N.E. 02/2024 – “Nella nebbia”, poesia di Mario De Rosa

Ori antichi disfatti

sono le sensazioni

che ti dona la nebbia

mentre piano t’avvolge

con silenziose spire.

Io scendo per le scale

al centro del sentire


fermo nell’essenziale

d’un linimento fede.


E indosso quei panni

quasi a pelle leggeri

per planare su monti

desolati e campagne

dove spande il tintinno

di qualche trillo oro.


Poi ripesco dal cuore

l’incitamento d’uomo

nel menare quei buoi

quand’aravano il campo

per promesse di grano

e di vita sicura.


Adolescente torno

a quei mesi d’autunno

In cui già pregustavo

col Natale la neve.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “Il silenzio muove le foglie”, poesia di Roberto Casati

Il silenzio muove le foglie

tra eremo e monastero

si spengono le ultime parole

aggrappate al filtrare del sole

antico segno del primo andare.


Faggi e abeti tendono le braccia

celando ad occhi indiscreti

il capriolo dagli occhi felici

e il lento respiro del monaco

piegato sulla grezza stuoia.


Allocco e poiana tornano al segreto casolare

mentre il picchio dagli occhi luminosi

stira le ali preparandosi al volo

accompagnato dalla preziosa cantilena

in fondo alla segreta ombra dell’altare.


È questo il senso ultimo delle parole

raccogliere il frutto della vita

lasciando al cielo il necessario ringraziamento

per il singolo attimo

di ogni prezioso pensiero d’amore.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “Nel vuoto [lì per sempre]” di Rita Stanzione

Esistere e non poter essere

non poter restare

come un innesto su spini dipinti

che hai tracciato per mestizia del vuoto


pregavamo Dio senza conoscerlo

‒ amandolo a tratti

perché crescesse un ramo vasto

di ali nella breccia sorda delle pietre

una cura allo spirito contuso

dato insonne alla notte

dal centro immeritato più preciso

più lontano più straniante


è un cammino irto che spezza l’avvento

spezza ogni corda, cadiamo giù

e soli

monchi di forma.


Mi cadde l’anello che

da bambina tenevo stretto al dito

non riuscii a dire ch’era un anello

capii che il non sapere un nome è una perdita,

ma ci perdiamo

anche coi nomi stampati nelle tempie

che stanno lì per sempre

in un estratto di eternità

transitori, sradicati

bricioli d’amore.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “Tempo di realtà”. Un saggio sulla poesia a cura di Giuliano Ladolfi

Fin dal 1996, l’anno di fondazione della rivista «Atelier», non ci stanchiamo di riflettere sulla situazione della poesia contemporanea. Abbiamo letto, scritto, studiato, organizzato incontri, conferenze, dibattiti, con moltissimi per cercare di capire i motivi per cui questa arte oggi, come mai è avvenuto in passato, stia toccando il minimo della credibilità nell’opinione comune della nostra nazione.

L’analisi, a nostro parere, è stata attenta, estesa, documentata e argomentata, a questo punto si richiedono elementi di soluzione. Non abbiamo mancato anche in questo ambito e gli editoriali, gli interventi, gli scritti di natura estetica e poetica sono stati offerti al pubblico anche sul nostro sito. Abbiamo proposto un nuovo metodo critico.

Eppure leggere, riflettere, rielaborare, analizzare, sintetizzare, correggere, rivedere, recuperare, tagliare… lavorare sulla poesia contemporanea presenta tali e tanti trabocchetti che spesso si teme di essere sopraffatti dalle difficoltà.

Nessuno, infatti, può presumere di riuscire a inquadrare un fenomeno così complesso, nonostante la lunga militanza in rivista e la passione che risale agli anni infantili. Eppure mai come in questo periodo, durante il quale il mondo poetico è minato dalla crisi della critica e dallo strapotere dei mass media, si impone la responsabilità di approfondimenti pratici supportati da una ricerca teorica, secondo la tradizione della nostra rivista.

Non si tratta della ricerca di un “canone” di orienti il lettore, non si tratta di stilare una classifica di maggiori e di minori, non si tratta di predisporre una vetrina, in cui accostare un autore all’altro, oggi più che mai si richiede un’opera di interpretazione di questo presente, “liquido” e inafferrabile, che ci consente di prospettare un barlume di conoscenza non soltanto sul mondo della scrittura in versi, ma attraverso di esso sulla realtà in cui viviamo, posto che si accetti il presupposto che la grande arte “riveli” i tratti del pensiero, della cultura e della società in cui è prodotta.

Abbiamo anche elaborato uno strumento critico che, partendo dalla debita distinzione tra filologia e critica letteraria, si articola in tre stadi dell’arco ermeneutico, come proposto nel saggio Filologia, critica e antropologia letteraria («Atelier» n. 5, marzo 1997). Il primo richiede la spiegazione di un testo, di un quadro, di una scultura, di un film, di ogni prodotto dell’arte secondo prospettive filologiche, formali, linguistiche, strutturali attinenti all’oggetto in esame. Nel nostro caso si impone subito un’aporia: i testi esaminati costituiscono il patrimonio significativo dell’attuale produzione poetica? È evidente che non sia umanamente possibile venire a conoscenza e leggere la totalità delle pubblicazioni in versi. Ma non è neppure essere necessario, per il fatto che il lavoro della critica è illimitato e soggetto a continue revisioni nello sviluppo degli studi.

Il secondo stadio consiste nella ipotesi di un Idealtipus interpretativo weberiano: le opere vengono analizzate in rapporto alla situazione contemporanea, perché l’individuo-autore vive nel flusso del divenire storico-culturale, con il quale intesse un rapporto dialettico di reciproco condizionamento e perciò di reciproca spiegazione. Un’opera presenta validità nella misura in cui diviene interprete del divenire della società umana, nella misura in cui presenta precisi elementi che caratterizzano un’epoca, i quali ci permettono di comprendere mediante essi il passato, il presente e talvolta preannunciare il futuro. E, per rintracciarli, occorre uscire dal testo per verificarne la loro presenza in altri ambiti, negli altri settori artistici, nello sviluppo della speculazione filosofica soprattutto, nella storia del pensiero scientifico, sociologico, psicologico, in ogni modello, insomma, in cui si è manifestata la cultura, intesa in senso antropologico. Quindi lo studio delle caratteristiche culturali di una determinata epoca va inserita nel più vasto disegno di evoluzione del pensiero e della civiltà umana. In questa fase ci scontriamo con una seconda aporia: siamo certi che il nostro bagaglio culturale sia completo al punto da garantire una simile operazione? Neppure qui si possono esprimere valutazioni certe e documentate.

Il terzo stadio consiste nell’operare un vero e proprio experimentum crucis e cioè si ritorna sui testi alla ricerca di puntuali e precise corrispondenze. Se l’operazione produce risultati positivi, si è chiuso l’arco significativo e l’ipotesi è dotata di senso. E la grandezza di un autore va rintracciata nella capacità di presentare nella singolarità della propria opera il travaglio di un’intera epoca.

Questo sistema garantisce una vera e propria oggettività di giudizio? Non solo non la garantisce, ma neppure la richiede. L’oggettività non è un requisito umano: ogni azione comporta una scelta preventiva, come avviene anche in ogni inquadratura fotografica.

Secondo Gadamer infatti, l’interpretazione emerge dall’incontro di una realtà esterna, quella dell’opera, con l’interprete all’interno di un preciso momento storico, nella cosiddetta “fusione di orizzonti”, che permette di dotare si senso e di inquadrare in un sistema organico gli elementi dedotti da una simile operazione.

Dal momento che ci si trova all’inizio di un “orizzonte” a causa del soggetto contemporaneo, dando inizio alla cosiddetta Wirkungsgeschichte o “storia degli effetti”, si richiedono due requisiti fondamentali: umiltà e dialogo. L’umiltà deriva dalla consapevolezza che ogni ipotesi, ogni conquista è limitata e momentanea, come testimonia la storia della critica anche sui grandi scrittori. Il dialogo comporta la ricerca di altre posizioni, sorte su presupposti epistemologici differenti, cui confrontarsi, riinterrogarsi, rivedere e ampliare le proprie posizioni. E in questo ci troviamo perfettamente in linea con la tradizione della nostra rivista.

L’inquadramento teorico sulla situazione culturale contemporanea ci ha permesso di affrontare la storia della poesia dal Decadentismo ai nostri giorni (cfr. i cinque tomi La poesia del Novecento: dalla fuga alla ricerca della realtà), aprendo le porte alla valutazione della nostra epoca. Come abbiamo chiarito nell’editoriale del n. 92 di «Atelier», non ci siamo limitati alla valutazione stilistica, ma abbiamo cercato di esprimere giudizi in linea con la nostra posizione estetica: una parola “chiara e forte” in grado di “rivelare” il periodo in cui stiamo vivendo. E, secondo questa linea, abbiamo tracciato orizzonti interpretativi di diversi poeti contemporanei.

A questo punto, vorremmo verificare all’interno di un gruppo di tesi abbastanza recenti se esistono tratti comuni (parlo di “tratti” per non precludere alcun elemento possibile) nella recente produzione e di porta in paragone con quella della seconda metà del secolo scorso.

La rivista, come più volte abbiamo dichiarato, su precisi obiettivi: riproporre una poesia “a misura d’uomo”, una poesia cioè che ne riflettesse la componente individuale e collettiva con tutti i suoi problemi, le sue ansie e la sua grandezza; trovare un metodo critico in antitesi allo Strutturalismo, incapace di formulare giudizi valutativi.

Sul fronte poetico alla luce di questa posizione concettuale non abbiamo temuto di ribaltare giudizi consolidati su autori di successo e non abbiamo temuto di proporre i giovani e scrittori appartati, senza alcun timore reverenziale.

A questo punto si impone un chiarimento successivo: in che modo un testo poetico possiede – a nostro parere, s’intende – quella profondità che lo rende capace di lanciare un fascio di comprensione sull’epoca in cui è vissuto l’autore?

Non si possono indicare soluzioni universali e necessarie, perché ogni scrittore e ogni età ne ha elaborate in modo originale, anche se la tradizione perpetua forme e generi letterari. Il poema epico però oggi difficilmente sarebbe letto, come non era in uso nel Medio Evo scrivere romanzi in prosa. Durante il Romanticismo imperava la poesia lirica e la poesia civile, pensiamo ai nostri due grandi interpreti: Giacomo Leopardi e Alessandro Manzoni. Oggi, per esempio, è molto difficile scrivere poesia civile senza cadere nella retorica.

Ogni epoca, pertanto, ogni autore – e poi ogni critico – si interroga sul modo di scrivere poesia nel periodo in cui vive.

Ripetiamo fino alla nausea che, fatti salvo il concetto di un fondamento “umano”, ogni precettistica e ogni manifesto risulta sterile, anche se può orientare e suscitare confronti e dibattito. Innanzi tutto ci rifiutiamo di porre come criterio e modalità il concetto di “gusto”, per il fatto che impedisce ogni confronto, non è sottoposto a giustificazione e a motivazione e fatalmente si lega alla soggettività assoluta.

La ricognizione sulla poesia del Novecento e l’esame dei testi contemporanei si è basata su una stupenda intuizione di George Steiner, secondo il quale alla fine dell’Ottocento, in piena età decadente, si sarebbe consumata la più grande rivoluzione della storia umana: il distacco della parola dalla realtà. Di conseguenza la poesia, invece di “dire” il mondo, “direbbe” solo se stessa, come è avvenuto da una parte nei movimenti delle Avanguardie e dall’altra nell’Ermetismo, quando il poeta, invece di calarsi nel “magma” della vita, si rifugiava nel platonico mondo delle idee. E secondo questo Idealtypus abbiamo letto la produzione del secolo scorso: dalla fuga alla ricerca della realtà. Chi ha compiuto la gigantesca opera di superare il baratro del distacco è stato Mario Luzi («Vola alta parola / tocca nadir e zenit della tua significazione»), mediante un lavoro solitario durato parecchi decenni e affrontato non, come è stato tentato da molti altri, sulla forma, ma sulla sostanza (substantia) del problema ricercandone in profondità le aporie epistemologiche. E purtroppo il suo magistero oggi, a quindici anni dalla sua scomparsa, giace infruttuoso perché non conosciuto e non apprezzato.

La parola poetica, quindi, la parola “chiara e forte – come spesso l’abbiamo definita – è chiamata a “dire” il mondo, l’individuo, la società, a gettare fasi di luce anche in modo problematico, irrisolto, limitato. Se accettiamo l’immagine heideggeriana che il poeta tiene in mano la lucerna per guidare l’umanità, più difficile è accettare che il linguaggio sia la “casa” dell’essere. A nostro parere, è l’essere o, meglio, l’esistente la “casa” del linguaggio. Pertanto la poesia non andrà ricercata all’interno del linguaggio, ma all’interno della vita.

Vita, dunque, e realtà in tutte le sue manifestazioni.

Ne deriva un concetto di poesia “realista”, il cui significato va attentamente chiarito per non suscitare equivoci o fraintendimenti.

Non intendiamo certo una descrizione minimalista dell’accadere o la riproduzione pura e semplice di un paesaggio o la mimesi di un colloquio. La poesia, e l’arte in generale, come più volte abbiamo sostenuto, coglie l’esistenza in tutte le sue componenti, anzi mai come oggi si presenta come strumento necessario per una conoscenza che superi il limite della scienza e delle discipline puramente intellettuali. La realtà non è circoscrivibile unicamente alla sua dimensione “quantitativa” secondo la fisica galileiana, ma presenta un aspetto irriducibile allo strumento matematico, che è l’aspetto “qualitativo” che non può essere misurato e comprende la relazione che l’essere umano opera con il mondo, con i propri simili e con se stesso e che si realizza nel vivere i propri sogni, la sofferenza, la gioia, la solidarietà, l’amore, gli orizzonti di senso… Riguarda in sintesi la totalità dell’esistenza quale giunge alla coscienza.

Quindi il concetto di “realismo” coinvolge l’intera dimensione del percepire, del vivere e del progettare. Da ciò si deduce che la grande poesia è quella che riesce a cogliere nel reale la sua totalità, quella che nell’essere individuale riesce a scoprire il senso dell’intera nostra stirpe e che nell’oggetto sa cogliere l’universo.

Ma perché pria del tempo a sé il mortale

invidierà l’illusïon che spento

pur lo sofferma al limitar di Dite?

(Ugo Foscolo, Dei Sepolcri, vv. 23-25)

Il “ma” di questo passo rappresenta la più autentica e completa ribellione dell’uomo contro il meccanismo illuminista, incapace di trovare un senso all’esistenza umana. Foscolo, dopo aver dichiarata che con la morte l’individuo scompare completamente e che non esiste alcuna sopravvivenza, sente contro ogni convinzione logica che l’uomo ha bisogno di “illudersi”, di “ingannarsi” per continuare a vivere e per realizzare quegli ideali, amore, patria, bellezza, poesia, di cui l’animo umano non può fare a meno.

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai

Silenziosa luna?

Versi di una “banalità” sconvolgente se riflettiamo che quotidianamente usiamo identico modo di interrogare quando non comprendiamo la posizione di una persona. Eppure proprio in questa “banalità” sta uno dei passi più profondi che l’umanità abbia prodotto dopo la distruzione della sintesi classico-cristiana. Il pastore-Leopardi non può fare a meno di ricercare il senso dell’universo.

Questi versi non possono forse essere indicati come emblema di una poesia “realista”.

Se Wittgenstein dichiara che «il senso del mondo è fuori di esso», Montale rappresenta la vana ricerca umana come un «seguitare una muraglia / che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia».

Non mancano esempi significativi nella produzione di Mario Luzi. Un solo esempio: «Lui sa e non sa», concetto riferito al mondo animale e al fiume. Qui viene il poeta presenta la concezione “panpsichista” universale, in analogia con il successivo pensiero di Philip Goff, secondo il quale «la coscienza pervade l’universo ed è una sua caratteristica fondamentale» in opposizione al pensiero totalizzante della scienza.

Questa è la grande poesia che traduce una percezione, un pensiero, una sensazione, una concezione (pensiamo a Dante) in gesti, azioni, rappresentazioni, domande…

Il sonetto Languore di Paul Verlaine testimonia l’atmosfera che avrebbe gravato sulla civiltà decadente di fine Ottocento e inizio Novecento.

Eliot testimonia la fine della Modernità in una frase tratta dal linguaggio quotidiano: «SVELTI PER FAVORE SI CHIUDE».

Del resto, ne è testimonianza l’etimologia stessa del vocabolo “parola”, che deriva dal latino ecclesiastico parabola per evidente allusione alla predicazione evangelica. Il termine, a sua volta, deriva dal greco parabolø, la quale si rifà al verbo parabßllw, il cui significato primo è quello di “gettare di fianco”, di “porre vicino” e proprio in relazione a questo prende forma il significato di “confrontare” e di “paragonare” (come i racconti del Cristo). La “parola” poetica autentica, quindi, sa diventare segno di un significato che le è vicino, che è “oltre”, non “altro”, che, senza cadere nella metafora o nell’allegoria, racchiude e testimonia una totalità espressiva.

“Realismo” significa che la poesia è, in primo luogo, una “cosa”. Come chiaramente sostiene Maurizio Cucchi nell’articolo Oltre Banksy e Cattelan… cercando il meglio («Avvenire», 7 gennaio 2020), in consonanza con la posizione di «Atelier», «L’arte non è un’idea, è essenzialmente un manufatto, che richiede, in quanto tale, un’attitudine specifica e un paziente lavoro di bottega, nella forte presenza di passione e di studio».

Questa concezione di “realismo” non va assimilata all’allegoria medioevale, secondo la quale aliud dicitur aliud demonstratur, cioè si dice una cosa per dirne un’altra, ma idem dicitur et demonstratur, la stessa cosa viene detta e viene dimostrata. Ugualmente non va confusa con il correlativo oggettivo, perché è indifferente la presenza dell’io lirico. Il valore della rappresentazione, pertanto, come l’essere umano nella concezione personalista, dice se stesso (elemento individuale) e dice il generale (elemento comune). Evidentemente occorre trovare la soluzione capace di unire le due realtà contraddittorie come se la rappresentazione riuscisse e spalancare orizzonti di significato in grado di farci capire il momento storico e l’essere umano.

Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris.

Nescio, sed fieri sentio et excrucior.

(Odio e amo. Non chiedermi perché mi trovo in questa condizione.

Proprio non lo so, ma è così e ne sono straziato».

At regina dolos (quis fallere possit amantem?)

praesensit, motusque excepit prima futuros

omnia tuta timens.

(Ma la regina – chi potrebbe ingannare una persona innamorata? –

percepì in anticipo gli inganni e immediatamente comprese quanto sarebbe accaduto

perché gli innamorati temono anche l’evidenza).

Versi sublimi di due poeti dell’antica Roma, Catullo e Virgilio, che dipingono l’animo di tutti gli innamorati traditi di ogni tempo e di ogni luogo.

La poesia “realista” è rappresentazione concreta, non solo pensiero, ma pensiero, sentimenti, attese, orizzonti, speranze, dubbi, conquiste, ma anche tutto questo. Non per nulla parlo di arte “olocrematica”, arte che impegna la totalità dell’essere umano e non solo l’intenzione (arte concettuale) e non solo filosofia ecc.

Facile? Difficilissimo, difficilissimo… e proprio qui entra in gioco il talento, maturato, come dice Cucchi, su un duro lavoro, un lungo esercizio, uno studio “matto e disperatissimo” e una ricerca inesausta. Non basta sapere come dovrebbe essere la grande poesia, magari la si può apprezzare e valutare, ma, quando si passa alla fase del poieén, ogni prescrizione suona come un vero e proprio limite.

In conclusione, mi preme chiarire che una simile posizione, che assolutamente non viene proposta né come unica né come universale e necessaria, trova un fondamento e una giustificazione precisa, motivata e supportata epistemologicamente. Non si tratta di un vezzo, di un gusto, di una moda, ma di una prospettiva, già presente del resto in diversi testi contemporanei, che può aiutare a risollevare le sorti della poesia e a ridonarle il compito di “nutrimento di umanità” che ha compiuto in quasi tremila anni di storia.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “Sacro vuoto”, poesia di Tiziana Colusso

Sacro vuoto, pharmakos, ultima

salute, refrigerio delle chiese

spoglie, dei templi zen bianchi e neri

come fotografie dell’anima.


Il sacro sovraccarico di ori

e d’azzurro delle chiese barocche

chiude l’anima sazia d’indulgenze

in molli, mortifere prigioni.


Per i tristi canarini da miniera

il sacro è ctonio, l’anima cieca

nell’antro oscuro cerca il punctum

nel quale il dolore s’illumina.


I templi dei viaggiatori, stanze

da preghiera multiconfessionali

sono soste dell’anima spersa

tra stazioni, aeroporti, frontiere.


Ma il succo del pensiero, aspro

e volatile, evapora presto

dai luoghi deputati del sacro

e dalle liturgie codificate.


È soltanto nell’acqua che oramai

riesco a pregare, confondendo

le lacrime con le gocce salate — 

vuoto non vuoto, fluidissima luce.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “La fatica di nascere”, poesia di Giovanna Fileccia

     Nuda di parole
           bussa alla porta
                dove è notte l’andare

Incede tra i rovi
che il giorno
carezza con le sue ore
e vaga sulla pelle
di tramonti
dal profumo di lune

Brancola tra monti di
versi nuovi
e scivola
a cercare stanze lontane

            E infine prorompe
        dove
    l’orizzonte
falcia


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro

N.E. 02/2024 – “Versi”, poesia di Lucia Cristina Lania

Nel Creato si vedono

albe tramonti pioggia sole

Tutto è nel divenire

c’è chi trae ispirazione

nel rivolgergli lo sguardo.

Nella mente tra cuore e anima

svirgolano le parole

divengono versi

forgiati sulle pagine

dove scorre l’inchiostro

si dipana il sentire… dentro

nella spiritualità che trasfonde

Lei la Musa della Poesia.

Verso dopo verso il poeta

tra immagine e realtà

scopre ancora un Mondo.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro

N.E. 02/2024 – “Una preghiera al vento”, poesia di Michela Zanarella

Dura il tempo di un silenzio

una preghiera al vento

a riconoscere lo spirito delle cose

la salvezza è perdonare

il male del mondo

poi c’è la vita condivisa

tra gli agguati del buio

e quello che i bambini ancora sanno fare

stupirsi del volo degli aerei

come un segno sacro

credere che esista un profondo in ogni anima

anche dove la luce diserta.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “Solidarietà (Venezuela)”, poesia di Grazia Finocchiaro

Fuggirò da sconsolate stelle che a guardare

meste stanno terra di pane e acqua spoglia.


Disseminerò con grosse torce luce di amicizia

dove ammutolita l’umanità dentro proprie ossa resta.


Salperò l’oceano con ingente nave, colma di abbracci

e sorrisi, sulle spalle farò carico d’amore

da bere porgeròcon le mani, braccia porteranno mattoni.


All’apparenza di un bimbo, il cuore verrà morso

di sofferenza, staranno i miei occhi in trepidazione

che all’istante si potesse spezzare la sua magrezza.


Un vagone colmerò di cemento finché le case

non siano di fango e legno e di lamiere non sia il tetto.


Una cesta di viveri ad una gravida vorrò portare

perché sia partorito un figlio ben nutrito.


Se il petrolio canta abbondanza, che domani

possano i pozzi elargire quantità d’acqua immensa

che i disidratati dissetarsi potranno.


Seme speciale vorrò seminare così che i campi

diverranno ricchezza di grano, per un popolo intero

sfamare.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “Cedere”, poesia di Antonio Spagnuolo

Fuori centro il mio cervello

incapace di schermire il testimone

che insegue dimensioni del caos.

Ho cancellato i sinonimi del tempo

al di là del gioco che rigurgita nebbie,

fuori da ogni canone di ottave,                           

fuori dai soffici roveti.

Spesso i coltelli hanno fauci brune

spersi a verificare scampoli di lacrime,

perché dovrò cedere ogni mio sapere,

ogni conquista affastellata al dubbio.

Sbrigliando il vacuo destino fra libelli

lasciati ancora immacolati,                                           

vedrò cosa propone l’ultima finale,

quale ansia dell’attesa che rispecchia

memorie del trascorso solo mio.

Avvinghiato alle incognite del sogno

posso svelarti il frastuono del respiro

che è lo scrigno di percezioni indiscrete,

di sillabe a sgambetto fra le stelle.                               


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro

N.E. 02/2024 – “Sono andata al mio funerale”, poesia di Sandra Manca

Sono andata al mio funerale

sul cieco viale dei cipressi,

sono stata il silenzioso vento

nella cruna di una marcia che non sento.

Nessuno poteva prendermi per mano:

ero il tempo che non si può fermare

ero la luce che non si può guardare.

Non c’era cassa col mio corpo dentro

né vessillo inalberato;

soltanto un nome, pronunciato

sulla fossa prima di essere scordato.

Al mio funerale, nuda, sono andata

senza arringa, ne breviario

e un’attitidu[1] insolente ho intonato.

Del rumore della morte neanche l’eco

riusciva a imprigionarne la paura…

lei, muta, sulle pupille di una figlia desolata,

il mio sorriso presagiva nella mietitura.


[1] In sardo: lamento funebre, pianto rituale consistente in lunghi lamenti cantati dalle attitadoras (le prefiche).


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “Ut pictura poësis. La forma dello Spirito nell’opera di quattro celebri artisti-poeti”, saggio di Wanda Pattacini

Immagino lo Spirito come un soffio vitale che da lontano sfiora le chiome degli alberi spogli, senza foglie, sullo sfondo di un cielo indaco, quando la Natura è immobile e non c’è ragione fisica che giustifichi il vento. L’artista, ad occhi chiusi, attende l’ispirazione. Non indaga più le ragioni del suo sentire così profondo e oscuro, né del suo vedere al di là dell’apparenza effimera e fugace. Ormai sa: è solo uno strumento attraverso cui l’Essere sussurra o urla, rivelandosi. Ha risposto a quella chiamata da veggente, votandosi ad una esistenza spesso fuor di regola. Talvolta ha invidiato l’inconsapevolezza dell’uomo comune, ma non ha mai rinunciato al proprio dono, rimanendo fedele a se stesso e affinando le proprie doti espressive per tradurre in parole, colori, forme o note i quesiti insondabili dell’Esistenza.

Talora la chiamata dello Spirito è talmente forte che un’Arte non basta per dargli espressione. Un rapporto privilegiato è il binomio poesia-arti figurative. Già nella letteratura antica la relazione parola-immagine è frequente nell’uso della figura retorica dell’ekphrasis in grado di eternare in prosa o in poesia la magnificenza di manufatti artistici ideati dall’uomo. Si pensi allo scudo bronzeo di Achille descritto in un celebre passaggio dell’Iliade omerica o alla preziosa veste ricamata offerta come premio di una gara di corsa nella Tebaide di Stazio.

In questa sede, però, non indagheremo il potere del metodo ecfrastico in grado di trasformare le parole in pennello. Al contrario, passeremo in rassegna l’attività di quattro grandi personalità di artisti-poeti che hanno lasciato un segno indelebile e ineguagliabile usando diversi e molteplici mezzi espressivi, sempre allo scopo di dara forma visibile all’Invisibile.

Michelangelo Buonarroti

Secondo lo storico dell’arte cinquecentesco Giorgio Vasari l’artista che fra i morti e i vivi porta la palma e trascende e ricuopre tutti è il divino Michelangelo Buonarroti (1475-1564), ovvero colui che raggiunse l’eccellenza nelle tre arti maggiori – pittura, scultura e architettura – superando persino gli antichi. Sono capolavori universalmente noti il David marmoreo, la Pietà del Vaticano, gli Ignudi in torsione e le Sibille visionarie della volta della Cappella Sistina, la Cupola di San Pietro, metafora della volta celeste. Meno conosciuta al grande pubblico, invece, è l’attività di Michelangelo come poeta. Per comprendere l’importanza che la pratica letteraria rivestiva per lo scultore toscano basta citare le sue parole al momento dell’invio all’amico Vasari di due liriche di intonazione spirituale: “Messer Giorgio, io vi mando due sonecti; e benchè sien cosa scioca, il fo perchè veggiate dov’io tengo i miei pensieri”. Una cosa scioca dunque, eppure depositaria dell’inquietudine e della passione che ha animato i capolavori del Buonarroti, che ricomponeva, correggeva e riformulava i propri scritti poetici sempre in cerca dell’immagine più adeguata e della parola più adatta per esprimere verbalmente un concetto o uno stato d’animo. Le sue Rime, quindi, non sono un puro esercizio accessorio, ma il frutto di una vocazione autentica che completa e arricchisce la sua attività di artista.

Si pensi, a tal proposito, alla dibattuta questione del non finito michelangiolesco. Si tratta di un procedimento tecnico-artistico adottato sistematicamente dallo scultore che contrappone parti scolpite, finite e levigate a parti lasciate allo stato di abbozzo. Variamente interpretata come il “non portato a termine” o il “non pagato”, la spiegazione più suggestiva di questa pratica si rintraccia nella filosofia neoplatonica di cui l’artista era imbevuto sin dai tempi della frequentazione della cerchia di Lorenzo il Magnifico. Secondo quest’ottica, allora, gli incompleti Prigioni ideati per la Tomba di papa Giulio II sarebbero perfetti così, eternando il conflitto tra lo Spirito, levigato e netto riflesso della perfezione divina, e il Corpo, che intrappola l’Anima nelle spire della materia solo sbozzata e inerte, impedendole di raggiungere il suo Creatore. A supporto di questa teoria interviene il celebre sonetto “Non ha l’ottimo artista alcun concetto”, che esplicita l’idea michelangiolesca secondo cui la statua è già presente nel blocco di marmo e il compito dell’ottimo artista è semplicemente liberarla dal suo superchio, ovvero l’eccesso di materia, lasciando che la propria mano sia guidata dall’intelletto. Per Michelangelo, quindi, la scultura per via di levare è l’unica forma di scultura concepibile, come attestato dal madrigale “Sì come per levar, donna, si pone”. In questo componimento l’effetto della donna sull’amante è liberatorio e nobilitante perché in grado di liberare dalla sua carne (cruda e dura scorza) l’anima (l’alma che pur trema) dell’artista privo di volontà e di forza. Alla stessa maniera la viva figura della statua è liberata dalla pietra alpestra e dura grazie alla mano dello scultore.

Una interessante analogia si riscontra tra lo stile poetico e lo stile artistico del divino Michelangelo: in poesia è insofferente ai vincoli delle forme metriche obbligate, prendendo ispirazione dal modello dantesco e dalla regola petrarchesca, rinnovandoli, però, con uno stile più personale e riflessivo; nelle arti figurative e in architettura egli fissa in principio i canoni ideali della perfezione rinascimentale, per poi scardinarli dall’interno, configurandosi, quindi, come il primo manierista nella Storia dell’arte.

Artista visionario e poliedrico l’inglese William Blake (1757-1827) si distingue come incisore, poeta e pittore protoromantico. I limiti della realtà sensibile sono stretti per lui che indaga i temi della Bibbia con grandi stampe a colori e il mondo spirituale della Commedia dantesca con miniature. Come letterato – o dovremmo meglio dire veggente – ha ideato mondi immaginari divisi tra le opposte forze del Bene e del Male. I due stati contrari dell’anima umana trovano espressione nei Canti dell’Innocenza e dell’Esperienza.

William Blake

Il confronto tra The Lamb e The Tyger è da manuale: le due poesie, che ad una prima lettura superficiale evocano due veri animali con le loro caratteristiche, condividono in realtà un significato più profondo, ovvero il problema della Creazione e dell’identità del Creatore (Little Lamb, who made thee?Tyger! […]What immortal hand or eye/could frame thy fearful symmetry?). L’agnello, allora, rappresenta la perfetta innocenza dell’infanzia e la tigre il male che proviene dall’esperienza. Ma l’innocenza è anche uno stato dell’anima che può essere presente in un adulto (si pensi al pronome I riferito al poeta stesso) e gli occhi ardenti (burning) della tigre bruciano di rabbia e violenza, ma sono anche luminosi (bright), trasformando l’animale in qualcosa di splendente, forse la luce dello Spirito che sottomette l’errore e l’ignoranza delle tenebre della notte (forests of the night). Lo stile poetico di Blake è essenziale, nudo e musicale: con un ritmo incalzante denso di simboli ed allegorie è in grado di tradurre in parole visioni mistiche e immaginifiche.

Una battaglia cosmica tra il Bene e il Male frutto di una spiritualità anticonformista si concretizza anche in campo pittorico, in particolare nelle opere del ciclo di acquerelli de Il Grande Drago ispirato ad alcuni passaggi dell’Apocalisse biblica. La speranza luminosa di una Donna incinta vestita di Sole – metafora della Chiesa o della Vergine Maria – si oppone alle cupe tenebre del Male incarnato in un enorme drago a sette teste e dieci corna, che cede i suoi poteri infernali ad una Bestia venuta dal mare. La forza mistica delle immagini apocalittiche è resa da Blake attraverso un segno grafico semplificato ed essenziale: una linea quasi fumettistica definisce figure surreali che dominano fondali evanescenti, privi di indicazioni di profondità, ad alludere ad una dimensione altra, parallela ed alternativa a quella umana.

Edvard Munch

L’indagine dello Spirito e di intensi stati emotivi è il principale oggetto di interesse dell’artista norvegese Edvard Munch (1863-1944). E la Natura è il suo mezzo di espressione. Così scriveva il pittore sul suo taccuino nel 1908: “la Natura non è soltanto ciò che è visibile all’occhio – sono anche le immagini interiori dell’anima – sul lato posteriore dell’occhio”. I dipinti dell’artista postimpressionista, infatti, esplorano i sentimenti più profondi e inquietanti della psiche umana e le forme naturali ancora riconoscibili in essi sono solo un pretesto simbolico per alludere agli abissi segreti dell’anima tormentata di Munch che, per primo, è riuscito a dare una voce universale alla propria angoscia personale, tracciando la strada della rivoluzione artistica del Novecento.

Questo importante e sofferto percorso pittorico è affiancato da una copiosa e variegata produzione scritta carica di lirismo, con cui il pittore indaga il significato dell’arte, racconta gli ambienti e i personaggi della propria vita, completa e chiarisce il significato dei propri dipinti, spesso considerati oscuri. Egli sperimenta molteplici generi – prose liriche, schizzi letterari, lettere di viaggio, articoli di giornale, pagine di diario – per i quali pensava alla pubblicazione, come si deduce dal testamento con cui lasciava le bozze dei propri lavori al Comune di Oslo. Il doppio trattamento di alcuni motivi in maniera sia artistica sia letteraria è indicativa del suo modus operandi. Le molteplici e celebri versioni de L’Urlo si accompagnano, infatti, ad altrettanti testi che chiariscono il significato e potenziano la forza espressiva di un quadro divenuto icona del mal di vivere. Queste le parole scritte da Munch nel 1892:

Camminavo lungo

la strada con due

amici – poi calò

il sole

Il Cielo

si fece

all’improvviso rosso sangue

Mi arrestai, appoggiandomi

contro la balaustra mortalmente

stanco – il fiordo nero-blu

e la città

erano lambiti da lingue di sangue

I miei amici proseguirono

e io rimasi immobile

tremante

d’angoscia –

e udii riecheggiare

attraverso

la natura

un immenso infinito

grido.

La recente traduzione in lingua italiana di una selezione di scritti di Munch consente di apprezzare a pieno il parallelismo artistico e letterario dell’artista norvegese, rendendo note composizioni ancora sconosciute al grande pubblico. Ne emerge anche un interessante confronto tra uno stile di scrittura rapido e spontaneo che, trascurando ortografia e punteggiatura, esprime i moti dell’animo nella loro cruda immediatezza, e uno stile pittorico nudo ed essenziale, basato su semplificazioni deformanti e colori arbitrari, riflesso dei colori dell’Anima.

Paul Klee

Posto sulla soglia chiaroscurata tra il Visibile e l’Invisibile, l’artista svizzero Paul Klee (1879-1940) osserva l’incontro tra il mondo esterno e il mondo interiore, intuendo il Mistero che si nasconde dietro l’esperienza più sensibile e quotidiana, senza mai riuscire ad afferrarlo, ma suggerendone le tracce attraverso molteplici arti. Musicista, poeta e pittore egli ricerca costantemente la forma d’arte a lui più congeniale per tradurre in un codice decifrabile la chiamata mistica dello Spirito. Se è con la pittura che ha cambiato il corso della Storia dell’arte, ispirando generazioni di artisti, si cimenta con successo anche nell’arte della parola. I suoi Diari, ricchi di aforismi, poesie e annotazioni, sono costruiti, infatti, come un sapiente oggetto letterario. Sia nella pagina dipinta sia nella pagina scritta la sua cifra stilistica risiede nella inafferrabilità e nella mutevolezza che apre infinite possibilità alla sua forza creatrice, impedendogli di assumere una forma fissa ed una regola troppo rigorosa che insterilisca il suo daimon. Nel 1901 Klee scrive:

Non chiederti cosa sono.

Non sono nulla

non so nulla.

Conosco solo la mia felicità.

Ma non chiedermi se me la merito.

Lasciatemi solo dire

che è ricca e fonda.

In una celebre poesia del 1920 – riportata anche sulla sua lapide – afferma:

Qui sono inafferrabile

abito bene con i morti

come con i non nati. Sono

vicino alla creazione. Eppure

non abbastanza.

Così come le sue parole sono magiche ed evocative, aperte a molteplici e suggestive interpretazioni, il suo stile pittorico è ricco e variegato e, pur rifuggendo da classificazioni ed etichette, la sua è una pittura di luce, fatta di segni impalpabili e leggeri e toni liquidi che trascolorano. Egli è in grado di decifrare la lingua dello Spirito, che incanta chi è pronto ad ascoltarla. Nel dipinto Strada principale e strade secondarie, ad esempio, tasselli acquerellati di colori azzurri e aranciati si compongono in una trama definita da linee sottili e pur dense di lirismo, quasi fossero venature del marmo o del legno: la via principale è tracciata, ma la Vita percorre vie traverse e inaspettate.

Se dopo questa breve disamina dell’opera di queste quattro geniali personalità vi starete chiedendo quale sia la forma espressiva più adatta ad eternare lo Spirito, la mia risposta è il motto oraziano ut pictura poësis: Poesia ed Arte sono sorelle, figlie del Vento dell’Ispirazione che muove la mano di artisti e poeti, o, forse, gemelle se si segue il pensiero del poeta lirico greco Simonide secondo cui la pittura è poesia silenziosa, la poesia è pittura che parla.


Bibliografia

Blake William, Canti dell’Innocenza e dell’Esperienza che mostrano i due contrari stati dell’anima umana, a cura di Roberto Rossi Testa, Milano, Feltrinelli Editore, 2009

Botta Gregorio, Paul Klee. Genio e regolatezza, Bari-Roma, Laterza, 2022

Buonarroti Michelangelo, Rime, a cura di Paolo Zaja, Milano, Rizzoli Bur, 2010

Klee Paul, Poesie, a cura di Giorgio Manacorda, Milano, Ugo Guanda Editore, 1978

Munch Edvard, La danza della vita. La mia arte raccontata da me, Roma, Donzelli Editore, 2022

Plutarco, La gloria di Atene, a cura di Italo Gallo e Maria Mocci, Napoli, D’Auria, 2003

Vasari Giorgio, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue, insino ai tempi nostri. Nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino, a cura di Luciano Bellosi e Aldo Rossi, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1986


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

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