Sinossi: Qualcosa che non muore descrive tutto ciò che è accaduto e che è successo e che non doveva essere lasciato al ricordo del solo dolore, ma che doveva essere usato come linguaggio, come prova sincera per il presente e il futuro: molti muoiono ancora a causa di un linfoma o una leucemia credendo sia nel loro destino, non sanno che i Buonisamaritani non sono così buoni, non percepiscono il mondo della sanità e della ricerca come crudele, e non scavano e non vengono a sapere che avrebbero potuto avere altre possibilità.
La narrazione si sviluppa intorno all’amore e all’idea che si ha di cura e presa in cura.
Sandra, una dei due protagonisti del libro, l’altro è l’io narrante, ebbe la sfortuna di vivere una serie di piccoli errori medici. Purtroppo per distrazione o incuria, contrasse anche il virus dell’epatite da una trasfusione di sangue controllato. Prima di morire, però, riuscì a essere anche un po’ fortunata, riuscì a farsi somministrare fuori protocollo un farmaco che aveva già dato buoni risultati e che aveva salvato la vita a due persone, due che avevano avuto la fortuna di poterlo ricevere, due con il suo stesso linfoma. Di quel farmaco sperimentale dichiarato “farmaco orfano” dall’EMEA, i medici che avevano in cura Sandra non ne sapevano nulla e la persona che le permise di avere la possibilità di riceverlo non fu il suo medico curante, ma la tenacia, l’amore, la voglia di curarla, del marito.
Poi quel farmaco venne ritirato dalla sperimentazione e la somministrazione venne sospesa ai pazienti, tra quei pazienti c’era anche Sandra e anche Sandra morì come tutti gli altri.
L’altro protagonista, l’io narrante, è un tizio che si trova di fronte all’egoismo del genere umano espresso all’ennesima potenza proprio negli ospedali dove tutti vogliono far vedere unicamente e solamente il proprio amore per la cura. Nello stesso istante in cui il narrante realizza di essere arrivato all’inferno cerca di capire come funziona quel pezzo di mondo. Quegli undici mesi passati in quel posto non furono un evento traumatico per la vita del narratore/autore, ma fu solo l’inferno un luogo diverso nel quale è stato costretto a fermarsi per un tempo limitato della sua vita.
Qualcosa che non muore descrive lo smarrimento che si vive quando non c’è la sensibilità della presa in cura, quando si è costretti a vivere per parecchio tempo in un ospedale, quando si è vittime di mille errori, quando si sa che non si viene ascoltati, quando le istituzioni non sono presenti, quando i diritti divengono favori, quando ti viene tolta una cura che è efficace per una banalità e la vita diventa nient’altro che morte e ti ritrovi a combattere solo contro i muri di gomma.
Biografia: Lino Berton lavora e vive a Mestre. Scrive, il suo primo romanzo, ininterrottamente per sette anni dopo la morte di Sandra, la protagonista del libro Qualcosa che non muore per raccontare ciò che ha vissuto. Quell’Inferno, come dice l’io narrante in Qualcosa che non muore, durò 11 mesi.
Non è semplice azzardare un commento critico organico sulla vasta opera poetica di Anna Scarpetta, poetessa di origini orgogliosamente partenopee che vanta di un’ascendenza familiare di tutto rispetto nel mondo del teatro napoletano e italiano, quella dei De Filippo-Scarpetta. Questa teatralità congenita nel sangue di Anna Scarpetta è una delle sue componenti fondamentali e, per chi la conosce, sa bene che la sua genuina spontaneità condita da un frequente ricorso a una mimica facciale evocativa, ne contraddistingue fortemente la persona e, oserei dire, anche il personaggio. Ci occuperemo qui, in questo contesto, della sua natura di poetessa che nel corso degli anni l’ha vista “scoprirsi” delle sue convinzioni esistenziali, credenze religione, vedute sul mondo e un recupero attento di luoghi e momenti che sono stati consegnati al ricordo. In questo breve percorso tra le suggestioni della sua poetica, sostenuta spesso da un fervido animo confessionale, ci soffermeremo sulle sue produzioni più recenti in ordine di tempo sottolineando da subito che la difficoltà incontrata dal critico nel fornire un giudizio analitico sulla sua opera è dovuta da una sorta di effetto di sospensione (e che necessiterà in futuro di rilettura e rivisitazione) essendo l’opera della Nostra un cantiere aperto, un working in progress che non ci consente di criticare, qui ed ora, in maniera insindacabile.
In Le voci della memoria (2012) si chiarifica subito una delle sfere semantiche-concettuali pregne di importanza nella produzione della Nostra, ossia quella che fa riferimento al mondo del tempo andato collegato al ricordo. Questo ricordo, palpabile pagina dopo pagina, a tratti trasfonde una sensibilità nostalgica e quasi crepuscolare, altre volte, invece, è il motivo d’indagine sociale del presente. La prima poesia raccolta nella silloge, “Le voci della memoria”, quella che dà il nome all’intero libro, ci inserisce subito in questa dimensione: il ricordo è forte e sempre vivo “ad ogni stagione, ogni amaro inverno, sempre”[1]. Il ricordo, sembra suggerire la poetessa, ci appartiene sempre, anche quando non ne siamo consapevoli ed è la somma di tutti i ricordi, di quelle pietre preziose, che danno senso al nostro esistere.
Anna Scarpetta
La lirica “Io sono qui” si configura come una sorta di preghiera laica nella quale la Scarpetta sottolinea l’importanza del hic et nunc: sono qui ora, penso, rifletto, mi faccio domande, considero il nulla, vaglio il mistero, sempre consapevole di quella cosa che ogni secondo si autodistrugge, il tempo. È questa una presenza costante nelle poesie di Anna Scarpetta: il tempo presiede ed osserva tutto, invisibile e a volte impercettibile e, come la morte –che poi è la fine del tempo-, è un’entità che ci rende umani e tutti uguali: “così tu, alla fine, tempo/ sei uguale per tutti dovunque” (11).
Le liriche della poetessa ci consegnano una poesia vivida e riflessiva, solo a tratti filosofica, di semplice lettura, frutto di un’attenta e continua analisi dell’inconscio di una donna ricca dentro, consapevole del trascorso del tempo e che ha fatto e fa tesoro dei momenti passati, per imprimerli sulla carta. È un tentativo, questo, di affrescare la vita anche se – come sostiene lei stessa- “ci vorrebbe un’altra vita/ per capire cos’è la vita” (12). Anna Scarpetta è una donna che non rifugge il passato, né che ci ha litigato, ma che ci dialoga, lo interroga e lo richiama quasi che esso fosse lì, personificato, davanti ai suoi occhi. È un passato fatto di gioie e dolori, come quello di ognuno di noi ma che in più punti appare come una grande mamma che accoglie, riscalda, protegge con la sua “calda memoria” (14).
Un interessante omaggio e lode al nostro paese è contenuto in “Italia bella patria” dove si fa riferimento alla grandezza del popolo italiano e dei suoi uomini illustri. Il canto dell’inno è –forse- il momento in cui l’Italia si riscopre fiera della sua italianità; per la Scarpetta l’Italia è “bella e sospirosa” (18), segno forse che c’è qualcosa negli italiani che provoca disinteresse, tormento, affanno e credo non sia errato leggere un riferimento alla presente crisi economica, causa di tanti disagi sociali. È infatti forte il tema sociale in “Soffrono i bambini del mondo”, un canto accorato dai toni cupi e mesti che parla di bambini orfani, soli, non amati, abbandonati, affamati, che la poetessa affida nelle mani della Madre: “avvolgi e consola” (21). Nella figura della Madre va vista la Vergine, la nostra madre celeste ma anche la Madre Terra, la divinità precristiana che si identificava con la Terra e ogni manifestazione attiva nella natura. Scorrendo da una poesia all’altra la poetessa mantiene un dialogo continuo con il dio Chronos “con il suo sguardo regale di marmo” (23).
La Scarpetta è una donna che dà tutto alla poesia e che, al tempo stesso, da essa riceve tutto. La poesia è fonte di conoscenza del mondo e di noi stessi, dà senso alle cose ma sa anche “lenire in silenzio e quietare il dolore/ di chi si accusa con colpa e patisce” (24).
Nella bellissima poesia “Chi siamo noi” la poetessa risponde che siamo dei sognatori, dei lavoratori, delle anime sensibili. Siamo ammassi di memorie, eredi del passato, viaggiatori. In “Verranno tempi migliori” si respira, forse, l’atmosfera più ottimista e speranzosa dell’intera silloge: la poetessa intravede tempi più felici e prosperi per tutti che saranno capaci di soprassedere alle logiche materialistiche e personalistiche dell’oggi (narcisismo, consumismo) attraverso la fede, unica vera arma di salvezza. In “Il tempo è di Dio”, Anna Scarpetta ci ricorda che il tempo non è nostro ma che “è innanzitutto di Dio” (32) e che ci è dato sotto forma di un regalo. C’è l’implicito avvertimento a non sprecarlo, a dargli il giusto valore e a utilizzarlo bene. Rallentamenti, ellissi, retrospezioni, acceleramenti sono segni dell’utilizzo umano del tempo mentre il Signore ce lo ha affidato come una materia bianca, compatta e unica.
Insieme ad Anna Scarpetta
Nella successiva silloge, Sono soltanto un granello di sabbia (2013) si respira un’aria soave e pacata dove a dominare sono le immagini che fanno riferimento al mondo cattolico: molte delle poesie, in realtà sembrano delle vere preghiere, proprio per la profondità dei richiami e per la pervasiva e credente considerazione della vita quale percorso terrestre che si caratterizza per la sua finitudine.[2] La parola nelle poesie di Anna Scarpetta si fa lode, invocazione, condanna, rinuncia ed esortazione, ma essa è anche appello alla sensibilità dell’uomo, elogio dei sentimenti e apologia del credo cristiano. Non è un caso che sia proprio la prima lirica della silloge, “Io sono soltanto un granello di sabbia” che è quella che dà il titolo all’intera raccolta, che esordisca con questi versi: “Io sono, soltanto, un granello di sabbia,/ dell’immenso deserto, Signore” (7) in cui la poetessa, partendo dalla constatazione della minuziosità del suo essere in rapporto alla mondialità delle esperienze, evidenzia e rende grazia al Divino per il “dono” che le ha fatto: quello della poesia. Ma, siccome sappiamo che la poesia non è che la forma più autentica, vivida e sofferta di espressione umana, con questa espressione la poetessa non fa che eguagliare la poesia alla vita. E come si evince in questa prima lirica c’è una grande attenzione nella poetessa nei confronti del tentativo di auoto-definirsi, di identificarsi e di svelare agli altri chi è, come avviene anche nella poesia “Non so più chi sono”.
Centrale, come era stato per la precedente silloge poetica della poetessa, è il tema del tempo. Il colloquio che la poetessa intrattiene con esso si fa qui più aspro e si nota un certo indurimento del linguaggio dovuto, molto probabilmente, dalla desolante constatazione che esso è l’unico “eterno vincente” nella continua lotta della vita. La poetessa fornisce le più ampie caratterizzazioni per evocarlo (“il tempo,/ silenzioso, con la sua faccia di marmo scolpito”, 12; “il tempo, col suo volto annoiato”, 22; “il tempo, così infame e crudele”, 25; [tu], come statua regale”, 46, ecc.), e nella gran parte di esse si intuisce un certo disprezzo e sconsiderazione, che fanno seguito alla presa di coscienza della sua pericolosità e al contempo della sua tragica ineluttabilità. Ed è così che esso non è altro che “il vero palco delle pittoresche scene degli orrori” (8), cioè esso è un davanzale verso il mondo che assiste indisturbato e senza fretta alle rappresentazioni della vita, del mondo, delle famiglie, agli inganni e ai tormenti, alle guerre e ai sistemi di vendetta, ma anche ai momenti più belli che solo nel ricordo potranno conservare la loro leggiadria.
Il sentimento religioso è facilmente intuibile anche attraverso i chiari riferimenti alla vita intesa come percorso, come cammino errante e l’uomo come misero “abitante delle fatiche umane”, come pellegrino per le vie del mondo, a volte consapevole, altre volte meno ed obbligato ad esodi carichi di dolore a causa di guerre, scontri religiosi, deportazioni. Perché va subito osservato che varie liriche qui contenute hanno un forte intendimento civico, morale e mettono il lettore di fronte a realtà sociali endemiche, cancrenose, corrotte e ignominiose. Ècosì che Anna Scarpetta fotografa i massacri che avvengono al silenzio dei governi e dei mass media europei, come in Libano, dove la poetessa ci “narra” dei pianti e dei lutti di Beirut. Il pensiero non può non andare anche ai massacri in Sudan e quelli leggermente più conosciuti perpetuati da Assad, in Siria. Nella poesia “Libano” la speranza sembra esser ormai abbattuta e tutto ricade su una tortuosa domanda la cui impossibilità di risposta ferisce ancor più gli uomini di quella terra e demoralizza il mondo: “Agli occhi del mondo, tra due fuochi, ardi muto Libano,/ c’è chi si chiede, invano, ma tutto questo perché” (14).
Il tema sociale ritorna nella lirica “Berlino est”, quadretto chiarificatore del senso di giubilo l’indomani dell’abbattimento del Muro che divise i berlinesi a seguito di un conflitto ideologico disprezzabile ed era presente anche in Le voci della memoria (2012) nella poesia che la poetessa aveva dedicato ad Anna Frank, la povera ragazza olandese nascostasi con la sua famiglia nell’appartamento di Prinsengracht ad Amsterdam per vari mesi prima di essere scoperta e mandata in un lager. Con un ricco complesso aggettivale, la Scarpetta ripercorre i vari momenti dell’esistenza della ragazza, dalla giovinezza spensierata e felice mai avuta che, in altri contesti, le avrebbe di sicuro consentito di sviluppare una vita di soddisfazioni e di gioie terrene.
Si susseguono liriche più dolci e positive nelle quali la poetessa rievoca momenti passati e ricorda i suoi cari, soprattutto la madre, celebrata in due liriche e in maniera particolare nella bellissima “Sei volata via, madre” dove l’atroce ricordo della dipartita della madre è associata a una colorazione bianca, quasi accecante, che la poetessa vede e riconosce nella neve e nei gabbiani dal piumaggio candido. Ed anche qui, dove la lirica è pensata come commemorazione della madre, Anna Scarpetta non si risparmia per criticare la spietatezza di questo mondo nel quale siamo chiamati a vivere: “Sola sei andata via da questo strano mondo” (18). La “stranezza” del mondo è spiegata nella lirica “Il male del mondo” che è un vero pugno allo stomaco. In essa la poetessa plasma la parola in maniera meditata affinché sia acuminata, folgorante e distruttiva proprio come è l’efferatezza del mondo, la cattiveria diffusa negli animi imbarbariti nel nostro oggi: “Il male ha mostrato tutta la sua malvagità agli occhi del mondo/ coi suoi aguzzi artigli, graffiando volti di sfide verso il futuro/ ricacciando all’indietro tempi nuovi, che non sanno avanzare” (23). La poetessa non esplica quali intende essere i “mali” del mondo e lascia volutamente aperta la questione al lettore che può facilmente leggerli nell’aumento di femminicidi, nei suicidi per colpa della crisi economica, nelle inspiegabili tragedie familiari, nella bestialità di alcuni atteggiamenti umani e nelle invidie logoranti, negli abusi, nelle catastrofi naturali, ma anche nelle dolorose e fulminanti patologie a cui spesso non vi sono rimedi.
Per ultimo, ma non per importanza, ci sono liriche curiose dove Anna Scarpetta chiarifica la sua felice propensione nei confronti delle nuove tecnologie, esplicate soprattutto nel mezzo informatico al quale la poetessa riconosce grande capacità: con Facebook, ad esempio, si può ritrovare amici e parlare con loro, anche dopo tanti anni di lontananza e silenzio, e il web è molto positivo perché accorcia le distanze e fa viaggiare più veloce le notizie come sottolinea all’apertura di “Grazie a te web”. La versione digitale del libro, che oggigiorno sta combattendo una prima battaglia con il suo progenitore cartaceo –battaglia che a mio modesto parere sta perdendo e clamorosamente- è motivo addirittura di una lirica, “Ebook”, dove la poetessa ricorda, elogia e innalza il valore del cartaceo, custode di tradizione, fruitore di un contatto diretto e dispensatore del fresco profumo di stampa o acre di invecchiamento.
Il pensiero finale che la poetessa fornisce al lettore e sul quale si appella a una sua maggiore considerazione è quello che verte sul futuro: che cosa ci aspetta nei tempi a venire? Riusciranno le persone veramente brave e sincere a farsi valere in un mondo dominato da tante nefandezze? Anche la poetessa trasmette un sentimento d’incertezza al riguardo: “Da dove dovranno venire questi nuovi tempi/ carichi di profili, scolpiti di albe boreali, rinchiusi/ nell’immane destino che ancora non si profila” (41).
C’è bisogno di cambiamento e di gente valida che possa proporre una svolta. Subito. I tempi attuali sono fermi e stantii, pur nel loro ineluttabile incedere. Un plauso alla poetessa per darci tanti spunti su cui riflettere, predisponendo sulla carta timori che sono di tutti come quello dell’ombrosità di un futuro che si annuncia quale copia sbiadita di un difficile e depresso presente. A dominare incontrastato su tutto sono la centralità del passato e della tradizione, il senso e la validità dell’istituto familiare e la forza dell’insegnamento cristiano. La poetessa è talmente coraggiosa da pronosticare addirittura un futuro scenario che la riguarderà nel suo rapporto con la poesia: quando la memoria verrà meno – e con essa tutti i vari ricordi- allora non sarò niente ed avrò perso tutto; in un’altra poesia osserva “voglio ricordare tutto, senza azzerare mai nulla”. È la parola che si fa testimonianza e che vive ogni volta che torniamo a leggerla.
LORENZO SPURIO
[1] Anna Scarpetta, Le voci della memoria, Ismeca, Bologna, 2012, p. 9.
[2] Aggiungo che Anna Scarpetta è stata recentemente premiata al I Concorso Letterario Internazionale Bilingue TraccePerLaMeta per la sua poesia religiosa dal titolo “Sulla via di Damasco”, ulteriore segno che evidenzia questa sua nuova apertura nei confronti di un genere poetico molto diffuso e seguito.
E’ uscito oggi 10 giugno 2015 il sedicesimo numero della rivista di letteratura online “Euterpe”. Il nuovo numero, che si apre con un editoriale dello scrittore Martino Ciano, contiene al suo interno i seguenti materiali ripartiti nella canoniche rubriche alle quali si aggiunge quella nuova dedicata alle interviste e curata dalla poetessa e scrittrice Valentina Meloni.
RUBRICA DI POESIA
Testi di Antonio Spagnuolo, Francesco Paolo Catanzaro, Iuri Lombardi, Laura Appignanesi, Carla De Falco, Giuseppe Napolitano, Michela Zanarella, Lucia Bonanni, Mariella Bettarini, Cristina Lania, Giuseppe Gambini, Teresa Stringa, Lucia Lascialfari, Luciano Domenighini, Felice Serino, Emanuela Inglima, Mario Vassalle, Alba Gnazi, Giuseppe Guidolin, Carla Spinella, Gabriella Pison, Assunta De Maglie, Maurizio Soldini, Mario De Rosa, Luigi Pio Carmina, Annamaria Pecoraro e Steven J. Grieco.
RUBRICA DI RACCONTI
Testi di Alessia Ranieri, Sandra Carresi, Francesca Luzzio, Maria Pompea Carrabba, Pina Piccolo, Elisabetta Amoroso e Luisa Bolleri.
RUBRICA DI SAGGISTICA-ARTICOLI
GIORGIO LINGUAGLOSSA – L’Autoritratto o dell’Identità o del Poeta allo specchio: “Il libro della felicità lo sta scrivendo il pittore”
NAZARIO PARDINI – “Puccini al tempo della Turandot”
STEFANO BARDI – “Le rivoluzioni scientifiche: Galileo Galilei e i suoi eredi”
AMEDEO DI SORA – “Il dandysmo estremo di Jacques Rigaut”
ANTONIO MEROLA – “I poeti assassini”
FRANCESCO MARTILLOTTO – “Lettura di Spesso il male di vivere ho incontrato di Eugenio Montale”
MARIO VASSALLE – “La varietà”
UGO PISCOPO – “Considerazioni sul concetto di alterità”
MARIA LENTI – “Elogio della Solitudine”
BARTOLOMEO BELLANOVA – “Mediterraneo: corpi, numeri, vergogne e falsità”
LORENZO CAMPANELLA – “L’altro è in noi”
RUBRICA DI RECENSIONI
Umeed Ali, poeta pakistano e il suo libro “Bilancio interiore”, recensione di Lorenzo Spurio
“La passiflora non è una passeggiata en plein air” di Rita Vitali Rosati, recensione di Lorenzo Spurio
“Leonardo Sciascia, cronista di scomode realtà” a cura di Martino Ciano, recensione di Lucia Bonanni
“Il Mistero delle Due Veneri”. Riflessioni sulla ‘drammaturgia’ di Alessio De Luca, recensione di Iuri Lombardi
“Granelli di tempo” di Rosaria Minosa, recensione di Lorenzo Spurio
“L’opossum nell’armadio” di Lorenzo Spurio, recensione di Katia Debora Melis
“Sul far della sera” di Giovanni Vivinetto, recensione di Marzia Carocci
“Schegge” di Daniele Berto, recensione di Marzia Carocci
RUBRICA DI INTERVISTE
Alterità e individuazione, iper dotazioni psichiche e crisi d’identità attraverso la teoria dialettica ideata dal Dottor Nicola Ghezzani. Intervista di Valentina Meloni
Intervista al poeta Corrado Calabrò, a cura di Lorenzo Spurio
SEGNALAZIONI e PROSSIMI EVENTI
XXVI Concorso Internazionale di Poesia “Città di Porto Recanati” (scadenza 25-07-2015)
Selezione di materiale per l’antologia “Aldo Palazzeschi: il crepuscolare, l’avanguardista, l’ironico” (scadenza 30-06-2015)
2° Premio di Letteratura “Ponte Vecchio” (scadenza 30-11-2015)
Il nuovo numero della rivista può essere letto e scaricato collegandosi alla sezione “Leggi i numeri della rivista” all’interno del sito.
Si ricorda, inoltre, che il prossimo numero della rivista avrà quale tema/titolo al quale è possibile rifarsi “Quando l’arte diventa edonismo”. I materiali dovranno pervenire alla mail della rivista (rivistaeuterpe@gmail.com) entro e non oltre il 20 settembre 2015.
L’A.P.S Le Ragunanze in collaborazione con Magic BlueRay, ARTeMUSE e Turisport Europe presentano il regolamento per la
Seconda Ragunanza di “POESIA”
con premiazione domenica 18 ottobre 2015.
La partecipazione alla Seconda Ragunanza di “POESIA” è aperta a tutti coloro che dai 16 anni in su – per i minorenni è necessaria l’autorizzazione dei genitori o di chi ne fa le veci -senza distinzioni di sesso, provenienza, religione e cittadinanza, accettano i tredici (13) Articoli qui specificati. La frase sopra menzionata “per i minorenni è necessaria l’autorizzazione dei genitori o di chi ne fa le veci”, vuol dire che chi non ha compiuto 16 anni può partecipare alla Seconda Ragunanza di Poesia, previa l’autorizzazione scritta e firmata da entrambi i genitori che dovranno allegare alla loro autorizzazione la fotocopia della loro carta d’identità. I nostri 7 GIURATI valuteranno gli scritti pervenuti, a loro insindacabile giudizio! Il REGOLAMENTO per la Poesia, prevede due sezioni: POESIA “NATURA” e POESIA “A TEMA LIBERO”. La tematica della POESIA “NATURA”, trattandosi di “ragunanza”, termine in uso nell’Arcadia di Christina, dovrà almeno contenere dei riferimenti alla natura che ci accoglie.
La POESIA “NATURA”, che sarà da Voi scritta, dovrà ricordare i dettami dell’Arcadia, il valore della natura, filtrati dagli eventi attuali che coinvolgono, modificano, distruggono i quattro elementi della nostra madre Terra e lo spirito di tutti coloro che si prodigano per la salvezza ed il recupero dell’ambiente e che troppo spesso immolano la loro vita per il bene comune.
La POESIA “A TEMA LIBERO”, che sarà da Voi scritta, dovrà spaziare su temi alti dell’esistenza, su temi universali che abbracciano il genere umano. È questo l’intento e l’obiettivo della rinnovata “ragunanza” nell’ambiente bucolico di Villa Pamphilj a ricordo dei raduni, delle adunanze, organizzati da S.A.R. Christina di Svezia.
Art.1 Si richiede per la II Ragunanza di POESIA, che il testo sia compreso in un massimo di una (1) pagina word e scritto in Times New Roman, a carattere 18 e che si rispettino in tutto i 13 Articoli, che specificano le norme, i diritti, i requisiti e le leggi di questo regolamento.
Art.2 Le POESIE di entrambe le sezioni dovranno essere inedite e, per concorrere, andranno spedite via e-mail a apsleragunanze@gmail.comindicando e specificando la scelta della sezione da voi effettuata in oggetto:
Seconda Ragunanza di POESIA per la POESIA “NATURA” oppure, Seconda Ragunanza di POESIA per la POESIA “A TEMA LIBERO”
Le POESIE saranno ammesse solo ed unicamente con il nome, cognome, contatto telefonico ed e-mail di rintracciabilità del partecipante al concorso. L’assoluta competenza e serietà dei giurati permetterà una giusta assegnazione della votazione che porterà alla graduatoria finale.
Art.3 Le modalità espressive delle POESIE non dovranno essere offensive né ledere la sensibilità e/o la dignità del lettore, dell’ascoltatore e della persona chiamata in causa a leggere;
Art.4 La partecipazione è soggetta alla tessera associativa equivalente ad € 10,00 ( per i soci già iscritti la quota è di 5 €) che sottintende la presenza dell’autore concorrente ed include le spese di segreteria e l’acquisto di coppe, targhe, medaglie e pergamene nonché l’eventuale affitto della sala di premiazione ed un piccolo rinfresco;
Art.5 La scadenza per l’invio dei testi è fissata a domenica 30 agosto 2015;
Art.6 Il giudizio della giuria è insindacabile;
Art.7 La partecipazione al concorso comporta l’accettazione di tutte le norme del presente regolamento ed il partecipante dovrà essere presente il giorno della ragunanza per la lettura delle POESIE secondo la graduatoria di premiazione di fronte agli astanti e non sono rigorosamente ammesse deleghe;
Art.8 Qualora il premiato non fosse presente, il suo riconoscimento decadrà e non gli sarà spedito alcun riscontro di quanto da lui vinto.
Art.9 I partecipanti, le cui poesie siano state selezionate per la premiazione e la lettura in pubblico, saranno informati sui risultati delle selezioni mediante e-mail personale e segnalazione sul sito dell’Associazione di Promozione Sociale “Le Ragunanze”: http://www.leragunanze.altervista.org
Art.10 Le POESIE di entrambe le sezioni scelte e premiate saranno presentate e lette in pubblico DOMENICA 18 OTTOBRE 2015, dalle ore 11,30 fino al termine delle letture e delle relative PREMIAZIONI all’interno di Villa Pamphilj nella Sala del Bel Respiro, conosciuta come antica vaccheria dei principi Pamphilj. Qualora per suggestione o timidezza l’autore decidesse di non leggere la propria opera in pubblico, questa sarà letta da un attore o un’attrice che darà professionalità all’evento stesso esaltando al contempo la poesia dell’autore.
Art.11 A tutti i selezionati sarà inviato, con largo anticipo, l’invito a partecipare alla PREMIAZIONE e al reading. Le POESIE di entrambe le sezioni premiate, che saranno lette in pubblico e ritenute idonee dal giudizio insindacabile dei giurati, saranno inserite nell’antologia di POESIA pubblicata dalla divisione ArteMuse della David and Matthaus Edizioni, che sarà disponibile per l’acquisto nella giornata di lettura al pubblico e comunque acquistabile on-line su http://www.twins-store.it e nelle librerie virtuali e fisiche tramite il codice ISBN che le verrà attribuito.
Art.12 I PREMI saranno così suddivisi: Seconda Ragunanza di POESIA sez. “Natura” – I PREMIO, primo classificato: (coppa con i sette loghi: Consiglio Regionale del Lazio, Roma Capitale XII Municipio, Ambasciata di Svezia, Le Ragunanze, Magic Blue Ray, ArteMuse di David and Matthaus, Turisport Europe) Seconda Ragunanza di POESIA sez. “A TEMA LIBERO” – I PREMIO, primo classificato: (coppa con i sette loghi: Consiglio Regionale del Lazio, Roma Capitale XII Municipio, Ambasciata di Svezia, Le Ragunanze, Magic Blue Ray, ArteMuse di David and Matthaus, Turisport Europe) Secondo classificato POESIA sez. “Natura”: (targa con i sette loghi: Consiglio Regionale del Lazio, Roma Capitale XII Municipio, Ambasciata di Svezia, Le Ragunanze, Magic Blue Ray, ArteMuse di David and Matthaus, Turisport Europe) Secondo classificato POESIA sez. “A Tema Libero”: (targa con i sette loghi: Consiglio Regionale del Lazio, Roma Capitale XII Municipio, Ambasciata di Svezia, Le Ragunanze, Magic Blue Ray, ArteMuse di David and Matthaus, Turisport Europe)
Terzo classificato POESIA sez. “Natura”: (medaglia con i sette loghi: Consiglio Regionale del Lazio, Roma Capitale XII Municipio, Ambasciata di Svezia, Le Ragunanze, Magic Blue Ray, ArteMuse di David and Matthaus, Turisport Europe) Terzo classificato POESIA sez. “A Tema Libero”: (medaglia con i sette loghi: Consiglio Regionale del Lazio, Roma Capitale XII Municipio, Ambasciata di Svezia, Le Ragunanze, Magic Blue Ray, ArteMuse di David and Matthaus, Turisport Europe)
Dal quarto al decimo classificato per la sez. di POESIA “Natura” saranno consegnate le Menzioni d’Onore (cartiglio pergamenato con i sette loghi: Consiglio Regionale del Lazio, Roma Capitale XII Municipio, Ambasciata di Svezia, Le Ragunanze, Magic Blue Ray, ArteMuse di David and Matthaus, Turisport Europe).
Dal quarto al decimo classificato per la sez. di POESIA “A Tema Libero” saranno consegnate le Menzioni d’Onore (cartiglio pergamenato con i sette loghi: Consiglio Regionale del Lazio, Roma Capitale XII Municipio, Ambasciata di Svezia, Le Ragunanze, Magic Blue Ray, ArteMuse di David and Matthaus, Turisport Europe).
Tutti i partecipanti presenti, e solo i presenti, riceveranno brevi manu l’attestazione di partecipazione alla Seconda Ragunanza di POESIA per aver concorso con l’opera, anche se questa non si è posizionata tra i vincitori. L’attestazione avrà la stampa dei sette loghi: Consiglio Regionale del Lazio, Roma Capitale XII Municipio, Ambasciata di Svezia, Le Ragunanze, Magic Blue Ray, ArteMuse di David and Matthaus, Turisport Europe.
Art.13 Nel file d’invio a apsleragunanze@gmail.com includere dati personali, indirizzo postale, indirizzo e-mail, telefono, breve nota biografica, (per i minorenni includere anche l’autorizzazione dei genitori o di chi ne fa le veci con la fotocopia della loro carta d’identità) la dicitura “SARÒ PRESENTE”, fotocopia del versamento di € 10,00 (per i soci già iscritti all’Associazione di Promozione Sociale “Le Ragunanze” la quota è di € 5,00 – Si ricorda comunque che la tessera ha valore annuale) da effettuare tramite ricarica Postepay n° 4023600582828382 intestato a Michela Zanarella, C.F. ZNRMHL80L41C743L per i diritti di segreteria ed acquisto premi, riconoscimenti, affitto sala, piccolo rinfresco; in calce al testo, la seguente dichiarazione firmata: “Dichiaro che i testi delle POESIE da me presentati a codesto concorso sono opere di mia creazione personale e inedite. Sono consapevole che false attestazioni configurano un illecito perseguibile a norma di legge. Autorizzo il trattamento dei miei dati personali ai sensi della disciplina generale di tutela della privacy (L. n. 675/1996; D. Lgs. n. 196/2003) e la lettura e la diffusione del testo per via telematica e nei siti di Cultura della Poesia, della Narrativa e dell’Arte, nel caso venga selezionato, dai giurati del concorso Seconda Ragunanza di POESIA”
Referenti concorso: La Presidente dell’A.P.S. “Le Ragunanze”, Michela Zanarella Coordinatore e Vicepresidente, Giuseppe Lorin Segretario, Alberto Bivona (Turisport Europe)
@: apsleragunanze@gmail.com “Magic BlueRay” di Elena Sbaraglia, con la partecipazione dello scrittore Dario Amadei
“David and Matthaus Edizioni”: Giovanni Fabiano Solo e unicamente per le ordinazioni di libri:backoffice@davidandmatthaus.it
Uff. Stampa dell’evento: Frequenza Zero Communication
Romania, XV secolo. Il principe Vlad Țepeș Dracula III detto l’Impalatore, regna nella Valacchia e da tempo combatte per mantenere l’ordine politico e religioso della sua terra, ma non tutti approvano i suoi metodi estremi. Soprattutto il suo nipote prediletto Stefan, avendo un cuore puro e pacifista, ritiene le sue leggi eccessivamente severe e non appena ha la possibilità di diventare re perché Vlad viene rinchiuso per anni in prigione a causa di un complotto politico, riforma ogni legge abolendo perfino la pena di morte per impalazione… al suo ritorno però Vlad non è più lo stesso di un tempo. La guerra e la morte della prima moglie lo hanno incattivito così tanto da avergli fatto scegliere di diventare un demonio. Vlad rinchiude Stefan nei sotterranei del suo castello e solo quando si ammala di tubercolosi ha dei rimorsi e tenta di salvarlo trasformandolo in quello che è lui: un vampiro, ma prima che la metamorfosi si completi, Stefan si uccide. Sua moglie Serafine impazzisce dal dolore e si uccide anch’ella e questa tragica serie di eventi, causa che una maledizione incomba sulle loro anime che si ritroveranno a vivere reincarnandosi in altri luoghi, in altri tempi e in circostanze molto avverse. Cosa succede infatti quando un figlio della luce diventa un figlio delle tenebre generando un karma che lo condanna alla maledizione della giovinezza eterna? Lei è bella, innocente e umana… lui è affascinante, tenebroso ed è un vampiro… un vampiro sul quale vengono diffuse molte leggende orribili… nella sua ultima incarnazione lei è tormentata da alcuni incubi ricorrenti di cui neppure suo fratello che è uno psichiatra, riesce a comprendere la provenienza; incubi che le mostrano come un’ossessione, gli squarci più significativi delle sue vite precedenti affinché si renda conto di essere tornata dal passato per riequilibrare il karma molto doloroso generatosi tra lei e il suo antico amore Stefan. Sono ormai fatalmente diversi, eppure così fatalmente innamorati… Viene così compiuto in questa storia un lunghissimo viaggio dalla Romania medievale all’America degli anni ’50 e dall’Inghilterra degli anni ’90 fino di nuovo al regno di Dracula e al suo castello rumeno che nasconde una serie di segreti agghiaccianti… Una storia di amanti e rinnegati e di spettri, demoni ed eroi questa che mostra la figura del vampiro in maniera atipica e diversa rispetto a come l’han spesso mostrata le antiche leggende…
PICCOLO ESTRATTO DEL LIBRO
“Lei adesso sapeva che i suoi sogni sulla Romania, su Stefan e su Serafine, non erano affatto una coincidenza. Le avevano da sempre voluto riportare alle mente i frammenti di una vita passata. Quei nomi rivelati dal suo subconscio erano dunque reali e non onirici. Appartenevano a personaggi esistiti nelle medesime situazioni e contesti storici nei quali li aveva sognati.
Stefan così simile a Vernon, Edwina così simile a Serafine e lei così simile a entrambe… Cosa poteva significare tutto questo? Con cosa aveva a che fare? Le anime sono eterne, pensò in quei momenti, non possono mai morire, ma tornare a vivere in altri corpi di carne e ossa perché gli sia concessa l’opportunità di riparare agli errori commessi nelle precedenti esistenze…”
L’AUTRICE
Nata a Taranto sotto il segno del leone, inizia a scrivere all’età di quattordici anni coltivando la sua passione per la scrittura fino a oggi senza mai abbandonarla. Si ritiene una sognatrice nata e fantasiosa quanto basta per prediligere le materie creative. Appassionata soprattutto di cinema, teatro e arte grafica oltre che di scrittura e lettura naturalmente, si è di recente avventurata nel mondo del web design conseguendo il certificato ECDL per lavorare come libera professionista. Gli scrittori che da sempre le piacciono e stimolano la sua immaginazione sono Gaston Leroux, Anne Rice, Stephen King, Clive Cussler e Bertrice Small, ma ama leggere molto anche quanto scritto da Oscar Wilde, Platone, Origene e Ovidio (Le “Metamorfosi” in modo particolare). Quanto alla poesia, ha sempre amato lo stile e le opere di Charles Baudelaire e simili. Da bambina invece adorava leggere le fiabe di Hans Christian Andersen. I libri che hanno in qualche modo segnato la sua vita sono “Il fantasma dell’opera” di Gaston Leroux e “La piccola principessa” di Frances Hodgson Burnett. Quanto al mondo del cinema, trova i suoi alter ego in Tim Burton e Sam Raimi, autori per lei “sacri” e anche sue grandi fonti d’ispirazione.
Raccontare la guerra ai bambini. È più facile o più difficile? Mi chiedevo questo ieri sera mentre osservavo Matthias seduto di fronte a un bel gruppo di bambini di 6, 7 anni o poco più, a mostrare le sue foto scattate in Siria, Ucraina e altri luoghi sulle cronache di questi tempi. Eravamo al campo di rugby di Falconara, questo il titolo dell’incontro: “Verso Est, mini laboratorio di disegno narrativo con Matthias Canapini; il giovane rugbista, esploratore, scrittore coinvolgerà i mini atleti in un epico racconto di paesi lontani”.
Verso Est, come il titolo del suo primo libro, autoprodotto per essere più veloci, perché Matthias già riparte, dopo domani, questa volta si spingerà ancora più a est, attraverserà Croazia, Bosnia e Serbia, poi Romania, Ucraina e ancora, fino all’India e al Nepal. Conta di rientrare verso ottobre o novembre.
È arrivato “il viaggione”, quello grosso, che progettava già…
C.C.: Telefonini, televisione, radio, computer ci hanno assuefatto a una visione banale, olografica del nostro essere al mondo. La Rete ha modificato il modo in cui il soggetto si percepisce. Tutto sembra essere stato detto in questo profluvio di parole: tutto tranne quello che attendevamo nel profondo. L’insoddisfazione viene saturata aumentandone la dose.
La poesia è un interruttore, un commutatore di banda, che fa sì che appaia sul nostro schermo interiore qualcosa che avevamo sotto gli occhi e che guardavamo senza vedere. Un trasalimento dell’anima che sposta un po’ più in là il nostro orizzonte mentale, o così ci piace credere.
Sì, a volte –in un momento felice che ha del magico- un’immagine, una percezione, un’intuizione si stacca dal film travolgente del quotidiano e s’impone all’attenzione con una suggestione imprecisabile, condensando in sé un significato che ci conquista come una rivelazione, tanto da diventare un’immagine, una percezione, un’intuizione sovradeterminata: un orizzonte di significato è stato superato.
È come il fiammifero di Prévert. Ricordate quella poesia di Prévert, Tre fiammiferi accesi nella notte? Un innamorato, al buio su un ponte sulla Senna, accende tre fiammiferi: uno per vedere gli occhi, uno per vedere la bocca, un terzo per vedere il volto tutto intero della sua ragazza. In quel momento in cui il fiammifero si accende, in cui scatta il flash, siamo tutti poeti, dentro di noi. Ma è poeta solo chi riesce a far intravedere agli altri quel flash di bellezza che l’ha abbagliato. Come? Certo non con enunciazioni dirette: il volto della Medusa paralizza chi lo guarda direttamente, diceva Calvino.
Il poeta Corrado Calabrò
La poesia comunica per analogia, in modo indiretto, per evocazione, per allusione, per metafora. La metafora è lo strumento privilegiato della poesia. “Erano le cinque della sera” dice García Lorca nel suo Llanto por Ignacio Sanchéz Mejías. Ventisette volte ripete “a las cinco de la tarde”, “a las cinco en punto de la tarde”. Tutti gli orologi segnavano le cinque della sera… Perché lo dice così tante volte? Non vuol certo dirci l’ora! Vuol dirci qualcos’altro. Ma se avesse detto: “Quel pomeriggio, nella Plaza de Toros di Siviglia, il giovane e valente torero Ignacio Sanchéz Mejías, nel momento in cui stava infilando la spada nella cervice del toro venne incornato e, ferito a morte, venne portato via in barella e morì mentre veniva trasportato in ospedale… avrebbe fatto una piatta cronaca giornalistica o giudiziaria. Invece lui si limita a dire “erano le cinque della sera” e niente come questa espressione ci dà il senso della fragilità, della natura effimera della nostra vita. E non dice che è morto, dice che tutti gli orologi segnavano le cinque della sera. Perché quando un uomo muore l’orologio, il tempo, si ferma per sempre per lui. Parla dunque dell’orologio per dire della vita. È così la poesia: dice una cosa per farne intendere un’altra.
LS: Quando è stata la prima volta che ha scritto una poesia? Di che cosa parlava?
C.C.: Le prime poesia pubblicabili (e poi effettivamente pubblicate da Guanda) le ho scritte tra i quindici e i diciotto anni. Parlavano del mare: alcune figurano ancora nelle mie raccolte antologiche.
LS: Quali sono i tuoi autori preferiti? Quali sono le tendenze, le correnti italiane e straniere e i generi letterari che più la affascinano? Perché?
C.C.: I lirici greci, Dante, Tasso, Ariosto, Leopardi, Baudelaire, D’Annunzio, García Lorca, Rilke, Eliot, in poesia. Ma hanno spiegato forte influenza su di me anche Machiavelli, Nietzsche, Kafka, perché mi hanno fatto capire la valenza del non finito. Come scrive Musil, è vero poeta colui le cui frasi non hanno il punto finale; ti fanno desiderare il seguito, te lo fanno intuire mediante il non detto. Ma si tratta del non detto indotto da quello specifico detto. “Eran las cinco de la tarde….”.
LS: Quale è il suo legame con la regione natale, la Calabria?
C.C.: Vivo da oltre cinquant’anni a Roma, ch’è una città meravigliosa. Ma ogni mattina, quando appena sveglio apro le imposte, avverto un senso di privazione. Ancora assonnato, ogni mattina non mi rendo conto sul momento di cosa mi manchi. Solo un attimo dopo realizzo: mi manca il mare, quel mare che vedevo da ogni finestra della mia casa nativa. È la mia vita non vissuta che s’affaccia.
LS: Quali dovrebbero essere secondo lei le doti umane del poeta?
C.C.: D’Annunzio aveva atteggiamenti detestabili; ma è il più grande poeta italiano degli ultimi cento anni. Anche Quasimodo e Montale erano sgradevoli. Cardarelli era invece empatico; ma è meno valido degli altri due.
La poesia è una creatura che vive una sua propria vita, disgiunta da quella del suo autore. Vive nell’interazione col lettore, con l’ascoltatore; entra in risonanza ed acquista significanze ulteriori se corrisponde a un’attesa profonda e (semi)sconosciuta del destinatario, fornendogli le parole per esprimere qualcosa che pulsava in lui subliminalmente e non riusciva a prendere forma.
LS: Se dovesse scegliere tra Eugenio Montale e Quasimodo chi sceglierebbe e perché?
C.C.: Quasimodo, senza esitazione. Le sue immagini, i suoi distici timbrano la nostra percezione, si stampano dentro e ritornano nell’orecchio interiore. La sua infedele traduzione dei lirici greci rende genialmente lo spirito degli originali, infonde loro nuova vita, come nessuna traduzione letterale potrebbe fare.
Montale è più laborioso, più intenzionale; meno incisivo.
LS: Secondo Lei tutti sono in grado di comprendere la Poesia o la corretta ricezione della parola può avvenire solo in seguito a una sorta di addomesticamento letterario e studio?
C.C.: Io non so se sarei riuscito a sentire, come sento, la poesia se, tra i dieci e i venti anni, non avessi letto, e in parte imparato a memoria, tutti i più grandi poeti italiani e francesi (compreso Corneille). Ho detto: imparato a memoria. La bellezza e la forza evocativa di una vera poesia si coglie solo alla quarta, quinta lettura. Ma nessuno arriva alla seconda lettura se non è già attraente alla prima. Allora, se è una vera poesia ti ritornerà irresistibilmente nella mente, come il canto delle Sirene.
Quanto male hanno fatto questi anni di antipoeticità al gusto della poesia! Ci hanno forse preservati dalla retorica, ma ci hanno inculcato la fumisteria, la vacuità, l’insignificanza, come i sarti de I vestiti nuovi dell’Imperatore di Andersen.
Lo studio non è tutto; ci sono doti istintive e c’è l’intuito, che non è di tutti. Ma nemmeno Mozart, che componeva a cinque anni, sarebbe stato quel che è stato se non avesse assimilato tanta musica di alto livello già nei primi anni di vita.
LS: Negli ultimi anni sono fioriti una serie di movimenti culturali di impronta per lo più minimalista quali l’empatismo (Giusy Tolomeo), il metateismo (Davide Foschi), la neon-avanguardia (Ivan Pozzoni), etc. Pensa che sia ancora possibile nel nostro oggi essere portavoce di una idea di originalità e che il movimento e il manifesto possano servire ancora come collanti dai quali partire?
C.C.: Movimenti, tendenze, congreghe tendono a mascherare una realtà impresentabile: l’impotenza creativa, l’Imperatore in mutande. Creano aggregazioni come la massoneria. A cominciare dal Gruppo 63, hanno imposto la più assurda e arrogante pretesa: che poesia fosse solo il prodotto degli appartenenti a una determinata cerchia. Così prima si stabiliva chi dovessero essere i poeti e poi cosa fosse la poesia.
La poesia, come dicevo, non consente una lettura diretta; ma non per questo può chiudersi in un cerebralismo asfittico ed autoreferenziale, incomunicabile per assioma, in un solipsismo in cui il poeta si compiaccia di capire lui solo quello che ha scritto e poi ci metta mezz’ora per spiegarlo artificiosamente. No, la poesia non tollera spiegazioni estrinseche. La poesia è come le barzellette o come un tiro in porta. È ozioso raccontare: ho colpito la palla di piatto, di collo, con l’esterno del piede; se il tiro è sbagliato l’hai sbagliato, se è entrato in porta hai fatto goal.
C’è un mio saggio, Il poeta alla griglia che mette bene in luce questa deviante deriva che per trent’anni ci ha portati ad arenarci in un fondale sabbioso, a star lì a fare il pediluvio senza affrontare il mare aperto.
Per tali opinioni mi è stato comminato l’ostracismo dalle tendenze vincenti (che hanno anche occupato le cattedre universitarie). Come i perseguitati politici, ho chiesto asilo poetico all’estero (e lì ho pubblicato 32 libri con traduzioni in 21 lingue).
LS: Che cosa pensa dei reading poetici? È un buon modo per far poesia e condividere esperienze oppure no? Perché?
C.C.: Sì, perché:
– Vengono interessate alla poesia persone che la percepiscono meglio ascoltandola che leggendola;
– Si fanno conoscenze e a volte si simpatizza (talaltra si antipatizza, ma c’est la vie).
Io, poi, ho motivi particolari per ricordarli con piacere.
In Italia ho incontrato in una di quelle occasioni, più di trent’anni fa, una giovane poetessa con la quale è nato un grande amore.
All’estero ho incontrato qualcuno che ha messo in orbita la mia poesia.
LS: In che maniera sceglie quello che di volta in volta sarà il titolo di una silloge poetica? Lo trae da una poesia particolarmente significativa raccolta nella silloge oppure è completamente diverso dai titoli delle liriche all’interno?
C.C.: Molte mie raccolte recano il titolo di una mia poesia, che mi è sembrato evocativo: Mittente sconosciuta, Il filo di Arianna, Presente anteriore, A luna spenta, Ricordati di dimenticarla, Alba di notte, Una lama nel miele, Deriva, T’amo di due amori, Password, Mi manca il mare. Altri titoli, forse i più importanti, no: Una vita per il suo verso, Oscar Mondadori, 2001; La stella promessa, Lo Specchio Mondadori, 2009.
LS: Può parlarci del recital Ricordati di dimenticarla, come è nato e quale è la storia in esso contenuta?
C.C.: Si tratta di un recital-spettacolo che ha una trama, un andamento teatrale; è accompagnato dalla musica e da canzoni. La prima performance (con altro titolo) fu al Teatro Argentina a Roma, il 28 ottobre 2001, in occasione dell’uscita della raccolta Una vita per il suo verso.
Poi, una compagnia di attori (Walter Maestosi, Daniela Barra. Maria Letizia Gorga, con il musicista Giovanni Monti), hanno inserito il recital nel loro programma itinerante e ne sono seguite numerosissime repliche in Italia e all’estero: a Roma, all’Auditorium Conciliazione e in vari altri teatri, a Torino -al Teatro Regio e al Teatro Gobetti-; a Milano -al “Piccolo”-; a Genova -al Teatro Govi-; a Firenze –al Teatro La Pergola-, a Bari, Cagliari, Orvieto, Foggia, Arezzo, Perugia, Pesaro, Lodi, Potenza, Catanzaro, Vicenza, Vercelli, Cosenza, Pavia, Reggio Calabria, Messina, Verona, Novara, Aosta, Biella, Padova, Bologna, Sidney, Melbourne, Varsavia, Parigi, Buenos Aires, Madrid, Montecarlo.
Sono stati fatti anche vari compact disks con le voci di Achille Millo, Riccardo Cucciolla, Giancarlo Giannini, Walter Maestosi, Paola Pitagora, Alberto Rossatti, Daniela Barra.
Corrado Calabrò ottiene la Laurea Honoris Causa all’Università Statale di Mariupol (Ucraina) nel Maggio 2015.
LS: La domanda che vorrebbe le fosse posta in una intervista o la cosa che mai nessuno le chiede?
C.C.: “Cosa prova quando fa poesia?”
E la risposta è: “Quando mi sembra di essere riuscito a fissare in un verso quel lampo di bellezza che mi ha abbagliato provo una gioia intensa. Poi, rileggendo quei versi a distanza di tempo, mi viene il sospetto di non essere riuscito a trasmettere (nel modo evocativo, allusivo, ipertestuale, proprio della comunicazione poetica) quello che ho sentito così fortemente. Mi sorge il dubbio che non sia del tutto inaspettato quello zampillo d’acqua vergine scaturito dalla roccia per un tocco di bacchetta magica; che ci sia del convenzionale nel suo porgersi. Così com’è per convenzione che riteniamo che l’ostia ci rievochi il mistero dell’eucarestia.
LS: Un ricordo piacevole che vuole condividere con noi di questi vari anni di poeta (una persona incontrata, il colloquio con qualcuno, un’osservazione, un fatto curioso, ….)?
C.C.: Due sono i ricordi più impressivi.
Una ventina di anni fa, in Grecia, a Kavala, ci fu un meeting di poeti di vari Paesi (per l’Italia c’ero io). La sera, dopo i recitals, andavamo per le taverne del porto a sentire e a cantare canzoni greche. L’ultimo giorno andammo all’isola di Thassos. Lì mi fecero ascoltare una canzone di Theodorakis e mi chiesero: “Non noti nulla?”. Avevano aggiunto un’ultima strofe con, tradotti in greco, questi versi di una mia poesia: “E non dirò ch’è amore, se non vuoi.//No, non dirò ch’è amore, se hai paura”.
Ma l’incontro per me più importante è avvenuto in Messico, una dozzina di anni fa. Un altro meeting internazionale. Io presentavo la raccolta messicana delle mie poesie Alba en la noche e, come al solito, leggevo alcune poesie in italiano mentre un messicano le leggeva in spagnolo. Partecipava al meeting, per la Spagna, il poeta e professore universitario Luis Alberto de Cuenca, già ministro per la cultura con Aznar. A cena, sedendo al mio tavolo con la deliziosa moglie Alicia, mi disse che le mie poesie erano molto belle e che non sempre la traduzione le rendeva al meglio. Mi chiese di mandargli qualche mio libro in italiano, che lui capisce perfettamente (e, nello scritto, raffinatamente), pur parlandolo con limitazioni.
Quello è stato un importante decollo per la mia poesia: dopo d’allora tre editori spagnoli hanno pubblicato cinque raccolte delle mie poesie, tra cui una, edita da SIAL, di 570 pagine, accompagnata da un CD. Non ho nemmeno in Italia una raccolta così vasta delle mie poesie.
Ultimamente, poi, lo stesso editore di SIAL, Basilio Rodrίguez Cañada, ha pubblicato, nelle edizioni Pigmaliόn, la raccolta Acuérdate de olvidarla, composta interamente di poesie d’amore, alla quale è stato assegnato, il 17 febbraio di quest’anno, il Premio Internacional de Literatura Gustavo Adolfo Bécquer 2015.
LS: Che cosa ne pensa della figura del critico che spesso, in virtù del suo approccio distaccato e obiettivo, commette l’errore di dare una lettura fredda e manualistica di una poesia finendo per sminuire la poeticità racchiusa proprio nell’atto ispirativo e creativo?
C.C.: Oggi la poesia italiana, come la poesia, l’arte in tutto il mondo, attraversa una grave crisi d’identità, ch’è una crisi di valori, di fiducia nella capacità espressiva dell’arte e massimamente del linguaggio poetico. Innegabilmente, dai tempi di Omero, di Dante, di Shakespeare, la parola ha subito un irrecuperabile processo di designificazione. La fiducia nella parola rivelatrice è scossa irreparabilmente. E tuttavia noi avvertiamo l’esigenza di stabilire un contatto con qualcosa che vada al di là del ripetitivo e del convenzionale.
Gli psicologi ritengono verosimile che la coscienza (facoltà esclusiva della specie umana) si sia evoluta per selezione naturale a partire dal momento in cui l’uomo ha cominciato a sviluppare il linguaggio. E i neurobiologi hanno riscontrato che la nostra mente ha una natura linguistica e che il nostro pensiero dipende dal linguaggio, il quale addirittura conforma la struttura del nostro cervello secondo la sintassi. Il che significa che siamo noi stessi, con le parole che facciamo nostre, a sviluppare la capacità di comprendere. In altri termini, che facciamo entrare il mondo dentro di noi! Per ognuno di noi il mondo esiste solo nella misura in cui la sua mente lo percepisce. Ma accanirsi letterariamente sul linguaggio ne anemizza la vitalità espressiva. Un linguaggio fine a se stesso, un linguaggio ripiegato su se stesso avvizzisce sé e con esso le nostre strutture mentali.
Esprimere l’indicibile è impossibile e al tempo stesso irrinunciabile, per qualche ragione che ci sfugge, come gli alpinisti non sanno rinunciare a scalare le vette più alte, perfino ad altezze dove manca l’ossigeno.
I critici che si confinano in un’esegesi puramente cerebraloide, in un formalismo fine a se stesso sono come quei pittori che ricalcavano sempre la stessa raffigurazione stereotipata nelle icone bizantine o nei cammei giapponesi.
Non si può rinunziare alla significanza della poesia, sebbene la poesia resti sospesa tra l’inveramento della promessa e la negazione definitiva; l’amore, la poesia si collocano fra la presenza e l’assenza, fra il contatto e la perdita di contatto.
Una corposa edizione delle poesie di Corrado Calabro edite in lingua spagnola
La tecnica, la sperimentazione, sono necessarie. La poesia trascorre come un’ala; per catturarla al volo occorre una tecnica raffinata. Non si può cogliere il senso di una visione poetica separato dal suo modo d’esprimersi, di significarsi, come non si può cogliere una palla al volo in un attimo diverso da quello del suo impatto e se non con quell’atteggiamento dinamico di tutto il corpo, con quella giusta torsione del piede (quella e quella sola) che indirizzi la palla in modo appropriato, tale da cambiare la situazione.
Occorre dunque padroneggiare perfettamente la metrica. Ma guai a scambiare gli esercizi di versificazione con la poesia; sarebbe come scambiare la ginnastica e il palleggio preparatori con la partita.
Qualsiasi espressione (perché di un’espressione non può farsi a meno) è un atto estetico solo in quanto ci rechi il messaggio che inconsapevolmente attendevamo. In cosa consiste questo messaggio? Consiste, è racchiuso –come accade nei sogni-, nel preannuncio, nella premonizione di un’imminente rivelazione. Se una frase musicale, un verso, un tratto di pennello non ci fanno sentire che stanno per dirci qualcosa, che alludono, preludono a un arcano disvelamento (e non importa poi che la rivelazione venga continuamente rinviata), essi non inducono a quella levitazione del preconscio, non provocano quel palpito dell’avvento, che sono la connotazione, le stimmate della (ri)creazione artistica.
E non c’è creazione artistica, non c’è poesia senza ispirazione.
Capisco che chi non ha conosciuto la condizione di entusiasmo sperimentata da chi ha sentito un dio dentro di se (εν-θεóς), quella condizione di possessione della mente, di divina follia, di cui parla Platone, neghi la realtà dell’ispirazione, la ritenga una mistificazione. Ma è come negare la realtà degli ultrasuoni perché l’orecchio umano non li sente.
No, la poesia non è la fabbricazione del nulla, non è il vuoto spinto, e i critici non hanno la funzione di controllare il traffico delle mosche, come certe correnti letterarie asfittiche hanno voluto farci credere nel lungo periodo di glaciazione della cultura (J. P. Aron) che abbiano attraversato. “Conosco facendo” diceva Giambattista Vico. E il primo significato di πоιέω è proprio fare.
“Nelle scienze si cerca di dire in un modo che sia capito da tutti qualcosa che nessuno sapeva. Nella poesia è esattamente l’opposto”, osservava sarcasticamente il grande fisico Paul Dirac.
È vero, non si può rinunciare al linguaggio; ma a un linguaggio che si alimenti di conoscenza e ne sia tramite. L’interdipendenza degli approcci caratterizza oggi, più che mai, la cultura. La scienza, nella sua ultima proiezione, si sovrappone all’arte e alla filosofia. Può la letteratura, la poesia, rifiutare l’osmosi della scienza senza autocondannarsi all’estinzione come i Catari?
La poesia non parla col linguaggio della scienza, ma deve dire, suggerire qualcosa che ci protenda oltre noi stessi.
Siamo arrivati a un punto di ricerca dell’ultima realtà davanti alla quale non ci soccorrono più i mezzi di visione diretta. Nell’acceleratore di Ginevra non si ha visione diretta delle particelle ricercate, ma certe traiettorie, nello scontro di particelle, fanno desumere l’esistenza di altre particelle. Bene, non è una forma di metafora questa?
Mi viene in mente il mito della caverna di Platone, un filosofo poeta (anche se lui bandiva i poeti dalla sua Repubblica…) di profondità non ancora del tutto sondate. Ricordate cosa diceva nel mito della caverna? “All’uomo non è dato conoscere la realtà ultima delle cose”, quella che lui chiamava l’essenza ideale: l’uomo non può vedere le cose direttamente, ne vede soltanto le ombre proiettate sul muro della caverna mentre scorrono al di fuori.
È quello che noi vediamo nell’acceleratore di Ginevra. Una traiettoria che è segno di uno scontro dal quale nasce qualcosa che noi non riusciamo a vedere.
Non c’è un accostamento significativo a quella visione di Platone? E anche alla poesia, perché la poesia parla per analogia, parla per evocazione, parla per allusione.
Se la poesia si rinsangua, forse riesce anche a esser meno compiaciuta di sé e più strumentale alla rivelazione di un qualcos’altro, di quel qualcosa che il cieco Omero vedeva e noi usualmente non vediamo. La forma poetica è un modo per intuire che c’è qualcosa al di là del muro, come diceva Montale. Quando questo non è un enigma dentro l’enigma, voluto a forza per apparire intelligenti quanto artificiosi; quando c’è sincerità e talento, è un momento di grazia, come quando si trova l’accordo a mettere felicemente insieme due o tre note. In quel momento la poesia svolge una funzione sempre attuale, sempre viva, che ci proietta anzi verso il futuro.
LS: Lei figura da anni in numerose Giurie di concorsi letterari. Quanto è difficoltoso e importante il ruolo di Giurato in un Premio letterario e in che cosa consiste la difficoltà?
C.C.: La difficoltà consiste in un giudizio non superficiale.
Ricevo una cinquantina di libri per ogni premio in cui sono in Giuria. Nel premio Camaiore, addirittura, sono più di 200 ogni anno. Come si possono leggere tutti funditus? Si va un po’ a tentoni, si orecchia, ci si sofferma di più su alcune opere, meno su altre; non è giusto, ma è così. È già tanto se si resta tetragoni alle sollecitazioni.
LS: Un autore letto e riletto, che torna spesso a sfogliare o a spolverare perché i suoi brani sono importanti lezioni di vita?
Einstein: L’unificazione dello spazio e del tempo in una sola dimensione, lo spazio-tempo, ha cambiato la nostra visione dell’esistente, ha riconciliato la duplicità tra l’essere di Parmenide e il divenire di Eraclito. Einstein ci ha rivelato scientificamente la compresenza del passato nel presente: noi vediamo oggi quello che è accaduto in una stella due miliardi di anni fa. Lo vediamo come se accadesse ora; e per noi accade adesso, in questo momento. (L’arte fa qualcosa di simile: pensate ai guerrieri di Riace).
Stephen Hawking: esempio sbalorditivo della indomabile potenza della mente in un corpo totalmente disabilitato.
LS: Quali attività letterarie la vedono impegnato in questi mesi?
C.C.: Assisto, dalla finestra, all’uscita di altre mie traduzioni. È un ruolo quasi passivo, certo, ma quando l’ispirazione non pulsa in modo irresistibile io non incalzo la Musa; aspetto.
Come dicevo, il poeta si esercita, si cimenta, si predispone, si allena, fa laboratorio e ricerca. Ma ho imparato che il lungo lavoro di sperimentazione, di esercizio, ci serve semplicemente per essere pronti in quell’attimo, in quella fase che è stata definita d’avantesto, cioè la fase di gestazione del testo, in cui ci troviamo in uno stato d’attesa, d’incubazione di qualcosa che preme oscuramente a livello subliminale, preme per prendere forma.
«Il primo verso è sempre un dono degli dei» ha scritto Paul Valéry (ch’eppure non era un romantico). Accade quando accade, se accade. E, comunque, poi?
L’intervallo tra quando un dio ci ha visitati ed è andato via, e un altro deve ancora venire può essere lungo, molto lungo. Il poeta, anche il grande poeta, nasce e muore ogni volta con la sua creazione, come l’agave, e ogni volta lo fa con l’innocenza di una nuova nascita. Nessuno può dire se e quando scriverà di nuovo una vera poesia. Parafrasando Jules Renard, possiamo dire che nella casa della poesia la stanza più grande è la sala d’attesa.
Dipthycha 2 – Questo foglio di vetro impazzito, sempre, c’ispira…
Emanuele Marcuccio e AA. VV.
Recensione di Santina Russo
A distanza di circa un anno dalla pubblicazione di “Dipthycha. Anche questo foglio di vetro impazzito, c’ispira…” Emanuele Marcuccio ci sorprende con una nuova raccolta che della prima si nutre e si arricchisce.
Nella presente raccolta emerge con maggiore enfasi e convinzione la volontà di trasmettere, attraverso la poesia, la relazione empatica che naturalmente può instaurarsi tra artisti diversi che, inconsapevolmente, trattano lo stesso tema, seppur con stili, linguaggi e sensibilità diversi, anche in contesti sostanzialmente distanti.
Dopo un’interessante introduzione dell’autore, la raccolta presenta un “Manifesto dell’Empatismo”, la dichiarazione poetica di un nuovo gruppo di artisti che elegge “il dittico poetico a due voci e il pluricanto come forme per eccellenza di empatia poetica e come forme di poesia empatista per antonomasia”. I poeti empatisti vogliono che autori e pubblico vivano le stesse emozioni fin tanto che gli uni possano meglio comprendere ed esprimere la sensibilità dell’altro e viceversa, nel significato più autentico del termine empatia. L’empatia permette a ciascuno di noi di conoscere meglio sé stesso e la propria arte attraverso il confronto con gli altri.
È doveroso, innanzitutto, precisare con quale accezione il poeta Marcuccio utilizza il termine “dittico”: il dittico, esistente già nella tradizione letteraria come una coppia di composizioni poetiche dello stesso autore sul medesimo tema, nel progetto di Marcuccio si evolve e si apre al prossimo. Il dittico poetico ideato da Emanuele Marcuccio è costituito da due liriche di due diversi autori su una tematica comune, “in una sorta di corrispondenza empatica”. I poeti affrontano lo stesso tema con stili e linguaggi diversi, operano in contesti spesso assai distanti ma i frutti della propria creatività artistica riescono ad esprimere empaticamente la medesima ispirazione.
I dittici sono corredati da autorevoli commenti critici dello scrittore Luciano Domenighini che offrono ulteriori spunti di riflessione e rivelano gli aspetti tecnici e stilistici ai lettori privi di strumenti adeguati a individuarli autonomamente.
Un ulteriore elemento di novità è rappresentato dal fatto che, attraverso le nuove tecnologie multimediali, la relazione empatica tra artisti è resa possibile anche a distanza, attraverso quel “foglio di vetro impazzito” che diventa il canale di comunicazione privilegiato tra i poeti moderni. La poesia è un bene comune e l’appello che il poeta Marcuccio rivolge agli artisti è proprio quello di trovare le “affinità elettive” nei versi di altri poeti, di provare a creare dittici a due voci, di sperimentare un nuovo modo di fare poesia che liberi il poeta dallo stereotipo alquanto diffuso di personaggio inquieto e solitario.
Il messaggio di Dipthycha 2 è un inno alla poesia gioiosa, alla fraternità artistica e alla sperimentazione della tradizione letteraria in chiave moderna.
La particolareggiata nota critica di lettura di Valentina Meloni al mio libro di racconti “L’opossum nell’armadio” edito da PoetiKanten Edizioni nel 2015.
Grazie Vale!
“Nelle situazioni di pericolo, l’opossum adotta come mezzo di difesa la tanatosi, ossia finge di essere morto”[i]
L’opossum nell’armadio è l’ultimissima raccolta di racconti di Lorenzo Spurio edita per Poetikanten Edizioni: ventuno racconti brevi che hanno come denominatore comune l’opossum. L’opossum è un animale che patisce la luce[ii]: questa è una delle primissime citazioni scientifiche che aprono ogni racconto della raccolta. L’opossum è un alter-ego e quindi non il vero personaggio narrativo dei racconti anche se presenzia alla scrittura e alla lettura degli stessi. In realtà l’opossum è un espediente letterario che vorrebbe mimare il comportamento della nostra psiche mettendola in relazione attraverso l’armadio-Io con la coscienza morale che si trova all’esterno e che freudianamente possiamo considerare il Super-Io. Almeno… io l’ho inteso così.
fotografia di Gregory Colbert (opossum)
Viene spontaneo il paragone con il famoso scheletro nell’armadio, che ci fa immaginare la psiche come qualcosa…
«Mio nonno si chiamava Leonardo, come me; era un gran lombardo alla Vittorini dagli occhi azzurri. (Come io non sono) un settentrionale. Ho trovato suoi biglietti da visita: Leonardo Sciascia- Alfieri. Alfieri è un nome del nord, che aveva ereditato da sua madre insieme agli occhi azzurri, mentre Sciascia è un cognome propriamente arabo, che fino al 1860 sui registri anagrafici veniva scritto Xaxa, e che si leggeva Sciascia. In arabo, dice Michele Amari, vuol dire “velo del capo” e per indicare un’amicizia strettissima si parla di “due teste in una stessa sciascia”. Mio nonno era stato caruso, uno di quei ragazzini che nelle zolfare siciliane venivano adibiti al trasporto del materiale. Imparò a leggere e scrivere e fino a qualche anno fa molti lo ricordavano per le sue collere terribili, il suo rifiuto a scendere a patti con la mafia nonostante le minacce. “Tu sei Leonardo? Tuo nonno era una persona onesta».
(in Leonardo Sciascia, La Sicilia come metafora).
La copertina dell’antologia “Stile Euterpe vol. 1 – Leonardo Sciascia, cronista di scomode realtà” curata da Martino Ciano e pubblicata da PoetiKanten Edizioni (2015)
La figura del nonno, quell’onestà, “gran virtù soffocata di molti siciliani”, il rifiuto a scendere a patti con la criminalità organizzata sono punti fermi nel racconto “Nient’altro” in cui “eroe d’altri tempi” per gli uomini onesti è un uomo stanco e solo, un anziano con “radi capelli canuti, lisci” che si considera “un niente mischiato con nessuno”, ma che in realtà è un personaggio di spicco nella trama del racconto e persona degna di gran rispetto nella realtà vissuta.
“Mio nonno dice che a vossia dovrebbero fare il monumento; io lo metterei al centro di questa piazza… ma perché mio nonno dice che vossia è stato un eroe di altri tempi?”. Una moltitudine di ricordi agitò la mente di zi Ni mentre un’immagine si mescolava ad altre immagini in un crescendo di pathos emozionale. La promessa fatta al ragazzo s fece idea avvolgente dei suoi pensieri. “Cosa gli racconto?”, pensò l’anziano, “a me sembra di essere nato ieri o di non essere nato affatto” E forse era vero! La sue vicissitudini di uomo e di libero cittadino potevano essere raccontata con poche parole. Quello della sua vita era un racconto breve. Una narrazione con pochi personaggi e fatti scarnificati come parole messe ad essiccare nelle saline dei pensieri nel “paese del sale/che frana/dall’altipiano a una valle di crete”(L. Sciascia, Due cartoline dal mio paese) Alla luce degli accadimenti non c’era “Nient’altro” da raccontare, se non che dopo mezzo secolo di detenzione era tornato in libertà , una libertà duramente conquistata e che onorava suo nonno, ucciso per non aver voluto cedere a nessun tipo di ricatto. “Nell’inventar storie vere” è qualità innata di Sciascia ed egli ricerca, insegna, investiga, partecipa attivamente alla vita culturale e sociale italiana e soprattutto scrive libri di denuncia, mostrando il “baratro della storia”. “A ciascuno il suo”, titolo in cui è palese quella figura retorica, detta ellissi, nell’avere di ciascuno “traspare un dolore sommerso”.
“I bambini poveri si raccolgono silenziosi/sui gradini della scuola/addentano il pane nero/gli altri se ne stanno chiusi/ nel bozzolo caldo delle sciarpe” (L. Sciascia, Due cartoline dal mio paese). E se il sale “diventa morte,/ pianto di donne nere nelle strade,/fame negli occhi dei bambini?”(L. Sciascia, Due cartoline dal mio paese). Povertà, disuguaglianze di classe, abusi di potere, corruzione, marginalità, omicidi, rapine, attività lecite e illecite si consumano e si reiterano, come scriverà il giudice Giovanni Falcone come “Non frutto abnorme del solo sotto- sviluppo, ma prodotto delle distorsioni dello sviluppo”. E nel corso del tempo e nel ripetersi degli eventi “quella piovra/dal giorno della civetta/alla scomparsa di Majorana” continua, come scrive Bufalino, nella logica della “liturgia scenica (e) fra le sue mille maschere, possiede anche l’alleanza simbolica e fraternità rituale, nutrita di tenebra” e “uocchiu d’e gghenti”, l’occhio della gente, è anche l’occhio della civetta, animale dallo “sguardo scintillante”, dal grido acuto e stridulo ed anche simbolo di denaro. I glauks erano le monete ateniesi e la civetta di Minerva, dea della sapienza, è simbolo della conoscenza e della saggezza; gli occhi e il becco ricordano la lettera dell’alfabeto greco “fi”, ma è anche immagine controversa e contraddittoria perché, essendo un uccello notturno, richiama l’idea di morte, isolamento, solitudine, oscurità, come di miseria, di malefici, disgrazie e cattivi presagi.
Leonardo Sciascia
“Ridono gli altri uccelli tra le fronde/per la strana presenza del rapace/notturno in pieno giorno”, ossimorica presenza, antitesi tra buio e luce, contrasto tra suono e silenzio in una perifrasi narrativa che rimanda all’omicidio del sindacalista ad opera della mafia. Ma nel “giorno che irrompe ciarliero” gli uomini vanno verso i campi, obliando tutte le facoltà dei sensi e “con scarse propensioni di dignità” si chiudono nel più aspro silenzio. Intanto “i morti vanno, dentro il nero carro/incrostato di funebre oro, col passo lento dei cavalli” (L. Sciasci, I morti) mentre le donne al loro passaggio chiudono le imposte e i negozianti lasciano appena aperto uno spiraglio per poter spiare il dolore dei parenti. “Le cose dei morti, i pupi, la frutta di pasta di mandorle che i bambini la mattina del due novembre cercano e trovano in qualche angolo della casa . I morti che portavano i doni; i vivi che tra loro, a catena si ammazzavano” (L. Sciascia, Novembre a Palermo).Qua e là nei versi degli autori presenti in antologia, echeggiano i versi di Quasimodo “ride la gazza, nera sugli aranci”, “tra muschi grami, a supplizio/splende la pietra livida”, “dove mi hai posto/amaro pane a rompere”, come echeggiano quelli di Sciascia, “il silenzio è vorace sulle cose./S’incrina, se flauto di canna/ tenta vena di suono, e una fonda paura dirama” ma echeggiano anche quelli di Pavese “sei la terra e la morte./La tua stagione è il buio/ e il silenzio”. Il silenzio… parlare a cenni è arte che i siciliani inventarono a seguito della proibizione fatta da Jerone che, temendo qualche congiura, vietò ai siracusani di parlare fra loro. “Il parlar co’ cenni, con un moto del capo, della bocca, delle spalle, e soprattutto delle mani, è arte propria dei Siciliani che senza profferir parole, anche a notabil distanza, con un sol cenno spiegano i concetti della mente” scrive A. Mongitore in “Parlare a cenni”, “Il signor padre tutto fici per farti parlari portandoti cu iddu perfino alla Vicaria che ti giovava lo scantu ma non parlasti perché sei una testa di balata, non hai volontà…” dice D. Maraini in “Il silenzio di Marianna”. E di queste cose io stessa mi meravigliai, quando ancor bimbetta per volere del destino, passai dalle mie montagne innevate all’isola “arsa dal sol fecondo”. Fu allora che iniziai a respirare aria siciliana, che nacque la mia predilezione per le piante grasse, che imparai a sbucciare i frutti dei fichi d’India, che volli gustare ‘a manciata ‘i ricotta, la colazione di ricotta, che ascoltai quei “suoni greci arabi latini”e ancora adesso mi piace acquistare gli agrumi con le foglie e tenerli nel paniere di castagno come usano intrecciare in terra di Mugello.” Ci vuol coraggio a sbucciarli (i fichi d’India), rischiando di ferirsi con le spine”. Ricordo che gli uomini passavano intabarrati nei loro mantelli neri, con la coppola tirata sugli occhi, salutavano con un cenno del capo e i loro cavalli lasciavano impronte sulle trazzere assetate e nei vigneti . Spesso sentivo raccontare di brigantaggio e morti ammazzati e soltanto negli anni della mia autoformazione imparai il significato del termine “separatismo” e seppi della “rivolta del pane”, della tragedia dei carusi, “giovani fiori gialli tra pietre vendute ai padroni”, e dei fatti di Portella della Ginestra. Anni dopo i media mi mostrarono immagini crude e mi sentii derubata dall’usura del tempo lineare e dallo scempio del tempo ciclico. Sentivo la libertà quale elemento fondante di ciascun uomo; per questo anch’io volli contare i miei 100 passi e scrivere versi di pace mentre in via Notarbartolo lasciai un biglietto insieme ad altri biglietti su quell’albero, emblema di legalità e voglia di cambiamento. Ma di cosa è fatta quella “sicilitudine” di cui parla Sciascia in una realtà storica dove popoli diversi, non dissimili dai rapaci che volano “Sotto le rocce di Tindari”, si spartirono le bellezze dell’isola e la paura “storica” divenne paura “esistenziale”. Certo la posizione geografica dell’isola al centro del Mediterraneo è un punto strategico che la rende aperta ad ogni azione di conquista e come scrive ancora Sciascia “lo sbarco degli eserciti anglo-americani nell’isola, il 10 luglio del 1943, avveniva in condizioni quasi identiche a quelle dello sbarco degli arabi il 6 giugno dell’827 con l’isola come sempre sguarnita di difese, lo spirito pubblico prostrato da un’amministrazione rapace e corrotta”. E, se è vero che “a furca è fatta p’o poviru”, la forca è fatta per il povero, è anche vero che l’isola è chiusa nel guscio di se stessa e si lascia travolgere da idee che non affermano nessuna verità ed è sempre più assetata di certezze, sempre più affascinata dalle contraddizioni e dalla sofferenza come dalla simulazione e dalla maschera. Le fonti della sua passione intellettuale sono da ricercarsi in Demetra, Core e Aretusa, in Ciullo d’Alcamo e Giacomo da Lentini, nella pietra lavica del maestoso Etna, nei mosaici di Monreale e nel mito della roba come nelle “grotte aride (dove a volte) vengono rinvenuti corpi privi di anima”.
Bandiera e stemma della Trinacria (Sicilia)
“Già. Le due donne hanno reagito. Non sanno che da queste parti non si scherza…” perché in questa terra “più si fa finta di non sapere e meno si rischia la pelle” come è successo al notaio Manni, alla maestra Livato e a Michele che è tornato a casa , interrato in un vaso di fiori. “ma lo sguardo di Sciascia andava oltre” così tanto oltre da scrivere che “Forse tutta l’Italia va diventando Sicilia… E sale come l’ago di mercurio di termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l’Italia, ed è già, oltre Roma”. In quelle “Isole nell’isola” esiste una radice di tristezza e quel senso tragico della vita che talvolta sfocia nel sentimento di solitudine che fa sentire stranieri in patria. “Diciam dunque che l’isola di Sicilia è la perla del secolo per abbondanza e bellezze… e vengono da tutte le parti i viaggiatori e ad una voce la esaltano” (Edrisi, Della Sicilia) e en esaltano ance la fiera bellezza delle donne, ne lodano il ruolo in seno alla famiglia, ne ammirano la posizione centrale nelle responsabilità sociali, donne che osano parlare con voce rude e misurarsi con gli uomini nel dramma popolare delle faide tra famiglie, del delitto passionale e gli amori impossibili, amori incarnati nel verismo di Alfio e Mena, di Gesualdo e Diodata.
Tuttavia c’è anche da dire, come ebbe a scrivere Gramsci, che “la Sicilia conserva una sua indipendenza spirituale e questa si rivela più spontanea e forte nel suo teatro (che) è vita, è realtà, è linguaggio che coglie tutti gli aspetti dell’attività sociale, che mette in rilievo un carattere di vitalità.
Della “questione” meridionale si continua ad avere l’impressione di una carte-souvenir e a prenderne nota a margine della pagina della partecipazione sociale.
“Sto a far camorra sulle cose, seduto/ al sole d’aprile che in me torna/a un suo azzardo di sentimenti e di inganni/Il paese, non lontano, sembra affondare/ nel verde: di là di questo gioco/pieno di voci, è solo un paese di silenzio” (L. Sciascia, Aprile). Scrive Lorenzo Spurio a riguardo delle “Favole della dittatura”: “Simile attestazione alle “favole” sciasciane secondo me vale di più di ciascun saggio, libro, studio, o guida di lettura sul testo in questione in quanto Pasolini con strepitosa chiaroveggenza e una disarmante predisposizione ermeneutica ne affresca il contenuto con onestà, connotandone anche la forma… Pasolini gioca con le parole “favole” e “dittatura” chiamando il lettore alla riflessione”, “Ecco allora che la scrittura rafforza l’amore per la democrazia, se pur ammalata da sistemi corrotti e devianti e non di ordine piramidale bensì di natura reticolare (in) un carnevale di maschere che dividono quell’esserci ontologico tra il subire e il fare, tra protagonismo e antagonismo”, conclude Iuri Lombardi nel suo saggio antologico mentre per Martino Ciano, curatore del volume, “c’è chi costruisce progetti che magari non finiranno sui tavoli dei baroni ma che danno testimonianza ai posteri che c’è altro.”
“Leonardo Sciascia. Cronista di scomode realtà”, sono convinta che si è sempre cronisti di scomode realtà allorché si coltivano idee di libertà, giustizia e uguaglianza e il potere della scrittura si fa denuncia; quando si dà ampio respiro a idee di vera fraternità, non si seguono mode e si diventa voci fuori dal coro; quando si ha paura e non si cede a vessazioni e ricatti; quando si è in stretto contatto con la nostra solitudine di Uomini reclusi nel gorgo dell’indifferenza; quando i nostri ideali sono macigni sul cuore per chi cuore non ha e le speranze fino allora coltivate sembrano svanire; quando si è lasciati soli nel presente; quando si è ben consapevoli che per la fede di onestà anche altri prima di noi sono stati lasciati soli e altri dopo di noi lo saranno ancora perché “la verità è (sempre) ai margini dove pochi la cercano”.
Ammetto di non aver mai avuto un gran rapporto con la matematica….Tra amore e odio, la bilancia ha sempre virato, senza troppe incertezze, verso l’odio. I conti non mi sono mai tornati e i numeri, di per sé, mi sono sempre sembrati troppo rigidi: sbarre robuste dentro cui ingabbiare formule apparentemente semplici e concretamente complicate.
Tutto il contrario rispetto alle parole che, invece, ho sempre percepito come entità libere, fluide, mobili, fluttuanti corsi d’acqua percorribili in modi diversi e tutti creativi.
Le parole erano i continenti del mio mondo; i numeri forse solo alcune disparate isolette su cui approdare in caso di emergenza o per un atto di estremo coraggio. Su una di queste isole però, scoprii che abitavano i numeri primi.
I numeri primi, nella loro gamma di specificità e particolarità, non nascondo che mi fecero un certo effetto. Mi affascinava la loro esclusività, la loro intrinseca capacità di non essere divisibili altro che per sé stessi e per uno. Mentre gli altri numeri potevano trovare molti modi per essere frazionati, divisi, scomposti e poi ricompattati, loro no: se ne stavano lì, tronfi e sicuri di sé nella loro interezza. O tutto o niente insomma. In più, erano anche prevalentemente numeri dispari e, dovendo scegliere, questi erano senza dubbio la categoria con cui simpatizzavo di più.
I numeri primi mi sembrarono per la prima volta, assolutamente interessanti. Forse perché descrivevano un modo diverso di essere numero: una maniera particolare di distinguersi dal resto, pur condividendo le caratteristiche basilari. Erano un po’ come le parole palindrome: un’eccezione che interrompeva e rendeva interessante uno schema altrimenti troppo ripetitivo e perfetto.
I numeri primi mi piacevano, decisi.
Forse perché anch’io mi sentivo (e mi sento ancora) un po’ un numero primo. Qualcuno di poco compatibile con il resto, che sa bastare a sé stesso. Qualcuno poi, che è dispari per natura: senza alcuna possibilità di scelta né di scampo. I numeri primi, spesso, sono solitari e erranti come l’ebreo del quadro di Chagall. Compaiono così, un po’ a random nella serie di numeri che tende a più infinito, come lo special di una canzone. I numeri primi sono la variazione alla regola ed è per questo che sono solidale con loro.
Mi piacciono le variazioni, i cambiamenti, mi piacciono le mosche bianche e le pecore nere. Mi piace ciò che è atipico, distinto, differente, alternativo, strano, originale. Mi piace chi colora fuori dai bordi, per crearne di nuovi. Mi piace chi, con un dettaglio fuori posto, racconta sé stesso e il suo modo di essere.
Perché ci sono davvero infiniti modi di essere diversi e di essere, appunto, numeri primi. Essi restano individuali anche quando sono in gruppo: sé stessi, assoluzione e condanna al contempo.
Tra loro non si cercano quasi mai ma, se qualche volta per sbaglio si incontrano, allora tirano un gran sospiro di sollievo: capiscono di essere primi ma non unici. Non soli. Basta scorrere un po’ avanti nella serie per scovare, nascosto in mezzo a noiose e ripetitive cifre ben meno interessanti, un altro numero primo. D’altronde la sequenza dei numeri è infinita, come l’elenco di tutte le possibilità possibili anche se poco probabili. Ecco, perfino la matematica non è una scienza del tutto esatta: prevede sempre una variazione allo schema. Per fortuna.
Alla Biblioteca comunale “Luca Orciari” di Marzocca di Senigallia (AN) il 29 maggio scorso si è tenuta la presentazione della silloge poetica “Respiri di vita” di Elvio Angeletti.
Il libro, edito da Intermedia Edizioni, è il terzo libro di poesie dell’autore senigalliese; il volume è stato presentato da Lorenzo Spurio (Scrittore e critico letterario) che ha svolto una disanima delle principali tematiche del testo e ha intervistato l’autore su una serie di questioni legate al mondo della poesia e l’atto creativo.
Hanno allietato, inoltre, la serata gli intervalli musicali alla pianola del maestro Carlo Palestro mentre le letture sono state affidate a Francesco Capricci.
A coronare la serata sono state le opere intimiste e profonde dell’artista siciliano Angelo Monterrosso che per l’occasione ha esposto numerose sue creazioni caratterizzate da una tecnica pittorica basata sul contrasto di nero-bianco.
Ampio il pubblico in sala tra cui vari amanti della poesia: i poeti locali Marinella Cimarelli, Augusta Tomassini, Fiorina Piergigli, Matilde Avenali, Maria Pia Silvestrini, Franco Patonico, la professoressa Francesca Bianchini l’attore Mauro Pierfederici.