N.E. 02/2024 – “Tempo di realtà”. Un saggio sulla poesia a cura di Giuliano Ladolfi

Fin dal 1996, l’anno di fondazione della rivista «Atelier», non ci stanchiamo di riflettere sulla situazione della poesia contemporanea. Abbiamo letto, scritto, studiato, organizzato incontri, conferenze, dibattiti, con moltissimi per cercare di capire i motivi per cui questa arte oggi, come mai è avvenuto in passato, stia toccando il minimo della credibilità nell’opinione comune della nostra nazione.

L’analisi, a nostro parere, è stata attenta, estesa, documentata e argomentata, a questo punto si richiedono elementi di soluzione. Non abbiamo mancato anche in questo ambito e gli editoriali, gli interventi, gli scritti di natura estetica e poetica sono stati offerti al pubblico anche sul nostro sito. Abbiamo proposto un nuovo metodo critico.

Eppure leggere, riflettere, rielaborare, analizzare, sintetizzare, correggere, rivedere, recuperare, tagliare… lavorare sulla poesia contemporanea presenta tali e tanti trabocchetti che spesso si teme di essere sopraffatti dalle difficoltà.

Nessuno, infatti, può presumere di riuscire a inquadrare un fenomeno così complesso, nonostante la lunga militanza in rivista e la passione che risale agli anni infantili. Eppure mai come in questo periodo, durante il quale il mondo poetico è minato dalla crisi della critica e dallo strapotere dei mass media, si impone la responsabilità di approfondimenti pratici supportati da una ricerca teorica, secondo la tradizione della nostra rivista.

Non si tratta della ricerca di un “canone” di orienti il lettore, non si tratta di stilare una classifica di maggiori e di minori, non si tratta di predisporre una vetrina, in cui accostare un autore all’altro, oggi più che mai si richiede un’opera di interpretazione di questo presente, “liquido” e inafferrabile, che ci consente di prospettare un barlume di conoscenza non soltanto sul mondo della scrittura in versi, ma attraverso di esso sulla realtà in cui viviamo, posto che si accetti il presupposto che la grande arte “riveli” i tratti del pensiero, della cultura e della società in cui è prodotta.

Abbiamo anche elaborato uno strumento critico che, partendo dalla debita distinzione tra filologia e critica letteraria, si articola in tre stadi dell’arco ermeneutico, come proposto nel saggio Filologia, critica e antropologia letteraria («Atelier» n. 5, marzo 1997). Il primo richiede la spiegazione di un testo, di un quadro, di una scultura, di un film, di ogni prodotto dell’arte secondo prospettive filologiche, formali, linguistiche, strutturali attinenti all’oggetto in esame. Nel nostro caso si impone subito un’aporia: i testi esaminati costituiscono il patrimonio significativo dell’attuale produzione poetica? È evidente che non sia umanamente possibile venire a conoscenza e leggere la totalità delle pubblicazioni in versi. Ma non è neppure essere necessario, per il fatto che il lavoro della critica è illimitato e soggetto a continue revisioni nello sviluppo degli studi.

Il secondo stadio consiste nella ipotesi di un Idealtipus interpretativo weberiano: le opere vengono analizzate in rapporto alla situazione contemporanea, perché l’individuo-autore vive nel flusso del divenire storico-culturale, con il quale intesse un rapporto dialettico di reciproco condizionamento e perciò di reciproca spiegazione. Un’opera presenta validità nella misura in cui diviene interprete del divenire della società umana, nella misura in cui presenta precisi elementi che caratterizzano un’epoca, i quali ci permettono di comprendere mediante essi il passato, il presente e talvolta preannunciare il futuro. E, per rintracciarli, occorre uscire dal testo per verificarne la loro presenza in altri ambiti, negli altri settori artistici, nello sviluppo della speculazione filosofica soprattutto, nella storia del pensiero scientifico, sociologico, psicologico, in ogni modello, insomma, in cui si è manifestata la cultura, intesa in senso antropologico. Quindi lo studio delle caratteristiche culturali di una determinata epoca va inserita nel più vasto disegno di evoluzione del pensiero e della civiltà umana. In questa fase ci scontriamo con una seconda aporia: siamo certi che il nostro bagaglio culturale sia completo al punto da garantire una simile operazione? Neppure qui si possono esprimere valutazioni certe e documentate.

Il terzo stadio consiste nell’operare un vero e proprio experimentum crucis e cioè si ritorna sui testi alla ricerca di puntuali e precise corrispondenze. Se l’operazione produce risultati positivi, si è chiuso l’arco significativo e l’ipotesi è dotata di senso. E la grandezza di un autore va rintracciata nella capacità di presentare nella singolarità della propria opera il travaglio di un’intera epoca.

Questo sistema garantisce una vera e propria oggettività di giudizio? Non solo non la garantisce, ma neppure la richiede. L’oggettività non è un requisito umano: ogni azione comporta una scelta preventiva, come avviene anche in ogni inquadratura fotografica.

Secondo Gadamer infatti, l’interpretazione emerge dall’incontro di una realtà esterna, quella dell’opera, con l’interprete all’interno di un preciso momento storico, nella cosiddetta “fusione di orizzonti”, che permette di dotare si senso e di inquadrare in un sistema organico gli elementi dedotti da una simile operazione.

Dal momento che ci si trova all’inizio di un “orizzonte” a causa del soggetto contemporaneo, dando inizio alla cosiddetta Wirkungsgeschichte o “storia degli effetti”, si richiedono due requisiti fondamentali: umiltà e dialogo. L’umiltà deriva dalla consapevolezza che ogni ipotesi, ogni conquista è limitata e momentanea, come testimonia la storia della critica anche sui grandi scrittori. Il dialogo comporta la ricerca di altre posizioni, sorte su presupposti epistemologici differenti, cui confrontarsi, riinterrogarsi, rivedere e ampliare le proprie posizioni. E in questo ci troviamo perfettamente in linea con la tradizione della nostra rivista.

L’inquadramento teorico sulla situazione culturale contemporanea ci ha permesso di affrontare la storia della poesia dal Decadentismo ai nostri giorni (cfr. i cinque tomi La poesia del Novecento: dalla fuga alla ricerca della realtà), aprendo le porte alla valutazione della nostra epoca. Come abbiamo chiarito nell’editoriale del n. 92 di «Atelier», non ci siamo limitati alla valutazione stilistica, ma abbiamo cercato di esprimere giudizi in linea con la nostra posizione estetica: una parola “chiara e forte” in grado di “rivelare” il periodo in cui stiamo vivendo. E, secondo questa linea, abbiamo tracciato orizzonti interpretativi di diversi poeti contemporanei.

A questo punto, vorremmo verificare all’interno di un gruppo di tesi abbastanza recenti se esistono tratti comuni (parlo di “tratti” per non precludere alcun elemento possibile) nella recente produzione e di porta in paragone con quella della seconda metà del secolo scorso.

La rivista, come più volte abbiamo dichiarato, su precisi obiettivi: riproporre una poesia “a misura d’uomo”, una poesia cioè che ne riflettesse la componente individuale e collettiva con tutti i suoi problemi, le sue ansie e la sua grandezza; trovare un metodo critico in antitesi allo Strutturalismo, incapace di formulare giudizi valutativi.

Sul fronte poetico alla luce di questa posizione concettuale non abbiamo temuto di ribaltare giudizi consolidati su autori di successo e non abbiamo temuto di proporre i giovani e scrittori appartati, senza alcun timore reverenziale.

A questo punto si impone un chiarimento successivo: in che modo un testo poetico possiede – a nostro parere, s’intende – quella profondità che lo rende capace di lanciare un fascio di comprensione sull’epoca in cui è vissuto l’autore?

Non si possono indicare soluzioni universali e necessarie, perché ogni scrittore e ogni età ne ha elaborate in modo originale, anche se la tradizione perpetua forme e generi letterari. Il poema epico però oggi difficilmente sarebbe letto, come non era in uso nel Medio Evo scrivere romanzi in prosa. Durante il Romanticismo imperava la poesia lirica e la poesia civile, pensiamo ai nostri due grandi interpreti: Giacomo Leopardi e Alessandro Manzoni. Oggi, per esempio, è molto difficile scrivere poesia civile senza cadere nella retorica.

Ogni epoca, pertanto, ogni autore – e poi ogni critico – si interroga sul modo di scrivere poesia nel periodo in cui vive.

Ripetiamo fino alla nausea che, fatti salvo il concetto di un fondamento “umano”, ogni precettistica e ogni manifesto risulta sterile, anche se può orientare e suscitare confronti e dibattito. Innanzi tutto ci rifiutiamo di porre come criterio e modalità il concetto di “gusto”, per il fatto che impedisce ogni confronto, non è sottoposto a giustificazione e a motivazione e fatalmente si lega alla soggettività assoluta.

La ricognizione sulla poesia del Novecento e l’esame dei testi contemporanei si è basata su una stupenda intuizione di George Steiner, secondo il quale alla fine dell’Ottocento, in piena età decadente, si sarebbe consumata la più grande rivoluzione della storia umana: il distacco della parola dalla realtà. Di conseguenza la poesia, invece di “dire” il mondo, “direbbe” solo se stessa, come è avvenuto da una parte nei movimenti delle Avanguardie e dall’altra nell’Ermetismo, quando il poeta, invece di calarsi nel “magma” della vita, si rifugiava nel platonico mondo delle idee. E secondo questo Idealtypus abbiamo letto la produzione del secolo scorso: dalla fuga alla ricerca della realtà. Chi ha compiuto la gigantesca opera di superare il baratro del distacco è stato Mario Luzi («Vola alta parola / tocca nadir e zenit della tua significazione»), mediante un lavoro solitario durato parecchi decenni e affrontato non, come è stato tentato da molti altri, sulla forma, ma sulla sostanza (substantia) del problema ricercandone in profondità le aporie epistemologiche. E purtroppo il suo magistero oggi, a quindici anni dalla sua scomparsa, giace infruttuoso perché non conosciuto e non apprezzato.

La parola poetica, quindi, la parola “chiara e forte – come spesso l’abbiamo definita – è chiamata a “dire” il mondo, l’individuo, la società, a gettare fasi di luce anche in modo problematico, irrisolto, limitato. Se accettiamo l’immagine heideggeriana che il poeta tiene in mano la lucerna per guidare l’umanità, più difficile è accettare che il linguaggio sia la “casa” dell’essere. A nostro parere, è l’essere o, meglio, l’esistente la “casa” del linguaggio. Pertanto la poesia non andrà ricercata all’interno del linguaggio, ma all’interno della vita.

Vita, dunque, e realtà in tutte le sue manifestazioni.

Ne deriva un concetto di poesia “realista”, il cui significato va attentamente chiarito per non suscitare equivoci o fraintendimenti.

Non intendiamo certo una descrizione minimalista dell’accadere o la riproduzione pura e semplice di un paesaggio o la mimesi di un colloquio. La poesia, e l’arte in generale, come più volte abbiamo sostenuto, coglie l’esistenza in tutte le sue componenti, anzi mai come oggi si presenta come strumento necessario per una conoscenza che superi il limite della scienza e delle discipline puramente intellettuali. La realtà non è circoscrivibile unicamente alla sua dimensione “quantitativa” secondo la fisica galileiana, ma presenta un aspetto irriducibile allo strumento matematico, che è l’aspetto “qualitativo” che non può essere misurato e comprende la relazione che l’essere umano opera con il mondo, con i propri simili e con se stesso e che si realizza nel vivere i propri sogni, la sofferenza, la gioia, la solidarietà, l’amore, gli orizzonti di senso… Riguarda in sintesi la totalità dell’esistenza quale giunge alla coscienza.

Quindi il concetto di “realismo” coinvolge l’intera dimensione del percepire, del vivere e del progettare. Da ciò si deduce che la grande poesia è quella che riesce a cogliere nel reale la sua totalità, quella che nell’essere individuale riesce a scoprire il senso dell’intera nostra stirpe e che nell’oggetto sa cogliere l’universo.

Ma perché pria del tempo a sé il mortale

invidierà l’illusïon che spento

pur lo sofferma al limitar di Dite?

(Ugo Foscolo, Dei Sepolcri, vv. 23-25)

Il “ma” di questo passo rappresenta la più autentica e completa ribellione dell’uomo contro il meccanismo illuminista, incapace di trovare un senso all’esistenza umana. Foscolo, dopo aver dichiarata che con la morte l’individuo scompare completamente e che non esiste alcuna sopravvivenza, sente contro ogni convinzione logica che l’uomo ha bisogno di “illudersi”, di “ingannarsi” per continuare a vivere e per realizzare quegli ideali, amore, patria, bellezza, poesia, di cui l’animo umano non può fare a meno.

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai

Silenziosa luna?

Versi di una “banalità” sconvolgente se riflettiamo che quotidianamente usiamo identico modo di interrogare quando non comprendiamo la posizione di una persona. Eppure proprio in questa “banalità” sta uno dei passi più profondi che l’umanità abbia prodotto dopo la distruzione della sintesi classico-cristiana. Il pastore-Leopardi non può fare a meno di ricercare il senso dell’universo.

Questi versi non possono forse essere indicati come emblema di una poesia “realista”.

Se Wittgenstein dichiara che «il senso del mondo è fuori di esso», Montale rappresenta la vana ricerca umana come un «seguitare una muraglia / che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia».

Non mancano esempi significativi nella produzione di Mario Luzi. Un solo esempio: «Lui sa e non sa», concetto riferito al mondo animale e al fiume. Qui viene il poeta presenta la concezione “panpsichista” universale, in analogia con il successivo pensiero di Philip Goff, secondo il quale «la coscienza pervade l’universo ed è una sua caratteristica fondamentale» in opposizione al pensiero totalizzante della scienza.

Questa è la grande poesia che traduce una percezione, un pensiero, una sensazione, una concezione (pensiamo a Dante) in gesti, azioni, rappresentazioni, domande…

Il sonetto Languore di Paul Verlaine testimonia l’atmosfera che avrebbe gravato sulla civiltà decadente di fine Ottocento e inizio Novecento.

Eliot testimonia la fine della Modernità in una frase tratta dal linguaggio quotidiano: «SVELTI PER FAVORE SI CHIUDE».

Del resto, ne è testimonianza l’etimologia stessa del vocabolo “parola”, che deriva dal latino ecclesiastico parabola per evidente allusione alla predicazione evangelica. Il termine, a sua volta, deriva dal greco parabolø, la quale si rifà al verbo parabßllw, il cui significato primo è quello di “gettare di fianco”, di “porre vicino” e proprio in relazione a questo prende forma il significato di “confrontare” e di “paragonare” (come i racconti del Cristo). La “parola” poetica autentica, quindi, sa diventare segno di un significato che le è vicino, che è “oltre”, non “altro”, che, senza cadere nella metafora o nell’allegoria, racchiude e testimonia una totalità espressiva.

“Realismo” significa che la poesia è, in primo luogo, una “cosa”. Come chiaramente sostiene Maurizio Cucchi nell’articolo Oltre Banksy e Cattelan… cercando il meglio («Avvenire», 7 gennaio 2020), in consonanza con la posizione di «Atelier», «L’arte non è un’idea, è essenzialmente un manufatto, che richiede, in quanto tale, un’attitudine specifica e un paziente lavoro di bottega, nella forte presenza di passione e di studio».

Questa concezione di “realismo” non va assimilata all’allegoria medioevale, secondo la quale aliud dicitur aliud demonstratur, cioè si dice una cosa per dirne un’altra, ma idem dicitur et demonstratur, la stessa cosa viene detta e viene dimostrata. Ugualmente non va confusa con il correlativo oggettivo, perché è indifferente la presenza dell’io lirico. Il valore della rappresentazione, pertanto, come l’essere umano nella concezione personalista, dice se stesso (elemento individuale) e dice il generale (elemento comune). Evidentemente occorre trovare la soluzione capace di unire le due realtà contraddittorie come se la rappresentazione riuscisse e spalancare orizzonti di significato in grado di farci capire il momento storico e l’essere umano.

Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris.

Nescio, sed fieri sentio et excrucior.

(Odio e amo. Non chiedermi perché mi trovo in questa condizione.

Proprio non lo so, ma è così e ne sono straziato».

At regina dolos (quis fallere possit amantem?)

praesensit, motusque excepit prima futuros

omnia tuta timens.

(Ma la regina – chi potrebbe ingannare una persona innamorata? –

percepì in anticipo gli inganni e immediatamente comprese quanto sarebbe accaduto

perché gli innamorati temono anche l’evidenza).

Versi sublimi di due poeti dell’antica Roma, Catullo e Virgilio, che dipingono l’animo di tutti gli innamorati traditi di ogni tempo e di ogni luogo.

La poesia “realista” è rappresentazione concreta, non solo pensiero, ma pensiero, sentimenti, attese, orizzonti, speranze, dubbi, conquiste, ma anche tutto questo. Non per nulla parlo di arte “olocrematica”, arte che impegna la totalità dell’essere umano e non solo l’intenzione (arte concettuale) e non solo filosofia ecc.

Facile? Difficilissimo, difficilissimo… e proprio qui entra in gioco il talento, maturato, come dice Cucchi, su un duro lavoro, un lungo esercizio, uno studio “matto e disperatissimo” e una ricerca inesausta. Non basta sapere come dovrebbe essere la grande poesia, magari la si può apprezzare e valutare, ma, quando si passa alla fase del poieén, ogni prescrizione suona come un vero e proprio limite.

In conclusione, mi preme chiarire che una simile posizione, che assolutamente non viene proposta né come unica né come universale e necessaria, trova un fondamento e una giustificazione precisa, motivata e supportata epistemologicamente. Non si tratta di un vezzo, di un gusto, di una moda, ma di una prospettiva, già presente del resto in diversi testi contemporanei, che può aiutare a risollevare le sorti della poesia e a ridonarle il compito di “nutrimento di umanità” che ha compiuto in quasi tremila anni di storia.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

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