Le interviste di Lorenzo Spurio ad alcuni grandi poeti pubblicate in “La parola di seta”

La parola di seta. Interviste ai poeti d’oggi

di Lorenzo Spurio

COMUNICATO STAMPA

cover la parola di seta-page-001Lo scrittore e critico letterario marchigiano Lorenzo Spurio ha raccolto in questo volume una serie di interviste fatte negli ultimi anni ad esponenti di spicco del panorama culturale letterario legate all’universo della Poesia.

Sandro Gros-Pietro nella prefazione osserva: «Per usare la metafora scelta dall’autore, la poesia è una parola di seta, tanto elegante quanto resistente e tenace, pure nella sua leggerezza dell’essere. Il merito maggiore di Lorenzo Spurio, per il quale non smetteremo di essergli grati anche negli anni a venire, è quello di non avere voluto, neppure come idea peregrina o barlume montaliano, propinarci l’ennesimo repertorio sulla poesia italiana d’attualità, cioè una sorta di distillato d’autore sui nomi fondanti e significativi dei bravi poeti che rappresenterebbero il nostro tempo. Lorenzo Spurio non è, dunque, caduto in quel collettore oscuro della vicenda poetica che gorgoglia solo di presunzione e di collusione con il potere editoriale, e che compila le classifiche di merito tra i poeti italiani con la risibilità truffaldina delle hit parade canzonettare, ma al contrario si è mantenuto fedele a una concezione di “viaggio nella conoscenza poetica d’attualità».

Tra i poeti intervistati figurano Corrado Calabrò, Marzia Carocci, Ninnj Di Stefano Busà, Fausta Genziana Le Piane, Dante Maffia, Francesco Manna, Fulvia Marconi, Julio Monteiro Martins, Nazario Pardini, Franco Pastore, Renato Pigliacampo, Ugo Piscopo, Anna Scarpetta, Luciano Somma, Antonio Spagnuolo, Rodolfo Vettorello e Lucio Zinna. In appendice una sezione dedicata alle interviste di alcuni giovani promesse poetiche: Iuri Lombardi, Emanuele Marcuccio, Annamaria Pecoraro e Michela Zanarella.

All’interno del volume figurano anche poesie proposte in lettura e per un commento ai poeti intervistati. Tra i classici: Marino Moretti, Corrado Govoni, Leonardo Sciascia, Alda Merini, Dario Bellezza, Amelia Rosselli, Antonio Machado, Pedro Salinas, Walt Withman, William Butler Yeats, Sylvia Plath, Bertolt Brecht, Charles Bukowski, Wislawa Szymborska; tra i contemporanei: Paolo Ruffilli, Elisabetta Bagli, Mia Lecomte, Sandra Carresi e Giorgia Catalano.

Il libro edito da PoetiKanten Edizioni può essere acquistato scrivendo a poetikantenedizioni@gmail.com oppure su ogni vetrina online di libri (Ibs, Amazon, Libreria Universitaria, Unibo,…).

SCHEDA DEL LIBRO

La parola di seta. Interviste ai poeti d’oggi

a cura di Lorenzo Spurio

Prefazione di Sandro Gros-Pietro

Postfazione di Amedeo Di Sora

PoetiKanten Edizioni, 2015

ISBN: 9788899325206

Costo: 15 €

“Euterpe” n° 16 dedicato al tema “Alterità nelle sue varie forme” è uscito

E’ uscito oggi 10 giugno 2015 il sedicesimo numero della rivista di letteratura online “Euterpe”. Il nuovo numero, che si apre con un editoriale dello scrittore Martino Ciano, contiene al suo interno i seguenti materiali ripartiti nella canoniche rubriche alle quali si aggiunge quella nuova dedicata alle interviste e curata dalla poetessa e scrittrice Valentina Meloni.

RUBRICA DI POESIA

Testi di Antonio Spagnuolo, Francesco Paolo Catanzaro, Iuri Lombardi, Laura Appignanesi,  Carla De Falco, Giuseppe Napolitano, Michela Zanarella, Lucia Bonanni, Mariella Bettarini, Cristina Lania, Giuseppe Gambini, Teresa Stringa, Lucia Lascialfari, Luciano Domenighini, Felice Serino, Emanuela Inglima, Mario Vassalle, Alba Gnazi, Giuseppe Guidolin, Carla Spinella, Gabriella Pison, Assunta De Maglie, Maurizio Soldini, Mario De Rosa, Luigi Pio Carmina, Annamaria Pecoraro e Steven J. Grieco.

RUBRICA DI RACCONTI

Testi di Alessia Ranieri, Sandra Carresi, Francesca Luzzio, Maria Pompea Carrabba, Pina Piccolo, Elisabetta Amoroso e Luisa Bolleri.

RUBRICA DI SAGGISTICA-ARTICOLI

GIORGIO LINGUAGLOSSA – L’Autoritratto o dell’Identità o del Poeta allo specchio: “Il libro della felicità lo sta scrivendo il pittore”

NAZARIO PARDINI – “Puccini al tempo della Turandot”

STEFANO BARDI – “Le rivoluzioni scientifiche: Galileo Galilei e i suoi eredi”

AMEDEO DI SORA – “Il dandysmo estremo di Jacques Rigaut”

ANTONIO MEROLA – “I poeti assassini”

FRANCESCO MARTILLOTTO – “Lettura di Spesso il male di vivere ho incontrato di Eugenio Montale”

MARIO VASSALLE – “La varietà”

UGO PISCOPO – “Considerazioni sul concetto di alterità”

MARIA LENTI – “Elogio della Solitudine”

BARTOLOMEO BELLANOVA – “Mediterraneo: corpi, numeri, vergogne e falsità”

LORENZO CAMPANELLA – “L’altro è in noi”

RUBRICA DI RECENSIONI

Umeed Ali, poeta pakistano e il suo libro “Bilancio interiore”, recensione di Lorenzo Spurio

“La passiflora non è una passeggiata en plein air” di Rita Vitali Rosati, recensione di Lorenzo Spurio

“Leonardo Sciascia, cronista di scomode realtà” a cura di Martino Ciano, recensione di Lucia Bonanni

“Il Mistero delle Due Veneri”. Riflessioni sulla ‘drammaturgia’ di Alessio De Luca, recensione di Iuri Lombardi

“Granelli di tempo” di Rosaria Minosa, recensione di Lorenzo Spurio

“L’opossum nell’armadio” di Lorenzo Spurio, recensione di Katia Debora Melis

“Sul far della sera” di Giovanni Vivinetto, recensione di Marzia Carocci

“Schegge” di Daniele Berto, recensione di Marzia Carocci

RUBRICA DI INTERVISTE

Alterità e individuazione, iper dotazioni psichiche e crisi d’identità attraverso la teoria dialettica ideata dal Dottor Nicola Ghezzani. Intervista di Valentina Meloni

Intervista al poeta Corrado Calabrò, a cura di Lorenzo Spurio

  

SEGNALAZIONI e PROSSIMI EVENTI     

XXVI Concorso Internazionale di Poesia “Città di Porto Recanati” (scadenza 25-07-2015)

Selezione di materiale per l’antologia “Aldo Palazzeschi: il crepuscolare, l’avanguardista, l’ironico” (scadenza 30-06-2015)

2° Premio di Letteratura “Ponte Vecchio” (scadenza 30-11-2015)

Il nuovo numero della rivista può essere letto e scaricato collegandosi alla sezione “Leggi i numeri della rivista” all’interno del sito.

Si ricorda, inoltre, che il prossimo numero della rivista avrà quale tema/titolo al quale è possibile rifarsi “Quando l’arte diventa edonismo”. I materiali dovranno pervenire alla mail della rivista (rivistaeuterpe@gmail.com) entro e non oltre il 20 settembre 2015.

Qui l’evento in FB del prossimo numero della rivista.

Grazie per l’attenzione e buona lettura

Lorenzo Spurio

Direttore “Euterpe”

Lorenzo Spurio intervista il partenopeo Luciano Somma

LS: A che periodo della sua vita risale la prima poesia e quando si accorse che la letteratura era una buona chiave di volta per confidare i suoi pensieri?

LS: Ho iniziato a scrivere i miei primi versi a 13 anni, un po’ ingenui ma comunque dettati dall’ispirazione che non mi ha mai più abbandonato. Mi sono accorto della chiave di svolta qualche anno più tardi.

 

LS: Il suo curriculum letterario è molto ampio e in esso si ravvisano interessi diversi che spaziano dalla narrativa, alla poesia, fino alla canzone. Negli ultimi anni è stato considerato come uno degli artisti italiani più presenti in rete –soprattutto in Youtube- con un’intensa attività di letture poetiche. Quanto secondo Lei è importante Internet nella nostra società? Si può prescindere da esso o il suo utilizzo è necessario?

LS: Ritengo internet un veicolo ormai indispensabile per arrivare al grande pubblico, comunque la  mia presenza sul web risale alla fine degli anni ‘90 e già nel 2000 Il Giornale aveva, in un suo articolo specifico, sottolineato ed evidenziato che ero il poeta più presente in internet. Appena venti anni fa sarebbe stato impensabile farsi conoscere in tutto il mondo attraverso un mezzo di diffusione che negli anni si è centuplicato ed ormai si può dire che non c’è famiglia che non abbia almeno due pc collegati…

 

 

LS: La sua ultima opera, Da Napoli con amore (Photocity, 2013), curata da Gioia Lomasti e Francesco Arena, è una ricca antologia della sua produzione divisa in due parti: una prima sezione dedicata alle poesie in napoletano e una seconda parte sotto il titolo di “Brividi di ricordi” che si compone di poesie in italiano e prose. Solo negli ultimi anni anche i concorsi letterari stanno mostrando un certo interesse nei confronti della letteratura in dialetto. Quanto è importante secondo lei la poesia in vernacolo e perché?

LS: Ho pubblicato quest’opera spinto dalla collaborazione grafica di Gioia e Francesco. Negli anni ‘70 ho partecipato a molti concorsi di poesia napoletana classificandomi spesso al primo posto. Per me la parlata della città, o paese, di nascita è molto importante, sono però del parere che la napoletana è una lingua e non si può classificare come dialettale per il semplice motivo che si parla un po’ in tutto il mondo grazie al fenomeno emigratorio iniziato nei primi anni del secolo scorso. Non dimentichiamo poi le canzoni napoletane, come ad esempio “ ‘O sole mio”, che hanno contribuito, in modo determinante e moltissimo alla diffusione del napoletano nel mondo.  

 

 

LS: Dario Bellezza (1944-1996), poeta controverso e osteggiato, fu esponente di spicco di una poesia romana degli anni ’70 caratterizzata dall’irriverenza e dalla trasgressione. Nella sua poesia si ravvisa un certo mal di vivere e una desolazione che deriva dalla pesantezza degli sguardi/opinioni della società su una serie di condotte da lui attuate che per i tempi erano fortemente stigmatizzate (l’omosessualità, la dedizione alla droga). Le presento una sua lirica dal linguaggio particolarmente potente che farebbe pensare a sprazzi di avanguardismo; in realtà Bellezza fu un fenomeno raro nella sua eterogeneità che rende impossibile una qualsiasi collocazione poetica di riferimento. Le chiedo un suo commento su questa lirica intitolata “Andiamo a rubare”[1]:

 

Andiamo a rubare: il furto si addice a un poeta!
Nessuno veramente sa che cosa sia, intero,
un poeta! Un grande sapiente o veggente?
Magari! O soltanto un criminale! Un ladro
di lumi, di vite clandestine vissute
nel silenzio dei giorni tutti uguali.

 

LS: Dario bellezza è morto a 52 anni. Più che poeta io lo considero un verseggiatore, la differenza è abbastanza riscontrabile, non è stato tanto osteggiato per la sua manifesta omosessualità bensì per osannare il suo status, che sarebbe stato più tollerato se vissuto senza enfasi, e lo stesso dicasi per la dedizione alla droga. Comunque alcuni versi sono interessanti anche se non condivisi. Deve anche molto alla sua popolarità per alcune trasmissioni televisive che lo hanno fatto conoscere  al grande pubblico.

 

 

LS: Il giovane poeta svizzero Oliver Scharpf[2] in uno dei suoi uppercut presenti in una recente opera antologica dal titolo Di soglia in soglia[3] sulla poesia si esprime in modo innovativo e dissacratorio:

 

non se ne può più della poesia
ma anche della poesia autentica
se è per questo
non si può più fare della poesia, con la poesia
basta con i libri di poesia
se proprio si vuole
allora deve essere qualcosa che si avvicini
a un nome scritto sull’inguine di una spiaggia
un attimo prima che la lingua di spuma
lo lecchi via.

 

LS: Come spesso accade ad alcuni giovani la volontà di farsi comunque conoscere li porta fuori dai canoni  e purtroppo non sempre in maniera brillante e razionale. Più che in modo innovativo io direi molto dissacratorio è il suo modo di esprimersi e di porsi, basta leggere l’inutilità contenutistica degli ultimi versi, ritiene vano scrivere poesie ma se proprio qualcuno volesse continuare a farlo, ma intento lui lo fa,  scriva ciò che pensa su una spiaggia così il mare lo porterà subito via, ma allora caro Oliver Scharp, pseudo poeta Svizzero, che cavolo scrivere a fare se ciò che fai viene cancellato dall’onda? Tanto vale che te li tieni nella mente i tuoi pensieri e ti risparmi così di partecipare a premi, vorrei veramente conoscere le motivazioni dei giurati del premio Montale per farmi una ragione, sul premio a lui assegnato nel 1997, e capire quali sono stati i valori di ciò che ha scritto e che messaggio ha lasciato quale orma da seguire…    

 

 

 LS: L’idea di questa intervista è quella di poter diffondere le varie interpretazioni sulla Poesia e in questo percorso ho ritenuto interessante proporre a ciascun poeta alcune liriche di validi poeti contemporanei viventi, ampiamente riconosciuti dalla comunità letteraria e dalla critica per richiedere un proprio commento-interpretazione. La prima poesia che Le propongo è “Un carillon”[4] di Franca Alaimo:

 

Adesso abito uno spazio incenerito
dove ogni cosa è quel che era prima di esistere,
dove si può dire “fonte”, prima che la sua goccia iniziale
le dia il nome che l’inchioda all’acqua.
Là io, non questa me, navigo
come il primo uccello dell’Eden stupito dell’aria
e del mistero delle sue ali.
Ho sempre con me un giocattolo dorato
che è stato il primo dono di Dio:
un carillon di suoni che giorno e notte
mi distrae dal domandargli
com’è che cominciato tutto questo dolore.

 

LS: Indubbiamente in questi bei versi, molto profondi e di alta caratura, vi sono oltre a delle belle immagini poetiche anche qualcosa che suscita nel lettore un desiderio di riflessione su questa nostra condizione umana spesso afflitta ed appesantita da un doloroso bagaglio, il suo interrogativo a Dio è pienamente da me condiviso.  

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 LS: Di seguito, invece, Le propongo una poesia di chiaro intento sociale scritta dal poeta palermitano Emanuele Marcuccio[5] intitolata “L’inquinamento”[6], sulla quale sono a chiederLe un suo commento:

 

Forse, quando l’inquinante
all’aere duro involverà
tutto il suo cielo,
l’umana terra,
unico lustro fra i pianeti,
non potrà più vivere,
non ci sarà più vita:
e il sole non sparmierà
i suoi dardi infocati,
sulle umane genti
la sua collera piomberà;
per il suo agire insensato
le terrestri cose spariranno:
gli animali e le piante.
Sì ché dal nucleo si sprigioneranno
funeste vampe,
ché alla lava dei vulcani
non scemeranno
il funesto errare.

 

LS: Al di là dell’intento sociale, da meditare, vi è però in questi versi arcaici un’apocalittica visione del futuro, un pessimismo senza ombra di speranza, come un tunnel buio dal quale non si uscirà più. Funeste vampe, scrive l’autore, funesto errare, io aggiungo funesti versi. Il poeta anche se vede tutto scuro da qualche parte dovrà pur trovare almeno un barlume di luce, dove c’è l’ombra da qualche parte ci deve essere il sole o viceversa, se vede tutto nero allora vi è qualcosa nel suo “io” che sicuramente non vive in sincronia col resto del mondo.  

 

 

 LS: Nella poesia “Perdonateci”[7] individua l’animo ribelle che contraddistingue o che dovrebbe contraddistinguere il poeta: colui che non ha paura ed osa, colui che non si assoggetta alla norma e spesso “alza la voce”, ma egli è anche l’unico sensibile a cogliere le sottigliezze della realtà che lo circonda per costruire sogni e svelarli al lettore. Lei scrive, infatti:

 
Che razza strana
siamo noi poeti
specie che spesso va
controcorrente
volando verso cieli tersi
liberi
perdonateci
per questo nostro osare.

 

Perché il poeta sente il bisogno di inginocchiarsi e chiedere perdono per questo suo fare-osare che lo contraddistingue dalla massa? Perché parlando con il cuore in mano si finisce per dire la verità, anche quando essa può nuocere o infastidire?

 

LS: Il poeta resta sempre, e comunque, un po’ bambino anche se arriva ad un’età avanzata, purtroppo chi non ama la poesia, o addirittura la ignora, non potrà mai capire il dramma esistenziale che spesso è dentro a chi scrive, per fare un elementare paragone è come chi vive sempre in ottima salute non riesce a capire né a compenetrarsi, MAI, nelle sofferenze d’un malato. La corrente dell’umanità è sempre andata, e viaggia, alla conquista del denaro e della vita facile ed agiata. Ecco perché il poeta va spesso controcorrente, lui non scrive per denaro, mi riferisco alla quasi totalità, bensì per esternare i propri sentimenti d’amore, di voglia di serenità, di malessere, di dolore, e dunque è chiaro che non ha paura di ciò che possono pensare gli altri ed allora osa, chiedendo però perdono se magari questo suo modus operandi non è parzialmente o totalmente condiviso.   

 

 

 LS: Lei figura come membro di giuria nel Premio di Poesia “L’arte in versi” giunto quest’anno alla seconda edizione. Trovandosi a leggere e a valutare molti testi poetici e avendo quindi una panoramica generale delle varie tendenze ed espressioni poetiche, che cosa ne pensa del livello qualitativo della poesia che oggigiorno circola? Essere un poeta significa semplicemente scrivere un testo in versi?

LS: Ho letto e valutato centinaia di poesie anche in questo concorso. A parte poche eccezioni la maggior parte degli elaborati erano monotematici e presentavano rarissime originalità sia di stesura che contenutistiche. Chi scrive un testo poetico, a mio avviso, non può certamente essere considerato un poeta, non basta conoscere la metrica o mettere una parola sull’altra, che abbia o meno sonorità per potere essere considerato un poeta. La poesia è un’elevazione, è qualcosa che deve, una volta scritta, coinvolgere i fruitori, i recensori i quali se saranno colpiti emotivamente dai contenuti e dalla forma allora potranno apprezzarne e determinarne la validità. E’ seminare poesia che sarà poi raccolta come spunto per i posteri,  in mancanza vi è non solo  il vuoto assoluto ma assenza completa d’arte poetica.     

 

 

 LS: La città partenopea e la Campania in generale hanno dato i natali ad altri indiscussi poeti della seconda metà del Novecento e della nostra contemporaneità tra cui Ugo Piscopo, Antonio Spagnuolo, Tina Piccolo ed altri. E’ in contatto con alcuni di essi o con altri da me non citati e quanto è importante secondo Lei la collaborazione tra artisti?

LS: Conosco Ugo Piscopo di nome, con Antonio Spagnuolo vi è stato qualche volta, uno scambio di messaggi via e-mail. Con Tina Piccolo ho collaborato una sola volta essendo stato chiamato ad esprimere un mio giudizio su un concorso, da lei bandito, sulla poesia napoletana. Confesso che non credo nelle scuole di poesie, nessuna scuola potrà mai insegnare i sentimenti da esternare, potrà magari suggerire delle forme, più o meno innovative, ma io resto consolidato nella  mia opinione sull’unicità delle caratteristiche poetiche individuali e non credo nelle collaborazioni. Ben diverso è invece un testo musicale laddove sono spesso accettati dei coautori perché più idee potranno senz’altro migliorare il prodotto, rendendolo magari più  popolare, ma questo è naturalmente tutto un altro discorso.          

 

 

Napoli, 11 Luglio 2013

 

 

 

[1] Dario Bellezza, Poesie 1971-1996, Milano, Mondadori, 2002.

[2]Oliver Scharpf è nato a Lugano nel 1977. Premio Montale nel 1997 per le poesie inedite, poi pubblicate nell’antologia del premio da Scheiwiller. Diploma in scrittura drammaturgica alla Scuola d’arte drammatica Paolo Grassi di Milano. Ha scritto tre libri. Collabora con una rubrica bimensile per il settimanale Azione.

[3] AA.VV., Di soglia in soglia. Venti nuovi poeti della Svizzera italiana, a cura di Raffaella Castagnola e Luca Cignetti, Lugano / Lusone, Biblioteca Comunale di Lugano / Edizioni Le ricerche, 2008, p. 135.

[4] Franca Alaimo, La Recherche, 31-10-2011.

[5]Emanuele Marcuccio è nato a Palermo nel 1974. Ha pubblicato la raccolta di poesie Per una strada (SBC Edizioni, 2009) e di aforismi Pensieri minimi e massime, (Photocity Edizioni, 2012). Ha curato l’antologia poetica Diphtycha. Anche questo foglio di vetro impazzito c’ispira (Photocity Edizioni, 2013). Dal 1990 sta scrivendo un dramma epico in versi liberi, ambientato al tempo della colonizzazione dell’Islanda. Collabora alla rivista di letteratura online Euterpe; ha curato prefazioni a sillogi poetiche e varie interviste ad autori emergenti ed è consigliere onorario del sito “poesiaevita.com”. Partecipa a concorsi letterari di poesia ottenendo buone attestazioni e la segnalazione delle sue opere in varie antologie. E’ membro di giuria nel Premio di Poesia “L’arte in versi”.

[6] Emanuele Marcuccio, Per una strada, Ravenna, SBC, 2009, p. 14.

[7] Luciano Somma, Da Napoli con amore, Pozzuoli (NA), Photocity, 2013, p. 51.

Lorenzo Spurio intervista il poeta campano Ugo Piscopo

LS: La critica ha analizzato la sua ampia produzione poetica come un colloquio tra classicità e modernità e come una curiosa altalena tra continuità ermetica e affiliazione allo spirito “elettrico” delle avanguardie. Per la componente della poetica classica sono stati sottolineati nelle sue liriche sabismi e montalismi in linea con una poetica di tipo elegiaca e dal tono sofferente ripiegato sull’animo dolente dell’uomo. Si ravvisa, però, anche una sua vicinanza ai nuovi fermenti letterari delle cosiddette neo-avanguardie e un’assonanza con lo spirito del gruppo’63 e la categoria dei poeti ricordati come i “nuovissimi”. Può parlarci di questa fase letteraria italiana e dirci quanto è stata importante per la sua formazione di poeta nel corso degli anni?

UP: Preciso subito i miei rapporti col lessico: sia “classicismo” sia “modernismo”, li tengo in sospensione. Non è perché mi facciano venire le allergie, ma ne faccio uso con estrema cautela. Ben altro è il rapporto con “classicità” e “modernità”, che sono referenti valoriali in cui credo. E credo soprattutto nella forza dei loro scambi sinergici, come ci hanno creduto nel Novecento Quasimodo e Sanguineti, Yeats, Eliot e Rilke, Savinio e Bontempelli, e prima ancora (andando à rebours) Baudelaire, Shelley, Keats e Byron, Goethe e Novalis e tanti altri. Con la neoavanguardia e con i movimenti sperimentali del secondo Novecento, sono stato compagno di strada, ma in totale autonomia. Avrei dovuto essere a Palermo per la costituzione del Gruppo 63 e conservo ancora una cartolina di invito di Luciano Anceschi. Con Edoardo Sanguineti, c’è stata amicizia. Ha recensito dei miei libri, una volta per dodici settimana di seguito mi ha mandato una cartolina illustrata, ha scritto per una collana da me diretta un volume[1], e, quando è scomparso, stava scrivendo un  volume dedicato a Salerno sempre per la stessa collana.

  

LS: Anche la sua attività di acuto saggista è stata rivolta a testi/autori appartenenti a generazioni innovative catalogabili all’interno delle cosiddette “avanguardie storiche” quali il futurismo e il surrealismo. Si è dedicato, ad esempio, a studiare Alberto Savinio[2] che fu, assieme a Tommaso Landolfi, l’esponente di spicco del surrealismo italiano votato all’indagine dei recessi dell’io tra il fantastico, il misterioso e il perturbante. Tra gli altri studi che ha condotto va ricordato anche un saggio su Massimo Bontempelli[3], padre del cosiddetto “realismo magico”. Può parlarci della sua fascinazione nei confronti delle avanguardie e del suo rapporto con poeti e scrittori che appartennero a questo filone?

UP: Nella mia produzione saggistica, futurismo e surrealismo occupano uno spazio notevole. Oltre a quanto pubblicato, ho un articolato e polposo volume (che resterà inedito) concernente il profilo del surrealismo in Italia. Ho anche un contratto, che finora non ho onorato, con la Casa editrice Guida di Napoli per una rivisitazione del surrealismo alla luce della sensibilità e delle mitologie del mondo contemporaneo. Ma, oltre all’avanguardia storica, ho studiato anche movimenti, situazioni e autori di indirizzo sperimentale del secondo Novecento. Per tale aspetto, rinvio alla mia produzione critica riguardo al settore delle arti figurative: ho scritto volumi, curato cataloghi e mostre concernenti l’informale, l’astratto geometrico, il postmoderno, sono stato responsabile per la critica d’arte di “Paese Sera”, redazione di Napoli. In questi giorni, è comparsa in vetrina una mia robusta monografia[4], dove si analizza lo svolgimento di un significativo artista sperimentale attraverso la specola delle interrelazioni fra individuo e ambiente e fra Napoli e il mondo contemporaneo nella seconda metà del secolo scorso e nei primi anni del nuovo secolo.

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LS: William Butler Yeats (1865-1939), poeta irlandese, vinse il Premio Nobel per la Letteratura nel 1933. E’ considerato, assieme a Virginia Woolf e James Joyce, uno dei padri del modernismo inglese, quella fase poetica anglosassone più aderente alle problematiche ed esigenze dell’uomo, che sviscerò il disagio psichico e per la prima volta smitizzò la coscienza dell’artista per renderla, invece, materia dalla quale partire per fare letteratura. Le propongo qui una sua poesia intitolata “I vecchi che si ammirano nell’acqua”[5] per chiederle una sua interpretazione personale:

 Ho udito i vecchi, i vecchissimi, dire:
«Tutto muta,
E a uno a uno noi scompariamo»,
Avevano mani simili ad artigli, e le ginocchia
Contorte come i pruni antichi
Presso le acque.
Ho udito i vecchi, i vecchissimi, dire:
«Tutto ciò che è bello trascorre via
Come le acque».

 

UP: All’irlandese Yeats dedicai trentenne (1964) una conferenza presso l’Istituto Italiano di Cultura di Tripoli, nella città dove mi trovavo per conto del Ministero degli Esteri, Relazioni culturali con l’estero. A lui e all’Irlanda del primo Novecento (in particolare, a Joyce) mi piace pensare di frequente. La composizione qui proposta è deliziosa, avvolgente e comunicativa e appartiene meno al filone yeatsiano sperimentale che a quello simbolista-visionario, che si costituisce su una cifra ermeneutica tutta personale di interrogazione degli aspetti primari dell’esistenza, per ricavarne spunti di riflessione sulla storia e sul destino dell’uomo. Il quale, come soggetto attivo delle contraddizioni e degli intrecci di tensioni vitali, diventa icona di una condizione patica di verifica dell’esser-ci. In questi versi, estremamente trasparenti ed essenziali, il dramma esistenziale si cala in toccate e fughe lievi e allusive sulla liquida mobilità del vivere, sottolineata da “presso le acque” e “come le acque”. Sul bordo delle acque sono collocate statuariamente delle sculture umane di figure lavorate dal tempo con «mani simili ad artigli» e «ginocchia contorte come pruni antichi». Intanto, nell’atmosfera attorno fluiscono parole, narrazioni brevi sul senso del tutto: «tutto muta», «tutto ciò che è bello trascorre via».  

  

LS: L’idea di questa intervista è quella di poter diffondere le varie interpretazioni sulla Poesia e in questo percorso ho ritenuto interessante proporre a ciascun poeta il commento di due liriche di cui la prima è di un poeta contemporaneo vivente e ampiamente riconosciuto dalla comunità letteraria e un’altra di un poeta contemporaneo, esordiente o con vari lavori già pubblicati, per consentire l’articolazione anche di una sorta di dibattito tra poeti diversi, per esperienza, età, provenienza geografica, etc e di creare una polifonia di voci e di interpretazioni su alcune poesie appositamente scelte. La prima che Le propongo per un’analisi è “Fior di cactus” tratta dalla silloge La grazia di casa mia[6] del poeta di origini brasiliane Julio Monteiro Martins[7]:

Cambiali e minotauri,
saturnali e minestroni,
angurie e folgorazioni.
 
Soldi e versi.
 
Tristi accoppiamenti.
 
E intanto
arrivano bollette
e il poeta soffre.
 
La vita intera
sull’orlo dello sfratto.
 
Gli spazi chiusi
sempre instabili,
Le pareti costano.
 
Al poeta povero,
sgradito ai proprietari,
respinto dalle mura,
resta l’aperto.
L’addiaccio.
 
 
Sulla mia vita
all’aperto
ve ne racconto una,
gratis come sempre.
 
Esiste un luogo
dove non c’è televisione
e non arrivano giornali.
È una sorta di deserto.
È bello visitarlo all’alba
quando fioriscono i cactus.
 
Lì ho conosciuto
l’ironia vegetale.
Il cactus più brutto
è quello dal fiore più bello:
un gigantesco giglio,
profumato,
variopinto,
che si apre solo all’alba.
Si capisce.
Da quelle parti
il sole è così ardente
che il fiore
non ha scelta
e deve rimanere chiuso
per tutta la giornata.
 
Ma state tranquilli.
Trattenete pure
le interpretazioni.
Questa storiella
non è una metafora
della miseria del poeta.
 
È soltanto un ricordo.
Un richiamo forse.
Una fitta.
Una piccola cosa,
mentale
e inestimabile.

 

UP: Non conosco l’autore di questa poesia. E’ la prima volta che leggo dei suoi versi. Intanto, questa composizione non mi lascia indifferente con la sua immediatezza comunicativa, con le sue movenze rapide, pressoché sussultorie, con gli umori sarcastici e lievemente dissacratori tenuti sotto controllo, ma garbatamente, giocosamente lasciati trasparire in superficie. L’autore non si pone frontalmente nei confronti di chi legge o ascolta, anzi si colloca da quest’altra parte della scena, come uno del pubblico, col quale ha il piacere di colloquiare provocatoriamente con allegra tristezza di dietro o lateralmente. Entro questo scenario, si viene progressivamente formando un’atmosfera di perplessità e di attesa su stigmi di una modernità tutta cose e contraddizioni, che non concedono spazi all’evasione, alle regressioni, alle confortanti rassicurazioni. Il linguaggio fatto di concretezza e di oralità, tuttavia, non si nega al momento magico dello stupore, quando al centro di una condizione di rudezze esperienziali si apre improvvisamente un varco all’apparizione dell’inatteso, del diverso, quel fiore di cactus, che è una delizia, proveniente dalla pianta più ostica e retrattile, che è il cactus.

 

 LS: Di seguito, invece, Le propongo la poesia “Il drago infuocato”[8] della poetessa Anna Maria Folchini Stabile[9]:

 

Un fiume di parole si inseguono
nell’aria ferma
che si fa di ghiaccio.
Pensieri e visioni di passato rotolano sul presente,
eruttati dall’urna di cristallo.
 
Il vuoto,
il rammarico
riempiono, poi, il cuore
di infinita e sconsolata
 
Meglio sarebbe stato inghiottire il drago adirato
con tutto il suo pennacchio di fumo…

 

UP: Egualmente, come già per Julio Monteiro Martins, devo segnalare che adesso per la prima volta sto prendendo contatto con la scrittura di Anna Maria Folchini Stabile. Trovo anche questa composizione significativa. Essa mi mette a contatto con una voce che, in una stanza illuminata dalle pareti lisce e rigorosamente prive di ornamentazioni e altre aggiunzioni, sul filo di una disciplinata pazienza, evoca situazioni in cui il complessivo e la complessità stessa si assoggettano a processi e a linee di essenzializzazione. Lo stile è del suggerimento e della confidenzialità estremamente sobri, se non cauti. Poi, improvvisamente avviene uno scarto, un’impennata. Mentre, il discorso stava avvolgendosi tutto all’interno di una stanza di castigata meditazione, il cavallo dell’immaginazione balza oltre l’ostacolo. Un guizzo, un salto e via… Non a caso anche la poetessa adopera i puntini sospensivi, per suggerire a chi legge che di là in poi deve correre (collaborativamente) con la sua fantasia e immaginare quello che oggi potremmo chiamare il sequel, che sta diventando sempre più tema ricorrente nei dibattiti e sui media.

  

LS: La sua prima silloge, Catalepta, appare al lettore come una prima summa di esperienze con il mondo viste con uno sguardo mesto e leggermente sofferente; va rintracciando, infatti, quelle che sono le amarezze, le “fragili speranze”, la debolezza (intendiamo fisica, ma anche morale) degli uomini, i dolori della guerra e della dittatura («ci sono ancora le camice nere»[10]) e ne fuoriesce a tratti un’indagine di carattere crepuscolare che, però, rifugge ciascuna forma di vittimismo dopo aver preso coscienza che la vita, pur gravata da dolore, è importante e va rispettata e considerata il dono più grande in nostro possesso. Nella penultima lirica della raccolta, intitolata “Vita”[11], scrive appunto:

 

Guazzando in una pozza
di luce
affondo le mani
Son vivo.
Riconosco la  vita
in quel poco di carne
che noi soffriamo
caldi d’un soffio oltramondano.

 

Può dirci come è nata questa poesia e quanto secondo Lei è importante il dolore, la sua percezione e contestualizzazione, come elemento esperienziale nel percorso dell’uomo?

 

UP: Prima qualche precisazione su questa poesia: la scrissi negli anni universitari, quando ero molto suggestionato dai classici antichi e moderni, a cominciare dagli autori greci (soprattutto, i lirici e i tragici). Tra i moderni, incalzavano particolarmente Leopardi, Baudelaire e Rimbaud, Ungaretti e Quasimodo, i romantici inglesi, Lorca e Guillén. Sul piano del pensiero, l’attenzione era assorbita dalle interrogazioni sull’esistenza che vanno da Kierkegaard a Sartre. Passiamo, poi, al dolore. Già, il dolore, il sale della vita. Chiediamolo a Montaigne, a Leopardi. Attraverso questo filtro, acquistiamo senso nel mondo e diamo senso ai nostri rapporti col mondo. La sua esperienza è, dunque, condicio sine qua non di partecipazione e dell’acquisto di consapevolezza della partecipazione a una situazione generale in divenire in una condizione, purtroppo, di individualità mortale, di limitatezza e parzialità che si vorrebbe ricongiungere al tutto. Sul diagramma del dolore registriamo la nostra storia, l’avventura della nostra presenza. Il dolore, però, rispetto alla poesia e all’arte è un primum soltanto. Non è col dolore che si fa poesia, ma con le parole, come dice Valéry. Con la scrittura, come sostiene Derrida.

  

LS: Una delle sue opere maggiori è considerata Quaderno a Ulpia, la ragazza in mantello di cane (Guida, 2002) che è completamente ispirata e dedicata alla sua compianta cagnetta, legata a lei da un rapporto molto stretto. Il libro, oltre ad apparire come un lungo canto soave volto a rimembrare  momenti felici e giocosi vissuti con Ulpia, si offre al lettore come un vivido testo di impronta esistenzialista. In un certo senso parlando di un cane è come se volesse mettere in luce quanto l’animale da lei amato possedesse qualità inenarrabili e fosse capace di ricambiare quell’affetto donato che, invece, oggigiorno trova sempre una maggior reticenza e latitanza nel comportamento dell’uomo. Può dirci come è nato questo libro e qual è stata l’intenzione che ha mosso l’intera opera?

UP: Questa raccolta, insieme con le raccolte e con le composizioni che la precedono a partire dagli anni Novanta del secolo scorso (connotati dal ripiegamento sul minimale e sulla ragione debole, dalla sempre più accentuata diffidenza nei confronti delle grandi narrazioni e delle spiegazioni ultime e ultimative, dagli scandagli non neutri e freddi della fine dei tempi, dal ricorso come risorsa alla non-coerenza in risposta all’andata in crisi del mito del progresso e della fede nell’unidirezionalità del cammino della storia) e insieme con le raccolte e con le composizioni che la seguono, segna decisamente un punto di svolta. Di qua in poi, la ricerca avviata sin dall’inizio (anni Cinquanta), ma prevalentemente in maniera allusiva e simbolica, acquista un atteggiamento di maggiore esplicitezza sulla probabilità di una Weltanschauung libera dai condizionamenti e dall’autoreferenzialità dell’antropocentrismo. Si tentano recuperi di linguaggi dimenticati nel sottosuolo della coscienza, contattazioni di snodi e intrecci fra l’Io del singolo e l’Io più complessivo, con cui ci muoviamo in sincronia, di ciò che non è umano (il cane in questo caso, poi le erbe (Haiku del loglio e d’altra selvatica verzura), poi le pietre (Esistenze preesistenti. Pietre di Serra di Pratola Serra), poi…

 

LS: Negli ultimi anni un numero sempre maggiore di intellettuali, tanto scrittori quanto artisti afferenti ad altre forme d’espressione, hanno posto al centro della propria attività un chiaro interesse ecologico, volto cioè, ad evidenziare come la sconsiderata azione dell’uomo provochi gravissimi danni alla natura, alcuni dei quali non visibili direttamente ma che si manifestano inaspettatamente con un’inaudita violenza (terremoti, frane, ecc.). L’utilizzo del tema ha significato, oltre a un chiaro intento dell’artista di sensibilizzare nei confronti di realtà che riguardano indistintamente tutti, un nuovo modo del poeta di relazionarsi alla natura. Si pensi come è cambiato nel corso dei secoli il rapporto dell’uomo con l’elemento naturale e nel sistema dei comportamenti e nella rappresentazione che la letteratura ne ha fatto (si pensi al mito dell’Arcadia, all’esaltazione del paesaggio fatta dai romantici inglesi, al saggio Nature di R.W. Emerson e al romanzo Walden[12] di H.D. Thoreau). Che cosa ne pensa dell’utilizzo del tema con chiari intendimenti legati alla salvaguardia del benessere ecologico? Conosce o ha letto poeti che sono particolarmente sensibili al tema?

UP: Io provengo dal mondo contadino (Irpinia), i miei nonni paterni e materni erano contadini, il mio immaginario e la mia sensibilità hanno avuto un imprinting per sempre dal mondo della natura. Le mie nonne (la paterna e la materna) erano analfabete, ma sapevano usare e decifrare linguaggi complessi di interpretazione e di relazione con la vita e ne facevano uso di grande sapienzialità. La mia nonna materna, che è stata la mia seconda madre e che ha esercitato un grande ruolo nella mia prima formazione, mi ha trasmesso un grande rispetto per la vita, nella sua ricchezza, nella sua varietà e nelle sue meraviglie o, meglio, nei suoi miracoli. Negli scritti creativi (prosa e poesia), la mia fantasia si riferisce puntualmente a quelle frontiere, sia quando ne tratto esplicitamente, sia quando tratto situazioni altre e lontane. Allora, forse, ancora di più. Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio del decennio successivo, con un amico artista, Toni Ferro, oggi scomparso, dopo un manifesto sul teatro totale, elaborammo un progetto di un nuovo linguaggio artistico ispirato alle esigenze ecologiste e ne nacque una rivista dal titolo Arte ed Ecologia. All’ecologia ho dedicato grandissimo spazio nelle mie pubblicazioni per la scuola. Mi si chiede se conosca o abbia letto poeti particolarmente sensibili a questo tema. Rispondo così: ce ne sono tanti soprattutto oggi di questi poeti. Ma sempre la poesia, in quanto poesia, è stata per un’ecologia sostanziale della parola, della sensibilità, dell’immaginario. Certo, è stata anche di parte. A cominciare da Omero e da Esiodo, passando per Teocrito e Virgilio, fino a Guillén, che dedica tante poesie al trifoglio, a Montale intriso nella memoria dei profumi dei limoni, a Zanzotto che fa rifluire storia ed esistenza nella corporeità di selve e di fiori. E oltre ancora.

  

LS: Lei ha alle spalle una lunga attività di docente nella scuola secondaria, di preside di liceo e di dirigente superiore del Ministero della Pubblica Istruzione con funzioni ispettive, che le ha consentito di rapportarsi direttamente con le nuove generazioni. Perché, secondo lei, i giovani considerano la poesia, e più in generale lo studio della letteratura, come una grande noia che non ha nessuna utilità pratica nel mondo concreto? Si è mai trovato a spiegare a dei giovani l’importanza della letteratura e, se sì, portando quali argomentazioni?

UP: Per la scuola e per i giovani ho scritto tanto: libri, saggi, articoli, relazioni. Alcuni miei libri sono stati dei bestseller.[13] Conosco bene il problema proposto: in effetti, i giovani, nel corso degli anni di istruzione e di formazione a scuola, vengono prevalentemente disgustati (se non intossicati) nei riguardi della letteratura, della poesia, del tema della bellezza. Ciò accade, anche se non dovrebbe accadere, spesso per colpa degli operatori stessi della scuola, che adoperano questi argomenti in maniera sbagliata o inadeguata: atteggiamenti iussivi e coercitivi e perfino punitivi, ripetitività fino alla noia, moduli generalizzati non tarati sulla sensibilità e sulle motivazioni dei soggetti in apprendimento, celebrazioni panegiristiche di autori e indirizzi. Ma, purtroppo, con indirizzi carenti o distorti interni alla scuola, interagiscono molteplici fattori esterni, che influenzano oggettivamente i processi formativi: i diffusi pregiudizi sulla scuola, sulla letteratura, sulla poesia, sull’arte, le vulgate iconografie del letterato, del poeta, dell’artista, che adeguano queste figure a mammolette e a sempliciotti scollegati dalla realtà. Anche l’uso improprio, che si fa sui marciapiedi, al bar, altrove del concetto di poesia e di arte dà il suo contributo in negativo. Oggi, poi, sempre più massicciamente hanno effetti negativi di ricaduta gli usi dei nuovi media, che distolgono dalla lettura, dall’esercizio critico, abbreviano i tempi di applicazione dell’attenzione, sollecitato ricezioni di carattere dilettevole. E ciò avviene non per colpa dei media stessi, ma per le strategie di eterodirezione delle coscienze dall’alto e per le relazioni che si stabiliscono in maniera frettolosa e rude con i linguaggi mediatici dal basso.

   

LS: Oggigiorno, anche grazie alla spasmodica filiazione di case editrici non a pagamento, book-on-demand e altre soluzioni di facile utilizzo, tutti si improvvisano scrittori. Ognuno ha probabilmente un suo modo di intendere il libro, l’opera e la letteratura, ma sta di fatto che la crescita esponenziale di opere sul mercato, rende estremamente difficoltosa da parte dei lettori la scelta dei testi. Dall’altra parte, il fenomeno è ulteriormente negativo, se si pensa che molti validi scrittori –magari incompresi e non spalleggiati da grandi marchi editoriali- finiscono per soccombere prima ancora di nascere. Che cosa ne pensa del panorama editoriale italiano e quali consigli si sente di dare agli esordienti?

UP: Che penso dell’editoria, io che sono stato consulente di case editrici, fondatore e direttore di collane? Che è un continente a geografia variabile, con profonde insenature, con massicci sistemi montuosi, ma anche con sabbie mobili e con profonde depressioni al di sotto del livello del mare. Non va né condannato, né celebrato, ma va studiato e possibilmente aiutato a migliorarsi, se il contesto sociale e culturale sa/vuole incalzare le politiche editoriali, se l’utenza sa scegliere e non funzionare unicamente come utilizzatrice finale che si lascia guidare dai clamori e dalle persuasioni (non sempre occulte) dei produttori e dei distributori. Ma come orientarsi, mi si chiede, in mezzo all’attuale alluvione di pubblicazioni dei nostri giorni? La situazione, non solo italiana, ma globale è pressoché babelica: questo, però, non deve spaventare, perché l’offerta così abbondante offre anche l’opportunità di imbattersi nel buono e perfino nell’ottimo. Molto dipende dalla credibilità e affidabilità della mediazione critica e recensiva. Oggi, un ruolo intellettuale ed etico/civile sempre più determinante è affidato oggettivamente dalle situazioni a chi lavora in questo campo e si fa carico di leggere e valutare per sé e per gli altri, immune da partigianerie e da allettamenti di mercimonio. L’educazione che si deve elaborare e trasmettere è dell’autonomia dalle seduzioni del gregarismo e della spettacolarizzazione, e dell’innalzamento dei livelli di criticità e di responsabilità di ognuno e di tutti. Perché oggi leggere, proprio come scrivere, è a rischio maggiore di connivenza e di colpa, rispetto al passato.                                                             

 

 Napoli, 6 giugno 2013

 

[1] Edoardo Sanguineti, Genova per me, Napoli, Guida, 2005.

[2] Ugo Piscopo, Alberto Savinio, Milano, Mursia, 1973.

[3] Ugo Piscopo, Massimo Bontempelli. Per una modernità delle pareti lisce, Milano, Mondadori, 2001.

[4] Ugo Piscopo, Carmine Di Ruggiero. Nel vento solare della luce, San Sebastiano al Vesuvio, Alfa Grafica, 2013.

[5] Il titolo della poesia in lingua originale è “The Old Men Admiring Themselves in the Water”. La poesia è contenuta nel volume The Collected Works of William Butler Yeats, Halcyon Press Ltd, 2010.

[6] L’intera silloge alla data odierna è inedita e verrà pubblicata probabilmente nel 2014, come mi è stato comunicato dall’autore stesso.

[7] Per maggiori informazioni sul poeta si legga la sua biografia nel capitolo-intervista a lui dedicato.

[8] Anna Maria Folchini Stabile, Il nascondiglio dell’anima, Avola (SR), Libreria Editrice Urso, 2012, p. 18.

[9] Anna Maria Folchini Stabile è nata a Milano nel 1948. Attualmente vive tra la Brianza e il Lago Maggiore. Ha alle spalle una lunga carriera nel mondo dell’insegnamento. E’ poetessa, scrittrice e presidente dell’Associazione Culturale TraccePerLaMeta. Di poesia ha pubblicato Spuma di mare (Lulu Edizioni, 2009), Il nascondiglio dell’anima (Libreria Editrice Urso, 2012), A volte non parlo (Libreria Editrice Urso, 2013); di narrativa ha pubblicato le raccolte di racconti L’estate del ’65 (Lulu Edizioni, 2008), Un topolino di nome Anna (Lulu Edizioni, 2010) e Noccioline (Lulu Edizioni, 2010). Ha curato, inoltre, per il sito Racconti Oltre dove scrive regolarmente, il manuale Come si scrive? – piccolo prontuario per l’autocorrezione dei più comuni errori ortografici, assieme a Luca Coletta. Partecipa a concorsi letterari ottenendo buone attestazioni.

[10] Ugo Piscopo, Catalepta, Napoli, L’arte tipografica, 1963, p. 15

[11] Ivi, p. 26.

[12] Walden o La vita nei boschi, pubblicato nel 1864, è il romanzo più celebre dell’autore. Esso contiene in forma romanzesca un’analisi sul rapporto dell’uomo con la natura.

[13]  Cfr. Ugo Piscopo, Antologia di cultura contemporanea, Palermo, Palumbo 1969, il primo libro interdisciplinare (dalle molte edizioni e ristampe) dedicato alle questioni aperte nel mondo giovanile e nella cultura in movimento dopo la prima ondata della contestazione (1968); Carlo Salinari – Ugo Piscopo, Noi e gli altri, ibidem, 1973, antologia per i bienni delle scuole secondarie superiori; Ugo Piscopo – Giovanni D’Elia, La società civile, Napoli, Ferraro, 1979, testo di educazione civica, che tra la fine degli anni Settanta e nella prima metà del decennio successivo fu il più diffuso in Italia, con tre milioni di copie vendute. 

Lorenzo Spurio intervista il poeta e saggista palermitano Lucio Zinna

Intervista a Lucio Zinna
A cura di Lorenzo Spurio

 

LS: Quale fu il momento nel quale scrisse la sua prima poesia? Da che cosa fu motivato e di quale poesia si trattò?

LZ: Ho iniziato a scrivere versi all’età di quattordici anni. Mi spingeva innanzitutto il piacere di mettere in carta quel che sentivo, al di fuori di obblighi scolastici. Non  ricordo il momento in cui scrissi la prima poesia. Mi colpivano in particolare la natura e le stagioni. Mi divertivo a seguire gli schemi metrici, ma tali aspetti tecnici mi distraevano da quel che volevo dire. Circa un anno dopo “scoprii” La fiera letteraria, allora diretta da Vincenzo Cardarelli, e trovai che i nuovi poeti pubblicati non si curavano di metrica e rima: fu un’illuminazione. A sedici anni, nel 1954,  iniziai a pubblicare i primi versi su giornali studenteschi.

  

LS: Leggo dal suo profilo letterario che nel 1965 ha fondato il “gruppo Beta” che fu vicino al più noto “gruppo ‘63”[1], anima della neo-avanguardia italiana. Può dirci di che cosa si occupava il “gruppo Beta” e quali furono i suoi rapporti con i membri del “gruppo ‘63”?

LZ: Nel 1963 si svolsero a Palermo gli incontri tra i compositori di Musica Nova, a cui furono abbinati gli incontri degli scrittori del “Gruppo 63”. Seguii incuriosito i primi e i secondi. Non mi venne in mente di modificare il mio modo di scrivere. Nel 1964 uscì la mia prima plaquette, Il filobus dei giorni, che raccoglie poesie dal 1955 al 1963, ossia dal mio 17° al 25° anno di età. Ma in quell’anno il seme di quegli incontri germogliò. Nel 1965 diedi vita al “Gruppo Beta”, con Giovanni Cappuzzo, Angelo Fazzino, Miki Scuderi e altri, attivamente partecipando ai dibattiti del “Gruppo 63” che si tennero ancora a Palermo. Mi avvicinai a Michele Perriera e Gaetano Testa (due autori de “La Scuola di Palermo”) e al compositore di musica elettronica Salvo Sciarrino. Il “Gruppo Beta”, nato in quel clima, non fu satellite del “Gruppo 63”, con cui condivideva l’esigenza di un rinnovamento linguistico ma rifiutava il neoformalismo e muoveva alla ricerca di un nuovo umanesimo, scientifico e onnicentrico, cosa di cui il “Gruppo 63” non si curava.

   

LS: Molti poeti del secondo Novecento furono in un certo modo attratti, coinvolti o influenzati dalla neo-avanguardia. Il poeta napoletano Ugo Piscopo[2], pur non partecipando nel 1963 all’incontro di Palermo dove si costituì il celebre “gruppo ‘63”, fu legato al loro modo di far letteratura e intrattenne rapporti di stima ed amicizia con alcuni esponenti del gruppo. Quanto crede che gli esperimenti ed i motivi intenzionali dei “Novissimi” e della “Linea Lombarda” furono importanti per la letteratura italiana? Perché?

LZ: La neoavanguardia riuscì a smuovere, in qualche modo, le acque stagnanti della vita letteraria italiana, in quel periodo. Una sberla salutare. Purtroppo, ingenerò in parecchi l’erronea convinzione che bastasse frantumare il linguaggio per essere originali. La Linea Lombarda è stata altra cosa; pur con i suoi innegabili meriti, forse è stata sopravvalutata.

 

LS:  Charles Bukowski (1920-1944), considerato l’ultimo dei “poeti maledetti” è un autore che negli ultimi decenni è stato rivalutato e letto in maniera più attenta; la critica, tanto di lingua inglese che in altre lingue, gli ha dedicato un più ampio studio sebbene prevalgano ancora oggigiorno visioni molto differenti sulla sua produzione: tra chi prova disgusto e condanna la mancanza di una visione morale nelle sue e chi, invece, ne fornisce una lettura psicodinamica, indagando aspetti antropologici e sociologici del personaggio-alter ego, il celebre Chinaski. In molti hanno tentato addirittura di darne un’interpretazione politico-ideologica del personaggio, finendo per marchiare l’autore anche di accuse poco felici e difficilmente dimostrabili. Sebbene l’autore sia principalmente noto per la narrativa[3], Le propongo qui una sua poesia, intitolata “sicurezza”[4] sulla quale sono a chiederLe un commento:

 

la casa dei vicini
mi rattrista.
marito e moglie si alzano presto
e vanno al lavoro.
tornano a casa nel tardo pomeriggio.
hanno un bambino e una bambina.
alle 9 di sera le luci della casa
si spengono.
il mattino dopo l’uomo e la donna
si alzano di nuovo presto e vanno
al lavoro.
tornano nel tardo pomeriggio.
alle 9 di sera tutte le luci
si spengono.
 
la casa dei vicini
mi rattrista
quella gente è brava gente,
mi piacciono.
 
ma sento che affogano.
e non posso salvarli.
 
sopravvivono
non sono dei
 
ma il prezzo è
 
a volte durante il giorno
guardo la casa
e la casa guarda
me
e piange,
sì, davvero, la sento
 
la casa è triste
per la gente che ci vive
dentro
e lo sono anch’io
e io e lei ci guardiamo
e auto vanno su e giù
per la strada,
barche attraversano il porto
e gli altri alberi di palma
rovistano il cielo
e stasera alle 9
si spegnerà la luce,
e non solo in quella
casa
e non solo in questa
città.
vite scure si nascondono,
quasi
si fermano,
corpi che respirano e poco
d’altro.

 

LZ: Bukowski è un autore eccezionale, la cui opera si correla al suo stile di vita. Nel testo proposto egli compiange i tristi giorni di suoi vicini di casa dediti al lavoro senz’altra prospettiva che la sopravvivenza, con sottesa contrapposizione allo schema anarcoide della sua esistenza. Nel 1984 curai un ciclo di trasmissioni radiofoniche sui “poeti maledetti” per RAI-Sicilia, inserendo nel programma la lettura della poesia di Bukowski “Padre nostro che sei nei cieli”, che non è una preghiera. Il poeta parla del padre e del suo scopo di acquistare una casa da lasciare al figlio, affinché questi ne comprasse poi un’altra e così via. Il padre morì giovane e lui “sbolognò” subito la casa e i risparmi ereditati. Il testo colpì gli ascoltatori, parecchi telefonarono, uno parlò di “poesia anti-immobiliare”. Bukowski fu un bohémien conseguente (anche quando gli arrise il successo). La sua poesia è uno schiaffo all’etica borghese e al principio-cardine dell’economia americana: il profitto innanzi tutto. Essa è un paradossale vademecum per vivere in pura perdita, illustrato dalla vita stessa del poeta (azzardato, ovviamente, prenderlo alla lettera, a principiare dall’etilismo).

  Reading_poetico - con Lucio Zinna

(Nella foto: assieme al poeta e scrittore Lucio Zinna a Palermo nel maggio 2013)

LS: L’idea di questa intervista è quella di poter diffondere le varie interpretazioni sulla Poesia e in questo percorso ho ritenuto interessante proporre a ciascun poeta alcune liriche di validi poeti contemporanei viventi, ampiamente riconosciuti dalla comunità letteraria e dalla critica per richiedere un proprio commento-interpretazione. La prima poesia che Le propongo è “E sarà di nuovo giorno”[5] di Marzia Carocci[6], poetessa, scrittrice e critico-recensionista ampiamente impegnata per la diffusione e la promozione della cultura, soprattutto nella sua città d’origine, Firenze:

 

Fiori nasceranno fra le pietre
e aurore brilleranno su nel cielo
stanca di pianti e nostalgie del cuore
è tempo di disperdere il dolore.
 
Riprenderò i sorrisi che ho perduto,
e i sogni sceglierò per farne vita,
colori a tinte forti sui vestiti
e fiocchi colorati fra i capelli.
 
Adesso sono sveglia
dal grigio mio torpore
riprenderò a cantare
canzoni sull’amore.
 
Ad ogni passo fatto
di danza sarà il tempo
e d’ogni fiore colto
l’olezzo sarà il vento.
 
Non sono più bambina,
né giovane ragazza
ma il tempo che è passato,
lo voglio trasformare.
 
Asciugherò le lacrime
dei pianti che ho nel cuore
e timide speranze
di nuovo coltivare.
 
Perché non è finita
finché ritorna il giorno
che limpido c’invita
di nuovo a un altro sogno.

 

LZ: È una poesia di renaissance. Ricca di buoni propositi. I buoni propositi non bastano da soli a far poesia (come quelli cattivi), ma – detti bene, come in questo caso – possono aiutare i poeti e i  lettori a vivere meglio. A «scegliere i sogni per farne vita», come scrive la poetessa. I sogni sono importanti. Borges ebbe a dire, in un convegno milanese nel 1984, che il suo era il caso di un sognatore che deve essere fedele ai propri sogni, addirittura più che alle proprie idee.

 

LS: Di seguito, invece, Le propongo una poesia dall’impronta speranzosa e profetica della poetessa Anna Scarpetta[7] intitolata “Verranno nuovi tempi”[8], di stile e contenuto molto diverso dalla precedente e sulla quale sono a chiederLe un suo commento:

 

Verranno nuovi tempi
a dirci cose mai dette prima
a parlarci dentro, noi così malati di consumismo.
 
E, noi così resistenti all’indifferenza, ascolteremo
con la grande voglia di cambiare o di migliorare.
Noi così forti di egoismo, eppure fragili,
tanto fragili da regredire dinanzi
alle illusioni divenute sogni gracili in sordina.
 
Verranno nuovi tempi
di grande benessere e prosperità per chiunque.
Sarà la lunga risalita della nostra fede,
sarà il grande faro universale dinanzi alle mere utopie.
 
Cadranno, come miti, le lusinghe assieme alle menzogne
e si piegheranno le insidie dinanzi al forte orgoglio.
Soltanto la verità avrà il primato di guidare
l’umanità, con estrema destrezza e parsimonia.
 
Saranno i giorni più attesi e i più amati mai avuti.
Saranno le nuove albe desiderate in cuore,
con immense preghiere e lunghe veglie sofferte,
di ciascun di noi in questo mondo.

 

LZ: Una poesia davvero “speranzosa”. È augurabile che vengano «nuovi tempi / di grande benessere e prosperità per chiunque». Intanto, uscendo dalla crisi (non solo) economica in atto, che mi pare stia malamente curando la malattia del consumismo denunciata dalla poetessa. Ma ancora tanti sprecano e tantissimi campano d’aria. I tempi nuovi auspicati saranno, si spera, segnati da un modo nuovo di vedere e di vivere la realtà, al di fuori delle illusioni, dell’orgoglio, delle menzogne. Sarebbe il vero ritorno alla mitica ‘età dell’oro’ sognata nel mondo classico e cantata dai poeti. Quella di oggi mi pare piuttosto l’età dei ‘Compro oro’: c’è una bottega ogni tre metri.

   

LS: Elio Giunta, studioso palermitano, ha dedicato un saggio dal titolo Lucio Zinna e la lezione esemplare di Sagana[9] a una delle sue opere poetiche iniziali. Il saggio, accurato e tecnico, fornisce alcuni spunti per la lettura di Sagana (1976). Perché scelse questo titolo per una silloge di poesia e quanto significò per Lei la pubblicazione di questa opera nella sua carriera letteraria successiva?

LZ: Conclusa nel 1971 l’esperienza del “Gruppo Beta”, ripresi dopo un lunga pausa con Un rapido celiare (1974): pochi testi del periodo sperimentale e altri successivi in cui tentavo una rentrée  nei miei consueti moduli espressivi, pur avvalendomi dell’esperienza acquisita. Tale linea stilistica trovò due anni dopo con Sagana più solidi esiti, ai quali fa riferimento Giunta. Dodici poesie inedite, seguite da un’antologia retrospettiva. Il titolo si riferisce a una zona collinare del palermitano, ancora immune, in quegli anni, dall’avanzata del cemento che stava sconvolgendo Palermo, dove vivevo. Un simbolo di serenità. Di tale luogo, accessibile ma di difficile fruizione in tempi di impossibili arcadie, non c’è traccia (quasi “lucus a non lucendo”) nelle poesie; agli antipodi, ce n’è parecchia del disagio esistenziale. La silloge mi aiutò molto a farmi conoscere. Fra l’altro, Giuseppe Zagarrio ne mutuò alcuni punti nodali per l’analisi delle “categorie della sicilitudine” nel suo volume sulla poesia italiana 1970-80: Febbre furore e fiele (Mursia, 1983).

  

LS: Lei si è occupato moltissimo e con serietà anche di critica letteraria spaziando a vari tipi di analisi, di autori e periodi letterari investigati. Tra i vari saggi mi ha colpito il titolo di uno di essi pubblicato nel 2008, Perbenismo e trasgressione nel Pinocchio di Collodi che, credo, sia una lettura estremamente curiosa su un classico della letteratura per l’infanzia e non solo. Può dirci come è nata l’idea di questa indagine e come è strutturato?

LZ: Il famoso libro collodiano è osservato con l’occhio rivolto alla pedagogia del tempo: conformista ma con rilevanti istanze di rinnovamento a livello nazionale e internazionale. Nel Pinocchio i «ragazzini per bene», benché invisibili, sono il contraltare del burattino, dai modi spesso censurabili. L’elencazione dei loro comportamenti, additati all’imitazione, li rivela eterodiretti (da genitori, maestri, fate, grilli parlanti, merli e pappagalli) e «avvezzati» a logiche adultiste: burattini di carne, espropriati della loro infanzia, il cui spazio è recuperato da un burattino imbambinato. Questi, imparando invece a sue spese a servirsi dell’esperienza e a non comportarsi da “grullo”, riuscirà ad “incarnarsi”, con innegabili vantaggi, forse per imburattinarsi veramente.

  

LS: L’universo delle riviste letterarie negli ultimi anni ha subito una battuta d’arresto con la grande diffusione di blog, siti e periodici online e solamente le riviste più radicate non hanno risentito di questo contraccolpo. Lei è stato particolarmente attivo anche in questo mezzo di espressione quale redattore capo di Sintesi (1977-1982), condirettore di Estuario (1979-1981) e direttore dei “Quaderni di Arenaria”. Per quale motivo negli anni ’80 mise fine alla sua collaborazione alle riviste Sintesi ed Estuario e che cosa ricorda di quella fase come direttore editoriale?

LZ: Il mio impegno redazionale in alcune riviste letterarie mi ha consentito di guardare al mondo delle lettere in maniera più dinamica e, per così dire, omnicomprensiva. Si scoprono più facilmente i reali meriti al di fuori dei clamori orchestrati, le magagne etc. Ho collaborato come redattore e condirettore a Sintesi ed Estuario dalla loro fondazione alla loro cessazione. Arenaria chiuse dopo dodici anni, nel 1997, perché era cresciuta tanto da richiedere irrealizzabili spese gestionali. Il successo fu il principale motivo della chiusura.

  

LS: Nella dura realtà dell’oggi, dove raramente si avanza e ci si fa notare per questioni di merito, condizione stagnante gravata dalla contingente situazione economica, quale pensa possa essere il futuro dei poeti che credono molto nelle loro idee, ma che ricevono deludenti feedback e di pubblico, di critica e soprattutto di vendita? Quale consiglio si sente di dare loro?

LZ: Di proseguire per la propria strada, se si è realmente motivati. Di pensare alla poesia, alla sua autenticità costitutiva, non occupandosi granché di quanto possa confonderla con altro (le vendite, ad esempio). La poesia non muore, per quanto brutti possano essere i tempi. È nell’uomo, vive con lui, nella sua interiorità. I poeti veri continueranno a parlare a chi vorrà e saprà ascoltarli.

 

Bagheria (PA), 15 luglio 2013

  

[1] Il “gruppo ’63” fu una pattuglia della neo-avanguardia italiana che venne fondato a Palermo con l’idea di distanziarsi dal classicismo retorico dominante, rivalutare il futurismo e proporre una letteratura sperimentale. Gli esponenti principali del gruppo furono Luciano Anceschi, Nanni Balestrini, Achille Bonito Oliva, Giorgio Celli, Umberto Eco, Elio Pagliarani, Eduardo Sanguineti e Amelia Rosselli.

[2] Per maggiori informazioni sul poeta si legga la sua biografia nel capitolo-intervista a lui dedicato.

[3] L’autore resta principalmente noto per tre romanzi: Post Office (1971), Faqtotum (1975) e Women (Donne, 1978) tradotti in tutte le maggiori lingue al mondo.

[4] Charles Bukowski, Il Grande, Milano, Feltrinelli, 2002, pp. 155-157.

Si noti che la mancanza di maiuscole dopo il punto è una scelta dello stesso autore.

[5] Marzia Carocci, Némesis, Torino, Carta e Penna, 2012, pp. 24-25.

[6] Per maggiori informazioni sulla poetessa si legga la sua biografia nel capitolo-intervista a lei dedicato.

[7] Anna Scarpetta è nata a Pozzuoli (Na) nel 1948. Ha vissuto molti anni a Napoli dove ha studiato alla Scuola di recitazione e spettacolo. Si è sempre dedicata alla poesia, narrativa e saggistica. Ha collaborato con numerose e prestigiose riviste culturali, è stata presidente onorario per la Città di Napoli del MOPEITA (Movimento per la diffusione della poesia in Italia), è membro honoris causa a Vitae del Centro Divulgazione Arte e Poesia. Ha ottenuto numerosi riconoscimenti e prestigiosi premi in molti concorsi letterari. Per il genere poetico ha pubblicato Poesia (Ed. Gabrieli, 1985), Frantumi di tempo (Ed. Lo Faro, 1991), L’altra dimensione della vita (Ed. LibroItaliano World, 2004) e Le voci della memoria (Ismeca, 2011). Molte sue poesie sono, inoltre, presenti in varie opere antologiche.

[8] Anna Scarpetta, Le voci della memoria, Bologna, Ismeca, 2011, p. 31.

[9] Elio Giunta, Lucio Zinna e la lezione esemplare di Sagana, Palermo, Centro Pitrè, 1977.

“Eros e la nudità” di Ninnj Di Stefano Busà, recensione di Ugo Piscopo

UNA GHIRLANDA DI CALICI PIENI PER UN BRINDISI ALL’AMORE

A CURA DI UGO PISCOPO

 

Recensione a “Eros e la nudità”, di Ninnj Di Stefano Busà
con prefazione di Walter Mauro, Plinio Perilli, Arturo Schwarz
Edizioni Tracce, Pescara 2013
pp. 99.

9788874338788Il Novecento è sempre più lontano. Si avverte perfino una tensione a denovecentizzarsi, se si può dire. Cioè a togliersene di dosso l’odore.

Uno dei segnali è la nuova qualità di approccio all’amore. Non è che il Novecento ignorasse l’amore. Lo teneva, anzi, terribilmente presente, – e come si potrebbe mai scrivere, vivere o pensare senza l’amore? -, ma lo assumeva a materia da approcciare in chiave critica e in una nitida luce di disincanto, o di analisi e perfino di divertimento cinico, soprattutto nell’ambito neoavanguardista e neosperimentale. L’indirizzo era nato già nelle avanguardie storiche. Il futurismo, ad esempio, spalancava le porte alla fisicità erotica, solo ai fini funzionali della riappropriazione degli istinti dei primordi, a favore di un’antropologia più ricca di energia. Per questo, gridava “abbasso la donna”, e, di contro, “viva la femmina”.

Poi, nel corso degli anni Ottanta del secolo passato, in concordanza con la riscoperta del “padre” e con l’attenuazione del concetto di progettualità, cioè di mentalismo, si venne proponendo e praticando nella scrittura poetica l’idea della “poesia innamorata”. Oggi, poi, “cuore” e “amore” la fanno da padroni di casa.

In questi nuovi spazi di libertà ideale, si colloca e respira la raccolta di poesie di Ninnj Di Stefano Busà dedicate all’amore, o, meglio, a Eros, come simbolo di ripetizione concreta della prima ierogamia e di manifestazione al mondo di un evento decisivo per la vita universale, l’accoppiamento del Cielo e della Terra. Il quale orizzonte di attesa, però, resta solo prospettico, perché la diegesi puntualmente si sofferma in limine, senza andare oltre, senza addentrarsi in ambiti di sofisticate simbologie, come accade nelle Upanishad, nell’Yi ching, nello shaktismo, nel tantrismo e dintorni. Ecco, in tanti filoni delle civiltà orientali.

Lucidamente e programmaticamente l’autrice si richiama alla matrice del pensiero occidentale, la cultura greca: è significativo che il protagonista in questione si chiami grecamente Eros e che esso si collochi come immagine dominante, per la posa, accanto alla intattezza (e allo splendore marmoreo) della corporeità nuda. Eros e la nudità, recita nettamente e perentoriamente il titolo dell’opera.
L’immagine dominante è, dunque, Eros, quello di cui tratta Platone nel Simposio, di cui aveva già parlato Esiodo a proposito della cosmogonia (“Eros, il più bello degli dei immortali, colui che spezza le membra e che, nel petto di tutti gli dei e di tutti gli uomini, signoreggia il cuore e il saggio volere”), a cui si ispira tutta la poesia greca da Alceo e Saffo in poi, sino ai tardi secoli, come è documentato nella fluviale Antologia palatina.

Ma quell’Eros lì interviene sugli eventi della storia (e perfino della preistoria) con effetti perturbanti e talora annichilenti la ragione stessa, come testimonia autorevolmente Saffo (quella di “fainetai moi kenos isos teòisin”), come tensione della vita verso il caos o dal caos. Nella civiltà dell’Ellade, però, mentre si aprono squarci nell’esistenza e nella storia per l’irruzione (a rischio di sovversione) di questa irresistibile forza sconvolgente, più filoni, dall’ambito orfico a quello misterico a quello speculativo tentano una domesticazione di questa energia divina, adottandola in positivo, attraverso comportamenti e atteggiamenti che oggi potremmo chiamare, con Freud, di sublimazione, di contattazione della celestialità e della armonizzazione.

In accordo con questo secondo versante si definisce l’opera di Ninnj, costituita da liriche lavorate al bulino, dalla pelle estremamente liscia, che nell’insieme dei richiami e dei rimandi seguono un ritmo poematico. Giustamente, uno dei tre prefatori, Plinio Perilli, parla di “rigore fervido delle metafore”, di citazioni squisite. Insieme, intanto, con queste cifre di accuratezza formale, la visione complessiva si cala in un fiorito scenario di esperienze di passaggi verso una più intensa e implementata diurnità. Verso la nascita di un altro giorno, come in questi versi:

“Solo un guizzo di luce nel tuo sguardo,

un lampo in cui vi ammutolisce

il vento di soavi piaceri, di stordimenti.

Qui è la spola, qui l’arcolaio per tessere la tela,

dalla nostra carne sboccerà l’aurora” (p. 42).

UGO PISCOPO

 

Napoli, 1 Luglio 2013