Recensione di Paolo Ragni
Chiaramente la prima cosa che si fa, quando si ha in mano questo libro di poesie (Pareidolia di Lorenzo Spurio, The Writer, Marano P., 2018), è correre su un dizionario tradizionale o su un motore di ricerca e indagare subito sul significato del titolo. Scopertolo (ma non stiamo qui a dirvelo, è meglio che ve lo cerchiate per conto vostro), può darsi vi subentri una certa inquietudine: il web è pieno di citazioni strane e misteriose, mentre la spiegazione psicologica, a portata di tutti, lascia comunque qualche cosa di amaro.
Eppure, quant’è bello guardare le nuvole e scoprirvi disegni, immagini, figure umane!
Ecco, quest’opera di Lorenzo Spurio rimanda più spesso agli incubi che ai sogni. La sua capacità onirica qui diventa realmente e tragicamente visionaria e si lascia andare, pur in una scrittura sempre ricercata ed attentissima, a immagini di un mondo che giusto non è, sano non è, privo di equilibrio.
Qoyaanisqatsi era un film di quasi 40 anni fa, privo di trama e di dialoghi, difficilmente catalogabile se non come “documentario”. Il titolo significa, grosso modo, che “non c’è più equilibrio”. E qualche cosa di analogo, pur nella ricchezza delle ascendenze che un libro colto come questo di Spurio (come tutti quelli di Spurio) si porta dietro, si ritrova nelle pagine aspre, attonite o rabbiose dell’autore.
Spurio lo conoscevamo preferibilmente come narratore, e aveva dato già buona prova di sé, ad esempio, ne La cucina arancione e in Ritorno ad Ancona e altre storie (con Sandra Carresi). Ottimo addirittura il lavoro da lui svolto, con grande passione ed altrettanto puntiglio, sulla poesia marchigiana oggi, vero e proprio caposaldo di un amore verso la sua terra; riesce ad andare nel profondo e ad evitare le critiche cui invariabilmente si va incontro quando si fa una selezione di autori e di testi.
Queste poesie di Spurio, non certo le sue prime, del resto, vista la sua militanza in questo campo già da vari lustri, sono però qualche cosa di totalmente nuovo.
Già l’originale citazione di Magrelli coglie nel segno: in definitiva alla vita si deve pur partecipare, alla poesia pure. E il poeta Magrelli sorprende non solo perché, già giovanissimo, in un panorama un po’ rumoroso, preferiva stare appartato e distillare siluri di ghiaccio sparsi tra le cose immutabili. Ma perché Magrelli stesso, come lui stesso si è scherzosamente definito bastian contrario, in periodi di caduta libera di valori civili, si è messo a manifestare, dignitosamente ma ad alta voce, la sua protesta contro un mondo ormai troppo freddo e convenzionale, schiacciato com’è dal fuggi fuggi delle immagini televisive o del web; lui, abituato a scorrere per anni i grandi classici, è quindi un Virgilio che ci introduce in queste pagine che molto spesso sono non dichiaratamente ma obliquamente e con ancor più forza esplosive.
Già l’enigma si apre, incerto, con il primo testo, e la sua inquietante conclusione che dà il titolo alla poesia: “ora qui, ora là”, vero e proprio passepartout che indica al lettore che non deve aspettarsi verità, ma la sola ricerca della verità (e non è poco! specie in un’era in cui tutti hanno da insegnare qualcosa, magari dicendolo in inglese: counseling); non certezze a buon mercato, ma casomai, obiezioni, contestazioni, ribellioni.
Non conoscevamo Spurio ribelle. Ma tant’è. Spurio rifugge saggiamente da ogni facile retorica, gelido e iracondo insieme, preso com’è da sacro furore davanti alla ferocia della vita (e della morte). Quante poesie abbiamo dovuto leggere, dagli anni Novanta a oggi, sulle innumerevoli stragi via mare, dai naufragi dall’Albania sulla costa adriatica e ionica fino a quelli sul mar di Sicilia. Ma mai avevamo letto frasi così taglienti, che reggono il punto esclamativo senza alcun punto di caduta: “non chiudete quei sacchi spazzatura!“. Mai avevamo notato, in questo silenzioso ghiaccio che addolora, questa contemplazione gelida e tragica di “noi che abbiamo osservato afoni“.
Questa linguaggio ha il coraggio di usare il tono del rimprovero e della sfida vera e propria, ricalcando in qualche modo le invettive dantesche o certo linguaggio veterotestamentario, dove alla profezia mi mischia lo strazio del presente: Quel “provate voi” in “L’acqua rossa di Aleppo” è un insulto alle nostre tiepide coscienze, è un vivere in perpetua vigilanza, senza sentimentalismi e lacrime facili.
Questo si ha perché Spurio, caso raro nella poesia odierna, sa descrivere, sa mettersi obiettivamente a fotografare cose, oggetti, parlandone ora con furia ora con quell’aria così apparentemente distaccata che invece è più potente dei più trepidi accenti: “Questo mare ha succhiato il tempo / e lo ha portato disgiunto da me /, oggi che quest’arsura di memorie/ lacera una soglia d’acqua / che prima sapevo riconoscere / e oggi si è sciolta” (in “L’acqua indocile”).
In realtà, l’Autore insiste nel rimescolare le carte, le immagini, dando loro contorni diversi, diverse prospettive, e, talora, come nelle migliori pareidolie, perfino un senso.
Difficile trovare un senso alle guerre, le violenze, le fughe, alle domande che rimangono appese (“Risposta di liquidità”) agli oggetti inutili e corrosi dal male umano (la gialla ruota del divertimento”, in “Primavera a Prypiat”). Difficile è rimanere indifferenti davanti alla cattiveria umana, che da qualunque parte provenga è comunque sempre in grado di compiere scempi.
E così, l’insipienza, da Cernobyl ai terremoti in Centro Italia, dall’Iran al Pakistan, dall’Ungheria all’Iraq e alla Siria, si presenta crudele e sempre uguale a se stessa: si è detto che il bene è creativo e sempre nuovo, il male, invece, è sempre il solito. Ed è vero perché il male, comunque lo si rigiri, merita sempre l’appellativo di inutile, di ripetitivo, qualunque sia la sua latitudine. Mentre il bene, adombrato spesso dallo sdegno, trova sempre nuovi accenti, con quell’aria di sfida e di provocazione che riscontriamo sempre molto volentieri:
“Spiegatemi perché (…) Ditemi perché la vita si rovina (…) Oggi la ruggine ha vinto, signori e comari” (da “Trittico del fuoco”).
Non vogliamo però dare di questo volume un’idea unilaterale. Del resto, le poesie più acide (accompagnate spesso da versi più lunghi) si alternano, talvolta, a improvvisi sprazzi colloquiali, dove il tu non è un avversario da contestare o un ipotetico colpevole del male del mondo. Uno dei casi più belli è l’incipit di “La notte mi tocca”, vera pausa si silenzio, come càpita di ascoltare nell’altalenare dei movimenti di un concerto barocco: “Pure stasera non sai (…) Eccola trapunta di sogni, / lambisce i fiori della riva; / pare che il profumo / sia dissolto ovunque“. Attimo di pace, momento di apparente armonia che si riallaccia a tutti i “tu” amichevoli che il nostro Novecento ha saputo darci. È anche curioso che, nella trepida ansia dell’ultimo testo, sappiano coesistere sia immagini concrete, vivide, sia affermazioni taglienti, dialettiche, che non danno pace: “la lotta si consuma tra l’erba e / il sospiro che brilla e riparla“. Ed è anche bello osservare l’invito a questo tu, con cui terminano, in modo non desolato ma fiducioso, la poesia stessa e il libro tutto.
Infine, da notare l’interessante prefazione di Michela Zanarella, specie nell’osservazione che “non è possibile voltarsi dall’altra parte”, sia la nota di lettura di Nazario Pardini, che ribadisce quanto “è più facile sperdere la nostra identità che scoprine l’essenza”. Del resto, osserva, “la poesia (…) è soprattutto riflessione etica“. E questo è un grande regalo che, in questi spenti tempi di risolini, svaghi e rilassamento, Spurio ci ha saputo donare.
PAOLO RAGNI
Firenze, 16-01-2020
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