Paolo Ragni sul libro di poesie “Pareidolia” (The Writer, 2018) di Lorenzo Spurio

Recensione di Paolo Ragni

Chiaramente la prima cosa che si fa, quando si ha in mano questo libro di poesie (Pareidolia di Lorenzo Spurio, The Writer, Marano P., 2018), è correre su un dizionario tradizionale o su un motore di ricerca e indagare subito sul significato del titolo. Scopertolo (ma non stiamo qui a dirvelo, è meglio che ve lo cerchiate per conto vostro), può darsi vi subentri una certa inquietudine: il web è pieno di citazioni strane e misteriose, mentre la spiegazione psicologica, a portata di tutti, lascia comunque qualche cosa di amaro.

Eppure, quant’è bello guardare le nuvole e scoprirvi disegni, immagini, figure umane!

Ecco, quest’opera di Lorenzo Spurio rimanda più spesso agli incubi che ai sogni. La sua capacità onirica qui diventa realmente e tragicamente visionaria e si lascia andare, pur in una scrittura sempre ricercata ed attentissima, a immagini di un mondo che giusto non è, sano non è, privo di equilibrio.

Qoyaanisqatsi era un film di quasi 40 anni fa, privo di trama e di dialoghi, difficilmente catalogabile se non come “documentario”. Il titolo significa, grosso modo, che “non c’è più equilibrio”. E qualche cosa di analogo, pur nella ricchezza delle ascendenze che un libro colto come questo di Spurio (come tutti quelli di Spurio) si porta dietro, si ritrova nelle pagine aspre, attonite o rabbiose dell’autore.

Spurio lo conoscevamo preferibilmente come narratore, e aveva dato già buona prova di sé, ad esempio, ne La cucina arancione e in Ritorno ad Ancona e altre storie (con Sandra Carresi). Ottimo addirittura il lavoro da lui svolto, con grande passione ed altrettanto puntiglio, sulla poesia marchigiana oggi, vero e proprio caposaldo di un amore verso la sua terra; riesce ad andare nel profondo e ad evitare le critiche cui invariabilmente si va incontro quando si fa una selezione di autori e di testi.

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Queste poesie di Spurio, non certo le sue prime, del resto, vista la sua militanza in questo campo già da vari lustri, sono però qualche cosa di totalmente nuovo.

Già l’originale citazione di Magrelli coglie nel segno: in definitiva alla vita si deve pur partecipare, alla poesia pure. E il poeta Magrelli sorprende non solo perché, già giovanissimo, in un panorama un po’ rumoroso, preferiva stare appartato e distillare siluri di ghiaccio sparsi tra le cose immutabili. Ma perché Magrelli stesso, come lui stesso si è scherzosamente definito bastian contrario, in periodi di caduta libera di valori civili, si è messo a manifestare, dignitosamente ma ad alta voce, la sua protesta contro un mondo ormai troppo freddo e convenzionale, schiacciato com’è dal fuggi fuggi delle immagini televisive o del web; lui, abituato a scorrere per anni i grandi classici, è quindi un Virgilio che ci introduce in queste pagine che molto spesso sono non dichiaratamente ma obliquamente e con ancor più forza esplosive.

Già l’enigma si apre, incerto, con il primo testo, e la sua inquietante conclusione che dà il titolo alla poesia: “ora qui, ora là”, vero e proprio passepartout che indica al lettore che non deve aspettarsi verità, ma la sola ricerca della verità (e non è poco! specie in un’era in cui tutti hanno da insegnare qualcosa, magari dicendolo in inglese: counseling); non certezze a buon mercato, ma casomai, obiezioni, contestazioni, ribellioni.

Non conoscevamo Spurio ribelle. Ma tant’è. Spurio rifugge saggiamente da ogni facile retorica, gelido e iracondo insieme, preso com’è da sacro furore davanti alla ferocia della vita (e della morte). Quante poesie abbiamo dovuto leggere, dagli anni Novanta a oggi, sulle innumerevoli stragi via mare, dai naufragi dall’Albania sulla costa adriatica e ionica fino a quelli sul mar di Sicilia. Ma mai avevamo letto frasi così taglienti, che reggono il punto esclamativo senza alcun punto di caduta: “non chiudete quei sacchi spazzatura!“. Mai avevamo notato, in questo silenzioso ghiaccio che addolora, questa contemplazione gelida e tragica di “noi che abbiamo osservato afoni“.

Questa linguaggio ha il coraggio di usare il tono del rimprovero e della sfida vera e propria, ricalcando in qualche modo le invettive dantesche o certo linguaggio veterotestamentario, dove alla profezia mi mischia lo strazio del presente: Quel “provate voi” in “L’acqua rossa di Aleppo” è un insulto alle nostre tiepide coscienze, è un vivere in perpetua vigilanza, senza sentimentalismi e lacrime facili.

Questo si ha perché Spurio, caso raro nella poesia odierna, sa descrivere, sa mettersi obiettivamente a fotografare cose, oggetti, parlandone ora con furia ora con quell’aria così apparentemente distaccata che invece è più potente dei più trepidi accenti: “Questo mare ha succhiato il tempo / e lo ha portato disgiunto da me /, oggi che quest’arsura di memorie/ lacera una soglia d’acqua / che prima sapevo riconoscere / e oggi si è sciolta” (in “L’acqua indocile”).

In realtà, l’Autore insiste nel rimescolare le carte, le immagini, dando loro contorni diversi, diverse prospettive, e, talora, come nelle migliori pareidolie, perfino un senso.

Difficile trovare un senso alle guerre, le violenze, le fughe, alle domande che rimangono appese (“Risposta di liquidità”) agli oggetti inutili e corrosi dal male umano (la gialla ruota del divertimento”, in “Primavera a Prypiat”). Difficile è rimanere indifferenti davanti alla cattiveria umana, che da qualunque parte provenga è comunque sempre in grado di compiere scempi.

E così, l’insipienza, da Cernobyl ai terremoti in Centro Italia, dall’Iran al Pakistan, dall’Ungheria all’Iraq e alla Siria, si presenta crudele e sempre uguale a se stessa: si è detto che il bene è creativo e sempre nuovo, il male, invece, è sempre il solito. Ed è vero perché il male, comunque lo si rigiri, merita sempre l’appellativo di inutile, di ripetitivo, qualunque sia la sua latitudine. Mentre il bene, adombrato spesso dallo sdegno, trova sempre nuovi accenti, con quell’aria di sfida e di provocazione che riscontriamo sempre molto volentieri:

Spiegatemi perché (…) Ditemi perché la vita si rovina (…) Oggi la ruggine ha vinto, signori e comari” (da “Trittico del fuoco”).

Non vogliamo però dare di questo volume un’idea unilaterale. Del resto, le poesie più acide (accompagnate spesso da versi più lunghi) si alternano, talvolta, a improvvisi sprazzi colloquiali, dove il tu non è un avversario da contestare o un ipotetico colpevole del male del mondo. Uno dei casi più belli è l’incipit di “La notte mi tocca”, vera pausa si silenzio, come càpita di ascoltare nell’altalenare dei movimenti di un concerto barocco: “Pure stasera non sai (…) Eccola trapunta di sogni, / lambisce i fiori della riva; / pare che il profumo / sia dissolto ovunque“. Attimo di pace, momento di apparente armonia che si riallaccia a tutti i “tu” amichevoli che il nostro Novecento ha saputo darci. È anche curioso che, nella trepida ansia dell’ultimo testo, sappiano coesistere sia immagini concrete, vivide, sia affermazioni taglienti, dialettiche, che non danno pace: “la lotta si consuma tra l’erba e / il sospiro che brilla e riparla“. Ed è anche bello osservare l’invito a questo tu, con cui terminano, in modo non desolato ma fiducioso, la poesia stessa e il libro tutto.

Infine, da notare l’interessante prefazione di Michela Zanarella, specie nell’osservazione che “non è possibile voltarsi dall’altra parte”, sia la nota di lettura di Nazario Pardini, che ribadisce quanto “è più facile sperdere la nostra identità che scoprine l’essenza”. Del resto, osserva, “la poesia (…) è soprattutto riflessione etica“. E questo è un grande regalo che, in questi spenti tempi di risolini, svaghi e rilassamento, Spurio ci ha saputo donare.

PAOLO RAGNI 

Firenze, 16-01-2020

 

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Ultimo incontro della rassegna letteraria “Cattivi dentro” a Moie il 6 maggio

Così esco dal mondo: alcuni suicidi letterari. Incontro a Moie con il critico Lorenzo Spurio

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Si terrà domenica 6 maggio alle 17:30 presso la Biblioteca “La Fornace” di Moie di Maiolati Spontini (AN) l’ultimo appuntamento del ciclo di eventi letterari “Cattivi dentro” nato attorno al recente volume saggistico di Lorenzo Spurio dal titolo “Cattivi dentro. Dominazione, violenza e deviazione in alcune opere scelte della letteratura straniera”. In esso Spurio si è occupato di vari autori tra cui William Golding, Joseph Conrad, Charles Bukowski, Christine Angot, Ian McEwan e vari altri. Con tale opera il critico letterario jesino è risultato vincitore del prestigioso Premio Letterario Casentino per la sezione saggistica inedita “Veniero Scarselli” e in seguito pubblicato per i tipi della Helicon di Arezzo.

L’intera rassegna, organizzata dall’Associazione Culturale Euterpe di Jesi e con il patrocinio morale del Comune di Jesi e della Provincia di Ancona, dopo gli incontri dedicati all’infanzia e al bullismo, alla violenza sociale e alla devianza sessuale, volge al termine.

In questo ultimo incontro, parabola di chiusura di un percorso intessuto sui temi della violenza, del soggiogamento e della stortura in ambito familiare e sociale, Spurio proporrà un percorso dedicato ad alcuni casi letterari rilevanti per la tematica del suicidio.

Il critico proporrà un’analisi di alcune opere alle quali ha dedicato saggi, approfondimenti e studi che risultano interessanti, nelle loro dinamiche relazionali, in merito all’atto autolesionistico estremo. La trattazione, supportata da letture scelte di brani delle rispettive opere a cura della voce recitante, la nota performer recanatese Amneris Ulderigi, vedrà un’esposizione sulle opere teatrali “La casa de Bernarda Alba” di Federico Garcia Lorca (poeta e drammaturgo al quale Spurio è particolarmente legato e a cui ha dedicato studi e una plaquette poetica, “Tra gli aranci e la menta” pubblicata nel 2016 e risultata vincitrice in vari premi nazionali), “Il piccolo Eyolf” del drammaturgo norvegese Henrik Ibsen famoso per opere quali “Casa di bambola” e “Hedda Gabler” che mise sotto analisi l’universo corrotto e ipocrita della borghesia. Spurio arriverà alla trattazione del tema del suicidio ponendo attenzione anche a un romanzo che divenne anche film e ben presto fu un caso letterario, “Il giardino delle vergini suicide” del greco-statunitense Jeffrey Eugenides. Verranno proiettati anche alcuni estratti dell’opera filmica, per la regia di Sofia Coppola. Da suicidio letterario, vale a dire a tema di varie costruzioni fittizie, all’atto estremo di darsi la morte in alcuni celebri intellettuali. Si accennerà al caso della modernista Virginia Woolf che nel 1941, nell’amata casa di campagna a Rodmell, decise di darsi la morte, annegandosi nell’Ouse.

Ad accompagnare l’autore del saggio ci saranno il poeta, scrittore e filosofo senigalliese Valtero Curzi e la scrittrice Elena Coppari (Direttrice della Biblioteca Comunale “Sara Iommi” di Agugliano) che interverranno ad ampliare alcuni aspetti del tema di riferimento nell’ottica di una più ampia considerazione dell’estremo gesto.

 

La S.V. è invitata a partecipare.

 

Info:

www.associazioneeuterpe.com

ass.culturale.euterpe@gmail.com

Tel. 327-5914963

 

 

Conrad, Burgess, Strasser: nuovo incontro letterario “Cattivi dentro” dom. 8 aprile alla Biblioteca La Fornace

Potere e sottomissione nella società: nuovo incontro letterario con “Cattivi dentro”

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Proseguono gli incontri letterari attorno al saggio “Cattivi dentro” del poeta e critico letterario jesino Lorenzo Spurio alla Biblioteca La Fornace di Moie. Dopo gli incontri tesi a investigare le forme di infanzia degenerata e il fosco universo della devianza sessuale nella letteratura il nuovo incontro, che si terrà domenica 8 aprile alla Biblioteca La Fornace di Moie di Maiolati Spontini (AN) alle ore 17:30, provvederà ad approfondire il tema “Essere soggiogati: il gruppo sociale sedotto dal tiranno”.

L’intero ciclo di eventi è volto ad approfondire di volta in volta tematiche, testi, romanzi e autori della cultura internazionale che, in varie forme e a vari livelli, hanno parlato o messo in scena storie di cattiveria, violenza, soggiogazione, devianza e d’emarginazione all’interno delle date cornici narrative. Il saggio di Spurio che come sottotitolo porta “Dominazione, violenza e deviazione in alcune opere scelte della letteratura straniera” è risultato vincitore assoluto del noto Premio Letterario “Casentino” sezione Saggistica Inedita “Veniero Scarselli” nell’edizione 2017 con diritto di pubblicazione da parte della casa editrice aretina Helicon.

Nel nuovo incontro si darà voce ad alcuni episodi di violenza e sottomissione che nascono in dati contesti sociali che prevedono da una parte l’assunzione verticistico del potere, la supremazia e forme totalitaristiche e, dall’altro, la tacita abnegazione, la sottomissione e forme di violenza psicologica indotte. L’evento sarà teso a indagare il rapporto sociale che s’istaura tra il ‘cattivo’, nella forma del boss, del dittatore, della persona di potere (legittimo o meno), e della pericolosità nella trasmissione di idee irresponsabili e anti-democratiche. Dalla politica colonialista in “Cuore di tenebra” del modernista Joseph Conrad alla brutalità di una gioventù sadica in “Arancia meccanica” di Anthony Burgess sino all’esperimento nazista ne “L’onda” di Todd Strasser.

Ulteriori approfondimenti deriveranno dagli interventi del critico letterario fiorentino Lucia Bonanni che parlerà della “Psicologia cognitiva e comportamentismo” e dal cultore letterario Stefano Bardi che interverrà con un discorso su “Manipolazione e tenebra: i lati oscuri dei boss”.

Le letture di estratti scelti delle opere di riferimento saranno affidate alla voce di Gioia Casale. Durante la serata verranno, altresì, proiettati estratti significativi dei relativi film che verranno commentati dall’autore del libro.

Si ricorda, inoltre, che l’ultimo incontro del ciclo di eventi si terrà domenica 6 maggio e avrà come tema di riferimento “Così esco dal mondo: alcuni suicidi letterari”. Assieme all’autore del libro interverranno il filosofo Valtero Curzi e la scrittrice Elena Coppari.

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Info:

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Sabato 24 febbraio il primo incontro del ciclo di eventi letterari “Cattivi dentro”, attorno al saggio di L. Spurio vincitore del Premio Casentino 2017

Sabato 24 febbraio alle ore 17:30 presso la Biblioteca La Fornace di Moie di Maiolati Spontini (AN) con il Patrocinio del Comune di Jesi e della Provincia di Ancona si terrà il primo appuntamento del ciclo di eventi letterari attorno al recente saggio Cattivi dentro. Dominazione, violenza e deviazione in alcune opere della letteratura straniera […]

via “Bambini cattivi: disadattamento e incomprensione” sabato 24 febbraio il primo incontro tematico su “Cattivi dentro” di Lorenzo Spurio — Associazione Culturale Euterpe

“La multiforme impalcatura del Male, tra realtà e letteratura”, saggio di Lorenzo Spurio

La multiforme impalcatura del Male, tra realtà e letteratura (*)

a cura di Lorenzo Spurio

Le poesie che compongono questo libro (Non uccidere. Caino e Abele dei nostri giorni, a cura di L. Spurio e I.T. Kostka, The Writer, 2017) girano tutte, a loro modo e con stili diversi, attorno a tematiche che hanno un’incidenza sociale, vale a dire che hanno a che fare con questioni che interessano tutti. L’iniziativa nata e sviluppata assieme alla poetessa Izabella Teresa Kostka è stata quella di aver voluto parlare del Male, nelle varie forme e concettualizzazioni. Non solo rappresentato dalla violenza sessuale che oggi, un po’ per la spasmodica ricorrenza di casi esecrabili, un po’ per una serie di campagne di informazione più incisive, sembra monopolizzare la cronaca. Abbiamo, cioè, voluto creare un progetto che fosse il più possibile ampio e aperto a varie testimonianze e dimostrazioni di come il Male possa potenzialmente intaccare tutti, proprio come il bene che la società civile ci indica di perseguire per evitare, condannare e allontanarsi da ogni concreta offesa alla civiltà.

L’azione spregiudicata di persone che coscientemente inquinano un corso d’acqua con bitumi e altri prodotti residui dalle loro attività economiche è, a suo modo, una laida forma di violenza: una offesa nei confronti della natura che ci ospita, una maltrattamento contro gli altri umani che abitano la terra e, addirittura, un atto malevole e inquinante anche per la nostra stessa vita. Anche se un comportamento illegale come questo viene qui richiamato in maniera assai semplicistica, può servire, comunque, per riflettere due secondi su una sacrosanta verità, ossia che chi produce il Male lo fa sempre con consapevolezza nonché spesso con predeterminazione. Vale a dire che l’azione violenta o spregiudicata non è altro che l’acme di un progetto instabile già configurato nella mente che trova poi la sua applicazione concreta. Di sadismo, brutalità e menefreghismo si parla, ma anche di omertà e silenzio, di indifferenza e tacita approvazione di un delitto, di un abuso, di un caso di insubordinazione che non può in ogni modo essere accettato.

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La cover della antologia Non uccidere (The Writer, 2017) curata da L. Spurio e I.T. Kostka dove figura questo testo critico come prefazione.

Di tutto questo siamo puntualmente informati, avvisati, messi in guardia, tartassati e impauriti da quanto gli organi di informazione giornalmente ci somministrano notizie di episodi di disagio e marginalità, prevaricazione e sopruso, di inciviltà propriamente detta, di denigrazione ed emarginazione sociale. Rientrano in questo discorso, che è un infinito mare magnum di casi dove la violenza si mostra in maniera più esplicita, anche le sottomissioni e la sospensione dei diritti civili in tanti paesi del mondo. Vi sono, poi, una miriade di altre situazioni, svariate nelle dinamiche e nelle forme con le quali si manifestano, che rimangono nel silenzio, lontano dalla grancassa dell’informazione, volutamente tenute nell’ombra, lontane anni luce da un qualsiasi spiraglio che possa rompere il legame tremendo tra aguzzino e vittima. Storie domestiche che non vengono denunciate, popoli segregati con la forza, anziani che vivono nella più profonda indigenza, clochard che vengono derisi e arsi vivi, ragazzini che si gettano dal quarto piano perché sopraffatti dalle violenze verbali di maledetti coetanei che ne assuefanno la psiche semplicemente perché effeminato, di povere condizioni, grasso, o il miglior bersaglio da colpire, perché incapace di reagire.

Questa è la realtà. E la letteratura?

La letteratura, che è una delle tante proiezioni della realtà, con una buona dose di finzione frutto dell’ispirazione creativa e del genio di chi la produce, non è che l’attestazione concreta, in termini oggettivi, del vasto spettro del Male, della sua tentacolare diffusione, della sua ambiguità e polimorfismo, dell’incapacità spesso di individuarlo. Alcuni brevi cenni a opere possono servire, forse, ad ampliare una trattazione che è nevralgica nella nostra attualità e che deve essere percorsa affinché anche la letteratura, sia essa di finzione o di approfondimento, interagisca con queste forme endemiche e faccia sue le preoccupazioni di una società spesso distratta, incapace di comprendere il dramma prima che esso si manifesti in forma di tragedia, gravata da preoccupazioni economico-finanziarie pesanti che, non di rado, vengono a configurarsi anche come con-causa se non come motivo trainante dell’adozione di piani omicidiari, suicidiari, stragisti, volti all’annullamento di sé e degli altri.

Mi viene in mente, allora, la vicenda dei fratelli Tamar e Amnon descritta nella Bibbia in cui la giovane donna, Tamar, viene sedotta con la forza da Amnon con uno stratagemma infido riuscendo a violentarla. Il comune padre, il re David, non condanna l’accaduto né solidarizza con Tamar ma un ulteriore fratello, Assalonne, vendicherà la violenza subita dalla sorella uccidendo Amnon in una duello. L’episodio, ripreso anche dal poeta spagnolo Federico García Lorca che gli dedicò una poesia, è significativo del fatto che la violenza sessuale, addirittura dalle nervature incestuose come è questo il caso, sia connaturata nella storia dell’uomo, dalla notte dei tempi. Nel testo più importante per la religione cristiana sono contenuti molti altri esempi di prevaricazione dell’uomo, di violenza, di ignoranza sociale e di sperequazione tra i sessi.

Facendo un bel balzo in avanti nella letteratura contemporanea, tre sono i riferimenti che, a primo acchito mi sento di richiamare dove il tema della violenza si fa palese e preponderante da segnare in maniera ineluttabilmente tragica i destini delle persone coinvolte nelle tre narrazioni.

In Cuore di tenebra (1899) di Jospeh Conrad il confronto in terra d’Africa che si ha tra Marlowe e Kurtz, entrambi di origini inglesi, è sconvolgente. Marlowe rappresenta il bianco, l’esploratore coscienzioso che ha bisogno di intraprendere un viaggio per vedere e conoscere, saldo in un patrimonio di valori che si basano sulla giustizia e la libertà dell’uomo. Kurtz, invece, è rappresentante di un’altra parte d’Occidente, quella più crudele e insensibile, ovvero del conquistatore, del depredatore di spazi e persone. In quell’angolo di Africa si è autonominato capo e ha asservito quelle povere genti ai suoi voleri diventando un despota sanguinario. Conrad sottolinea, con una descrizione disgustosa e spietata, le cattive azioni protratte da Kurtz, la potenza di un Male che può intaccare l’uomo dotato di vanagloria e animato da spinte di superomismo, invincibilità e supremazia sul genere umano.

Ne Il signore delle mosche (1954) di William Golding si realizza qualcosa di simile: cambia l’ambientazione, che non è quella africana ma quella di un’imprecisata isola del Pacifico e cambiano le dinamiche relazionali. Non più il bianco colonizzatore, sprezzante razzista che schiavizza l’indigeno, ma una gruppo di adolescenti che devono cercare di coabitare sul piccolo spazio dove si trovano e provvedere autonomamente al cibo per sfamarsi, non essendovi adulti con loro. Lì, per cercare di darsi delle regole per la comune convivenza e per emulare il mondo degli adulti, danno vita a un sistema di auto-governo fondato su elementi democratici e plurali: la convocazione dell’Assemblea e la rotazione della conchiglia tra i suoi membri, a rappresentare una sfera decisionale nel gruppo che varia di volta in volta, appunto a rotazione. Il sistema, però, non funziona. Non perché siano bambini o perché non sia un buon sistema, semplicemente perché viene prima sospeso, poi decretato inefficace e, infine, asservito a una logica personalistica. S’instaura così, nel gruppo dei ragazzini, una sorta di dittatura retta da Jack Merridew che di tutta prima risulta essere ben seguita da un ampio gruppo di ragazzi che intravvedono nel capo carismatico i caratteri di forza, autorità e prestigio. Un’esigua componente di ragazzi osteggia la neonata soppressione dei diritti e fa gruppo a parte continuando a richiamare l’importanza della convocazione assembleare. La situazione sfugge di mano e la fazione autodichiaratasi l’unica fonte di governo commette sevizie, atti ignominiosi sino ad arrivare all’assassinio di Piggy, uno dei ragazzi. La democrazia è rotta per sempre, il Male, nella forma viscida della fascinazione per il potere, ha prodotto vittime a seguito della degenerazione di un piano politico che è impazzito e ha prevaricato il diritto alla libertà di espressione.

Infine propongo una riflessione su Il giardino delle Vergini suicide (1999) del greco-statunitense Jeffrey Eugenides, meglio noto per essere l’autore del romanzo Middlesex (2002). Esso contiene la vicenda familiare dei coniugi Lisbon con le loro cinque figlie adolescenti che vengono fatte crescere in un clima di stagnante asfissia, di claustrofilia indotta, per rispondere alle prescrizioni maniacali e repressive della madre e la subordinazione del padre nei confronti della madre che decreta la sua inefficacia nel rapporto con le figlie. Il narratore sottolinea con particolari enfasi dei semplici momenti di apertura della famiglia Lisbon verso il mondo di fuori marcando l’interesse su quanto per la madre, ed i coniugi in genere, sia difficile e insostenibile accettare che le figlie possano andare al ballo della scuola con un com- pagno, piuttosto che uscire e ritrovarsi con le proprie amiche. Nella severità di una casa dove l’imposizione materna sgretola sogni e fa ardere progetti, desideri nonché annichilire l’esistenza delle giovani matura, in quel mix pericoloso di noia, sofferenza e impossibilità di fuga, lo stratagemma per l’acquisizione della libertà. Ecco allora che si chiarisce in quale circostanza ha preso piede il suicidio della prima ragazza, descritto velocemente in apertura del romanzo, dipinta come adolescente “strana” quando in realtà era semplicemente l’asfittico contesto familiare a non farla respirare né a permetterle di espri- mersi. Se la ribellione di Adela nell’opera teatrale La casa di Bernarda Alba (1936) del summenzionato Federico García Lorca (diversi gli scenari, diverse le ambientazioni, è vero) era possibile sulla base di un temperamento istintivo e combattivo contro l’autorità della madre, qui per le quattro ragazze che mai diventeranno donne, non c’è scampo. L’appuntamento finale sarà per un banchetto amaro, quello di una festa della morte dove ciascuna ragazza opterà per la soluzione finale pensata come più diretta e infallibile, tutte particolarmente spiazzanti. La sequela di suicidi che si realizzano in contemporanea, di cui la città mai avrà completa comprensione, viene in un certo modo occultata dal trasferimento dei coniugi Lisbon, ormai drammaticamente soli, mentre la loro casa invecchia e viene riappropriata dalla natura.

Il Male qui si configura in uno stato di lanciante sofferenza e desolazione interiore, in uno spiazzamento totalizzante che provoca assenza di autostima, annullamento della propria identità, l’adozione di un’esistenza fatta di rituali e imposizioni, arsura d’emozione, carenza di ascolto, mancanza di condivisione, tacita soppressione delle esigenze personali. Ecco, allora, che la via suicidiaria sembra dare scampo a un dolore che è possibile espiare solo con un volo pericoloso, verso un baratro inconoscibile, gesto che fa rabbrividire ma che, forse, neppure abbiamo il diritto di condannare del tutto. Giovani che eterizzano la loro beltà e che pongono un profondo ricatto morale ai genitori, agli adulti, al mondo disattento, a chi crede che un bambino non ha motivo per essere infelice.

Lorenzo Spurio

Jesi, 19-01-2017

 

(*) Questo saggio è stato utilizzato come prefazione per il volume antologico AA.VV., Non uccidere. Caino e Abele dei nostri giorni, The Writer Edizioni, 2017, curato da Lorenzo Spurio assieme a Izabella Teresa Kostka. 

“Munnu crudili” di E. Marcuccio con un commento di L. Bonanni

MUNNU CRUDILI[1]

POESIA IN PALERMITANO DI EMANUELE MARCUCCIO

Arrusbigghiati munnu,

arrusbigghiati ventu;

lu ventu si scatina,

lu ventu è tirannu

e dintr’i casi trasi.

Lu munnu è crudili

lu munnu è malignu

e scampu nun lassa:

purtusu ppi ricoviru

d’a povira genti.

17 novembre 2010

MONDO CRUDELE

TRADUZIONE IN ITALIANO A CURA DELL’AUTORE

Svegliati mondo,

svegliati vento;

il vento si scatena,

il vento è tiranno

ed entr’addentro le case.[1]

Il mondo è crudele,

il mondo è maligno

e scampo non lascia:

pertugio per rifugio

della povera gente.

17 novembre 2010

NOTE

[1] Con il verso “ed entr’addentro le case.” ho cercato di creare un corrispettivo sonoro del quinto verso della versione originale in siciliano, quel “e dintr’i casi trasi.” che, letteralmente si sarebbe dovuto tradurre con “e dentro le case entra” ma, se ne sarebbe perso un corrispettivo sonoro. Non ho voluto fare una semplice traduzione letterale, che è sempre un tradimento della versione originale. [N.d.A.]

[1] Entrambe le versioni sono pubblicate a pag. 25, nell’antologia di autori vari, La biblioteca d’oro. Poesie in siciliano, Unibook, 2011.

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COMMENTO DI LUCIA BONANNI

Poesia molto concisa nella stesura, ma molto ampia nel significato. La parola chiave è “Ventu” (vento) che può essere inteso nella sua valenza plurima di figura retorica. Le anafore rafforzano molto il discorso, il verbo “arrusbigghiati” ripetuto nella sua forma di imperativo fa da introduzione esortativa e annunciativa al componimento; anche lʼarticolo “Lu” ripetuto in anafora per ben quattro volte rafforza lʼidea madre che ha dato vita alla lirica.

Lʼesortazione al mondo di svegliarsi sta a significare che è giunto il momento che il mondo inizi a guardarsi veramente intorno, che si dia finalmente una svegliata perché sono tanti e di diversa natura i mali che lo affliggono; il comando che non offre alternative, rivolto al vento è una specie di condanna per il mondo perché se non si deciderà a far cessare le brutture che lo investono, sarà il vento con la sua forza immane a portarlo lontano, avvolgendolo in un turbine di distruzione. Il vento è tiranno perché, girando per le strade, raccoglie tante brutture e, entrando dentro le case vi deposita sacchi di disagi. Questa personificazione del vento fa vedere di quante sofferenze sono investite le persone a causa di questo mondo tiranno che per la sua indole maligna obbliga alla sofferenza e non lascia scampo alcuno: ma il mondo con tutte le sue iniquità è soltanto un piccolo, minuscolo, microscopico nascondiglio dove può ripararsi la povera gente, la stessa povera gente che è costretta a subire la tirannide del mondo, esso stesso soggetto alla furia distruttrice del vento, assimilabile anche con la giustizia Divina.

Lucia Bonanni

San Piero a Sieve (FI), 27 settembre 2015

“Neoplasie civili”, la nuova silloge poetica di Lorenzo Spurio

Il mondo in metastasi nelle liriche

di Lorenzo Spurio

E’ uscito Neoplasie civili (Edizioni Agemina)

 
copertina-Lorenzo-Spurio-weLo scrittore marchigiano Lorenzo Spurio, che ha al suo attivo una serie di volumi di narrativa e di saggi prevalentemente su autori anglosassoni (è anche un critico letterario), esce con un nuovo libro, questa volta di poesie.
Neoplasie civili è il titolo di questa raccolta di poesie scritte negli ultimi anni; la silloge propone un percorso attento attraverso drammi quotidiani, storie di cronaca nera ed episodi spietati di violenza che riguardano il mondo tutto nella società odierna.
Il mondo lirico di Spurio è asciutto ma concreto, a volte duro ma quanto mai necessario e vivido e l’occhio critico del nostro è quello di una persona che osserva con acume le incongruenze della realtà e le fa sue sulla carta per denunciarle, per rompere quel velo di indifferenza e di apatia che contraddistingue chi nella vita presente ha ancora la fortuna di vivere in un paese dove non cadono bombe, non si muore di fame o ancora, salvo sporadici ma durissimi casi, sembra ancora che ci si rispetti l’un l’altro.
Poesie scevre da orpelli, da particolarismi formali, ma che offrono al lettore una traccia di riflessione, che scuotono la coscienza, indignano e feriscono.
Il cuore della silloge è proprio quella formazione cancerosa a cui ci si riferisce nel titolo che minaccia, ammorba, fagocita, dilania e distrugge un’esistenza fisicamente sana e moralmente incorrotta.
La poetessa Ninnj Di Stefano Busà nella sua nota critica iniziale conclude dicendo che Neoplasie civili è “[una raccolta di] vividi canti di sdegno, […] cronache di denuncia di un mondo fatto di lassismo, sopraffazione e ingiustizia dove il poeta, come un novello vate della postmodernità, rompe la logica del bavaglio e proclama con onestà la cruda realtà d’oggi…

 

Lorenzo Spurio è nato a Jesi (AN) nel 1985. Laureato in Lingue e Letterature Straniere, è scrittore e critico letterario. Ha all’attivo varie raccolte di racconti tra cui la più recente “La cucina arancione” (2013) e numerosi saggi tra cui “Jane Eyre, una rilettura contemporanea” (2011), La metafora del giardino in letteratura (2011), Ian McEwan: sesso e perversione (2013). “Neoplasie civili” è la sua prima opera di poesia.
Collabora a varie riviste ed è direttore della rivista di letteratura Euterpe e socio fondatore della Associazione Culturale TraccePerLaMeta. Gestisce un suo sito (www.blogletteratura.com) dove pubblica recensioni, articoli, commenti ad opere letterarie.
E’ Presidente del Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi” e Presidente di Giuria del Premio di Letteratura “Ponte Vecchio”- Firenze.

 

  

Titolo: Neoplasie civili
Autore: Lorenzo Spurio
Prefazione: Ninnj Di Stefano Busà
Postfazione: Cinzia Demi
Editore: Agemina, Firenze
Collana: La Fenice – poesia
ISBN: 9788895555744
Pagine: 64
Costo: 10 €
Info per acquisto: edizioniagemina@alice.it

“Poesie come dialoghi” di Francesca Luzzio, recensione di Lorenzo Spurio

Poesie come dialoghi

Di Francesca Luzzio

Recensione di Lorenzo Spurio

  

Il mondo è grigio
Quasi mai blu:
la luce della luna
piange nuda la verità.
(da “Altro cielo”, p. 49)

poesie_come_dialoghiHo avuto l’occasione di conoscere Franceca Luzzio, poetessa e saggista palermitana, pochi mesi fa nel corso di un reading poetico sul disagio psichico e sociale organizzato dalla rivista Euterpe che dirigo. In quella occasione, la poetessa mi ha fatto dono di uno dei suoi libri, Poesie come dialoghi (Thule, 2008), che raccoglie un’ampia produzione poetica che la stessa ha voluto divisa in due parti: una prima parte sotto il titolo di “io e…” e una seconda parte “il mondo”. La silloge si apre con una propedeutica e approfondita analisi alle tematiche che la poetessa sviscera nel libro scritta da Franca Alaimo, altra poetessa palermitana.

Della raccolta mi hanno attratto in maniera particolare le liriche che appartengono alla seconda parte, quelle riferite al mondo, che danno uno sguardo per lo più amaro ma fortemente coscienzioso sulla presenza dell’uomo nel mondo, sui rapporti sociali, sugli accadimenti che mettono gli uomini l’uno contro l’altro. In poche parole questa sezione del libro affronta tematiche di chiaro interesse civile quali la guerra, la prepotenza e il potere dei pochi, la corruzione dei politici, la mancanza di sicurezze per il futuro e si configura, dunque, come un chiaro bozzetto della situazione socio-politica nella quale ci troviamo a vivere.

Numerosi i riferimenti alla società massificata (l’email, la tv, la New Economy) quali elementi necessari e imprescindibili nella vita frenetica e indifferenziata dell’uomo d’oggi, immerso nella sua città quale luogo-non-luogo, spersonalizzante e ormai lontano dalla sua mugnificenza storico-artistica.

Qui, in questa parte del libro, prevale il tono duro, pulito e scarnificato, un linguaggio semplice che trasuda violenza e stilla lacrime e sangue come quando in “Guardando la tivù”, la Poetessa non può fare a meno di impressionarsi (cosa che oggigiorno capita sempre con più rarità) dinanzi alle immagini di corpi trucidati: “Premi il pulsante, guarda là:/ i morti giacciono nel letame/ neanche una litania li sta a consolare” (p. 47). La televisione che è rappresentazione del mondo di fuori è portavoce in diretta di deliri, abomini e nefandezze che nel mondo si compiono di continuo. La crudeltà e l’efferatezza assurgono a programmi di un palinsesto deviato e che genera angoscia, ma che è immagine di quel mondo che uccide, violenta e perseguita il diverso e che porta la Nostra ad osservare con versi lapidari: “Il male è nei cuori, è nella mente nera” (p. 47).

Ed il mondo dei potenti e dei soprusi che la Nostra tratteggia si ritrova, molto probabilmente, all’interno della nostra stessa società, bianca, europea ed occidentale in generale che da sempre è stata caratterizzata come la storia insegna per essere fautrice di una serie di comportamenti quali la persecuzione, la deportazione, la sottomissione, la violenza, la lotta etc. E quelle “verità” pronunciate dai politici, che sono poi le voci che sentiamo alla tivù nei vari notiziari, non sono che parole che coprono bugie e travestono la reale condizione delle cose, tanto che Francesca Luzzio con un intento che oserei dire “velatamente polemico”, non può esimersi dall’osservare con lucidità e forse un po’ di disprezzo: “Fammi ubriacare di menzogne occidentali” (p. 47) e in un’altra lirica: “Roma uccide ancora/ e chiama civilizzazione/ l’arroganza, il potere, la presunzione” (p. 52).

Ma se nel mondo la cattiveria esiste, questo è dovuto solo e solamente dagli uomini, quella che la poetessa definisce “sciocca umanità” (p. 57): dal loro imbarbarimento culturale, dalla loro insensibilità e mancanza di consapevolezza, dall’allontanamento dalla religione, dalla spregiudicatezza e da tanto altro. Nel Mondo esiste il Male, perché ci sono gli uomini ad essere cattivi e a rendere l’umanità tutta una spregevole caricatura di rapporti sghembi, storpiati che non si assoggettano alle leggi di libertà del singolo: “Non incontri rondini, né uomo: solo parvenze, fantasmi smuovati/ manichini abbruttiti da grandi ferite” (p. 52). La ferita del manichino, dell’uomo non più uomo che si autolesiona, è espressione di quella malignità e indifferenza che l’uomo ha adottato come sua religione unica.

Nella prima parte della silloge, invece, troviamo delle liriche che si caratterizzano per un più ampio respiro, pur essendo allo stesso tempo particolarmente intimiste. Con un linguaggio a volte tecnico e che richiama la filosofia, Francesca Luzzio dà espressione a quelle che sono le sue idee e timori sul percorso dell’uomo nel mondo (il tempo che fugge, la morte) e lo fa con una poetica dai toni spesso grigiastri che mi rammenta lo stile crepuscolare, ma che si differenzia da quest’ultimo anche per la capacità di saper cogliere il cromatismo, soprattutto quello del verde, che viene richiamato nelle figure dell’albero e dell’arancio (“Le arance incastonano i rami/ l’azzurro cielo nel verde traspare”, p. 13). Anche qui ritorna il tema dell’impostura, anche se trasfigurato come fosse una favoletta di Esopo: “L’effetto della gara con i lupi:/ conseguenza naturale/ di normale darwinismo sociale”, p. 26).

Interessante la lirica “Rivelazione” nella quale la Nostra prende direttamente voce su una questione che a tutti noi sta molto a cuore: la poesia, il suo significato nel mondo d’oggi e la sua ricezione. La poetessa sembra essere abbastanza pessimista circa il potere effettivo della poesia su di noi: “La poesia? Nessuno l’ascolta./ Le sue voci sono effimere orme/ passi calcati su sabbiosi deserti/ senza sentieri” (p. 28). Permane l’idea che la Poetessa sia una persona stanca delle incongruenze, delle falsità e delle perplessità che l’oggi produce, ma al contempo si evidenzia con inaudita foggia la sua mai pretestuosa analisi alla critica realtà dell’oggi, dove la brama di potere, la superiorità e la bugia sembrano essere le uniche logiche che permettono all’uomo di avere un futuro. Una certa apatia e indolenzimento fanno sì che anche nel buio più pesto ci sentiamo incapaci di cogliere quella fioca luce che potrebbe aprirci a un mondo d’evasione e spensieratezza e Francesca Luzzio liricizza questo concetto in questo modo:

 Nessuno vuol più cercare

vacue scintille

intrappolate nell’oscurità”.

(in “Attesa vana”, p. 68)

 

Lorenzo Spurio

-scrittore, critico letterario-

Jesi, 1 Agosto 2013

 

Poesie come dialoghi
Di Francesca Luzzio
Prefazione di Franca Alaimo
Thule, Palermo, 2008
Pagine: 70
ISBN: 978-88-903717-0-7
Costo: 10€

 

FRANCESCA LUZZIO è nata a Montemaggiore Belsito (PA) e vive a Palermo, dove ha insegnato Italiano e Latino presso il Liceo Scientifico “S. Cannizzaro”.

Ha pubblicato varie sillogi di poesia tra cui “Cielo grigio” (Cultura Duemila Editrice, 1994), “Ripercussioni esistenziali” (Thule, 2005) e “Poesie come dialoghi” (Thule, 2008). Intensa anche la sua attività di saggista (si ricorda il saggio “La funzione del poeta nella letteratura del ‘900 ed oltre) e di narratrice: ha recentemente pubblicato la raccolta di racconti  “Liceali” (Genesi Editrice, 2013). Sulla sua produzione hanno scritto numerosi critici e scrittori di ampia caratura.

Ha partecipato a numerosi concorsi letterari riscotendo ottime segnalazioni.

Suoi testi sono presenti in numerose opere antologiche.

E’ SEVERAMENTE VIETATO DIFFONDERE LA PRESENTE RECENSIONE SENZA IL PERMESSO DA PARTE DELL’AUTORE.

“Il viaggio di Emilia” di Anna Maria Balzano, recensione di Lorenzo Spurio

Il viaggio di Emilia
di Anna Maria Balzano
Qulture Edizioni, 2011
ISBN: 9788890587665
Pagine: 88
Costo: 11 €
 
Recensione di Lorenzo Spurio

 

Tutto era cambiato. Ebbe nostalgia di quei pochissimi anni di cui aveva memoria che erano stati felici con la mamma e con il papà. Erano passati come un lampo. Tutto il resto era stato affanno e sofferenza… (76).

 

p012_1_00Quando nel passato si è sofferto molto, spesso ci risulta difficile convivere giornalmente con le foto o con gli oggetti che in sé hanno cristallizzato quei momenti. E’ per questo che Emilia, protagonista del romanzo Il viaggio di Emilia di Anna Maria Balzano si prepara a fare una cernita delle vecchie cose: cosa tenere e cosa buttare.

Siamo nella Napoli del 1978 e la protagonista prende a narrare la tormentata storia passata della sua famiglia suggestionata dalla visione di una vecchia foto: “Passò la mano sulla foto per eliminare un leggero strato di polvere che la rendeva più opaca e con i polpastrelli percorse i contorni e i piani del palazzetto, come se quel contatto fisico avesse il potere di rianimarlo e restituirgli quella vita che gli era appartenuta” (8). Da qui, come in un vero e proprio flusso di coscienza, partono i ricordi, le immagini, tutte dominate da una certa tristezza. La protagonista ricorda della morte del padre e del grande amore ricevuto dai nonni, piuttosto che dalla madre Anna che, invece, oltre ad essere spesso lontana da lei per motivi di lavoro si scopre presto attratta da un altro uomo. Il nuovo matrimonio della madre con un certo Renato, sconsigliato dai genitori della donna e malvisto dalla giovane Emilia, sembra inizialmente inaugurare una fase di spensieratezza e tranquillità per Anna, ma ben presto le cose cambiano. Renato non mancherà di mostrarsi violento e prepotente, interessato solo agli interessi dell’azienda della quale diviene il principale benefattore. La solitudine di Anna e l’indifferenza del marito nei suoi confronti la conducono a uno stato di apatia e il marito la farà ricoverare in una struttura psichiatrica. Emilia, la giovane protagonista, pur consapevole di ciò che succede sotto i suoi occhi, non è in grado di cambiare le cose e, pur volendo bene a sua madre, si trincera sempre dietro l’amore dei nonni che, però, malati ed anziani, nel giro di pochi anni vengono a mancare.

Ma in questa difficile storia familiare ambientata nel secondo dopoguerra, nel momento della ricostruzione, si innesta anche la storia di Giulia, figlia di un dipendente dell’azienda che era stata dei familiari di Emilia. Le due divengono amiche anche se poi un po’ per motivi di studio, un po’ per altre ragioni, finiscono per separarsi. Una serie di altri avvenimenti drammatici quali lo stupro di Giulia, l’uccisione del prepotente Renato e il processo contro Anna, ritenuta colpevole dell’omicidio si intrecceranno nel romanzo chiarendo solo nelle pagine finali i relativi collegamenti.

Niente è banale. Anna Maria Balzano costruisce un romanzo molto ricco dal punto di vista dei sentimenti, sottolineando quanto la gratuita crudeltà di un uomo possa rovinare la vita di varie persone. Un’acuta riflessione sul dolore che produciamo agli altri senza rendercene conto, un elogio del fatalismo e una considerazione sul senso tragico del vivere che, oggi come ieri, sempre caratterizza le nostre esistenze:

“Mi sono chiesta se fosse Dio che voleva questo. Ma se Dio è buono, Emilia, perché dovrebbe permettere che accadano queste cose?”

Emilia non sapeva rispondere a questa ingenua e semplice domanda di Giulia.

“Non lo so, Giulia. Non credo che ci siano cose giuste o ingiuste al mondo. Ci sono cose che accadono” (82).

 

Lorenzo Spurio

Jesi, 26-01-2013

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Imbarbarimento e crudeltà: “Il signore delle mosche” di William Golding, recensione di Lorenzo Spurio

Il signore delle mosche

di William Golding

recensione-analisi di di Lorenzo Spurio

 

Ralph piangeva la fine dell’innocenza, la durezza del cuore umano, e la caduta nel vuoto del vero amico, l’amico saggio chiamato Piggy.

(Il signore delle mosche, di William Golding)

 

Che orrore! Che orrore!

(Cuore di tenebra, di Joseph Conrad)

 

IImmagineil%20signore%20delle%20moschel signore delle mosche è un romanzo d’avventura, ma anche un’amara analisi sui rapporti umani che si sviluppa in maniera drammatica e sconvolgente a seguito della diffusione di ideologie contrastanti. E’ anche un romanzo politico, nel senso che mostra modi di pensare riferiti alla società estremamente diversi tra loro; Golding utilizza, infatti, molto spesso nel corso del romanzo un linguaggio specifico che è appunto quello politico: “adunata”, “assemblea”, “congresso”, “leggi”, “consensi”, “maggioranza”, “capo”, “elezioni” sono solo alcune delle parole che vengono impiegate. Da una parte c’è Ralph, il bambino della conchiglia, che istituisce assieme al Piggy l’assemblea e il congresso fondato sul turno di parola, un sistema quindi democratico, fondato sull’eguaglianza, la libertà e mirato alla coesione e alla pluralità delle idee; dall’altra parte c’è Jack Merridew, un bambino prepotente e sadico che si scinderà dal gruppo originario per dar vita a una sua tribù dominata dalla violenza, dalla spietatezza e dall’autoritarismo, nel quale non è difficile intravedere una sorta di politica dittatoriale, totalitaristica.

Il signore delle mosche è un romanzo estremamente complesso. Forse neppure Golding avrebbe voluto crearlo tanto complicato e denso, non nella trama che, invece, è abbastanza semplice e lineare, ma nella serie di temi che implicitamente sottendono nel tessuto dell’intera storia. Ma Il signore delle mosche è anche il segno di un imbarbarimento pericoloso, di un ritorno alle origini selvagge, primitive, è il ritorno a uno stato di natura che fa seguito a un abbattimento di ogni esplicitazione della cultura (l’educazione, l’insegnamento, la formazione, la morale, la religione, il buon senso). Il romanzo si presenta come un bildungsroman stravolto: i bambini della storia, soli superstiti di un incidente aereo, si ritrovano su un’isola disabitata del Pacifico e, dopo un’iniziale progetto democratico di organizzazione e di coesione, si abbandonano a screzi, litigi, rimproveri, minacce sino ad arrivare a vere e proprie violenze:

 

“Le leggi!” gridò Ralph. “Tu non rispetti le leggi!”
“A chi gliene importa?”
Ralph chiamò a raccolta tute le sue facoltà.
“Ma le leggi sono l’unica cosa che abbiamo!”
Ma Jack gli guardava in piena rivolta:
“Chi se ne frega delle leggi!”

L’ideale democratico e populista che li aveva animati all’inizio, viene irrimediabilmente infranto e ben presto il gruppo dei ragazzi si divide in due:  Jack, non riconoscendo più come capo Ralph, crea un suo gruppo al quale partecipano da subito la maggioranza dei bambini.

L’isola del Pacifico, unica location del romanzo, dalla vegetazione esotica e dai panorami mozzafiato, che poteva essere un ottimo setting di pace e tranquillità, luogo di divertimento e di svago, finisce per diventare, invece, il luogo del vizio, del peccato, dell’infanzia corrotta.

E’ Jack il capo del nuovo gruppetto di bambini che si scinde dal gruppo originario e quest’azione può essere interpretata a livello politico, come una sorta di atto ribelle volto alla determinazione di una minoranza, ma il modo con cui Jack lo fa non ha niente di democratico e di lecito e quindi deve essere visto come una sorta di spietata lotta di potere motivata da ragioni megalomani e personalistiche all’interno delle quali Jack, appunto, si auto-proclama nuovo capo. E’ un capo autoritario, violento, crudele, sempre pronto a dar ordini o a comandare a qualcuno di picchiare altri. E così, alle iniziali idee di adunata, congresso e assemblea, si sostituiscono ben presto una serie di azioni violente, minatorie e criminali del gruppo di Jack, rinominato “il signore delle mosche” contro il gruppo di Ralph che, munito della conchiglia, ex simbolo di unità e democrazia, insegue forse ancora un progetto unitario di uguaglianza basato su leggi e rispetto.

Isignoredellemoschen molti (la maggioranza) non tardano a schierarsi con il nuovo capo che sembra tanto più forte, austero, deciso e prestigioso e anche in questo Golding è abile nel riferirsi, forse, a quante persone entusiasmate dai regimi della prima ora (vedi nazismo e fascismo), che con la loro retorica ridondante finiva per persuadere, decisero di appoggiare ideologie che poi si rivelarono come i peggiori crimini dell’umanità. Traspaiono così in chiave romanzata una serie di riferimenti storico-politico (che sono a loro volta quanto mai attuali) facilmente individuabili per dimostrare come l’assenza di genitori, adulti, leggi, centri di controllo piuttosto che essere vissuta positivamente, si risolve, invece, come motivo di astio, violenza ed esasperata lotta di potere.[1] Il romanzo dà così voce a un’infanzia degenerata che ha perduto per sempre l’innocenza e che è portata quasi meccanicamente ad attuare e reiterare atteggiamenti sadici e sconsiderati che appartengono al mondo degli adulti (vedi il riferimento alla seconda guerra mondiale nelle prime pagine del romanzo, momento nel quale è ambientata tutta la storia).

E’ Piggy, l’amico e consigliere di Ralph, che nelle prime pagine viene canzonato per la sua mole grassottella e per il suo parlare sempre riferendosi a sua zia, il personaggio più legato alla ragione, alle idee di libertà, rispetto e democrazia e, quando nelle ultime pagine del romanzo arriviamo a leggere della sua atroce morte, siamo ormai sicuri che la democrazia sull’isola sia ormai diventata un disegno utopico. Con la morte insensata di Piggy finiamo per solidarizzare ancor più con il gruppo dei “buoni”, Ralph e pochissimi altri, e temiamo che Golding nelle poche pagine che seguano finisca per far morire anche Ralph. Ma in questo modo avrebbe finito per aggravare il tono già particolarmente tragico e, forse, di essere troppo banale; ci consegna, invece, un finale diverso, inaspettato, che, però, ha il sapore di un eccesso di buonismo o di conciliatorismo giunto però ormai in extremis.

L’assurda e inspiegata convinzione dei ragazzi per gran parte del romanzo che l’isola sia infestata da una bestia violenta che li tenga continuamente sotto minaccia si configura, inoltre, da subito come una banale macchinazione della mente dei ragazzi che li porta però a dover trovare a tutti i costi quella bestia. La trovano, sì, ma all’interno del loro gruppo, per soddisfare, forse, quel desiderio di frustrazione di essere bambini e di volersi mostrare grandi, capaci di memorabili azioni e di utilizzare la violenza. Per Jack,  il signore delle mosche, il violento, il capo tribù, il despota, il selvaggio, uccidere una persona sarà un’azione di poco conto, proprio come uccidere un maiale. Golding ci chiama direttamente a riflettere e ragionare su quanto l’animo umano sia capace di produrre nefandezze nel momento in cui dimentica ciò che sono la ragione, la coscienza e il rispetto delle leggi. E’ sempre Piggy a sottolineare, come una sorta di saggio “Grillo Parlante” che rimane però sempre poco ascoltato, le mancanze e i pericoli a cui il gruppo sull’isola va incontro se non si rispettano le leggi della conchiglia, ideate da Ralph e all’inizio accettate e condivise da tutti:

“Che cosa è meglio: essere una banda di negri, di primitivi come voi, o essere ragionevoli come Ralph?”
“Che cosa è meglio: avere delle leggi e andare d’accordo, o andare a caccia e uccidere?”
“Che cosa è meglio: la legge e la salvezza o la caccia e la barbarie?” 

Non c’è nessuna forma di rinsavimento, di ripensamento, né di pentimento da parte di Jack e del suo gruppo nei confronti di Ralph, segno che la crudeltà si è radicalizzata e ha colonizzato ampiamente i loro cuori; il finale proposto da Golding, forse per smorzare un po’ l’esasperata tragicità dell’intera storia, non è però in grado di alleviare il senso di desolazione, di disprezzo e la paura che noi, così come Ralph, proviamo nei confronti di Jack, dei cattivi, dei violenti. L’isola di Golding non è un’isola che “rende famosi” come quella di un celebre reality televisivo ma è, al contrario, un posto che da edenico si trasforma in demoniaco a causa della crudeltà insita nell’uomo, in maniera analoga a quanto avviene nell’Africa nera nel romanzo Cuore di tenebra (Heart of Darkness, 1902) di Joseph Conrad dove il crudele Kurtz, al pari di Jack in Il signore delle mosche, non è altro che emblema del male atavico che sgorga dall’indifferenza nei confronti del dolore prodotto dalle proprie atrocità.

 

Lorenzo Spurio

 

Jesi, 22-11-2011

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

Conrad, Joseph, Cuore di tenebra, Torino, Einaudi, 2005.

Golding, William, Il signore delle mosche, Milano, Mondadori, 2001.

McEwan, Ian, Il giardino di cemento, Torino, Einaudi, 2006.

Spurio, Lorenzo, “Comportamenti devianti e spazi claustrofobici nella scrittura di McEwan”, Tesi di Laurea Magistrale, Università degli Studi di Perugia, Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di Laurea Magistrale in Lingue e Letterature Moderne, Relatore: Prof.ssa Francesca Montesperelli, Correlatore: Prof.ssa Marinella Salari, a.a. 2010/2011.


[1] Ho avuto modo di studiare a fondo l’opera di Ian McEwan, uno dei maggiori scrittori britannici viventi, oggetto per altro della mia seconda tesi di laurea. La critica ha messo in luce che la storia contenuta nel suo primo romanzo, Il giardino di cemento (The Cement Garden), del 1978, è in parte inspirata da Il signore delle mosche di Golding, romanzo che McEwan conosceva molto bene e del quale era rimasto affascinato. L’idea di Il giardino di cemento, infatti, era, come ha sostenuto l’autore in varie interviste, quella di presentare le vicende di quattro fratelli minorenni che si trovano da soli a gestire tutte le incombenze e le mansioni della casa dopo la morte di entrambi i genitori. L’idea di vedere come dei bambini da soli, senza adulti o altre figure d’autorità, si comportino per ricreare un loro ordine che possa dar stabilità e coesione è ripreso da McEwan direttamente dal romanzo di Golding, poi riadattato in maniera diversa. In Il giardino di cemento, infatti, i bambini dopo un’iniziale organizzazione basata sulla coesione e la spartizione di compiti, finiscono per sprofondare nel caos all’interno del quale maturano atteggiamenti degenerati, preoccupanti e sessualmente deviati attuati, però, come strategie di autodifesa o come un modo per cercar di tener unita la famiglia, contravvenendo alla morale e alle leggi sociali.

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“Munnu crudili” poesia di Emanuele Marcuccio, con traduzione

MUNNU CRUDILI[1]

(poesia in lingua siciliana[2] di Emanuele Marcuccio)

 

Ad Alessio Patti,

maestro ed esperto cultore

della lingua poetica siciliana

Arrusbigghiati munnu,

arrusbigghiati ventu;

lu ventu si scatina,

lu ventu è tirannu

e dintr’i casi trasi.

Lu munnu è crudili

lu munnu è malignu

e scampu nun lassa:

purtusu ppi ricoviru

d’a povira genti.

(13/11/2010)

 

 

Quel vento è metafora della crudeltà del mondo, delle crudeltà dei malvagi; il distico anaforico con i due imperativi iniziali vogliono essere un’esortazione, un avvertimento ad agire diversamente.

È proprio la malvagità, la tracotanza di una minoranza di uomini a rendere crudele il mondo, già Dante lo aveva rilevato nella sua Commedia, con quel famoso verso in sineddoche “L’aiuola che ci fa tanto feroci” (Paradiso XXII, v. 151). E sempre Dante, nel suo De vulgari eloquentia, ha trattato dell’importanza linguistica del siciliano.[3]

Di seguito, per i non siciliani, la traduzione in italiano.

 

 

MONDO CRUDELE

Svegliati mondo,

svegliati vento;

il vento si scatena,

il vento è tiranno

ed entr’addentro le case.[4]

Il mondo è crudele,

il mondo è maligno

e scampo non lascia:

pertugio per rifugio

della povera gente.

 

(17/11/2010)

 

 


[1] Entrambe le versioni sono state pubblicate nell’antologia di autori vari La biblioteca d’oro. Poesie in siciliano, Unibook, 2011, p. 25.

[2] «La lingua siciliana, troppo spesso declassata da molti a “dialetto” è, in realtà, una lingua a tutti gli effetti. Molti filologi ed anche l’organizzazione Ethnologue, descrivono il siciliano come “abbastanza distinto dall’italiano tipico tanto da poter essere considerato un idioma separato”, come risulta anche confrontando il lessico, la fonologia, la morfologia delle due varietà linguistiche. Peraltro, il siciliano non è una lingua derivata dall’italiano, ma, al pari di questo, direttamente dal latino. La lingua siciliana esiste da centinaia d’anni, la tradizione poetica siciliana nasce con la corte federiciana nel XIII secolo e fioriscono da allora illustri poeti e cantori in siciliano aulico che costituiscono tuttora modelli per un’eventuale canonizzazione della lingua poetica siciliana scritta. […] È doveroso, a tal proposito, specificare che non esiste attualmente una canonizzazione condivisa della lingua siciliana, soprattutto a livello orale, dove sono evidenti le differenze fonologiche, morfologiche e lessicali da una zona all’altra della Sicilia. Diverso, il discorso per la lingua scritta, per la quale esiste una tradizione secolare alla quale poter far riferimento per una produzione poetica siciliana a regola d’arte».

Santina Russo, dalla prefazione all’antologia di autori vari La biblioteca d’oro. Poesie in siciliano, Unibook, 2011, p. 7.

[3] «E per prima cosa facciamo un esame mentale a proposito del siciliano, poiché vediamo che il volgare siciliano si attribuisce fama superiore a tutti gli altri per queste ragioni: che tutto quanto gli Italiani producono in fatto di poesia si chiama siciliano; e che troviamo che molti maestri nativi dell’isola hanno cantato con solennità. […] Il volgare siciliano, a volerlo prendere come suona in bocca ai nativi dell’isola di estrazione media (ed è evidentemente da loro che bisogna ricavare il giudizio), non merita assolutamente l’onore di essere preferito agli altri, perché non si può pronunciarlo senza una certa lentezza… Se invece lo vogliamo assumere nella forma in cui sgorga dalle labbra dei siciliani più insigni […] non differisce in nulla dal volgare più degno di lode».

Dante Alighieri, De vulgari eloquentia (L’eloquenza in volgare), I, XII.

[4] “ed entr’addentro le case.” con cui ho cercato di ricreare un corrispettivo sonoro del quinto verso della versione originale in siciliano, quel “e dintr’i casi trasi.” che, letteralmente si sarebbe dovuto tradurre con “e dentro le case entra” ma, se ne sarebbe perso un corrispettivo sonoro. Non ho voluto fare una semplice traduzione letterale, che è sempre un tradimento della versione originale.

 

La foto allegata è  la riproduzione di un quadro del pittore inglese, John Atkinson Grimshaw, precisamente “In peril. The harbour flare” del 1879.

 

POESIA E TRADUZIONE PUBBLICATE PER GENTILE CONCESSIONE DELL’AUTORE. È VIETATA LA RIPRODUZIONE E LA DIFFUSIONE DI STRALCI O DELL’INTERO ARTICOLO SENZA IL PERMESSO
DELL’ AUTORE.

“Regalo di compleanno”, racconto di Massimo Acciai, con un commento di Lorenzo Spurio

Regalo di compleanno

di MASSIMO ACCIAI

 

Cristina D’Avena stava cantando la sigla di chiusura dell’ultimo cartone animato del pomeriggio quando Emanuele spense la tv e corse all’ingresso: aveva sentito la chiave nella serratura, segno che suo padre era tornato. Questo significava che avrebbe avuto subito il suo regalo di compleanno. Non aveva fatto nessuna festa in quanto la sua famiglia apparteneva alla congregazione dei Testimoni di Geova, e i festeggiamenti erano considerati frivolezze contrarie alla Bibbia. Anche il cartone animato che aveva appena finito di vedere non rientrava propriamente nelle prescrizioni scritturali, ma fino alle 18 suo padre non rientrava in casa e quindi era libero di vedere ciò che voleva in TV. Naturalmente avrebbe poi mentito: mentire era sopravvivenza in quella casa. Comunque il regalo che gli aveva portato suo padre non era da considerarsi un regalo di compleanno, anche se cadeva precisamente in quella data; era solo una coincidenza. Emanuele lo considerava tuttavia tale: perché gli altri bambini a scuola potevano avere un regalo per il loro compleanno e lui no? Non era giusto ovviamente.

Ma suo padre era categorico su questo punto, come su tanti altri. Questo non significava che Emanuele non avrebbe avuto regali, anzi forse ne avrebbe avuti persino di più dei suoi compagni di quinta elementare, ma non regali legati ad una ricorrenza particolare. Il bambino aveva sempre pensato che fosse una sorta di compensazione per la vita austera e morigerata a cui lo costringeva (anche se “costringere” era una parola che il genitore non avrebbe mai adoperato).

L’uomo entrò in casa con una voluminosa scatola di cartone, a cui erano stati praticati dei fori. Il fatto che traballasse lasciava intuire che il contenuto fosse qualcosa di vivo, ma d’altronde Emanuele sapeva già cosa conteneva perché era ciò che aveva chiesto al padre qualche giorno prima, quindi non fu affatto sorpreso quando, apertala in salotto, ne venne fuori un bulldog. L’animale balzo fuori dalla scatola, impaziente ed avido di aria fresca, quindi iniziò ad abbaiare furiosamente.

– Non preoccuparti, vuol solo farti le feste – lo rassicurò suo padre. Emanuele abbracciò il cane che prese subito a leccargli la faccia.

– Grazie babbo!

L’uomo sorrise compiaciuto e posò una mano sulla testa ricciuta del figlio, scompigliandogli i capelli in un gesto affettuoso che suo padre aveva ripetuto a suo tempo con lui. Emanuele odiava quel gesto, ma non lo aveva mai dato a vedere.

– Hai finito i compiti? – domandò l’uomo.

– Sì – mentì.

– Hai letto i passi della Bibbia che ti avevo detto?

– Certo – mentì.

– Ti sei tenuto lontano dalle cattive compagnie, in modo che Dio sia contento di te?

– Sì, come al solito – mentì. A scuola per fortuna non avevano mai dato peso alla sua fede, o meglio quella di suo padre, anche se i bambini sanno essere crudeli con i diversi. Ma lui aveva fatto di tutto per non apparire “diverso” e aveva fatto amicizia con i cattolici e perfino con un paio di bambine africane musulmane.

– Bene, goditi pure il tuo regalo.

– Posso andare a portarlo a fare una passeggiata? – domandò Emanuele.

– Sì, però non ti allontanare troppo e ricordati di tornare per cena. E soprattutto, stai attento stavolta.

– Certo

– Stasera leggeremo insieme la storia di Abramo e Isacco.

Emanuele sospirò mentalmente. Odiava quella storia, fin da quando l’aveva sentita per la prima volta, anni prima. Quando era più piccolo aveva avuto gli incubi a causa di quella storia. Periodicamente padre e figlio rileggevano tutta la Bibbia, una mezz’oretta al giorno, dopodiché commentavano i brani letti. Nel giro di due anni l’avevano letta tutta, quindi ricominciavano daccapo. Erano alla terza rilettura.

– Allora vado, torno presto, ciao.

 

Il bambino uscì col cane al guinzaglio nella calda giornata di quasi estate. Il piccolo paese era quasi deserto a quell’ora; le brave massaie erano impegnate ai fornelli, l’emporio era chiuso e persino i pensionati che stazionavano sulle panchine davanti al bar erano tornati ciascuno a casa propria. Attraversarono la via principale, il bimbo e il cane, dirigendosi verso il posto segreto. Il cane scodinzolava e fiutava tutto ciò che incontrava, fermandosi un paio di volte a marcare il territorio di urina e lasciando un fumante ricordo marrone sul sagrato della chiesetta. Arrivati in piazza Emanuele scorse il suo amico Giorgio che bighellonava come suo solito. Giorgio era l’ubriacone e lo scemo del villaggio, proprio il tipo di persona da cui lo aveva messo in guardia suo padre. Un uomo così non sarebbe mai entrato nella terra paradisiaca successiva all’Armaghedon, ma certo non se ne curava. Era l’unico ateo che conosceva in quel paese bigotto; gli stava simpatico, anche se emanava un odore di cui era meglio non parlare.

– Hai un nuovo amico? – gli domandò dopo averlo salutato.

– Sì, si chiama Fido IV – rispose Emanuele accarezzando l’animale, che subito iniziò ad annusare i pantaloni sudici dell’uomo.

– Bravo bravo – disse l’uomo agitando la bottiglia mezza vuota di barolo che teneva in mano. Si salutarono, quindi presero strade opposte; Giorgio verso la taverna, che avrebbe aperto di lì a poco, ed Emanuele per il sentiero che scendeva dalla piazza verso il fiume.

Arrivarono al luogo segreto senza fare altri incontri. Il luogo segreto era ovviamente deserto, e altro non era che un vecchio ponte di pietra, in disuso, nei pressi della diga, semi nascosto dalla vegetazione che cresceva rigogliosa fuori dal paese. Il bambino si sedette su di un masso sotto al ponte dopo aver legato il guinzaglio ad un ferro arrugginito che sporgeva dalle pietre del ponte, residuo di un’antica armatura metallica con cui era stato riparato molti anni addietro, quando era ancora in uso. Il cane tirava la corda del guinzaglio, ringhiando insofferente: il bambino rimase a fissarlo in silenzio. Ad un certo punto pronunciò una specie di formula magica, una litania con molte consonanti e suoni gutturali. Tracciò quindi dei segni nell’aria con un bastoncino, raccolto per terra, e ricominciò con la litania. Dopo qualche minuto si alzò ed accarezzò il cane sulla testa, quindi slegò il guinzaglio dal ferro arrugginito e risalì il sentierino che portava dal ponte alla diga.

In cima alla diga tirava vento. Un vento gentile, serale, decisamente piacevole. La giornata era stato un caldo preludio all’estate che sarebbe cominciata ufficialmente di lì ad un mesetto. Il luogo era deserto. Emanuele guardò giù. Qualche metro più in basso la polla d’acqua, racchiusa da grandi cubi di cemento, in cui precipitava l’acqua che traboccava dal muro di calcestruzzo che formava la piccola diga. In quel punto, là in basso, la profondità dell’acqua era notevole, più di quanto si potesse supporre ad una prima occhiata. Era un’acqua torbida, verdastra, di cui non si vedeva il fondo.

Il bambino camminò col cane al guinzaglio sulla cornice di cemento, larga circa un metro, fino al punto in cui l’acqua traboccava e si precipitava dabbasso.

– Buono Fido, a cuccia.

Il cane lo guardò interrogativo, quindi incominciò ad abbaiare.

– Buono ho detto, cuccia!

La voce del bambino era gentile ma decisa. Il cane, come se avesse compreso il linguaggio umano, si accovacciò. Emanuele tornò indietro di qualche metro, fino al punto in cui il cemento si ricongiungeva alla roccia, quindi si inoltrò nel boschetto da cui riemerse qualche attimo dopo trasportando un grosso masso, di almeno cinque o sei chili. Fino a quel momento il volto del bambino era stato inespressivo, adesso la bocca si allargò in un piccolo sorriso che solo prestandovi attenzione si sarebbe potuto notare. Con estrema naturalezza prese il guinzaglio e lo legò strettamente al masso, chiudendo con un nodo sapiente i molti passaggi della cinghia. A quel punto sollevò il masso e lo lanciò giù, nella polla d’acqua sottostante. Il cane lo seguì con un guaito di dolore e sorpresa, quando si sentì tirare il collo con uno strappo secco. I due corpi, animato ed inanimato, legati strettamente da una cinghia di cuoio, piombarono in acqua dopo un volo di cinque metri producendo uno splash accompagnato da spruzzi d’acqua che arrivarono fino al volto di Emanuele, il quale si era sporto per guardare lo spettacolo; spettacolo che durò un attimo. Il cane andò a fondo e non riemerse più. Solo alcune bolle testimoniavano una cessata attività respiratoria.

Emanuele recitò altre parole in quella lingua sconosciuta, fece un segno in aria in direzione dell’acqua e tornò sui propri passi. “Per te, Marianna”, pensò. Anche con l’arsura estiva il livello dell’acqua non sarebbe calato che di pochi centimetri, e le alghe sul fondo della pozza avrebbero custodito per sempre il segreto.

 

– Non ti preoccupare, vedrai che lo ritroveremo – lo rassicurò suo padre. Emanuele si asciugò le lacrime che aveva imparato a simulare fin da quando aveva memoria, e annuì.

– E’ scappato all’improvviso – si lagnò il bambino, ripetendo la storia per l’ennesima volta – mi è sfuggito il guinzaglio e non l’ho più ripreso!

– Stasera diremo una preghiera per Fido – disse l’uomo – e domani metteremo degli annunci promettendo una ricompensa, vedrai che ce lo riporteranno.

– Non è vero! – urlò il bambino, simulando un attacco isterico – Come non abbiamo più ritrovato gli altri cani!

L’uomo si accigliò e guardò brutto il figlio.

– Non dire così, devi avere Fede figlio mio!

Lo abbracciò. Il bambino si lasciò abbracciare, rimanendo però inerte.

– Abbracciami – lo incitò suo padre.

Il bambino ricambiò l’abbraccio.

– Facciamo così – disse l’uomo – se non lo ritroviamo ti porterò io stesso al canile per prenderne un altro.

Il viso del bambino si illuminò e si aprì in un leggero sorriso che l’uomo, che lo stava abbracciando, non poté vedere.

 

 

Firenze, 6-7 fruttidoro dell’anno CCXX (23-24 agosto 2012)

 

 

Commento di Lorenzo Spurio

Dietro al “regalo di compleanno” sul quale è incentrato questo recentissimo racconto di Massimo Acciai si cela un mondo domestico torbido e indecifrabile nella sua interezza dove noia, insofferenza, mancanza d’affetto e bigottismo dominano imperscrutate. Il racconto ci fornisce uno squarcio di vita contemporanea di un’anonima famiglia che potrebbe essere quella di qualsiasi persona. Sono alcuni elementi, però, a caratterizzare il giovane protagonista in maniera poco positiva: suo padre l’ha improntato allo studio e all’interpretazione della religione dei Testimoni di Geova, elemento che in ambito scolastico, porta il ragazzo ad essere in un qualche modo “diverso” dagli altri. Essere diverso non significa essere migliore o peggiore, non esprime mai quindi un commento di tipo valutativo o qualitativo, ma rimarca la non omologazione alla norma in un dato luogo o tempo. Ma non è solo il bigottismo del padre che è praticamente assente dalla vita del ragazzo se non nei momenti in cui gli chiede di leggere brani della Bibbia con lui che “segnano” l’esistenza del ragazzo, presentato come un tipo solitario, silenzioso, razionale, come un tipo del tutto a posto.

L’intero racconto si dispiega con la narrazione di episodi quotidiani di un padre e un figlio. Non si parla mai della madre del ragazzo e anche quando appare un terzo personaggio, l’amico del ragazzo, ci troviamo di fronte ad un essere maschile.

E’ solamente verso la fine del racconto, quando il narratore apre gli occhi e digerisce l’impetuosa svolta nella storia che Acciai ha previsto, che compare un personaggio femminile, una certa Marianna. L’autore, però, sembra voler giocare con il lettore e non dà una chiara chiave interpretativa che ci consenta di spiegare chi sia questa donna: è la madre? è una ragazza della quale si è invaghito a scuola? è una parente? o piuttosto è un artificio narrativo dello stesso autore per far sì che il lettore si scervelli per capire? Ogni risposta è plausibile.

Ciò che emerge nel racconto, sulla scia di un fortunatissimo adattamento cinematografico di una sceneggiatura di Ian McEwan (The Good Son, tradotto in Italia con L’innocenza del diavolo) è come la malvagità possa convivere celata nei panni di un ragazzo tranquillo con se stesso e con il mondo. L’autore fa riflettere su come la violenza, la perversione e il disturbo psichiatrico siano realtà dalle quali non si può eludere per poter capire a tutto tondo la personalità umana. Il protagonista, così, andrà collezionando regali, uno dietro all’altro incrementando, forse, il suo sadismo nei confronti degli altri, mentre l’assente genitore –forse ancor più pericoloso dello stesso ragazzo per il suo fondamentalismo, rigorismo e settarismo- continuerà a credere nell’innocenza di suo figlio. Intanto là fuori continueranno a perpetuarsi violenze, inutili massacri, annegamenti inspiegabili di bestioline inermi, divenute così semplici oggetti con i quali dar sfogo alle proprie ossessioni.

Ma il racconto di Acciai va letto anche più a fondo: come un riflesso amaro del nostro oggi tormentato e spersonalizzante dove le cose importanti sono sempre demandate ad altre od esplicate secondo una logica materiale – come il regalo appunto- e dove allo stesso tempo menzogne, bugie, “posti segreti” diventano l’unica morale imperante e osservata, benché si continui a professare altri “credo” che diventano semplicemente noiosissimi brani da leggere.

 

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