sei;/perché quelli che tu pensi di travolgere, non muoiono/ povera morte, né tu puoi uccidere me./ […]/ Tu sei schiava del fato, del caso, di re e di disperati,/e dimori col veleno, la guerra e le malattie,/ […]; Morte tu morrai”.

La morte – inquietudine e controversia interiore – viene a suo modo esorcizzata e allontanata dall’ordinario come il poeta fa in “Non scriverò di certo, morte” dove si legge: “Scriverò, al contrario, della gioia/ che zampilla dattorno per i prati/ […]/ Mi piace tutto quello che si oppone/ all’impertinenza della tua presenza,/ morte” (23). La morte si offusca con la supremazia del bene e il dominio della luce; il Bardo inglese scrive: “Al tempo contrasterai la tua eternità:/ finché ci sarà un respiro od occhi per vedere/ questi versi avranno luce e ti daranno vita” (Sonetto n°18) e l’americana Emily Dickinson “Chi è amato non conosce morte…”. A loro fa eco Pardini che annota “Amare è quello che faremo,/ senza indugi e senza reticenze,/ sarà la nostra fiamma,/ il fuoco che ci incendia/ a tradire la foga dell’eterno,/ dell’eterno mistero della morte” (in “Andiamo insieme, Delia”, 31); “Ma la natura vuole che l’amore/ vinca su tutto a costo di morire” (in “Un ramo secco a terra”, 49). Questa via salvifica di luce e di completa comprensione dell’umana natura, nel rispetto del limite della Creazione e nella fiducia in una alterità eterna, sono ben custoditi nella lirica di chiusura del volume, così ricca di bagliori e di riflessi: “La luce incoronò valli ed abissi,/ e tutto fu chiarore./ […] Si aprirono le tombe,/ la morte si redense in cherubino./ Dovunque fu un abbraccio/ di fratelli, madri, padri;/ […]/ nacquero fiori/ […]/ ci furono romanze/ […]/ E tutto fu sereno,/ e tutto illuminato dalla luce del cielo./ […]/ non fu più notte/ […] Fu gioia. Fu luce attorno, accecante,/[… ]/ fu luce nelle anime/ che vollero l’amore/ […]/ Tutto fu largo, immenso/ […]/ Vinse l’amore, e nella notte/ si accese la lampada divina,/ grande, enormemente forte,/ più che d’agosto la calura estiva./ Più che di giorno la gloria del Signore” (67-68).  Ed è proprio in questo percorso di auto-rassicurazione e di rinata speranza che si procede nel vivere ordinario, scantonando impervie vie e ombre che s’allargano a macchia d’olio perché, proprio lì dove, come sostiene il Nostro, “I dintorni riprendono il colore,/ aprendosi in segno di speranza” (in “Mi sembra che il vento”, 20).

Lorenzo Spurio

Jesi, 27-01-2020

 

[1] Particolarmente bella la risposta datami in un’intervista di qualche anno fa nella quale chiedevo al professore il motivo di questo titolo per uno dei suoi libri e poi per il blog letterario. Anche se un po’ lunga mi piace riportarla per intero per permettere ai lettori di apprezzare questo testo così sapiente, ricco, persuasivo, degno della più alta critica letteraria: “Leucade è l’isola del sogno. Della dimenticanza. Della rupe da cui si gettavano, in mitologia, i grandi, compresa Saffo abbandonata dal suo Faone, per dimenticare appunto le pene d’amore. Ma qui rappresenta il culmine di una ascesa lirica e formale. Il viaggio tormentato di una memoria che dal ventre della terra riesce a proiettarsi in mondi di onirica bellezza non per dimenticare, ma per rivivere i grandi e i piccoli fatti della vita. Ed io ne sono uscito dal salto con tutto il mio bagaglio esistenziale. Potrei riportare citazioni di tutto il mondo classico, ma una in particolare [(Dum loquimur fugerit invida aetas (Quinto Orazio Flacco)], credo sia la più vicina al senso di fragilità della vita, terriccio fertile per la poesia. A cosa mi sono rifatto? Alle memorie di quella cultura assorbita al liceo, e decantata nell’anima fino a farsi attuale, esistenziale, autobiografica, e decisa ad uscire a nuova vita. Mi sono rifatto alla mia storia, alla realtà di ieri e di oggi, aiutato da una natura fattasi simbolo coi suoi squarci di luce, colle sue corse di dune e ginestre, con le sue fughe e i suoi ritorni, coi suoi profumi e le sue ombre, a concretizzare segmenti d’anima. Leucade riguarda il mio credo poetico. Che cosa sia la poesia è certamente uno degli interrogativi più annosi della storia dell’uomo. La sola certezza comunque è che necessita, volenti o nolenti, di realtà individuali, di singole esperienze, di vicissitudini ed emozioni personali, per aprirsi dal memoriale all’immaginario, dalla vita al gran senso. E questo volume io credo trovi la sua compattezza partendo dal sapore della realtà, da ciò che conserva di primitivo per ampliarsi sempre più verso prospettive di largo respiro, tese a farci aspirare a qualcosa che svincoli, sleghi. E si fanno avanti il sogno, la fantasia, l’immaginario che non riescono comunque mai a liberarsi del tutto dal bagaglio del memoriale che ci portiamo dietro sempre più vago e nostalgico, ma vera vita, vita che resta, filtrata dal tempo, scampata e per questo degna di esistere in noi nel bene e nel male. E quello che ci tormenta è proprio il pensiero del suo destino. Chi lo affida ad una fede religiosa, chi al puro sogno, chi ad una fede poetica e chi laicamente ad un’isola quale potrebbe essere quella di Leucade, tentativo foscoliano come terapia al morbo del dubbio. E Leucade rappresenta la purezza laica, la bellezza, l’isola dell’equilibrio classico, della realizzazione del supremo su questa nostra problematica terra; il tentativo di elevarci laicamente al sapore del durevole. È Ulisse che riprende la sua navigazione: “Ancora salperemo / oltre colonne, questa volta mitiche / d’impedimento ai sogni. Là più lucido / e più eguale all’eterno sarà il liquido / dell’Oceano aperto” (Il ritorno di Ulisse, vv 43-47). Il linguaggio stesso subisce un’evoluzione di adeguatezza diacronica. Si insaporisce di termini arcaici, tende sempre più alla plasticità del distacco marmoreo.  Ed è sullo scoglio di Leucade che si raggiunge il colmo di una scalata lirica che permette sia la dimenticanza degli affanni esistenziali, la ripulitura per così dire del vissuto, che l’amore del tutto, ora veduto con altra dimensione umana, direi quasi ebrietudine dell’immagine che si fa poesia. La circolarità si compie nei canti arcaici. Dove tutto il mondo prepericleo, in cui secondo me immensi erano i presupposti immaginativi e creativi, irripetibili per liricità poetica, dipana una visione superlativa di amor vitae che si fa plenitudine di canto e di filosofia laica dell’esistenza”, in Lorenzo Spurio, La parola di seta. Interviste ai poeti d’oggi (2012-2015), PoetiKanten, Sesto Fiorentino, 2016.

[2] Tutti i numeri della rivista di poesia e critica letteraria Euterpe possono essere letti e scaricati liberamente in formato pdf cliccando qui: https://associazioneeuterpe.com/leggi-i-numeri-della-rivista/

[3] Non a caso come ha rivelato in un’intervista da me fatta alcuni anni fa il libro da lui maggiormente amato è Fosca di Igino Ugo Tarchetti da lui descritto in questi termini: “È un libro della Scapigliatura lombarda. E parla dell’amore per il brutto, per ciò che si differenzia da quello che comunemente appare bello. Mi piace soprattutto l’arte della parola dell’autore. La capacità di rendere semplici certi concetti di per sé astrusi. E poi ci ho trovato, nella sua contrapposizione al Romanticismo, all’ultimo Romanticismo piagnucolone del Prati e Aleardi, una forza di reazione letteraria che sa tanto di nuovo. […] Quel libro l’ho letto, la prima volta, assieme alla mia ragazza nei tempi dell’università. Magari in quei tempi tutto poteva apparire affascinante”, in Lorenzo Spurio, La parola di seta. Interviste ai poeti d’oggi (2012-2015), PoetiKanten, Sesto Fiorentino, 2016.

[4] Floriano Romboli nella prefazione a I dintorni della vita. Conversazione con Thanatos (2019) scrive: “[Il poeta] concentra l’attenzione sui “dintorni” di determinate, capitali situazioni spirituali, ne focalizza gli aspetti problematici, ne sonda la profondità sentimentale e intellettuale” (7).

[5] Prefazione a Nazario Pardini, L’ultimo respiro dei gerani, Lineacultura, Milano, 1997.

[6] “Cinzia Baldazzi legge I dintorni dell’amore ricordando Catullo di Nazario Pardini, Alla volta di Lèucade, 1 settembre 2019.

[7] Prefazione a Nazario Pardini, Si aggirava nei boschi una fanciulla, ETS, Pisa, 2000.

[8] La poesia che apre il volume, senz’altro una delle più incisive, s’intitola “Doloroso il viaggio”.

[9] Qui si legge: “E il mare è grande,/ immenso quanto te che tieni addosso/ le vite dei mortali./ […] ha inghiottito senza alcuna pena/ le cento e più persone alla ricerca/ di una terra fraterna/ […]/ Ora son li distese in un salone/ le cento bare; fra tante mi ha commosso/ quella in legno bianco di un bambino/ che conosceva il mare dell’estate,/ magari quello azzurro di una fuga” (60-61).

[10] Le citazioni dai Sonetti shakespeariani sono tratti dalla edizione di Garzanti anno 2003.

[11] Sono le stesse parole che la Morte consegna alla “sorella” Moda in Dialogo della Moda e della Morte di Giacomo Leopardi: “Vattene col diavolo. Verrò quando tu non vorrai”.

[12] Si sarebbe suicidato qualche mese dopo, esattamente il 27 agosto 1950.

[13] Titolo originale “Death be not proud” identificato come Sonetto X.

 

La riproduzione del presente testo, in forma di stralcio o integrale, non è consentita in qualsiasi forma senza il consenso scritto da parte dell’autore. 

All’Aula Magna dell’Univ. degli Studi “Benincasa” di Napoli la presentazione di “Modigliani. L’anima dipinta” di Carmen Moscariello

Mercoledì 22 gennaio alle ore 11 presso l’Aula Magna dell’Università degli Studi “Suor Orsola Benincasa” di Napoli in collaborazione con il Centro Studi “Modigliani” e Gangemi Editore si terrà la presentazione del nuovo volume della poetessa, scrittrice e critico letterario Carmen Moscariello, Modigliani. L’anima dipinta.

Sul libro il noto poeta e critico letterario Nazario Pardini ha scritto: “Un grande libro, questo della Moscariello, che ti coinvolge ictu oculi per impostazione e bellezza editoriale: in copertina dipinto di donna nuda la cui immagine prosegue nell’aletta, nel risvolto di quarta note bio-bibliografiche della scrittrice, e in quarta lacerti di note di autorevoli critici: Marcello Carlino, Giuseppe Iuliano.

[…] In questo volume l’argomento volge sulla vita e l’attività pittorica di Modigliani (Modì). Il libro è sostanziato da documenti di grande rilevanza filologica, che convalidano con la loro epistemologia la vicenda tormentata di un artista tra i più importanti dell’altro secolo, in attività tra Italia e Francia.  […] [Ci sono] testimonianze, dediche, cataloghi, le opere di Modigliani, bibliografia. Un testo di grande pregio artistico, d’intuizione emotivo-scritturale, dove la Moscariello fa brillare tutto il suo ingegno di donna intelligente e sensibile nello interpretare e rielaborare un contenuto non sempre agevole ma che ella ha saputo far confluire nelle sue forti e gentili doti interpretative. […] Un libro che ogni cultore d’arte e non solo dovrebbe avere bene in vista negli scaffali della sua biblioteca”.

locandinaA3_Modigliani_page-0001

Moscariello-foto-255x450Carmen Moscariello è presidente e fondatrice del Premio internazionale di poesia, saggistica, giornalismo “Tulliola Renato Filippelli” e del Premio della” Legalità contro le mafie”. Allieva di Raffaello Franchini, è stata Ordinaria di Italiano e Latino. Poetessa, drammaturga, regista (ha conseguito il titolo per La Regia con Roberto Tessari presso l’Ateneo dell’Università “La Sapienza di Roma”) è giornalista pubblicista. Corrispondente per Il Tempo, ha collaborato con TG3 Lazio e Avvenire ed è direttore e fondatore del mensile di politica e cultura Il levriero. Ha pubblicato opere di poesia, teatro, saggistica tra cui Friedric Holderlin, tra Lirica e Filosofia (1988), Il Presente della memoria (1994), Gli occhi frugano il vento (1999), Proserpina, tre atti preceduti da un preludi (2003), Eleonora dalle belle mani (2005), Giordano Bruno Sorgente di fuoco (2011), Oboe per flauto traverso, parole per Ugo Piscopo (2013), Ugo Piscopo, Terra nella sera Visioni (2014), L’orologio smarrito (2015), All’ombra di un’eresia (2016), Tunnel dei sogni (2016). Numerosi i suoi saggi apparsi su riviste.

Paolo Ragni sul libro di poesie “Pareidolia” (The Writer, 2018) di Lorenzo Spurio

Recensione di Paolo Ragni

Chiaramente la prima cosa che si fa, quando si ha in mano questo libro di poesie (Pareidolia di Lorenzo Spurio, The Writer, Marano P., 2018), è correre su un dizionario tradizionale o su un motore di ricerca e indagare subito sul significato del titolo. Scopertolo (ma non stiamo qui a dirvelo, è meglio che ve lo cerchiate per conto vostro), può darsi vi subentri una certa inquietudine: il web è pieno di citazioni strane e misteriose, mentre la spiegazione psicologica, a portata di tutti, lascia comunque qualche cosa di amaro.

Eppure, quant’è bello guardare le nuvole e scoprirvi disegni, immagini, figure umane!

Ecco, quest’opera di Lorenzo Spurio rimanda più spesso agli incubi che ai sogni. La sua capacità onirica qui diventa realmente e tragicamente visionaria e si lascia andare, pur in una scrittura sempre ricercata ed attentissima, a immagini di un mondo che giusto non è, sano non è, privo di equilibrio.

Qoyaanisqatsi era un film di quasi 40 anni fa, privo di trama e di dialoghi, difficilmente catalogabile se non come “documentario”. Il titolo significa, grosso modo, che “non c’è più equilibrio”. E qualche cosa di analogo, pur nella ricchezza delle ascendenze che un libro colto come questo di Spurio (come tutti quelli di Spurio) si porta dietro, si ritrova nelle pagine aspre, attonite o rabbiose dell’autore.

Spurio lo conoscevamo preferibilmente come narratore, e aveva dato già buona prova di sé, ad esempio, ne La cucina arancione e in Ritorno ad Ancona e altre storie (con Sandra Carresi). Ottimo addirittura il lavoro da lui svolto, con grande passione ed altrettanto puntiglio, sulla poesia marchigiana oggi, vero e proprio caposaldo di un amore verso la sua terra; riesce ad andare nel profondo e ad evitare le critiche cui invariabilmente si va incontro quando si fa una selezione di autori e di testi.

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Queste poesie di Spurio, non certo le sue prime, del resto, vista la sua militanza in questo campo già da vari lustri, sono però qualche cosa di totalmente nuovo.

Già l’originale citazione di Magrelli coglie nel segno: in definitiva alla vita si deve pur partecipare, alla poesia pure. E il poeta Magrelli sorprende non solo perché, già giovanissimo, in un panorama un po’ rumoroso, preferiva stare appartato e distillare siluri di ghiaccio sparsi tra le cose immutabili. Ma perché Magrelli stesso, come lui stesso si è scherzosamente definito bastian contrario, in periodi di caduta libera di valori civili, si è messo a manifestare, dignitosamente ma ad alta voce, la sua protesta contro un mondo ormai troppo freddo e convenzionale, schiacciato com’è dal fuggi fuggi delle immagini televisive o del web; lui, abituato a scorrere per anni i grandi classici, è quindi un Virgilio che ci introduce in queste pagine che molto spesso sono non dichiaratamente ma obliquamente e con ancor più forza esplosive.

Già l’enigma si apre, incerto, con il primo testo, e la sua inquietante conclusione che dà il titolo alla poesia: “ora qui, ora là”, vero e proprio passepartout che indica al lettore che non deve aspettarsi verità, ma la sola ricerca della verità (e non è poco! specie in un’era in cui tutti hanno da insegnare qualcosa, magari dicendolo in inglese: counseling); non certezze a buon mercato, ma casomai, obiezioni, contestazioni, ribellioni.

Non conoscevamo Spurio ribelle. Ma tant’è. Spurio rifugge saggiamente da ogni facile retorica, gelido e iracondo insieme, preso com’è da sacro furore davanti alla ferocia della vita (e della morte). Quante poesie abbiamo dovuto leggere, dagli anni Novanta a oggi, sulle innumerevoli stragi via mare, dai naufragi dall’Albania sulla costa adriatica e ionica fino a quelli sul mar di Sicilia. Ma mai avevamo letto frasi così taglienti, che reggono il punto esclamativo senza alcun punto di caduta: “non chiudete quei sacchi spazzatura!“. Mai avevamo notato, in questo silenzioso ghiaccio che addolora, questa contemplazione gelida e tragica di “noi che abbiamo osservato afoni“.

Questa linguaggio ha il coraggio di usare il tono del rimprovero e della sfida vera e propria, ricalcando in qualche modo le invettive dantesche o certo linguaggio veterotestamentario, dove alla profezia mi mischia lo strazio del presente: Quel “provate voi” in “L’acqua rossa di Aleppo” è un insulto alle nostre tiepide coscienze, è un vivere in perpetua vigilanza, senza sentimentalismi e lacrime facili.

Questo si ha perché Spurio, caso raro nella poesia odierna, sa descrivere, sa mettersi obiettivamente a fotografare cose, oggetti, parlandone ora con furia ora con quell’aria così apparentemente distaccata che invece è più potente dei più trepidi accenti: “Questo mare ha succhiato il tempo / e lo ha portato disgiunto da me /, oggi che quest’arsura di memorie/ lacera una soglia d’acqua / che prima sapevo riconoscere / e oggi si è sciolta” (in “L’acqua indocile”).

In realtà, l’Autore insiste nel rimescolare le carte, le immagini, dando loro contorni diversi, diverse prospettive, e, talora, come nelle migliori pareidolie, perfino un senso.

Difficile trovare un senso alle guerre, le violenze, le fughe, alle domande che rimangono appese (“Risposta di liquidità”) agli oggetti inutili e corrosi dal male umano (la gialla ruota del divertimento”, in “Primavera a Prypiat”). Difficile è rimanere indifferenti davanti alla cattiveria umana, che da qualunque parte provenga è comunque sempre in grado di compiere scempi.

E così, l’insipienza, da Cernobyl ai terremoti in Centro Italia, dall’Iran al Pakistan, dall’Ungheria all’Iraq e alla Siria, si presenta crudele e sempre uguale a se stessa: si è detto che il bene è creativo e sempre nuovo, il male, invece, è sempre il solito. Ed è vero perché il male, comunque lo si rigiri, merita sempre l’appellativo di inutile, di ripetitivo, qualunque sia la sua latitudine. Mentre il bene, adombrato spesso dallo sdegno, trova sempre nuovi accenti, con quell’aria di sfida e di provocazione che riscontriamo sempre molto volentieri:

Spiegatemi perché (…) Ditemi perché la vita si rovina (…) Oggi la ruggine ha vinto, signori e comari” (da “Trittico del fuoco”).

Non vogliamo però dare di questo volume un’idea unilaterale. Del resto, le poesie più acide (accompagnate spesso da versi più lunghi) si alternano, talvolta, a improvvisi sprazzi colloquiali, dove il tu non è un avversario da contestare o un ipotetico colpevole del male del mondo. Uno dei casi più belli è l’incipit di “La notte mi tocca”, vera pausa si silenzio, come càpita di ascoltare nell’altalenare dei movimenti di un concerto barocco: “Pure stasera non sai (…) Eccola trapunta di sogni, / lambisce i fiori della riva; / pare che il profumo / sia dissolto ovunque“. Attimo di pace, momento di apparente armonia che si riallaccia a tutti i “tu” amichevoli che il nostro Novecento ha saputo darci. È anche curioso che, nella trepida ansia dell’ultimo testo, sappiano coesistere sia immagini concrete, vivide, sia affermazioni taglienti, dialettiche, che non danno pace: “la lotta si consuma tra l’erba e / il sospiro che brilla e riparla“. Ed è anche bello osservare l’invito a questo tu, con cui terminano, in modo non desolato ma fiducioso, la poesia stessa e il libro tutto.

Infine, da notare l’interessante prefazione di Michela Zanarella, specie nell’osservazione che “non è possibile voltarsi dall’altra parte”, sia la nota di lettura di Nazario Pardini, che ribadisce quanto “è più facile sperdere la nostra identità che scoprine l’essenza”. Del resto, osserva, “la poesia (…) è soprattutto riflessione etica“. E questo è un grande regalo che, in questi spenti tempi di risolini, svaghi e rilassamento, Spurio ci ha saputo donare.

PAOLO RAGNI 

Firenze, 16-01-2020

 

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“Il canto delle Muse” di Sergio Camellini, recensione di Francesca Luzzio

Recensione di Francesca Luzzio

Sergio Camellini. Il canto delle Muse - [fronte e retro].pngIl Canto delle Muse (Guido Miano Editore, Milano, 2019 – con prefazione di Nazario Pardini)titolo emblematico che in sé racchiude  l’essenza semantica dell’ampia silloge di Sergio Camellini. Il poeta infatti, guidato dalle muse e, in particolare da Calliope, trasferisce il lettore in una atmosfera prevalentemente elegiaca, attraverso l’esaltazione della poesia, quale strumento di esternazione realistica di sogni, di esplicazione di sentimenti, quali l’amore per la stessa poesia, per la propria donna, per la natura, sicché “poesia-sogno-amore” sono le parole chiave che caratterizzano la silloge e intorno alle quali il poeta esplica il suo eterogeneo poetare che gli consente di raggiungere quella catarsi dell’anima che diventa pienezza di vita, goduta in quella dimensione acronica, che solo nella primissima infanzia è dato godere. Insomma è come se si esplicasse una fusione di orizzonti tra sogni e realtà: l’orizzonte del presente si fonde con il passato, ma anche con il sogno sia esso non realizzato ieri, sia esso agognabile per il futuro, sempre comunque pensato, sentito ed amato.

L’attenzione del poeta si sposta di continuo tra il soggetto poetante e l’oggetto, la poesia. Anche P. Neruda, A. Merini, U. Saba, etc… hanno scritto versi che propongono  considerazioni sul poesia, frutto di personali visioni intorno alla sua funzione, Sergio Camellini si annovera tra questi e per lui essa è lo strumento attraverso il quale, come si è già detto, egli si esplica e con il quale finisce con l’identificarsi perché essa gli consente di esprimere valori cardini del suo essere e del suo esserci: il suo rispetto e il suo amore per la donna, unica nel suo  poliedrico agire e sentire: “Tu \ che sai creare \ …\ Tu \ che sai ascoltare \ … \ tu \ che sai amare \ …\ tu \ che sai vivere \ …” (Tu che sai, pag.69) e soprattutto nell’esplicazione della sua funzione materna, o il suo amore per la natura nella magia, ad esempio, che la luna crea in un paesaggio montano, o infine gli permette l’esaltazione del sogno e del sonno, quali lenitori di sofferenza.

Ma la silloge perde il tono elegiaco che in genere la caratterizza e ne assume uno drammatico nelle poesie di denuncia dei mali della società attuale, quali il venir meno dei valori e del rispetto della natura che soprattutto “i grandi del mondo”, avidi di denaro, non prendono in considerazione o la mancanza di solidarietà, “… quando i muri \ sostituiscono i ponti \ e l’io s’avvita \ su se stesso \ senza vedere \ il noi \ senza sentire \ il voi \…” (Tra muri e ponti, pag.68), etc… L’io quindi tende ad espandere la sua visione verso le problematiche della società attuale perché di fatto solo quando esse saranno risolte potrà dirsi del tutto attuata quella triade, poesia-sogno-amore con la quale è possibile vivere in una dimensione acronica e piena di felicità, senza più dubitare della sua esistenza: “… Sei una parola spenta \ che mai \ si pronunzierà? ….” (Felicità bambina, pag.29).  

Lo stile  organico e coerente, si avvale di un linguaggio semplice e chiaro e di una versificazione libera , avvalorata dall’uso di tropi, quali principalmente la metafora e l’anfora che contribuiscono alla caratterizzazione dell lirismo in genere elegiaco della silloge.

Francesca Luzzio

 

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E’ uscito il n°12 della rivista “Alcyone 2000” (Miano Editore)

È di recente uscito per i tipi di Guido Miano Editore – Milano, il Numero 12 di “Alcyone 2000”, Quaderni di studi letterari e d’arte editi a partire dal 1999, racchiudono l’esperienza editoriale della casa editrice con pubblicazione di testi monografici di autori e inserti di artisti del Secondo Novecento. La pubblicazione aperiodica rappresenta la prosecuzione ideale dello storico bimestrale “Davide, rivista sociale di lettere e arti” fondato nel 1951, e da cui si è sviluppata la casa editrice diretta dalla famiglia Miano di Milano.
I vari numeri monografici oggetto di collezionismo contengono saggi e contributi
critici di docenti universitari e critici militanti.

Alcyone2000 n°12 [fronte].png
In questo numero, paesaggi dell’anima: Marinella Calabrese, Rosa Di Benedetto Odazio, Michele Miano, Maria Elena Mignosi Picone, Giuseppe Rigoli, Aldo Sironi, Lorenzo Spurio, Maria Rosaria Vadacca.
Profili d’autore: Roberta Fava, Alessandra Maltoni, Angela Ragozzino, Liliana Rasetti, Giuseppina Scotti, Salvatore Rino Viola. 
Sillogi di Maria Italia Basile, Graziano Brotto, Rossella Cerniglia, Alessandro Grecchi, Maria Stella Mei, Antenore Perilli, Fabio Recchia, Antonietta Scoponi, Marco Zelioli.
Itinerari della poesia contemporanea: Giulia Borroni Cagelli, Anna Castrucci, Andrea Cattania, Marco Lando, Francesca Luzzio, Guido Miano, Pietro Nigro, Nazario Pardini, Floriano Romboli, Giovanni Tavcar.
Inserto sulla nuova collana: Parallelismo delle Arti (arte figurativa e poesia a confronto).

Lo scrittore Giovanni Scribano inaugura il nuovo progetto editoriale: i suoi testi messi a confronto con alcuni artisti contemporanei per affinità tematica e di stile.
ALCYONE 2000 – PERCORSI LETTERARI DEL DUEMILA N 12/2019
Guido Miano Editore, Milano, aprile, 2019, pag 96, euro 20,00
GUIDO MIANO EDITORE – UFFICIO STAMPA

VIA EMANUELE FILIBERTO 12 – 20149 MILANO

02-3451804 – 02-3451806

mianoposta@gmail.com

Esce “I dintorni della solitudine” di Nazario Pardini, con prefazione di Michele Miano

AAA COPERTINA I DINTORNI CDELLA SOLITUDINE.pngE’ uscito il nuovo libro di poesie del poeta e critico letterario toscano Nazario Pardini dal titolo “I dintorni della solitudine” per i tipi di Miano Editore di Milano. Il testo si apre con una ricca prefazione del critico Michele Miano che così annota: “Nazario Pardini ha al suo attivo molte raccolte di poesia. È un personaggio, noto, da decenni nel campo della scrittura. Sulla sua produzione hanno scritto  i più qualificati critici letterari. Alla sua poesia sono state applicate varie chiavi interpretative, dalla motivazione esistenzialistica a quella psicanalitica alla religiosa a quella naturalistica. Ad essa egli perviene in maniera quasi inconscia, o meglio, sulla scorta di un cammino empirico, di sofferenze vissute e ben radicate nel quotidiano. Sarebbe fuorviante definire Pardini mistico dell’essenza, perché si verrebbe  inevitabilmente ad intaccare quella razionalità di pensiero e quella misura che caratterizzano il suo fare poesia. Eppure non gli sfugge il senso della sproporzione essenziale dell’uomo […] Il suo non è un canto illusorio, poiché sogno, realtà ed illusione si fondono con la sua identità presente e pienamente raggiunta con il pensiero e con l’azione. Si legga la lirica La poesia si scrive: “… non pensare / alla miseria umana, al suo degrado, / fingi che quel momento sia per sempre. / È l’unico sistema per fregare / lo scettro imperituro della sorte.”

Per poter leggere la prefazione integrale con il testo poetico “Verso la luce” di Nazario Pardini si rimanda all’articolo pubblicato su “Alla volta di Leucade” il 21/02/2019.

“Ingólf Arnarson” di Emanuele Marcuccio. Note e approfondimenti critici di L. Spurio, L. Bonanni e N. Pardini

A continuazione, dietro proposta e col consenso dell’autore del dramma epico Ingólf Arnarson (Le Mezzelane, 2018), il poeta Emanuele Marcuccio, si dà pubblicazione ad alcuni interventi critici sulla sua opera, rispettivamente i testi presenti nel volume a corredo e ampliamento circa lo studio dell’opera: la prefazione del sottoscritto e la postfazione a cura di Lucia Bonanni. A chiusura si pubblica anche una breve nota d’apprezzamento da parte del poeta e critico letterario prof. Nazario Pardini.

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PREFAZIONE – a cura di Lorenzo Spurio

Conosco Emanuele Marcuccio da almeno quattro o cinque anni e nel tempo abbiamo organizzato o collaborato a una serie di attività letterarie. Ho avuto il piacere e l’onore di leggere le sue opere e di dedicarmi alla scrittura critica di recensioni e saggi sulla sua produzione.[1] Il più recente in ordine di tempo è uno studio sui tre volumi di un progetto antologico innovativo di dittici poetici che ha calamitato l’attenzione di un gran numero di intellettuali e la partecipazione di poeti da ogni parte d’Italia.[2]

Tempo fa – per l’esattezza nel 2011 – Marcuccio mi inviò la prima parte di un dramma epico ambientato in Islanda. Conoscendo la sua propensione per una poetica di impronta prettamente classica (con vivi richiami a Leopardi, Pascoli e Carducci) che poi negli anni avrebbe evoluto in un minimalismo asciutto (si veda la silloge Anima di Poesia del 2014), mi stupii non poco dell’opera che aveva prodotto. Andai a casa sua nel 2013, a Palermo, e non mancò di farmi leggere altri pezzi che nel frattempo aveva scritto portando avanti il suo lavoro. Un’opera maestosa, di tutto riguardo.

Già nel 2011, sebbene l’opera non fosse ancora completa, Emanuele Marcuccio mi aveva chiesto di dedicarmi a una nota critica che servisse come prefazione alla sua opera e, data l’amicizia e la stima che nutro per lui, non potei di certo rifiutare. Lessi così con grande attenzione la sua opera. Subito mi tornò in mente il poema epico anglosassone Beowulf (per altro oggetto della mia prima tesi di laurea) ma anche le saghe nordiche, i carmi norreni e, comunque, tutte quelle narrazioni o gesta di matrice epico-cavalleresca tipiche della tradizione germanica pagana.

Già allora scrissi qualcosa sulla sua opera, perché mi sentii particolarmente attratto da quel tipo di versi, sulle reminiscenze di conoscenze maturate nel campo, appunto, della tradizione germanica in letteratura.

Oggi mi sono ritrovato a rileggere l’opera con vivo entusiasmo e curiosità.

Non solo ho potuto completare la lettura delle vicende che hanno tanto impegnato Emanuele, ma ho ritrovato una serie di dettagli fondamentali ai quali precedentemente non avevo dato gran peso. Questo per sottolineare quanto la cesellatura dei versi liberi operata dall’autore, lo studio attento dei caratteri, la descrizione circostanziata e puntuale delle scene, l’esatta orchestrazione degli avvenimenti siano ingredienti tutti concatenati tra loro che dimostrano in maniera assai stupefacente il grande lavoro prodotto da Emanuele. Non solo fine poeta, ma anche studioso della forma, ricercatore del bello, costruttore di una trama frastagliata e avvincente, creatore di un’epopea cavalleresca anacronistica alla nostra letteratura kitsch e improntata al consumo. Marcuccio, sulla spinta di una suggestione profonda verso l’Islanda – terra mai visitata, ma a dir suo vissuta emotivamente tramite apparati storici e documentari – è riuscito a entrare nell’anima di un popolo, a fornircene la trama, a vivificare un periodo storico molto distante dalla nostra contemporaneità. Lo ha fatto senza alcun intento prettamente storico-educativo. Marcuccio si è semplicemente servito di alcuni elementi codificati dalla storia (l’esistenza dell’eroe epico e la sua tradizione, l’avvenimento della cristianizzazione dell’Islanda) per creare una cornice plausibile e congrua nella quale dar compimento alle gesta dei propri personaggi.

Nell’autore c’era anche la volontà di poter ascrivere il suo lavoro a un dato filone o categoria letteraria a partire dalle forme e dalle strutture che lo caratterizzassero. Se inizialmente l’autore definì l’opera poema drammatico, con una maggiore riflessione, e portando esempi concreti di questo genere di opera con le necessarie divergenze dal suo manoscritto, ha pensato che forse la definizione più consona e pregnante – sebbene abbastanza verbosa – fosse quella di dramma epico in versi liberi. L’intenzione era stata quella di privilegiare nella catalogazione in un genere non solo il contenuto (l’epica) ma anche la forma (quella teatrale, appunto, di un dramma). Il problema della definizione in un genere, comunque, è ben poca cosa, dato che sappiamo quanto sia difficile e spesso limitativo ingabbiare un’opera in un’unica categoria. Procedimento che poteva essere fatto nel passato dove l’intelligentia si contraddistingueva per scuole, tendenze, periodi letterari etc., che oggi non risponde più alla consuetudine soprattutto per il fatto che il testo non è quello che l’autore vuole esprimere con esso, ma rappresenta la polifonia di interpretazioni e letture che può ricevere. In questa camaleontica realtà dove è il lettore attento e arguto a “costruire” assieme all’autore, l’artefice della storia, il significato del libro, va da sé che più letture e analisi esso potrà fornire, più sarà valido, universale e ben recepito. Per questo non è errato dire che l’opera di Marcuccio sia anche l’epopea romanzata dell’Islanda o un carme epico, nonché un dramma sociale, un racconto cavalleresco, un romance, una saga e, ancora, una cronaca.

La materia utilizzata da Marcuccio è in parte storica e in parte fantastica, tanto che potremmo dire leggendaria. Sono presenti riferimenti diretti alla cultura popolare norrena come il personaggio del dramma, Ingólf Arnarson[3], condottiero norvegese che appartiene alla leggenda; descrizioni meticolose dell’ecosistema dell’Islanda, il racconto di scene di guerra. Lo scenario di tutto il dramma è l’Islanda della fine del IX sec. d.C. abitata da popolazioni indigene di stirpe germanica, di credenza pagana e prossime alla conversione al cristianesimo, alle quali Marcuccio contrappone i normanni (o vichinghi) ossia gli uomini del nord, i norvegesi che furono grandi colonizzatori del nord Europa, di fede pagana. L’autore inserisce nell’opera anche importanti riferimenti alla colonizzazione e alla conversione dell’Islanda. La studiosa Maria Vittoria Molinari, per spiegare l’affluenza delle rotte dei vichinghi verso l’Islanda, ha osservato: “Quando il re norvegese Haraldr Hárfágr (875 – 945 ca.) cercò di unificare sotto la sua sovranità tutta la Norvegia e di organizzare uno stato autoritario di tipo feudale, sul modello dei regni dell’Europa centro-meridionale, molti norvegesi non accettarono questo sovvertimento e preferirono emigrare in Islanda dove trasferirono le antiche istituzioni e abitudini di vita”[4]. Così, numerose navi presero la rotta dell’Islanda e colonizzarono l’isola. Importante anche l’opera di conversione degli islandesi, popolazione di stirpe germanica da sempre legata a culti di tipo pagano, alla religione cristiana e ai modelli di società di tipo medievale sino ad allora estranei all’area scandinava. La conversione in Islanda si ebbe attorno all’anno 1000 grazie alla decisione dell’assemblea generale, l’Althing. Con la conversione, s’introdusse la lingua latina che, oltre a essere impiegata nei testi liturgici, divenne lingua letteraria. L’opera di Marcuccio non ha nessuna pretesa di carattere storico, archeologico né documentaristico, ma si serve della storia in maniera personale per creare una trama che è e resta fantastica.

La storia che Marcuccio narra è una storia di combattimenti, vendette, condanne a morte. Le spade vengono sguainate molte volte: sia per giurare che per incitare alla lotta. E cosi Sigurdh (che non ha niente a che vedere con Sigurdhr o Sigfrido, eroe della Saga dei Nibelunghi e della Saga dei Volsunghi) anima i vari servitori di Ingólf e riesce a coalizzarli. Assieme sono motivati dalla volontà di privare Ingólf, loro signore, del suo ingente tesoro. Assistiamo cosi a un clamoroso ammutinamento contro il padrone, singolare in un’opera di questo tipo, ma quanto mai avvincente per lo svolgimento della storia.

Il tema del tesoro, si sa, e un topos molto presente nella letteratura epica: si pensi al tesoro sorvegliato dal drago sputa-fiamme nella seconda parte del Beowulf, o al tesoro dei Nibelunghi o, ancora, al tesoro che nell’epica tedesca e custodito da Fáfnir[5]. Nel corso della storia, però, si presentano alcuni imprevisti: Hákon, servitore di Ingólf, consapevole della gravita delle idee di Sigurdh, non tarda a informare il suo padrone. Assistiamo a una prima lotta tra i seguaci di Sigurdh e quelli di Ingólf. Tutto avviene su quella che l’anonimo compositore del Beowulf avrebbe definito “il legno del mare”, ossia su una barca, diretta verso l’Islanda. Raggiunta l’isola di Thule, però, le cose non vanno come Ingólf aveva previsto e seguiranno una serie di peripezie: Sigurdh si innamorerà di una donna indigena promessa però in sposa a uno del posto e Ingólf farà di tutto per ostacolarlo. La vicenda si chiude con un ultimo duello e, come nella migliore tradizione della chanson de geste, il lieto fine è garantito.

Il dramma di Marcuccio tratta con originalità e chiarezza di linguaggio molti topos dell’epica germanica: i riferimenti ai combattimenti, al cozzar di spade, all’importanza della fama e della gloria[6]; l’impiego di prove per testare la valorosità dell’eroe[7]; la credenza e l’invocazione del fato, spesso personificato, il tema del tesoro e il motivo del viaggio in terra straniera. Essendomi occupato di fatalismo germanico[8], devo riconoscere che nell’opera di Marcuccio il destino non è un semplice concetto, un’idea, ma viene caricato di un significato proprio facendo di esso quasi un personaggio. Fato, destino, sorte, fortuna sono concetti che derivano dall’antico inglese wyrd, spesso personificato dalle Norne, che si riferisce a una cultura precristiana, pagana. A tutto ciò Marcuccio aggiunge elementi che rimandano alla conversione dell’Islanda al cristianesimo: la presenza di un monastero e di monaci, l’influenza celtica, la presenza di croci che viene, quindi, a rappresentare una fase successiva di sviluppo politico-sociale-economico della vita dell’Islanda di epoca norrena.

Tuttavia ciò che Marcuccio narra non è solo un racconto epico, è molto di più. È evidente, infatti, la potenza del lirismo, soprattutto in alcuni momenti, come nella scena d’amore tra Sigurdh e Halldóra e, allo stesso tempo, di una certa vicinanza alla cultura popolare con riscontrabili cadenze e dialettismi che rendono particolarmente significativo e vivo il testo, sottolineando quanto sia importante la componente orale nella trasmissione della cultura. L’opera va anche letta, però, come una probabile e ben elaborata cronaca di conversione dal paganesimo al cristianesimo, non forzata, ma fondata, invece, sul libero arbitrio e sulla consapevolezza della validità del nuovo credo.

 

 

NOTE

[1] Lorenzo Spurio, Un infaticabile poeta palermitano d’oggi: Emanuele Marcuccio, Photocity, Pozzuoli, 2013.

[2] Lorenzo Spurio, Risonanze empatiche: l’esperienza del “dittico poetico” di Emanuele Marcuccio in AA.VV., Dipthycha 3. Affinità elettive in poesia, su quel foglio di vetro impazzito…, a cura di Emanuele Marcuccio, PoetiKanten, Sesto Fiorentino, 2016, pp. 137-146.

[3] Ingólf Arnarson (moderno “Ingólfur”) è considerato il primo colonizzatore a stabilirsi in Islanda secondo quanto riporta il Landnámabók.

[4] Maria Vittoria Molinari, La filologia germanica, Zanichelli, Bologna, 1987, p. 154.

[5] Fáfnir è un personaggio importante della mitologia norrena, solitamente raffigurato come drago, ma a volte come un serpente. Le sue vicende sono narrate nella Saga dei Volsunghi dove il drago è custode di un vasto tesoro e viene sconfitto da Sigfrido per mezzo della gloriosa spada Gram. L’eroe mangia il cuore del drago ottenendo la sapienza delle lingue degli animali e poi s’immerge nel suo sangue ottenendo l’invulnerabilità su tutto il corpo tranne in un punto della spalla dove, durante l’immersione, gli si è posata una foglia.

[6] Nel Beowulf e negli altri poemi epici citati la fama dell’eroe è un aspetto estremamente importante che viene richiamato molto spesso. L’idea è che il coraggio, la fama e il valore sono ancor più importanti della morte e, a differenza del corpo dell’eroe, la fama non muore quando lui perisce. Nella Hávamal, composizione di carmi eddici in poesia, a un certo punto viene infatti detto: «Muoiono le mandrie, muoiono i parenti, morirai tu stesso allo stesso modo. Ma la fama non muore per chi se ne è fatta una buona» (in Hávamál, in L’Edda-Carmi Norreni, Introduzione, Traduzione e Commento di Carlo Alberto Mastrelli, Prefazione di Raffaele Pettazzoni, Sansoni, Firenze, 1951, vv. 305-08, pag. 21). Nei primi versi del dramma di Marcuccio, Sigurdh incita Ari a unirsi a lui nell’impresa di sottrarre il tesoro a Ingólf e dice: «Pensa alla gloria, alla fama/ che avremo, partecipa con noi» (vv. 161-162, atto I, sc. I).

[7] Nella Saga dei Nibelunghi viene raccontato che Gunther, fratello di Crimilde, s’innamora di Brunilde, regina d’Islanda e che per poterla sposare deve superare tre prove alle quali viene sottoposto. Per mezzo del cappuccio magico Sigfrido aiuta l’amico a superare le prove con l’inganno e cosi Gunther riesce a sposare Brunilde. Le prove, le gare, intese come prova di coraggio e di resistenza, sono spesso impiegate nell’epica come attestazione del valore dell’eroe.

[8] Lorenzo Spurio, Il concetto di “wyrd” nel poema Beowulf, Universita di Urbino “Carlo Bo”, Facolta di Lingue e Letterature Straniere, Tesi di Laurea, Relatore: Alessandra Molinari, Correlatore: Michael Dallapiazza, a.a. 2007/2008.

 

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POSTFAZIONE – a cura di Lucia Bonanni

Un’introduzione[1] alla drammaturgia dell’Ingólf Arnarson

La linea metodologica, seguita da Fancesco De Sanctis (1817 – 1883) nella propria attività critica, è il concetto di “forma”.

Essa non è intesa come idea astratta, bensì come identità ed essenza dell’opera d’arte. Nel momento in cui l’intuizione lirica investe il poeta, egli ha dinanzi a sé il gene della fantasia creatrice, che in poesia diviene epifania di vita immortale. È in questa fase che nella mente del poeta “nasce un mondo ideale, riconciliato e concorde, ove si acquietano le dissonanze del reale e i dolori della terra”[2].

Ma cosa si deve intendere per espressione drammatica? Con tale accezione lessicale si esprime la passionale attitudine a vedere lo sviluppo delle vicende nei loro urti, nei loro dissidi “e la poesia non è poesia di quelle dissonanze, ma poesia del dolore che quelle dissonanze seminano intorno a sé”[3] mentre l’ispirazione si genera nella pietà per la sfinitezza di chi è vittima delle passioni. Come ben sappiamo, la natura umana è soggetta alla crescita e al cambiamento e nel proprio sviluppo attraversa fasi e conflitti, e i suoi cambiamenti seguono le medesime leggi che regolano l’intero universo. Secondo Lajos Egri (1888 – 1967), scrittore, regista teatrale e didatta di grande fama, in letteratura è il conflitto a rivelare la natura interiore del personaggio, trovando inizio in una decisione che si mostra come logica conseguenza della premessa. La decisione presa dal personaggio principale porta alla decisione del suo antagonista e tali decisioni conducono verso la dimostrazione della premessa.

“Nell’intera drammaturgia moderna forse non esiste un personaggio che “si evolva” in modo più sorprendente della Nora di Ibsen”[4].

Nell’opera letteraria ogni personaggio oscilla tra diversi stati d’animo ed è costretto a modificare il proprio modo di vivere, ad evolversi, a catapultarsi nella maturità e nella ribellione; questo perché i veri personaggi sono delegati a dimostrare la premessa del drammaturgo. Nessun tipo d’azione è il risultato del binomio causa ed effetto in quanto nell’azione in circolarità temporale sono racchiusi movimento ed energia.

Sempre secondo Egri il conflitto può essere suddiviso in quattro categorie: “statico”, “discontinuo”, “crescente”, “adombrato” e si può far risalire sia all’ambiente che alle reali condizioni socio-culturali del soggetto. Allorché l’individuo ha forza interiore per passare all’azione, allora è anche in grado di prendere una decisione. La conseguenza che ne deriva è la pratica del contrattacco che darà il via ad una lunga teoria di eventi. Attraverso le transizioni, o conflitti minori, il personaggio costruisce la propria emancipazione in modo lento, ma sempre costante. E dato che il conflitto diviene inevitabile, quando due opposti si incontrano e si fronteggiano, le caratteristiche principali che costituiscono l’humus comportamentale sono da ricercarsi in: affetto, rozzezza, arroganza, avarizia, precisione, astuzia, abilità, destrezza, onestà, lealtà, misticismo, calma, moralismo, sottomissione, sarcasmo, ferocia, riservatezza, tradimento, vendetta, sensibilità.

Con la locuzione “personaggio cardine” Egri intende il protagonista che è “la persona alla guida di un movimento o di una causa”[5] per cui l’antagonista o avversario è chi si oppone al protagonista. Il personaggio cardine, però, non è soltanto il protagonista, ma è anche il soggetto che dà origine al conflitto e favorisce lo sviluppo del dramma. “Un personaggio cardine è una forza-guida, ma non perché abbia deciso di esserlo. Egli diventa ciò che è per il semplice motivo che qualche forza interiore o esteriore lo costringe ad agire”[6]. Il motore di tale agire è sempre l’onore, il denaro, la vendetta, la salute, la protezione, la passione per cui sia i personaggi “positivi” che quelli “negativi” provocano un tipo di reazione che determina la responsabilità del conflitto e la conseguente necessità della transizione. Come già enunciato, l’antagonista è colui che si oppone al protagonista, lo frena, lo ostacola e cerca di esercitare dominio e razionalità contro la forza e l’astuzia usate dal protagonista. Di primaria importanza nella stesura di un dramma è la corretta orchestrazione dei personaggi in quanto essa è uno dei fattori che genera il conflitto crescente. Pertanto è necessario che i personaggi non siano dello stesso tipo altrimenti “sarà come avere un’orchestra composta solo di tamburi”[7]. Quindi è necessario che l’orchestrazione sia determinata da personaggi opposti e ben delineati, in grado di passare da un estremo all’altro mediante il conflitto e non scendere a compromessi. Le forze che il drammaturgo schiera in campo, possono essere individuali o di gruppo, ma il movimento deve sempre creare dei contrasti nella dinamica del dramma. Inoltre dalla vera unità degli opposti non scaturisce la possibilità di un compromesso in quanto gli opposti sono legati in maniera da annullarsi a vicenda per poter sopravvivere. Infatti “[l]’unità tra gli opposti dev’essere così forte da far sì che si possa arrivare a una risoluzione solo se uno o entrambi gli avversari sono esausti, sconfitti o completamente annientati”[8].

Ritornando alla premessa, parte che racchiude personaggio, conflitto e risoluzione, bisogna dire che per scrivere un’opera letteraria è sempre necessario un “obiettivo” a cui attenersi e che può essere anche detto: tema, idea centrale, tesi, soggetto, piano, intreccio mentre la premessa si configura come “un’affermazione postulata o provata precedentemente; la base di una discussione. Un’affermazione enunciata o assunta, in quanto in grado di condurre a una conclusione”[9]. In un dramma dalla struttura ben organizzata occorre che il limite tra la fine della premessa e l’inizio della storia debba essere sottile e mai svelato in modo da catturare la curiosità e l’attenzione dei lettori/spettatori. “«[N]essuna parte è più importante del tutto!»”[10] gridò Rodin agli studenti atterriti, quando con un netto e preciso colpo di scure tagliò le mani della statua di Balzac che aveva appena terminato. Da questo aneddoto si evince che nessuna parte di un’opera d’arte vive di vita propria, ma tutto vive in costruzione armonica. C’è da aggiungere che per uno sviluppo corretto del dramma è necessario avere ben chiaro in cosa consiste la tridimensionalità di ciascun personaggio: fisiologia, sociologia, psicologia e cioè aspetto fisico, ambiente, ereditarietà e persona. Quindi per meglio comprendere le leggi che governano le manifestazioni comportamentali di ciascun individuo, si rende necessario porre la giusta attenzione alle motivazioni profonde che lo inducono ad agire e che il drammaturgo deve saper prendere in esame per poter comporre quella che è la struttura di base di ciascun personaggio tridimensionale.

Secondo gli antichi Greci la dialettica, conversazione o dialogo, era scandita in tre passaggi principali: tesi, antitesi, sintesi, che ancora determinano la universalità delle leggi su cui si basa la dialettica. Come scrive Hegel, “[u]na cosa si muove, acquista impulso e attività solo perché contiene in sé una contraddizione. È questo il processo del movimento e dello sviluppo”[11].

Ma in un’opera teatrale quando è il momento giusto per alzare il sipario? A quale scena affidare il punto d’attacco?

«[I]n ogni opera che si possa definire dramma, il sipario si alza quando almeno uno dei personaggi ha raggiunto un punto di svolta nella propria vita»[12].

Quello che delinea Marcuccio nel suo dramma in versi, è un valido e imponente punto d’attacco che fin dall’inizio lascia intendere che la tensione sviluppata dai personaggi è in grado di adombrare il conflitto, dato che la posta in gioco che si annuncia è un qualcosa di non confutabile, vero e vitale. Egri afferma che “[i]l dialogo deve far luce sui personaggi. Ogni discorso dovrebbe essere il prodotto delle tre dimensioni di chi lo pronuncia e dovrebbe rivelarci chi è, suggerendo come diventerà”[13].

I personaggi scelti e descritti da Marcuccio, sono orchestrati nel loro profilo tridimensionale, commisurati al movimento e forti nell’agire, calati nella categoria di appartenenza e capaci di evolversi fino alla giusta conclusione; il protagonista possiede la medesima forza dell’antagonista e le varie personalità in conflitto giungono sempre allo scontro. Nel dramma del Nostro è Sigurdh il personaggio cardine da cui dipende tutta la vicenda, è lui che si oppone a Ingólf e, se non ci sarebbe stata la figura del nostromo, non sarebbe neppure esistito lo sviluppo del dramma. Come scrive nell’indice dei nomi, l’autore immagina Ingólf come “un uomo maturo, sulla quarantina, [v]ersato nelle lettere, sa leggere e scrivere”, descrive Sigurdh come un “giovane guerriero normanno e marinaio, di appena trent’anni”. Ed è sempre il dialogo ad incidere sulla dimostrazione della premessa perché, nascendo dalle parole dei personaggi, ne mostra il sentire, l’estrazione sociale, la religiosità e i cambiamenti necessari anche in funzione del conflitto. Pertanto i dialoghi stilati dal Nostro sono sempre “di buona qualità, perché [essi sono] la parte del dramma più accessibile al pubblico”[14]. Nella genesi del dramma l’esposizione, anche con l’uso della voce fuori scena, non è elemento avulso dall’intera impalcatura drammatica, ma è parte del tutto, una progressione costante, ininterrotta e continua fino alla conclusione del dramma.

Veleggia sul vasto mare/ il gran drakàr,/ frange i flutti,/ a prua si apre una via;/ tranquillo avanza verso Thule” (vv. 1-5, prologo).

È il monologo della voce fuori scena ad introdurre il lettore/spettatore verso l’inizio dell’azione scenica e, volendo risalire ai classici greci e latini, si può affermare che la voce fuori scena, presente in più scene del dramma, possa essere identificata con l’autore. Nel Prologo, rivolgendosi ai lettori/spettatori esordisce per svelare l’antefatto, o prequel, ed anticipare il seguito, o sequel, corrispondente all’ordine logico e cronologico del contenuto dell’opera letteraria. Giusto come succedeva nelle arti visive in cui l’artista amava celarsi in uno dei personaggi da lui creati.

Per il ponte passeggia un uomo/ […]/ un turbamento strano lo assale” (vv. 12, 15).

Bastano già i primi cinque versi e questi ultimi due a far vibrare le corde dell’interiorità per quel contrapporsi tra la quieta armonia regnante nell’ambiente naturale e le collisioni che amareggiano l’uomo dalla “attempata e giovanile età”. Ma il caso, come ben si sa, è sempre in agguato, sparge intorno “aria maligna”, porta tormento e “repentina agitazione”, perseguita e non fa andare avanti.

Verrà un giorno, sì verrà:/ alla gran materia preziosa/ mi avvicinerò” (vv. 36-38, I, sc. I), “[r]insavisci, disperdi/ l’impresa funesta” (vv. 152-153).

Già si delinea il conflitto, il contrasto, l’alterco, la lotta che il nostromo è pronto ad ingaggiare col colonizzatore per il possesso di un forziere traboccante d’oro e gemme preziose, “un groviglio rovinoso e inestricabile” che tormenta e percuote la mente per brama di potere.

Pazzo! cosa pensavi di fare?/ Impadronirti del mio oro, /tu, nel tuo agire/ sempre dubbioso e incerto,/ gettarti in un’impresa!” (vv. 513-517, I, sc. IV)

Come appare evidente, le pupille annebbiate dall’ira portano Ingólf a sottovalutare la destrezza di Sigurdh, a non presagire cosa potrà scaturire dalla sua ribellione. Il nostromo, incatenato e controllato a vista dalle guardie, siede al centro di una sala abbellita da un tappeto con figure della mitologia norrena ed un arazzo di pregevole fattura. Il colonizzatore, ormai padrone della scena, lo insulta, lo minaccia, gli prospetta strazio e torture, gli dice che lo impiccherà alla forca più alta non prima di avergli mozzato la testa di netto. A Sigurdh non è dato di reagire col vigore fisico, ma l’odio e la rabbia nel suo animo sono focolaio di rivolta, i suoi occhi simili a braci roventi, sembrano sprizzare scintille mentre le sue parole lanciano fiele al cospetto del suo antagonista.

Bestia vile, cane maledetto!/ […]/ malnato empio assassino!” (vv. 557, 563)

Da questo momento non esisterà tregua tra i due uomini che saranno avvolti da luce e tenebre, libertà e morte. Incatenato e rinchiuso tra le botti della squallida stiva, nel ricordo pungente Sigurdh rammenta il gesto eroico del proprio padre che per salvarlo dal barbaro vichingo, quando era ancora bambino, gli fece scudo col proprio corpo. Fisiologia, sociologia, e psicologia denotano chi sono i due protagonisti e lasciano presagire cosa e come diventeranno.

Nella scena prima del secondo atto, che si apre dopo l’approdo alla terra del ghiaccio, il personaggio che attua la transizione, è Halldóra, la giovane figlia di Ragnar, capovillaggio di indigeni islandesi. La ragazza, nascosta tra i cespugli, è attratta dalla bellezza del volto di Sigurdh che è subito rapito dal suo candore e mentre “[…] si rincorrono con gli sguardi” (v. 114, II, sc. I), la vasta amenità del paesaggio fa da sfondo al nascente idillio amoroso. Halldóra, oltre che rappresentare annuncio di transizione evolutiva per Sigurdh, e, se vogliamo, anche per lo stesso Ingólf, è anche personaggio cardine nel momento in cui per amore del guerriero normanno si ribella al padre che la vuole sposa di Steinar, giovane guerriero del loro villaggio. E si rivela personaggio cardine anche quando si risolve ad appiccare il fuoco alla casa dove è stata rinchiusa da Björn, capovillaggio e nemico dichiarato di Ragnar, dopo averla rapita con l’aiuto del fedele Vigfús al comando di Ingólf e di un manipolo di uomini assai rozzi e scellerati. Riservatezza, sensibilità, affetto, onestà, e misticismo sono elementi fondanti del carattere della giovane, caratteristiche peculiari che le conferiscono fermezza nel perseguire i propri ideali di donna. È Halldóra ad innescare, se pure un conflitto minore, le ostilità tra sé stessa e il promesso sposo e di conseguenza tra Sigurdh e Steinar.

Però nel fitto della boscaglia, ben consapevole del pericolo, Sigurdh, animato da forte senso di lealtà, salva la vita al suo rivale in amore. L’uomo è stato attaccato da un orso rabbioso ed è ferito alla spalla sinistra e Sigurdh, sorreggendolo, lo conduce al villaggio. “Sei salvo…/ non si ha fortuna/ a insultar/ così la natura” (vv. 127-130, IV, sc. III), “[a]mico… ti ringrazio,/ hai salvato i miei giorni” (vv. 135-136), “[m]a sei ferito… vieni, appoggiati” (v. 142).

E sarà ancora il nostromo a non voler abbandonare Steinar una volta giunti in soccorso della giovane indigena. Quello che si genera tra i due contendenti, è un conflitto statico, mitigato da sentimenti positivi quali altruismo e lealtà che avvalorano e confermano la premessa, la quale possiamo affermare che sia sintetizzata dalla frase: “L’aspra lotta dell’amore per vincere l’odio”.

Aspro e impietoso è il duello a cui giungono Sigurdh e Ingólf, lotta presto interrotta dal colpo a tradimento assestato dal nocchiero, preoccupato per l’incolumità della sua amata. Per il colonizzatore è l’inizio di un lungo e tormentato, ma risolutivo, periodo di transizione; evento annunciato dal suono pacato di una Voce e da un prorompente fascio di luce che lo porteranno ad un radicale cambiamento interiore.

Perdonami, se puoi…/ perdonatemi…/ mio Dio…” (vv 74-76, V, sc. unica)

Ingólf, ormai monaco, spira nel cortile del monastero, trafitto dalla furia di Sigurdh. L’acredine del conflitto, adombrato e crescente, non somma l’odio e muta la vendetta in profonda pietà. Determinante è il cambiamento interiore che sorprende anche Sigurdh, caduto in ginocchio davanti a quell’emblema di fede e redenzione che ancora non conosce. La calma, il moralismo e la paziente sottomissione del monaco si rivelano agenti sublimanti per l’ira incontrollata di Sigurdh; è la forza-guida del suo avversario ad attuare il dissolvimento delle negatività che incrostano l’animo del nocchiero. Il percorso evolutivo dei due antagonisti vira verso la maturità, passando da un estremo all’altro senza scendere a compromessi, se non con la loro interiorità e la forza necessaria per dare seguito a pensiero e azione. Il ragionare di Halldóra abbracciata a Sigurdh, annuncia la fine di Steinar e quella di Björn, e dichiara il consenso di Ragnar alle nozze.

I personaggi orchestrati dal Nostro, agiscono secondo la necessaria tridimensionalità, sono ben collegati all’ambiente naturale ed al contesto sociale e confluiscono in quella che è detta da Egri “scena obbligatoria”. Nel dramma di Marcuccio tale scena è da rintracciare nella voce fuori scena del quinto atto mentre la struttura drammatica si sviluppa in maniera costante fino a raggiungere il proprio culmine senza, però, togliere intensità alle altre scene dei precedenti atti, interessando al significato intrinseco del dramma.

D’un tratto/ un varco di cielo/ scolora/ il giorno,/ e si colora di rosso,/ e scie di nuvole/ luminose/ scendono/ come sangue/ sulla terra…” (vv. 99-108)

Da notare che il nostro intento nel redigere questa introduzione alla drammaturgia dell’Ingólf Arnarson di Marcuccio, non è dimostrare l’applicazione delle tecniche che il Nostro ha letto nel citato libro di drammaturgia di Egri. Più che una applicazione, per l’autore è stata una conferma di quello che aveva già applicato, in quanto la sua lettura del testo di Egri risale all’anno 2012. A quell’epoca, come ha dichiarato l’autore, i giochi erano fatti, la trama c’era tutta, fino alla fine (mancava soltanto quel prodigio finale nel cielo, che farà cadere tutti in ginocchio) e c’era solo da aggiustare l’aspetto formale dei versi e completare il quinto atto. Possiamo immaginare invece che Marcuccio sia stato istruito alla drammaturgia attraverso la lettura dei classici del teatro, consacrandosi con la scrittura dell’Ingólf Arnarson anche abile drammaturgo.

 

NOTE:

[1] Il presente testo, inserito come postfazione al dramma epico di Emanuele Marcuccio, costituisce il penultimo capitolo del saggio monografico inedito di mia stesura sullo stesso dramma, che sarà pubblicato prossimamente.

[2] Mario Olivieri, La letteratura italiana nelle pagine della critica, cit. da Francesco De Sanctis, Saggi critici, Paravia, 1967, p. 642.

[3] Ivi, cit. da Mario Sansone, L’opera poetica di Alessandro Manzoni,  p. 651.

[4] Lajos Egri, L’arte della scrittura drammaturgica, trad. Olimpia Medici e Roberto Gagnor, cit. da Archer, Dino Audino, 2010, p. 51.

[5] Lajos Egri, Op. cit., cit., p. 79.

[6] Ivi, p. 80.

[7] Ivi, p. 83.

[8] Ivi, p. 88.

[9] Ivi, cit., p. 14.

[10] Ivi, p. 31.

[11] Ivi, cit., p. 45.

[12] Ivi, p. 129.

[13] Ivi, p. 167.

[14] Lajos Egri, Op. cit., cit. p. 166.

 

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Nota di lettura – a cura di Nazario Pardini

Già abbiamo letto, introdotto o commentato opere e sillogi di Emanuele Marcuccio, mettendone in evidenza la sana scrittura, la puntualità lessicale, la inventività creativa, e la documentazione culturale. In questa nuova avventura letteraria il Nostro si confronta con il genere drammatico: un dramma in poesia. Storia, epicità, fluidità del dettato lirico, habitus, confluenza del pathos dell’autore nella costruzione della psiche e dell’azione dei personaggi. Una vera metamorfosi cristallina che la dice lunga sulle capacità analitico-introspettive dello scrittore. Il panorama islandese, ambientazione della vicenda, ci mette del suo, tramite quadri misteriosi e sfumature di verdi brumosi, nel concretizzare l’azione e l’autonomia dei protagonisti in questione. Un’opera che invita a riflettere sull’uomo, sulle sue debolezze, la sua storia; un messaggio di vita e di libertà che scaturisce da una versificazione sciolta, suadente e convincente, dove la trama si dipana in un climax di forza e visività. Gli stessi cori del dramma, di ispirazione greca, rinunciano in gran parte alla loro storica aulicità per acquisire un linguaggio volutamente semplice, popolare, attuale a vantaggio dell’economia estetica ed etica dell’opera. Ingólf Arnarson. Dramma epico in versi liberi, il titolo della tragedia che si sviluppa su un tracciato di un Prologo e cinque atti.