N.E. 01/2023 – “La concezione di arte nell’Età Globalizzata”. Saggio di Giuliano Ladolfi

Ripercorrendo la nostra tradizione mi sembra che a tre si possano ridurre le definizioni di arte: l’arte concepita come un fare, come un conoscere, come un esprimere. Senza dubbio tali posizioni vanno poste in relazione per il fatto che l’esclusione di una sola di esse condurrebbe inevitabilmente al fallimento. Una conoscenza senza espressione e senza produzione è vana; una produzione senza conoscenza è vuota; un’espressione senza conoscenza sarebbe amorfa. Si tratta, dunque, di cogliere la relazione in senso gerarchico o paritetico. Nell’antichità prevalse la tûcnh: il poeta trae il suo nome dal verbo poiûw (faccio) all’interno — è bene rilevarlo — di una distinzione tra arti liberali e arti servili. Il Romanticismo decretò il prevalere dell’espressione mediante l’identificazione dell’arte con sentimento. Il Decadentismo, soprattutto nella prima fase, sancì il trionfò di un’arte quale conoscenza. Il “novecento”1 propose una quarta concezione, non del tutto nuova del resto, e cioè quella di un’arte fine a se stessa, che culminò nel gioco, nella bizzarria, nel divorzio tra significante e significato, autoreferenziale ed autosufficiente, posizione che non va inclusa nella categoria del “fare”, perché affrancata da ogni metodologia strumentale.

Quale potrebbe, dunque, essere la funzione, il compito o, semplicemente, la posizione dell’arte nell’età “globalizzata”?

In primo luogo, occorre ribadire la sua autonomia e non più sotto il profilo teorico, quanto piuttosto dal lato etico,

non solo nel senso che il riferimento ad un determinato pubblico o ai suoi rappresentanti porta fuori strada, ma addirittura nel senso che il concetto di fruitore “ideale” è dannoso per ogni dibattito sulla teoria dell’arte, che è tenuto a presupporre semplicemente l’essenza e l’esistenza dell’uomo in generale2.

E oggi il fruitore altro non è che il mercato. La cultura è assoggettata alle sue direttive e si basa sulla soddisfazione del cliente, sull’incremento di bisogni fittizi, sugli spot, sui i cartelloni, sulla spettacolarizzazione di alcuni fenomeni mediatici. L’arte, infatti, è negata non solo quando diventa raziocinio o puro gioco tecnico, è negata anche quando si prostituisce a ogni tipo di potere sia politico sia economico sia ideologico sia mediatico, quando viene utilizzata come mezzo e non come fine.

Il primo passo, pertanto, consiste nel restituirle l’intrinseca dignità e questo si attua nel momento in cui l’artista produce un’opera nella quale, esprimendo la propria originale concezione dell’esistenza, sintetizza la Weltanschauung del momento storico-culturale in cui si trova a vivere. Del resto, l’uomo possiede in sé due caratteristiche contraddittorie: l’universalità e l’individualità, cioè egli appartiene a una medesima specie umana e nello stesso tempo è unico ed irripetibile. E proprio nell’opera d’arte si realizza nel modo più completo e più perfetto il suo modo originale di vivere l’identica natura umana.

Senza dubbio questo paradigma rivaluta la portata conoscitiva dell’arte, che permette di uscire dal circolo vizioso di un’estetica relativista autogiustificatrice e di aprire la strada ad una produzione che “rivela” una situazione o storica o epocale o intellettuale o, soprattutto, esistenziale. Per raggiungere tale scopo, l’estetica deve agganciarsi a un pensiero capace di superare l’agnosia relativista:

Com’è caduto il vecchio pregiudizio che bastasse «versificare» un sistema filosofico per tradurre il pensiero in poesia, così deve cadere l’idea che la filosofia distrugge l’arte se non è risolta in immagine o in azione, ch’è un pregiudizio altrettanto insulso quanto il primo. La filosofia può esser presente come tale in un’opera letteraria, e contribuire con questa sua esplicita presenza al valore artistico di essa. Naturalmente c’è poi una presenza implicita, non meno efficace e profonda, ed è quella per cui nell’opera tutto, anche la menoma inflessione stilistica, è significante, e rivela la spiritualità dell’autore, e quindi anche il suo modo di pensare, la sua Weltanschauung, la sua filosofia3.

Luigi Pareyson, pertanto, non solo indica come esigenza intrinseca dell’arte il supporto di un pensiero capace di rivelare un nuovo modo di concepire il reale, ma anche in grado di attingere alla “verità”. E la verità, quella con la “v” minuscola, non è una definizione, non implica un’affermazione; oggi la verità è un progetto di lavoro, di ricerca, di dialogo. Nessuno può indicare allo scrittore la via per lavorare, perché verità non è affatto sinonimo di cronaca, di descrizione, di relazione, di reportage. L’arte esige che la contemporaneità sia percorsa, sondata, sia presentata, interpretata, rappresentata in tutte le sue dimensioni, nelle sue contraddizioni, nelle sue espressioni.

La verità, ad ogni modo, richiede doti creative, si trova al fondo del crivello del ricercatore che ha setacciato quintali di sabbia e alla fine individua il luccichio della pepita. La parola, la scena, la forma, quando agganciano il mondo, imprigionano lo sconvolgente divenire e la multiformità dell’accadere per mezzo di strumenti che ogni momento della civiltà si forgia e che l’artista stesso contribuisce a forgiare, accogliendo il lavoro precedente e consegnandolo ai posteri.

Ma il nostro non è più tempo di gloria, non è più tempo di memoria. Oggi è il kair’$ del fare, dell’operare, del pro-gettare. Il mondo è cambiato, la letteratura è cambiata. Non basta, però, una mano di bianco sul muro per gridare alla novità. Il romanzo, il teatro, il racconto, la lirica, tutti generi che nell’Ottocento e nel Novecento hanno mutato aspetto, ora sono sottoposti a un’azione devastante: non sono più in grado di ripercorrere il perimetro di fenomeni complessi come la multiculturalità, come la globalizzazione, come la necessità di una governance mondiale capace di imbrigliare i poteri dell’economia e della finanza.

E che si ricominci a parlare di verità lo testimoniano diversi orientamenti contemporanei, tra i quali quello del “realismo interno” americano, il quale intende opporsi sia al tradizionale realismo metafisico, che postula l’esistenza di una realtà esterna conosciuta dalla mente umana, proprio dell’aristotelismo e del Positivismo, sia al relativismo gnoseologicamente scettico. Secondo Hilary Putnam, in accordo con il senso comune.

Quindi la mente umana può giungere a un primo e fondamentale risultato: esiste un mondo con il quale ci correliamo in modo diverso a seconda del contesto storico e della prospettiva scientifica assunta. Anzi, secondo Francesco Tomatis interprete del personalismo cristiano, l’essere umano nel suo rapporto con il mondo si presenta non come modello ontologico, ma come strumento “irrelativo” e ciò permette sia di non ricadere nelle metafisiche classiche o moderne sia di non limitarsi alla frammentarietà postmoderna delle singole posizioni finite. Il rapporto con una realtà è condizione ineludibile per ogni essere umano sotto ogni profilo, genetico, biologico, psichico, linguistico, sociale, economico, esistenziale e, pertanto, anche gnoseologico e, come tale, anche artistico.

Alla luce di tale prospettiva, approfondiamo il problema della portata conoscitiva dell’arte.

Oggi non è più il tempo di creare arte solo con il fine di rappresentare la bellezza e di procurare un piacere estetico, oggi ci si deve proporre il fine di produrre un tipo di conoscenza “olocrematica” (÷loj «che forma un tutto intero» e cr≈ma «cosa che si usa, utensile»), onnistrumentale (non “onnicomprensiva” ossia che deve comprendere tutto) nel senso che adopera la totalità degli strumenti gnoseologici umani. Di conseguenza, è la conoscenza (la scoperta di una nuova apertura sul reale) che produce il piacere estetico, non il piacere estetico che produce la conoscenza. Nulla vieta di considerare l’armonia artistica come strumento di intelligibilità del complesso, del molteplice e del caotico, sempre restando nell’ambito di un’impostazione gnoseologica. Ho parlato di arte “olocrematica” perché nei suoi risultati più convincenti è presente il segno dell’intero essere umano, del suo trovarsi nel presente, del suo essere storia, individuo, cultura e civiltà, della sua attitudine a progettare il futuro e soprattutto della sua necessità di interrogarsi sui quesiti esistenziali, della relazione con se stesso, con gli altri e con il mondo. Questa forma suprema di conoscenza si invera non per mezzo di concetti, ma in un “oggetto” che può essere il marmo, la parola, il colore, il suono, la fotografia, la ripresa cinematografica ecc. La filosofia, come la scienza, servendosi della razionalità, “de-finisce” la realtà, le dà forma, la pone in ordine, la cataloga, la anatomizza, la viviseziona; l’arte, invece, è conoscenza di realtà in-formale, in-definita, non caotica però, molteplice, complessa, multiforme, contraddittoria, in divenire.

L’artista, pertanto, non è un filosofo, che organizza il suo pensiero secondo i princìpi di non contraddizione, di coerenza e di consequenzialità e neppure produce in modo in-effabile quasi fosse ispirato da una divinità, come pensavano gli antichi. Il processo di conoscenza artistica presenta tali e tante interconnessioni che è veramente arduo solo pensare di descrivere precise procedure, perché è il risultato della partecipazione dell’intero essere umano in tutte le sue componenti: fisiche (il poieén), mentali, percettive, emotive, sentimentali, consce, inconsce, progettuali, memoriali, individuali, relazionali e collettive (l’uomo è storia), per cui ogni de-finizione esclude parti consistenti di questo processo.

Ogni conoscenza è arte? L’arte rappresenta una, la più qualificante, modalità di conoscenza e la validità di un’opera sarà proporzionale all’ampiezza e alla profondità della sua portata conoscitiva. L’arte del “novecento”, immersa nella crisi di un pensiero che, scisso il significante dal significato, non poteva comunicare se non la negazione di ogni possibilità gnoseologica, si è prevalentemente concentrata su se stessa a descrivere gli strumenti (parola, segno, colore, forma, suono ecc.) fino alla propria negazione. Ma può essere considerata arte la negazione di se stessa? Può essere considerato cibo la negazione di ogni elemento commestibile?

Alla luce di tale aporia va affrontato anche il problema del rapporto tra stile e contenuto.  Lo stile è il dasein, l’“esserci” dell’opera, della cosa, di una scultura, di un libro, di un quadro, di una sinfonia. Non confondiamo, però, il progetto con l’attuazione, perché esiste sempre uno scarto tra intenti e risultati. «Lo scultore pensa in marmo», sostiene Oscar Wilde. E la diversità di risultati non consiste nell’armonia, nella precisione, nella bellezza o nell’ingegno, ma nella resa, nell’effetto, nella potenza di una rappresentazione che nel veicolo stilistico riesce a fissare per mezzo della Weltanschauung individuale quella di un’epoca.

Ma l’arte non è solo conoscenza. Se, come afferma giustamente Dewey, l’arte è sempre più che arte, con Pareyson concludiamo che l’arte è sempre più che conoscenza:

Per la molteplicità degli atti e intenti e scopi dell’uomo, essa è sempre insieme professione di pensiero, atto di fede, aspirazione politica, atto pratico, offerta di utilità sia spirituale che materiale. Nel far arte, l’artista non solo non rinuncia alla propria concezione del mondo, alle proprie convinzioni morali, ai propri intenti utilitari, ma anzi li introduce, implicitamente o esplicitamente, nella propria opera, nella quale essi vengono assunti senza essere negati, e, se l’opera è riuscita, la loro stessa presenza si converte in contributo attivo e intenzionale al suo valore artistico, e la stessa valutazione dell’opera esige che se ne tenga conto. Anzi, l’arte non riesce ad essere tale senza la confluenza di altri valori in essa, senza il loro contributo e il loro sostegno, sì che da essa s’emani una molteplicità di significati spirituali e s’annunzi una varietà di funzioni umane. La realizzazione del valore artistico non è possibile se non attraverso un atto umano, che vi condensa quella pienezza di significati con cui l’opera agisce nel mondo e suscita risonanze nei più diversi campi e nelle più varie attività, e per cui l’interesse destato dall’arte non è soltanto una questione di gusto, ma un appagamento completo delle più diverse esigenze umane4.

Il filosofo, quindi, affida agli artisti non solo di dire “come” è il mondo nel modo più completo, autentico e umano possibile, ma anche di “pro-gettare” il mondo, perché l’arte è arte non malgrado la filosofia, la teologia, la sociologia, la morale, la retorica, la scienza, la linguistica, la tradizione, i generi letterari, la storia, la biologia, la fisica, l’astronomia ecc., ma perché le diverse discipline proprio nella loro “sostanzialità” particolare sono dal genio “trans-formate” in arte. Come la “datità” umana non può essere scomposta nelle sue componenti (fisiche, chimiche, storiche, psichiche, sociali, culturali ecc.), così l’arte fa convergere in sé l’intera vita, l’intera realtà dell’artista, soggetto unico ed irripetibile e contemporaneamente uguale all’intera specie umana.

All’arte, quindi, si spalanca una fondamentale dimensione morale: «Siamo tutti fatti di ciò che ci donano gli altri: in primo luogo i nostri genitori e poi quelli che ci stanno accanto; la letteratura apre all’infinito questa possibilità di interazione con gli altri e ci arricchisce, perciò, infinitamente» (Tzvetan Todorov), che si traduce in questo momento storico in un gigantesco compito, quello di procedere ad un’opera di “re-incanto” dei valori culturali a cominciare dalla restituzione del senso del reale:

L’animo postmoderno sembra condannare ogni cosa e non proporre nulla. La demolizione è l’unica occupazione per la quale l’animo postmoderno sembra adatto. La distruzione è l’unica costruzione che esso riconosce. La demolizione di costrizioni coercitive e di resistenze mentali è per esso il fine ultime e lo scopo dello sforzo d’emancipazione; verità e bontà, afferma Rorty, si prenderanno cura di se stesse non appena ci saremo presa la dovuta cura della libertà5.

Esaurito il kair’$ destruens, il poeta si inserisce nel kair’$ construens:

Mentre [l’animo postmoderno] rifiuta semplicemente ciò che passa per verità, smantellandone le presunte, solidificate versioni passate, presenti e future, esso scopre la verità nella sua forma originaria che le pretese moderne avevano mutilato e distorto al di là della pubblica ammissione. Anche di più: la demolizione scopre la verità della verità, la verità in quanto risedente in se stessa e non negli atti violenti commessi su di essa; la verità che è stata mascherata sotto il dominio della ragione legislativa. La verità, quella reale, è già lì, prima che abbia avuto inizio la sua laboriosa costruzione; essa ripostula proprio nel terreno su cui si sono erette le artificiose invenzioni: apparentemente per mostrarla, in effetti per nasconderla e soffocarla6.

Note

1 Nella categoria “novecento” si intende includere i fenomeni culturali denominati anche “Secondo Decadentismo”, i quali traggono origine dal divorzio tra significante e significato.

2 Walter Benjamin, Charles Baudelaire, Tableaux parisiens, Frankfurt, Suhrkamp 1991, vol. IV-1, p. 9.

3 Luigi Pareyson, I problemi attuali dell’estetica, in Momenti e problemi di Storia dell’Estetica, Milano, Marzorati 1987, vol. IV, pp.1833-1834-1835.

4 Ibidem, p. 1832.

5 Zygmunt Bauman, Il re-incantamento del mondo (Re-Enchantement), o come si può raccontare la postmodernità, in Zigmunt Bauman, Globalizzazione e glocalizzazione, Roma, Armando 2005, p. 219.

6 Ibidem.

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Questo testo viene pubblicato su questo dominio (www.blogletteratura.com) all’interno della sezione dedicata relativa alla rivista “Nuova Euterpe” a seguito della selezione della Redazione, con l’autorizzazione dell’Autore/Autrice, proprietario/a e senza nulla avere a pretendere da quest’ultimo/a all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ vietato riprodurre il presente testo in formato integrale o di stralci su qualsiasi tipo di supporto senza l’autorizzazione da parte dell’Autore. La citazione è consentita e, quale riferimento bibliografico, oltre a riportare nome e cognome dell’Autore/Autrice, titolo integrale del brano, si dovrà far seguire il riferimento «Nuova Euterpe» n°01/2023, unitamente al link dove l’opera si trova.

Stile Euterpe volume 6 dedicato alla poetessa lombarda Antonia Pozzi. Come partecipare alla selezione di testi

Stile Euterpe – Antologia tematica per una nuova cultura è il progetto di Euterpe APS di Jesi (AN), su ideazione dello scrittore calabrese Martino Ciano (con successive modifiche e integrazioni), volto a rileggere, riscoprire e approfondire, mediante opere di produzione propria (racconti, poesie, haiku, articoli, saggi e critiche letterarie), un intellettuale ritenuto di prim’ordine del panorama culturale italiano.

I precedenti volumi sono stati dedicati rispettivamente a:

Leonardo Sciascia (Leonardo Sciascia, cronista di scomode realtà, a cura di Martino Ciano, PoetiKanten Edizioni, Sesto Fiorentino, 2015);

Aldo Palazzeschi (Aldo Palazzeschi, il crepuscolare, l’avanguardista, l’ironico, a cura di Martino Ciano, Lorenzo Spurio, Luigi Pio Carmina, PoetiKanten Edizioni, Sesto Fiorentino, 2016);

Elsa Morante (Elsa Morante, rivoluzionaria narratrice del non tempo, a cura di Valentina Meloni, pubblicato online sul n°22 della rivista «Euterpe» nel febbraio 2017);

Gianni Rodari (Il “libbro” di Gianni Rodari, a cura di Francesco Martillotto, Ass. Euterpe, Jesi, 2019);

Oriana Fallaci (Oriana Fallaci, la donna, a cura di Lucia Bonanni, Ass. Euterpe, Jesi, 2021).

Il progetto

Il nuovo volume monografico sarà interamente dedicato alla poetessa lombarda Antonia Pozzi (1912-1938). Sarà possibile partecipare con testi inediti appartenenti a tutti i generi (poesia, haiku, racconto breve, prosa, saggio letterario, articolo, recensione, saggio, etc.) che abbiano attinenza (siano dedicati o ispirati) alla figura di Antonia Pozzi, sia come donna, che come poetessa, che come intellettuale.

In particolare si apprezzeranno tutte quelle opere che risultino rilevanti e significative in merito alla studio e approfondimento attorno agli aspetti importanti della vita (il legame con Pasturo, la Grigna e la Valsassina, gli interessi extra-letterari quali la fotografia, l’alpinismo e gli altri sport praticati etc.) e dell’opera della Pozzi (la sua opera poetica, l’epistolario, le influenze e le frequentazioni letterarie, i contatti con intellettuali, la poetica pozziana, il contesto storico-sociale del periodo, etc.).

Saranno escluse opere che presentino riferimenti, analisi e considerazioni, nonché producano come dissertazione elementi che possano configurarsi come estremistici in qualsiasi sfera e di possibile incitamento all’odio, di qualsiasi tipo e lesivi, pertanto, del pacifico senso di comunità.

Per OPERA INEDITA si intende non pubblicata, in precedenza, su un supporto cartaceo (libro o rivista) dotata di codice identificativo (rispettivamente ISBN e ISSN) in un’opera propria o di terzi, antologia o collettanea. Opere pubblicate su riviste esclusivamente digitali dotate di codice identificativo ISSN sono ugualmente da intendersi edite. Per tutti gli altri casi (blog, siti personali, fanzine, Social, etc.) l’opera si intende inedita.

L’obiettivo di questo progetto non è quello di plagiare o scovare la nuova Antonia Pozzi – proposito eventualmente impossibile e utopico – o di darne una lettura onnicomprensiva della sua complessa figura, bensì di rileggere i contenuti biografici e letterari che hanno contraddistinto il breve percorso umano della poetessa lombarda.

Antonia Pozzi

Selezione del materiale e composizione dell’antologia

Ciascun partecipante potrà inviare:

– un massimo di nr. 3 (TRE) poesie, ciascuna delle quali non dovrà superare i nr. 30 (TRENTA) versi senza conteggiare eventuali sottotitoli, dediche, note a piè di pagine né gli spazi bianchi;

– un massimo di nr. 3 (TRE) haiku con canonica struttura 5-7-5;

– un massimo di nr. 3 (TRE) aforismi, ciascuno di lunghezza non superiore alle 7 (SETTE) righe Times New Roman corpo 12;

– un massimo di nr. 2 (DUE) racconti o prose brevi, ciascuno dei quali non dovrà superare i nr. 5.000 (CINQUEMILA) caratteri spazi esclusi (con un margine di sforatura e accettazione del 15%);

– un massimo di nr. 2 (DUE) saggi brevi o articoli, ciascuno dei quali non dovrà superare i nr. 5.000 (CINQUEMILA) caratteri spazi esclusi (con un margine di sforatura e accettazione del 15%), senza conteggiare le note a piè di pagina e la bibliografia;

– un massimo di nr. 2 (DUE) recensioni sulle sue opere (comprese riedizioni, edizioni commentate, epistolari, biografie, altre opere dedicate alla sua vita e scrittura), ciascuna dei quali non dovrà superare i nr. 4.000 (QUATTROMILA) caratteri spazi esclusi;

Si ricorda che i lavori, all’atto dell’invio della propria partecipazione, dovranno essere rigorosamente inediti, secondo le indicazioni in precedenza espressamente indicate.

I materiali, rigorosamente in formato Word, dovranno essere corredati di un ulteriore file contenente la propria biografia letteraria scritta in terza persona di massimo 20 (VENTI) righe.

La mail dovrà contenere anche i dati personali dell’autore (nome, cognome, indirizzo fisico, indirizzo mail, data e luogo di nascita, numero di telefono) e il tutto dovrà pervenire entro il 30/03/2023 alla mail rivistaeuterpe@gmail.com indicando nell’oggetto “Stile Euterpe 6 – Antonia Pozzi”.

Il volume sarà organizzato e curato da Euterpe APS di Jesi. La curatela sarà a cura della poetessa e saggista Filomena Gagliardi.

Entreranno a far parte dell’antologia un congruo numero di testi poetici, narrativi e saggistici nonché recensioni, articoli e critiche letterarie alle sue opere opportunamente selezionate da un Comitato di lettura interno di Euterpe APS in sinergia con la curatrice Filomena Gagliardi.

La pubblicazione dell’antologia avverrà a tiratura limitata in un numero di copie pari a quelle richieste dagli autori, aumentate di quelle riservate alle donazioni a biblioteche civiche e universitarie, centri culturali e altro dove l’opera entrerà nei relativi circuiti OPAC e potrà essere presa in prestito e consultata, in vari luoghi del territorio nazionale.

La partecipazione alla selezione dei materiali è gratuita.

Tutte le opere selezionate – di cui Euterpe APS darà conto mediante un verbale di selezione che sarà diffuso sul sito ufficiale (www.associazioneeuterpe.com), pubblicato su Facebook e inoltrato in privato per mail a tutti i partecipanti – verranno pubblicati in antologia secondo i criteri sopra esposti.

L’autore selezionato per la pubblicazione s’impegnerà ad acquistare nr. 2 (DUE) copie dell’antologia al prezzo totale di 20,00€ (VENTI//EURO) comprensivo di spese di spedizione con piego di libri ordinario, dietro sottoscrizione di un modulo di liberatoria rilasciato a Euterpe APS e versamento della cifra a copertura delle spese di stampa e spedizione del volume.

Essendo il progetto volto alla costruzione di un’opera antologica monografica non vi sarà nessuna premiazione, ma si potranno organizzare – anche grazie all’aiuto, alla disponibilità e alla collaborazione degli autori inseriti – presentazioni dell’opera in contesti opportuni che possano ben accogliere il progetto.

INFO:

rivistaeuterpe@gmail.com

http://www.associazioneeuterpe.com

La rivista «Euterpe» celebra i primi dieci anni d’attività con un volume-archivio

Nell’occasione dei dieci anni di attività della rivista di poesia e critica letteraria «Euterpe» – fondata da Lorenzo Spurio nell’ottobre 2011 con la scelta del nome della poetessa palermitana Monica Fantaci, traendolo da una sua poesia – l’Associazione Euterpe, nata nel 2016 e che ha integrato all’interno delle sue varie attività anche la rivista, ha deciso di dare alle stampe un volume collettivo.

Il volume, in elegante veste grafica, si compone di 264 pagine e si articola in vari percorsi atti a presentare l’universo di questa rivista letteraria – esclusivamente aperiodica, digitale e gratuita – che è giunta a celebrare i primi dieci anni di presenza nello scenario culturale e che ha visto l’adesione di più di 600 autori, compresi dall’Estero.

Lo stesso Spurio, direttore della rivista, ha inteso curare questo volume che si apre con una preziosa nota critica del poeta partenopeo Antonio Spagnuolo, collaboratore instancabile della rivista con suoi contributi poetici e non solo che così annota nel suo egregio preambolo critico: «Riordinare con certosina pazienza e accorta catalogazione dieci anni di attività editoriale non credo sia lavoro da accettare con leggerezza e senza la dovuta attenzione che una tale revisione richiede. […] [Questo libro è] un vademecum di enorme spessore […] Un lavoro ineccepibile che aspira a una prospettiva ampia, capace di dare un senso alla realtà poetica e a portare luce al simbolo segmentato disincanto delle immagini, del non visibile, del non razionale, condividendo infine in processo creativo di centinaia di autori che con illuminata originalità hanno dato il via a un aperiodico preciso e unitario».

Nell’ampia introduzione di Spurio si tracciano le origini, vale a dire gli incontri fondativi che hanno permesso la costituzione della stessa, come è stata strutturata, gli avvicendamenti e le modifiche, le introduzioni e le novità che man mano, nel corso della sua attività, l’ha vista mutare per giungere sino a quello che è oggi.

In queste pagine si dà testimonianza anche di quella che è stata l’attività di promozione culturale mediante l’organizzazione di reading, presentazioni di libri, convegni e attività editoriale che gravitò attorno alla rivista «Euterpe» nei primi anni dalla sua attività.

Opportune sezioni del libro danno conto della strutturazione della redazione della rivista nel corso del tempo, della molteplicità di rubriche e settori che l’hanno riguardata sino a giungere, in termini più recenti e dopo un riammodernamento del progetto, a una rivista aperta solamente a contributi inediti afferenti ai generi della poesia (compresa quella dialettale e gli aforismi) e alla critica letteraria (con articoli, saggi e recensioni).

Vi è poi l’elencazione dei vari numeri della rivista che sono usciti, ripartiti per periodo di pubblicazione e tematica di riferimento proposta con l’indicazione, quale numero attualmente “in lavorazione” dell’uscita dedicata agli “Amori impossibili tra arte, storia, mito e letteratura”.

Seguono tutti gli editoriali che nel corso della pubblicazione dei trentadue numeri usciti sono stati diffusi (la gran parte a firma dello stesso Spurio, ma altri redatti da Monica Fantaci e Martino Ciano) e l’archivio storico con tutti i riferimenti delle opere pubblicate in base all’ordine alfabetico degli autori. Sulla rivista hanno scritto nomi di primo piano del panorama letterario nostrano tra cui Valerio Magrelli, Fabio Pusterla, Franco Buffoni, Elio Pecora, Lucio Zinna, Guido Zavanone, Dante Maffia, Corrado Calabrò, Paolo Ruffili, Maria Pia Quintavalla, Donatella Bisutti, Anna Santoliquido, solo per citarne alcuni.

A chiudere il volume è un commento riepilogativo del poeta e critico letterario Nazario Pardini – presenza assidua della rivista – che così annota: «Sarebbe veramente lungo ricordare tutte le manifestazioni, i nomi, e gli impegni della rivista. La sua storia. Possiamo comunque dire che con essa si copre, a livello storico, una bella fetta della vita nazionale, con tematiche di estrema attualità. Leggere «Euterpe» significa restare aggiornati, ricevere notizie calde e intricanti per noi che siamo affezionati a tutto ciò che concerne la poesia e la cultura».

Per info/contatti sul volume: rivistaeuterpe@gmail.com

Al via il 2° Congresso internazionale della EuroMed University: Pasolini e Galdós a confronto

Articolo di Lorenzo Spurio

Dopo il grande successo incassato l’anno scorso per il Congresso Annuale della EMUI_EuroMed University dedicato ai rapporti tra Pier Paolo Pasolini e Rafael Alberti, quest’anno il Presidente della detta istituzione culturale internazionale, il professore Román Reyes, ha recentemente dato a conoscere il tema e i contenuti dell’edizione congressuale di quest’anno.

Il titolo di questo Festival letterario sarà “Pasolini e la Realtà dei Diseredati” con l’indicazione esplicita, nel sottotitolo, di “Galdós, 100 anni dopo” – Le persone come materia prima e ultima del lavoro artistico. Così, partendo dalla figura controversa e pluritematica di Pier Paolo Pasolini, uno dei maggiori intellettuali del Secolo scorso del quale si sono recentemente celebrati i quarantacinque anni dalla sua tragica morte, si andrà ad analizzare rapporti, legami, confluenze, echi, possibili letture, parallele o comparative, tra l’intellettuale romano e un altro esponente letterario di primo piano, di origine spagnola, questa vola il romanziere e drammaturgo Benito Pérez Galdós (1843-1920). Lo scrittore canario, noto per l’opera Doña perfecta (1876) e per una fitta composizione di “Episodios nacionales”, è considerato, a ragione, assieme a Pío Baroja (1872-1956) e ad Azorín (1873-1967), uno dei fondatori del romanzo moderno spagnolo.

A causa delle limitazioni dettate dall’emergenza sanitaria in atto quest’anno l’intero congresso internazionale, al quale partecipano e collaborano importanti istituzioni culturali quali il Centro Studi e Ricerche “Pier Paolo Pasolini” di Casarsa della Delizia (PN) e il Dipartimento di Diritto della Universidad Complutense di Madrid, si terrà in forma virtuale, nella modalità “a distanza” nelle giornate 23-25 novembre. Come è possibile leggere dal sito ufficiale, infatti, “L’EMUI metterà a sua disposizione, o alla sua portata, tutti i mezzi affinché questa azione prioritaria si svolga in formato virtuale, fornendo al format le tecniche più adeguate affinché l’impatto raggiunga il livello da noi proposto”. A figurare nel comitato tecnico-scientifico di questo congresso sono il prof. Antonio Giménez-Merino (Università di Barcellona, Vicepresidente EMUI), Paloma Criado (Direttrice dell’Ufficio EMUI – Presidenza) e i consulenti istituzionali Enzo Lavagnini (Direttore CSRPPP) e Román Reyes (Direttore CSRPPP).

Come accaduto nel precedente congresso, esso si mostra ricchissimo di interventi e contenuti. In “Galdós, Pasolini e la realtà dei diseredati” nella giornata del 23 novembre vedrà gli interventi della cattedratica di Etica presso l’Università di Salamanca, la professoressa M. Teresa López de Vieja che parlerà di “Pandemia e mutazione antropologica. Pasolini: Scritti corsari e Lettere luterane”;  il prof. Román Reyes (Direttore EMUI) terrà un discorso su “Galdós – Pasolini: due sguardi, due viaggio. Viaje a Italia (1888) e La lunga strada di sabbia (1959)”; Roberto Chiesi, della Cineteca di Bologna, parlerà di “Pasolini e l’ultimo degli uomini: la maledizione di Accattone (1961)” mentre il prof. Antonio Giménez Merino dell’Università di Barcellona terrà un discorso dal titolo “Il punto di vista del diseredato come progetto letterario e morale”.

Il secondo giorno del congresso, il 24 novembre, vedrà gli interventi del giornalista e saggista Dario Pontuale dal titolo “Gadda e Pasolini: due non romani a confronto”; del critico letterario e poeta Lorenzo Spurio dal titolo Los condenados di Benito Pérez Galdós, dell’onore e del riscatto”; della scrittrice e giornalista Simona Zecchi con l’intervento “Pasolini: il movente che lo ha condotto alla morte” e a conclusione della giornata si terrà un reading poetico coordinato dalle poetesse Michela Zanarella ed Elisabetta Bagli.

Reading che proseguirà nella terza giornata, il 25 novembre, e al quale seguiranno gli interventi della prof.ssa Isabel Jimeno dell’Università degli Studi di Genova con il contributo “Galdós nell’opera e nella voce di María Zambrano” e della prof.ssa Carmen Márquez-Montes dell’Università di Las Palmas de Gran Canaria con il discorso critico su “Le donne della scena galdosiana: protagoniste e attrici”.

La chiusura della tre giorni di incontri dovrebbe (la notizia deve essere ancora confermata) spettare all’eminente cattedratico, nonché Direttore del Cervantes e docente dell’Università di Granada, il prof. Luis García Montero che interverrà su “La influencia de Galdós y Pasolini en la literatura social posterior”.

Per poter prendere visione del programma completo e di tutte le indicazioni che diano notizia o accesso alle dirette e interventi dei relatori, si rimanda al sito ufficiale: http://pierpaolopasolini.net/2020/index.html

“Arianna e il labirinto”, saggio di Cinzia Baldazzi

Saggio di Cinzia Baldazzi

 

Nel Libro XVIII dell’Iliade (vv. 590-604) leggiamo:

 

E lì una danza intrecciò lo zoppo famoso

simile a quella che un tempo nella vasta Cnosso

Dedalo aveva inventato per Arianna dalla bella

chioma. Qui giovani e fanciulle che valevano molti

buoi danzavano, tenendosi i polsi con le mani;

le une indossavano veli leggeri, gli altri chitoni

raffinati, che lucevano dolcemente d’olio.

Le ragazze portavano belle corone, i ragazzi

spade d’oro e cinture d’argento.

 

   Omero sta descrivendo una parte dello scudo di Achille: non l’originale andato smarrito nella lotta mortale di Patroclo con Ettore, ma quello nuovo forgiato da Efesto, fabbro divino, per il numero uno degli Achei rimasto, come dire, “disarmato”. Lo studioso Werner Jaeger, mettendo in rilievo la posizione dell’uomo nel κόσμος ritratta da Omero, precisa quanto proprio le immagini della corazza rispecchino «perfettamente questa universalità e completezza della visione omerica della vita e della virtù umana (’ἀρετή)».

   Nei versi appaiono, in cerchi concentrici, lavori dei campi e processi, città e campagna, vitigni, zone acquose, fino alla danza del Labirinto di Cnosso, costruito dall’architetto Dedalo per volontà di Minosse, sovrano di Creta, allo scopo di rinchiudervi il mostruoso Minotauro nato dall’unione della moglie Pasifae con un toro. Nell’istoriare lo scudo, Efesto si ispira a una coreografia simile a quella che il geniale Dedalo aveva ideato in omaggio alla bella Arianna, figlia del re cretese.

1 - Arianna labirinto

   Nella mitologia greca, il racconto di Arianna si snoda su tre storie principali: l’aiuto fornito al principe ateniese Teseo, di cui si innamora quando egli giunge a Creta, aiutandolo con il celebre gomitolo a uscire dal labirinto dopo aver ucciso il Minotauro; la successiva fuga con Teseo e l’abbandono sull’isola di Nasso; il provvidenziale arrivo di Dioniso e il loro matrimonio.

   Per certi versi atipico, il mito di Arianna occupa un posto di rilievo nella galleria delle figure “non divine” dell’antica Grecia. Scrive Giulia Gentile:

I simboli sono indispensabili alla psiche, tanto che, quando non vengono forniti dall’esterno, mediante il mito, si sviluppano autonomamente dentro di noi e si presentano a noi nel sogno. Senza il loro intervento infatti le nostre energie rimarrebbero confinate per sempre nel regno banale e anacronistico dell’infanzia.

   La mitologia intraprenderebbe, così, la battaglia faticosa alla ricerca di un senso da attribuire alla vita, offrendo prototipi, comportamenti o eventi naturali a cui si dà spiegazione. Prosegue la Gentile:

Nel mito del labirinto si fondono diversi fenomeni, credenze e personaggi che, a nostro parere, presentano stupefacenti analogie con altri miti, leggende e manifestazioni magico-rituali che possono essere messi a confronto fra loro e interpretati con il metodo junghiano dell’amplificazione, o psicologia morfologica comparativa, come appunto suggeriva Jung.

   Di qui l’utilità di distendere la vita nel tempo, quasi fosse un “filo”, una sorta di richiamo al filare di lino raccolto in un gomitolo donato da Arianna all’amato Teseo per eludere le insidie del labirinto dopo aver ridotto in pezzi con le mani il mostro mangia-uomini. Ed ecco Ariadne la Santissima, emblema di creazione-ricreazione, dèa dell’estasi alle radici dell’esistenza umana, nonché della crescita interiore sviluppata nelle tappe intermedie tra nascita e morte. Sempre secondo la Gentile,

Arianna è la Signora del Labirinto, dea della luna brillante che illumina l’oscuro, l’aldilà: è colei che conosce i misteriosi percorsi della vita, i meandri dello spirito, e presiede alle fasi di trasformazione della coscienza.

2 - Arianna, Teseo e gomitolo

   Numerose sono le versioni relative alla coppia, ma per tutte i primi passi vengono compiuti a Creta, dove Zeus agli inizi è costretto a vivere nascosto in grotte sacre per sfuggire al cannibalismo del genitore Crono, il quale, temendo di essere spodestato come il padre Urano, vuole eliminare i figli. Essendo anch’essi immortali, non può semplicemente ucciderli, quindi appena nati li ingoia. Sconfitto Crono, insediato nell’Olimpo, Zeus si innamora dell’affascinante principessa Europa, notata mentre sosta con le ancelle in riva al mare. Folle d’amore, il dio prende le sembianze di un toro bianco e pascola l’erba del prato, dove la fanciulla reale, scorgendolo, ammaliata gli monta in groppa: giunti a Creta, ripresa la propria fisionomia, si unisce a lei generando Radamante, Sarpedonte e Minosse. Quest’ultimo diviene re con fama di giusto, e come tale è ricordato da Dante nel Canto V dell’Inferno nel ruolo di giudice, al secondo cerchio:

 

Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:

essamina le colpe ne l’intrata;

giudica e manda secondo ch’avvinghia.

Dico che quando l’anima mal nata

li vien dinanzi, tutta si confessa;

e quel conoscitor de le peccata

vede qual loco d’inferno è da essa;

cignesi con la coda tante volte

quantunque gradi vuol che giù sia messa.

  Entrato in lotta con i fratelli per la successione, Minosse chiede aiuto a Poseidone, proponendo di far uscire un toro dal mare con la promessa di sacrificarlo subito dopo: riesce a salire al trono, ma l’animale è talmente bello da indurre il neo-sovrano a tenerlo per sé, immolando all’alleato un altro esemplare bianco. Naturalmente Poseidone lo scopre e si vendica sulla regina Pasifae, instillando in lei un’accesa passione per la magnifica bestia. La donna comanda quindi Dedalo di costruirle una mucca di legno, capace di attirare in inganno il toro, e vi si nasconde dentro: attratto ed eccitato dal simulacro ligneo, vi si avventa contro e dall’unione nasce Asterione, un mostro con il corpo umano e la testa taurina.

   L’autore della Divina Commedia conosceva bene il racconto mitico, concedendo un’allocazione precisa a ogni protagonista. Dopo Minosse giudice, nel XII Canto dell’Inferno è la volta del Minotauro, posto nel settimo cerchio a guardia del girone dei violenti in quanto icona del lato impetuoso e irrazionale della mente, al pari dei peccatori guidati dall’istinto e ignari della ragione:

e ‘n su la punta de la rotta lacca

l’infamïa di Creti era distesa

che fu concetta ne la falsa vacca.

    Infine ecco la sventurata regina di Creta, la quale nel Canto XXVI del Purgatorio è invocata a gran voce dai lussuriosi come emblema del peccato contro natura:

 colei che si imbestiò

ne le ‘mbestiate schegge.

3 - Arianna minotauro

  La leggenda vuole che il re di Creta incarichi Dedalo di progettare un labirinto dove segregare la creatura di cui tutta la reggia ha vergogna e terrore; per lo stesso sovrano, il mostro è emblematico degli impulsi repressi, degli input egoistici rimossi.

   Il docente di filosofia Apostolos Apostolou spiega:

Minotauro è il desiderio irrazionale che si compie con la soddisfazione del bisogno fisico. Ma è anche l’indeterminismo ontico, che le fugaci emersioni dell’inconscio introducono come definizione del soggetto, non cessando di isolare nel soggetto un cuore, o come diceva Freud, “Kern” (nucleo) di non senso. L’inconscio è costituito da impulsi e fantasie che rappresentano desideri incompiuti, vissuti indelebili cacciati dalla coscienza o esperienze infantili che non sono mai giunte alla coscienza.

    Sigmund Freud ha operato del mito di Arianna e Teseo due distinte letture: la prima nel contesto di una fase infantile anale, con i corridoi aggrovigliati a simboleggiare l’intestino; la seconda rappresentando il labirinto al pari di un utero. In entrambe il filo appare nella funzione di cordone ombelicale, fonte di nutrimento e legame materno, e allo stesso tempo vincolo stringente, soffocante, alla figura della genitrice. Tra le innumerevoli suggestioni culturali suscitate dalla figura dell’uomo-toro (tra cui prediligo il breve e fulminante racconto La casa di Asterione di Jorge Luis Borges contenuto ne L’Aleph, 1949), ricordo la conclusione del film Shining (1980) di Stanley Kubrick, tratto dall’omonimo romanzo (1977) di Stephen King.

   La coscienza sconvolta provoca allo scrittore Jack Torrance visioni paurose e ripugnanti: tra esse, quasi a rievocare la storia di Pasifae, una figura animalesca compie un allucinato rapporto sessuale-orale. Nella sequenza finale, il piccolo Danny sfugge al padre Jack, ormai in preda a follia omicida, correndo tra le siepi labirintiche del giardino e uscendone grazie al suo potere di “overlook”. Novello Teseo, sconfigge il genitore-Minotauro lasciandolo a perdersi tra la neve e il gelo nelle svolte senza uscita: Torrance muore assiderato, in un’inquietante immagine che lo ritrae con gli occhi sbarrati all’insù.

  4 - Arianna Dioniso

Anche Dedalo, insieme al figlio Icaro, rimane imprigionato nell’intrico di gallerie da lui costruito, mentre secondo un’altra versione è Minosse ad averlo rinchiuso. Costruito un paio di ali con piume e cera, s’invola insieme al figlio il quale però, avvicinatosi troppo al sole, perisce cadendo in mare.

   Intanto Androgeo, primogenito di Minosse, viene ucciso ad Atene durante i giochi tauromachici. Minosse attacca la città e la sconfigge, imponendo ai vinti un tributo di sangue: ogni nove anni, sette fanciulli e sette vergini partiranno verso Creta per essere dati in pasto al Minotauro.

   Ed ecco Arianna comparire all’improvviso nella vita di Teseo, quando il giovane principe ateniese, deciso a metter fine all’orribile vicenda, si unisce al gruppo di ragazzi destinati alla morte. La principessa di Creta, innamorata, lo aiuta a ritrovare la via d’uscita dai meandri donandogli una matassa di filo che, srotolata, gli permette di seguire a ritroso le proprie tracce dopo aver ucciso Asterione.

   Silvia Romani, studiosa del mondo classico, ha rilevato un aspetto personale e privato nel gesto di Arianna:

Quella manopola di filo, tesa in modo resoluto sulla superficie di tanti vasi antichi, è un dono irrazionale e generoso, un tentativo di legare a sé il proprio amato in un vincolo d’amore: il contraccambio per una nuova vita al suo fianco, nel palazzo regale di Atene. 

   Il vocabolo “labirinto” indica nella forma classica una struttura quadrata o più spesso circolare con una sola entrata e un unico vicolo cieco alla fine del percorso. Ha scritto Apostolou:

Il labirinto in generale può essere visto come metafora della ricostituzione dell’ordine perduto, e di conseguenza come metafora del pensiero umano, della psiche e della sua struttura, per l’appunto, labirintica.

   Nell’Eutidemo, Platone riporta le parole di Socrate nell’atto di evidenziare lo schema labirintico del “dialogo”:

Giunti all’arte di regnare ed esaminandola a fondo per vedere se fosse quella a offrire e a produrre la felicità, caduti allora come in un labirinto, mentre credevamo di essere ormai alla fine risultò che eravamo ritornati come all’inizio della ricerca, e avevamo bisogno della stessa cosa che ci occorreva quando avevamo incominciato a cercare.

   Lo spazio aggrovigliato, intricato, simboleggia un contesto dove mondo, norme e logica rimangono oscuri, incomprensibili all’uomo; nondimeno, rappresenta spesso anche l’iter tortuoso e niente affatto lineare dell’anima umana, a parere di Aristotele coincidente con la nascita della filosofia.

   È vero, Teseo è l’eroe solare capace di acquisire il controllo degli istinti e delle forze dell’inconscio profondo, ma il ruolo rivestito da Arianna è senza dubbio maggiormente significativo. Scrive la studiosa Cinzia de Bartolo:

Mai come in questo caso il mito ci illumina sul rapporto fra l’elemento maschile e quello femminile: Teseo compie un pericoloso viaggio nei paurosi recessi del labirinto-inconscio e, dopo essersi confrontato con gli umani istinti bestiali, si affida ad Arianna – l’elemento femminile – che lo guida verso la luce della coscienza.

   Ancor più in chiave psicanalitica il commento di Jacques Attali in uno studio di venti anni orsono:

L’idea del Labirinto non è estranea al primo percorso dell’uomo al termine del quale egli diventa persona: quello che lo fa fuoriuscire dal ventre materno: la donna è il primo Labirinto dell’uomo.

   Dunque, cosa rappresenta Arianna? Secondo Giulio Guidorizzi è la “Signora del Labirinto”, in base a un’iscrizione in lineare B risalente circa al 1.400 a.C.:

Ha un nome, Arianna, e un mito tutto suo. Non è più una dea ma un’eroina, anche se dentro l’Arianna del mito si intravedono ancora caratteristiche divine: un personaggio che salva, protegge, e finisce per sposare un dio.

   Da Creta, culla dell’arcaica civiltà europea, provengono però altre immagini femminili particolari: libere, ribelli, sovvertitrici del reale imposto, dai tratti mitologici violenti, dalla sessualità anomala. Sono magari aspetti di un’antica fase della religione precedente al patriarcato di Zeus, quando regnava una dea modello di fertilità, indomita, potente, chiamata Grande Madre, e descritta alternativamente da Carl Gustav Jung come saggia, benevola, feconda, protettiva, tollerante, e segreta, occulta, tenebrosa, divorante.

   Una donna cretese del genere può essere Pasifae, madre di un mostro; Fedra, infedele alla sorella Arianna perché innamorata di Teseo e attratta dal figliastro Ippolito; Europa, invaghita di un toro; infine Arianna, complice nel massacro del fratello Minotauro.

  5 - Arianna Minosse

Quale sarà il fato della misteriosa Arianna, figlia non prediletta, sposa rifiutata, con un fratello mostruoso e un compagno infedele? Abbandonata da Teseo in riva al mare, nell’isola di Naxos, assisterà come per incanto al fragoroso arrivo di Dioniso su un carro trainato da quattro pantere: proprio lui, il “nato due volte”, icona dell’Uno-Molteplice, all’altezza di conciliare umano e divino, immanente e trascendente, la porta in salvo e la fa sua sposa.

   Scrive Guidorizzi:

Teseo e Arianna sono una coppia di innamorati, Dioniso e Arianna una coppia nuziale: un uomo non l’ha voluta, ma un dio la sposa.

   Il gomitolo si trasforma nell’emblema di un percorso in grado di allontanare dal caos: è legame amoroso importante e ambiguo, capace di garantire armonia, soddisfazione, gioia, e insieme smarrimento, dolore inconsolabile. Assomiglia al filo dipanato e tagliato dalle Moire, divinità che presiedevano al destino dalla nascita alla morte. Torniamo così al labirinto, del quale Arianna non oltrepassa la soglia ma fornisce il mezzo per uscirne, a differenza della protagonista del film L’anno scorso a Marienbad (1961) di Alain Resnais, dove le parti dei due giovani prìncipi sono invertite: nel finale, la protagonista si inoltra nell’intrico di siepi del giardino all’italiana per scomparire agli occhi dell’uomo che ne rimane fuori.

   Nell’interpretazione delle figure archetipiche, soccorre come sempre il pensiero di Jung:

È un simbolo interiore: siamo tutti labirinto, intrico di viscere e di pensieri contorti. Per uscirne è necessario entrarvi. Perdersi nelle strade di una città, è un modo per avvertire quanto questo assomigli alla nostra mente, alla nostra vita; può essere un esercizio per reggere lo spaesamento incombente.

   Persino quello attuale, così presente.

 

CINZIA BALDAZZI

 

Ringrazio Adriano Camerini per la collaborazione alla stesura del testo.

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Silvia Romani, Arianna. Le insidie dell’amore, introduzione di Giulio Guidorizzi, Milano, Mondadori 2019

Giulia Gentile, Approccio alla psicologia analitica. Arianna e Teseo: alla ricerca del filo della vita, a.a. 2013-2014, Unitre Val di Cornia – Università delle Tre Età

Apostolos Apostolou, Mitologia e psicoanalisi (Il Labirinto di Cnosso e Teseo), 17/6/2014

https://rassegnaflp.wordpress.com/2014/06/17/mitologia-e-psicoanalisi-il-labirinto-di-cnosso-e-teseo/

Cinzia de Bartolo, Alla ricerca del femminile perduto – La rivincita di Arianna, febbraio 2009 https://www.ilcerchiodellaluna.it/pag_set_frame.htm?central_Labir_Ari.htm

Jacques Attali, The labyrinth in culture and society: pathways to wisdom, Berkeley, CA (USA), North Atlantic Books, 1999, pp. 124.

 

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“L’ “io” in letteratura. Individualità e introspezione”. Le proposte dovranno pervenire entro il 20 aprile

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Il prossimo numero della rivista di poesia e critica letteraria Euterpe avrà come tema: L’ “io” in letteratura. Individualità e introspezione”.

 

I materiali dovranno pervenire entro il 20 aprile 2020 alla mail rivistaeuterpe@gmail.com

Per poter partecipare alla selezione dei testi per detto numero è richiesto di seguire le “Norme redazionali”.

Per essere informati su ogni aspetto relativo alla raccolta e invio di testi si può seguire anche l‘evento FB dedicato cliccando qui.

 

“La Grande Madre e gli dèi del cielo”, saggio antropologico di Cinzia Baldazzi

Saggio di Cinzia Baldazzi[1]

 

     Nel 1938 Carl Gustav Jung, nello studio Gli aspetti psicologici dell’archetipo della Madre, così la definiva:

La magica autorità del femminile, la saggezza e l’elevatezza spirituale che trascende i limiti dell’intelletto; ciò che è benevolo, protettivo, tollerante; ciò che favorisce la crescita, la fecondità, la nutrizione; i luoghi della magica trasformazione, della rinascita; l’istinto o l’impulso soccorrevole.

     Nelle rappresentazioni di epoca antichissima troviamo l’immagine, sotto forma di piccole statue, di un ente supremo definito Grande Madre da archeologi, etnologi, storici della religione. Racconta Umberto Galimberti:

Nell’area mediterranea ne sono state reperite cinquantacinque contro le cinque maschili, atipiche e malfatte, che rappresentano giovanetti in tenera età. Ciò lascia supporre che la divinità maschile subentri solo in un secondo momento e che il rango della divinità-figlio sia stato conferito solo successivamente dalla divinità madre.

     Si tratta di una deità femminile primordiale, còlta in molteplici forme e ospitata in un’ampia gamma di popoli, civiltà e culture sparsi nel mondo, dalle comunità di cacciatori-raccoglitori del Paleolitico ai clan dedicati all’agricoltura e alla pastorizia del Neolitico. La Grande Madre è alla fonte di un circuito ininterrotto di nascita-sviluppo-maturità-declino-morte-rigenerazione, tipico della vita umana quanto di cicli naturali e cosmici. Il carattere femmineo appare quindi necessario elemento mediatore fra il terreno e il trascendentale. L’uomo, il principio maschile, sembra essere completamente escluso dall’immaginario primitivo, probabilmente in quanto il meccanismo della fecondazione non era ancora chiaro alla coscienza.

    1 Le sembianze – visibili nella celebre Venere steatopigia di Willendorf – pongono in rilievo il simbolismo corrispondente a un “vaso pieno”, ottenuto enfatizzando gli attributi peculiari dell’icona muliebre e penalizzandone altri: mammelle e ventre spesso composte in un grappolo unitario, bacino dilatato, testa senza viso, femore e cosce sottili e sproporzionate, piedi esili del tutto insufficienti a reggere il corpo enorme, infine braccia e piedi appena accennati.

     Riguardo l’asse temporale, la prevalenza di un simile personaggio occupa un periodo esteso che, almeno in Europa, copre gli anni dal 35.000 a.C. al 3.000 a.C. circa; in talune aree del Mediterraneo (tra cui Creta) permane sino al II millennio a.C. inoltrato. La celebrazione della Grande Madre attesterebbe quindi l’esistenza di tribù matrifocali nel Paleolitico e nel Neolitico. Prosegue Galimberti:

     La mancanza di agilità e di forma fa assumere alla Grande Madre una postura sedentaria in stretta aderenza alla terra in cui spesso è incorporata. Anche quando sta in piedi, il suo centro di gravità la spinge verso il basso, verso la terra che, nella sua immobilità, è la sede del genere umano. Seduta, poi, la grande Madre è la dèa troneggiante, quindi la forma originaria del trono stesso.

     Grazie all’esplosione demografica causata dall’introduzione dell’agricoltura e alla relativa crescita di culture ramificate, le “competenze” proprie della gloriosa antenata si scindono e si diversificano in svariate icone muliebri. La Somma Divinità, pertanto, pur seguitando ad esistere accompagnata da liturgie specifiche, si moltiplica in personificazioni distinte per sovrintendere all’amore sensuale (Ishtar-Astarte-Afrodite-Venere), alla fecondità delle donne (Ecate triforme), alla fertilità dei campi (Demetra-Cerere-Persefone-Proserpina), alla caccia (Kubaba-Cibele-Artemide-Diana). Poiché il ciclo naturale delle messi implica le tappe di morte e rinascita del seme, la Grande Madre si connette anche a cerimonie legate alla Luna: tra i riti arcaici riservati alle donne, i più remoti sono quelli di Mater Matuta e della Bona Dea.

     L’origine matrifocale dei clan rurali è stata approfondita dalla studiosa lituana Marija Gimbutas, ponendo enfasi sul ruolo femminile sociale della donna in epoca Neolitica.  Ciò sarà evidente, in seguito, nell’appellativo di “figlio della dèa” attribuito a talune divinità (come Διόνυσος-Diònisos) vincolate alla terra. Un nesso determinante nello sviluppo delle religioni ancestrali è infatti il legame autoritario, il rapporto iniziatico, tra la madre archetipica e il suo compagno, caratterizzato dall’essere minore di lei – per età e poteri – e dal ricoprire spesso il ruolo di giovane amante, assai simile a un figliolo (si veda in proposito la coppia Cibele-Attis).

     Nelle feste e nei misteri per evocare la prosperità, onorare la Madre indica il procedere delle stagioni, insieme alla domanda universale dell’essere umano di poter rivivere al pari dei semi dal terreno. Il processo di rigenerazione la rappresenta con fattezze di rana, pesce, porcospino o clessidra, con doppi triangoli e pietre a spigolo adeguati a evocare una stilizzazione combinata con rami e germogli.

     Accanto al vaso primigenio – in analogo al grembo materno – e alla forza ctonia (da khtòn, Terra), la mitologia le conferisce anche la veste di albero della vita: la genitrice trae alimento da salde radici piantate nel suolo, innalza fronde e foglie per delineare un’ombra protettiva nella quale il nucleo vivente trova rifugio. Significativa la parentela con il vocabolo spagnolo madera (“legname”), affine a «madre», «materia», a cui pure risale l’aggettivo greco madaròs (“umido”, “inzuppato”), il latino madidus (“bagnato”). Spiega ancora Galimberti:

In Egitto il pilastro Ded, conficcato nel monte, è il «legno della vita da cui nascono gli dèi», fino alla più recente simbologia giudaico-cristiana dove il figlio della Vergine nasce nella mangiatoia di legno e muore sulla croce «albero della vita e della morte». La materia lignea, infatti, oltre che madre della vita è anche madre della morte, è il sarcofago divoratore di carne, la cassa che racchiude nella forma dell’albero-pilastro Osiride nel suo legno.

     Ciò vuol dire che tutti i simboli collegati alla Grande Madre, o comunque vicini alle proprietà “materne”, sono di fatto contraddistinti da una forte ambivalenza, da una duplice natura, positiva e negativa: la “madre amorosa” e la “madre terribile”.

     Secondo Carl Gustav Jung, il creatore della “psicologia del profondo”, tutti siamo collegati con numerosi archetipi, ovvero con contenuti primordiali e universali presenti nell’inconscio collettivo: la Grande Madre è sicuramente una delle “immagini” con cui forse più spesso e profondamente entriamo in relazione. Rimane attuale l’interrogativo posto da Jung, vale a dire se tale figura, potenza dell’Inconscio, sia piuttosto salvatrice e nutrice, che non deleteria e distruttiva. Sono quindi altrettanto importanti le istanze negative di cui è portatrice:

Ciò che è segreto, occulto, tenebroso; l’abisso, il mondo dei morti; ciò che divora, seduce, intossica; ciò che genera angoscia, l’ineluttabile.

     La psicologa Anna Maria Cebrelli ha così dettagliato questo aspetto:

In quanto espressione di vita è connessa ai cicli di nascita e morte: ogni nascita, infatti, presuppone la “morte” di uno stato precedente. In questa apparente ambivalenza, la Grande Madre può diventare anche terribile, vorace, predatoria. È il suo “lato ombra”: è la caverna fredda e oscura e anaffettiva; è il vaso che non lascia più uscire il suo prezioso contenuto (che quindi non può crescere, svilupparsi, emanciparsi e diventare autonome; rimane invischiato in una relazione opprimente e vincolante o comunque mantiene tratti infantili, filiali), è la Madre Matrigna che non nutre, non si prende cura ma può uccidere, maltrattare. Non ama più, pensa solo a se stessa.

     Ecco una prima inversione di rotta nel percorso mitico, religioso e antropologico. Nel ragionamento di Galimberti scaturisce una svolta storicamente indiscussa, poiché egli riporta le celebri parole di Platone nel Timeo:

Noi uomini non siamo come le piante della terra, perché la nostra patria è il cielo, dove fu la prima origine dell’anima e dove Iddio, tenendo sospesa la nostra testa, ossia la nostra radice, tiene sospeso l’intero nostro corpo che perciò è eretto.

     Dall’adorazione della fertilità femminile, dalle simbologie del vaso e dell’albero, l’umanità si va separando per volgere lo sguardo verso il cielo. L’itinerario dell’uomo, lungo un tracciato millenario e irreversibile, progredisce dalla sfera terrestre al firmamento, dalle divinità ctonie a quelle uraniche, dalla terra-madre al cielo-padre: è l’allontanarsi dalla visione sensibile di tracce cariche di sostanza verso l’intelletto della loro essenza depurata dall’immaterialità. Il mito narra le tappe di tale sentiero, il graduale avanzamento dai culti della Grande Madre alla venerazione degli dèi dell’Olimpo; la filosofia è pronta a cogliere il messaggio profondo del cambiamento. Ma, alla luce dei millenni trascorsi, un simile genere di passaggio non è stato incontrovertibile, non ha annullato le origini, in quanto, da tempo, la materia ha ripreso importanza e la Terra continua a catturare attenzione con il surriscaldamento, i terremoti, le alluvioni, le attività dei vulcani.

     In certa misura, la filosofia avrebbe ancora un compito maieutico, materno: rappresenta un’unione non riscontrabile in un immediato scenario di applicazioni pratiche, piuttosto nella qualità di plasmare la ψυχή (psiuké) umana, agevolando la nascita del prezioso, famoso “senso critico”, oggi fondamentale se inserito nel contesto di un sistema teso, al contrario, a coltivare concetti espressi acriticamente da nozioni considerate già appurate.

     Dalle viscere dell’anima e della cultura, la filosofia rende possibile l’affiorare di un raziocinio operativo dove la ricerca è ogni volta condotta alla scoperta del mondo stesso da cui ha tratto origine, accogliendo l’individuo in un’apertura totale dal χάος preesistente (khàos, “disordine” o “lacuna”) alla struttura di ordine denominata κόσμος (kòsmos). In un tale status d’idee, nel κόσμος si imporrebbe la sua parola e, nel cammino quotidiano verso l’ignoto, da quasi tre millenni avanza la filosofia. Di certo, nell’orizzonte di un pensiero speculativo proiettato verso l’alto e rivolto al futuro, l’ambiente circostante e l’immanenza terrena sono garantiti dalle fattive radici della ragione, facoltà appartenenti all’uomo materiale.

3

     Ma il pensiero non può essere giudicato solo figlio dei dati sensoriali, cioè qualcosa pertinente in esclusiva ai cinque sensi: dovremmo in tal caso supporre che le conoscenze effettive siano valide a patto di venir acquisite nell’arco sensibile, ritenendo di conseguenza vaghi i costrutti ideali frutto del meditare. Per fortuna, la storia ha dimostrato quanto il meccanismo logico-filosofico sia sostanziale anch’esso, coincidendo con processi generativi dell’apprendere gestiti fin dalle origini. Cosa resterebbe, altrimenti, dell’intero insieme della conoscenza, rielaborata riflettendo su dati concreti?

     Torniamo così all’antinomia indicata da Galimberti:

Dalla terra al cielo è dunque l’itinerario compiuto dall’uomo, nel suo lento passare dalla visione sensibile delle cose cariche di materia a quella intelligibile della loro essenza depurata dalla materia. Il mito racconta le cose come sono veramente andate: il lento passaggio dai culti della grande Madre ai culti degli dèi uranici; la filosofia coglie il senso di questo passaggio che è nella natura dell’uomo originariamente aperta alla visione.

     Nelle consuetudini primordiali – in specie nelle aree europee, mediorientali, indiane – incontriamo mitologie, leggende, ritualità rappresentative di un legame fra il regno della madre (terra) e il dominio del padre (cielo). Nella prospettiva storica, il tutto è dovuto a una serie plurimillenaria di contatti e conflitti capaci di avvicinare e mettere in relazione i gruppi agricoli e stanziali del bacino del Mediterraneo con i popoli delle steppe, ovvero i nomadi dediti all’allevamento nelle coste del Mar Nero, nell’Asia Centrale, nelle regioni dell’Arabia. Fra stratificazioni etniche tanto diverse talora prevale il contrasto, talvolta la coesione: questa gamma di discordie e di simbiosi si rivelerà all’altezza di modellare lo spirito delle grandi civiltà classiche – romana, ellenica, iranica, indiana – profondamente sincretiste e al contempo provviste al loro interno di robuste tensioni simboliche.

     Nel complesso sintetizzato dalla mitologia matura, le connessioni fra dèe terrestri e dèi celesti esprimono una cosmologia “dinergica” (emblema di dualismo), dotata di armonia e integrazione, in cui ognuno dei poli rimanda all’altro. La dinergia immanente è, ad esempio, iscritta nell’immagine dell’uovo (indice latente del progredire, del mistero antecedente all’essere), e nell’intreccio di uomo-donna, trascendenza-immanenza, arricchita dall’intreccio di tratti androgini ed ermafroditi, in alcune iconografie di dèi maschili, ad esempio Κρόνος/Saturno ed Ἑρμῆς/Mercurio.

     La simbologia degli dèi del cielo finisce per sovrapporsi alla galleria dei numi femminili della terra, comunque senza annullarla: quest’ultima, pure emarginata, continuerà ad informare di sé in maniera decisiva l’estro individuale, la tecnica artistica, le nuove istanze di fede.

     E sarà forte, allora, la nostalgia per quel periodo, ormai avvolto nella notte dei tempi, in cui il cielo fa la sua comparsa ma è ancora dipendente dalla terra, quando insomma la ridefinizione dell’uomo, la reinterpretazione del proprio posto nell’universo, transita ancora nella feconda contaminazione tra gli agricoltori residenziali, con le radici nella divina madre terra, e i popoli migranti degli allevatori, i quali alzano lo sguardo al cielo affinché le stelle indichino loro il cammino.

CINZIA BALDAZZI

 

 

Ringrazio Adriano Camerini per la collaborazione alla stesura del testo.

 

L’autore del presente testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere in relazione ai contenuti del testo e a eventuali riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE DI RIFERIMENTO

Carl Gustav Jung, Gli aspetti psicologici dell’archetipo della Madre, in “Gli archetipi e l’inconscio collettivo”, Opere, vol. IX, tomo 1, Torino, Bollati Boringhieri 1997, p.83

Marija Gimbutas, Il linguaggio della dèa, trad. Nicola Crocetti, Milano, Longanesi 1990

Marija Gimbutas, Le dèe viventi, trad. M. Doni, Milano, Medusa Edizioni 2005

Umberto Galimberti, Le origini del pensiero filosofico greco, in Emanuele Severino (a cura di), Storia del pensiero occidentale, vol. 1, Milano, Mondadori 2019, pp. 24-26

Anna Maria Cebrelli, Grande Madre: l’archetipo dell’origine femminile di ogni cosa, 12 maggio 2017, https://www.greenme.it/vivere/mente-emozioni/grande-madre-archetipo/

Massimo Donà, “Nomos” e singolarità, in “Quaderni di inSchibboleth”, vol. 1/2018, n.9, “Invisibile ed esperienza”, Roma, 2018

 

 

[1] Cinzia Baldazzi, romana, classe 1955, si è laureata in Lettere Moderne a “La Sapienza” in Storia della Critica Letteraria. È stata cronista teatrale negli anni ’70 e ’80 su quotidiani e periodici, quindi sulle testate online “Scenario” e “News Arte Cultura”. Collabora ai blog “On Literature” e “Alla volta di Léucade”, nonché alla rivista digitale “Euterpe”. Tra le pubblicazioni, Passi nel tempo (2011), commenti a quindici poesie di Maurizio Minniti; EraTre (2016), con il poeta Concezio Salvi e il pittore Gianpaolo Berto; Orme poetiche (2016), antologia di poeti curata da Pasquale Rea Martino; Duecento anni d’Infinito (2019), con Maurizio Pochesci, antologia poetica per il bicentenario dell’idillio leopardiano. Tra i riconoscimenti alla carriera, il “Labore Civitatis” all’interno dell’evento “Tra le parole e l’infinito” (2018). Svolge da tempo un’intensa e riconosciuta opera di diffusione della poesia attraverso divulgazione di nuovi autori, presentazione di libri, organizzazione di incontri tra poeti, coordinamento di reading, interventi critici in caffè letterari. Il suo blog http://lamemoriadiadriano.blogspot.com/ è dedicato a letteratura, arte e musica.

“The Call Center”: spavento Vs curiosità nella poesia-telefonata della performance di Francesca Fini e Davide Cortese. Articolo di Lorenzo Spurio

Articolo di Lorenzo Spurio 

Ben dice Antonietta Tiberia in un recente articolo apparso sulla rivista romana Il Mangiaparole: «Ogni tanto qualcuno ci informa che la poesia è morta. Ma non è vero: la poesia è ben viva e lo sarà finché la porteremo nel cuore. Per questo, dobbiamo ringraziare quei poeti che tanto si adoperano, con mezzi diversi, per renderla accessibile a tutti, per portarla nei luoghi dove non arriverebbe oppure proporla a persone che non la cercherebbero mai di loro spontanea volontà».[1]

Senz’altro curiosa e innovativa la performance poetica di Francesca Fini[2] e Davide Cortese[3] che lo scorso novembre (esattamente il 3 novembre 2019)[4] si è tenuta presso la stanza media del Macro Asilo a Roma. Il progetto, dal titolo inequivocabile “The Call Center”, aveva a che vedere con l’idea di un contatto diretto tra un produttore di poesia e un ipotizzabile ricettore. Un pubblico qualsiasi, trasversale, non scelto, non dotto (non necessariamente), frutto di nessun tipo di scelta e selezione, volutamente indistinto e potenzialmente teso verso un qualsiasi identikit umano. Si tratta dell’evento-avvenimento che Cortese e Fini, con le istallazioni della stessa Fini, hanno voluto portare in scena: una sorta di reading poetico cadenzato, a colpi di cornetta. Performance che non può non far pensare all’invettiva del poeta americano John Giorno (1936-2019) che in Dial a Poem, munito di una cornetta nera (esposta in mostre con suoi reperti e opere) provvedeva a chiamare a random un pubblico declamando poesie di William S. Burroughs, Allen Ginsberg, Diana De Prima, Clark Coolidge, Taylor Mead, Bobby Seale, Anne Waldman e Jim Carroll.[5]

Nel progetto di Fini/Cortese era previsto che il performer, in questo caso non semplice dicitore ma poeta egli stesso, fosse munito di un elenco telefonico della Capitale dal quale trarre numeri di casuali destinatari. Si apprestava così a chiamare, in maniera ordinata, una platea incognita di possibili fruitori della poesia, dietro sua sollecitazione. Viene fatto il numero, la cornetta dall’altro capo del filo squilla e si attende quel tempo, normalmente assai breve, affinché il destinatario si approssimi a rispondere alla chiamata. Ma chi trova dall’altra parte? Non un familiare, non un amico né un collega di lavoro. Oppure – se vogliamo – al contempo tutto questo e anche dell’altro. Trova una voce qualsiasi, di una persona sconosciuta, che chiede di poter recitare una poesia.[6] Una beffa? Forse sì per alcuni. Una perdita di tempo? Altrettanto plausibile nel pensiero di altri. C’è chi storce il naso e, sbigottito, non perde tempo a riattaccare per ritornare alle sue mansioni credute di rango superiore all’ascolto di alcuni sani e gratuiti versi. Chi, intimorito (come non poterlo essere in questa società che grida e inveisce, fatta di persone che ti cercano sembrerebbe solo per un proprio fine di qualche tipo, non di rado economico?) intuisce una possibile inchiesta su prodotti, su tendenze e usi nelle famiglie o, al contrario, di un probabile call-seller, un venditore, un molesto ripetitore di formule persuasive, procacciatore di intercalari di cortesia per cercare di allontanare la discesa della cornetta e la rottura del contatto. È ciò che accade nella gran parte dei casi, è vero, come dar torto a chi, preso in un momento di piccola pausa dal lavoro o chi, tra gli sforzi del seguire un familiare malato, riceve una chiamata imprevista il cui contenuto è nullo, privo di significato, astratto? Ed è proprio in ciò che risiede la potenzialità di questo progetto: nel cercare in uno sconosciuto – potrebbe essere il nostro vicino che mai salutiamo – di farsi accogliere nella propria casa, senza nessun fine disgiunto dal contenuto del messaggio. Quello di usufruire di un bene immateriale, collettivo, gratuito e non deteriorabile quale è la poesia. Se è vero che sono pochi coloro che possono rispondere positivamente a una chiamata di questo tipo, nel lasciarsi coinvolgere da una relazione misteriosa, nel concedere un po’ di tempo all’altro fornendo il solo ascolto nel recepire il messaggio, non c’è neppure da biasimare la poca confluenza e propensione dell’altro a rendere praticabile questo tipo di esperimento.

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Le variabili, i contorni, ne abbiamo già accennati alcuni, possono essere innumerevoli, tutti plausibili e più o meno onesti anche se, dopo che il mittente chiarifica che non si tratta di una vendita telefonica ma di una persona che si offre di leggere una poesia, non si capisce il perché della diffidenza nel continuare a sentire per qualche altro minuto. Si comprende che, al di là dei canonici motivi del poco tempo, della frustrazione collettiva, della poca fiducia nell’altro, si assommano una serie di altri motivi quali l’incomprensione propriamente detta, la considerazione della poesia alla stregua della vendita dell’enciclopedia Treccani, l’inutilità dei contenuti, finanche la paranoia vera e propria. Tutti aspetti che nascono, si fortificano e si estremizzano nel brevissimo tempo del rapporto comunicativo che intercorre tra l’alzata della cornetta e la chiusa della chiamata, in alcuni casi davvero una manciata di secondi.

Le poesie che il performer legge sono di sua produzione o appartengono ad autori del mondo classico ai quali lui (e la curatrice, come il caso di Lowell)[7] si sentono particolarmente legati; tra di essi Walt Whitman, Gregory Corso, Emily Dickinson e Amy Lowell. Cito dalla descrizione della iniziativa: «L’esperienza alienante[8] dei call center, dove il poeta Davide Cortese ha lavorato per un periodo della sua vita, si trasforma in un’azione surreale che capovolge completamente il significato delle telefonate commerciali, instaurando con lo sconosciuto dall’altra parte del filo un’inaspettata relazione poetica priva di scopi utilitaristici». Il funzionamento di questo attacco d’arte, questa performance poetico-sonora, di questo esperimento sociologico: «Davide si siede al tavolo e apre le pagine bianche. Senza pensarci troppo sceglie un numero a caso e chiama. Quando intercetta una presenza umana dall’altra parte del filo, comincia a recitare una poesia, dalla pila di libri che tiene accanto al telefono. Una roulette russa poetica, inaspettata, imprevista e imprevedibile, scevra da mediazioni, presentazioni, preliminari, filtri e formule di cortesia. Ogni nuova telefonata, una poesia: contemporanea, viscerale, secca, dura, tra i denti. Le reazioni degli sconosciuti sono altrettanto sorprendenti e inaspettate: silenzio, sconcerto e, come qualcuno ha avuto poi il coraggio di confessare, puro terrore. Nella maggior parte dei casi, appena Davide comincia a recitare le sue poesie, la gente reagisce ammutolendo. Immagino occhi sgranati e fronti aggrottate, in qualche angolo della città, davanti a qualcosa di evidentemente inimmaginabile e incomprensibile: uno sconosciuto che ti chiama per dedicarti una poesia». 

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Pur vero, come sostiene Giulia Bertotto in un recente articolo dedicato a questa performance, che la lettura di una poesia – in questo contesto e con tali modalità – è «un’azione invadente ma non prepotente».[9] Come dire, è vero… la telefonata può scioccare (oltre che scocciare!) tanto da far rimare il destinatario alla cornetta senza un filo di voce, interdetto e curioso al contempo, da motivarlo in pochi frammenti di secondi a chiudere quella telefonata-boutade o a dare qualche secondo aggiuntivo “omaggio” al chiamante per farsi meglio interpretare. Eppure, per quei pochi che lo scopriranno (che crederanno nel beneficio del dubbio), noteranno che non avranno niente da perdere: nessuno li minaccerà, nessuno chiederà firme elettroniche, pin del proprio bancomat, né dovrà sorbirsi gli intercalari osannanti e mielosi di un venditore di fumo. O forse sì, perché, in fondo, cos’è la poesia? Perché si usa la telefonata se non per comunicare qualcosa di urgente, utile o necessario? La poesia possiede qualcuna di queste caratteristiche? Sì per alcuni (pochi), no per tutti gli altri (la stragrande maggioranza). La telefonata – che giunge imprevista, puntuale, aprendo a un incognito – desta sempre un grande mistero (chi si celerà dall’altro capo del filo?; adesso, che cosa sarà successo?!; lo sapevo che mi avrebbe trovato, ora cosa faccio?!) solo una volta alzata la cornetta può svelare la sua vera natura ma nel caso di questa poetry-call (che nulla ha a che vedere con un call for paper accademico con una sua deadline) non dissipa il suo gradiente di mistero e suspence anche una volta che l’interlocutore ha chiesto “chi è?”, “cosa vuole?” dal momento che sta proprio all’interlocutore – unico padrone del mezzo, ma non del meccanismo nel quale indirettamente è stato introdotto – decidere se continuare questo “gioco”, chiamiamolo così, nella sua accezione di qualcosa di infantile e di indescrivibile al contempo, o per lo meno tentare di comprenderne un po’ meglio i contorni. Cosa che, come Cortese stesso ha rivelato, in pochi hanno deciso di fare.

Frenesia del vivere, disinteresse, disattenzione e fastidio, ma anche mancanza di coraggio – bisogna rivelarlo – nel predisporsi al nuovo, nel gettarsi verso l’incognito. Spazio sconosciuto che si può conoscere e abitare, semplicemente lasciando qualche secondo in più al mittente per recitare qualche altra battuta. E poi, in fondo, anzi in principio, la questione cardine: la poesia. Ovvero quella strana materia scolastica fondata sul ripeti a memoria, fai copia-incolla cerebrale e ripeti alla bisogna, usa e getta… quella cosa pedante da libri a rilegatura pesante di stoffa scura che prendono polvere in qualche angusta libreria di legno che sembra scricchiolare al passaggio, come un qualche lamento di anime. Può destabilizzare una poesia? Può arrecare disturbo, disagio o addirittura spavento l’assistere alla lettura di una poesia? Semmai può creare incomprensione per questa proposta che avviene in maniera incisiva e invadente… Lo spiazzamento che si crea tra l’apertura della chiamata e la decisione istintuale di mettere fine alla conversazione improbabile e assurda, viene coperto da un tempo brevissimo. In pochi – stando alle dichiarazioni dello stesso Cortese caller-poeta, poet-performer che viaggia sulle linee telefoniche – decidono di accettare la sfida e di dedicarsi tempo (non è solo un dedicare tempo all’altro, allo sconosciuto mittente, ma a se stessi, ed è questo il bello) pervasi dai propri dilemmi, ammorbati dal temperamento bizzoso di chi, con una telefonata di quel tipo, si è in qualche modo visto offeso, disturbato, quasi violato nel suo universo domestico. Ci sono anche le eccezioni, è vero e, in quanto tali, non vanno dimenticate e sono meritorie di menzioni; come ha riportato Antonietta Tiberia nel suo articolo «[Alcune] persone, specialmente donne anziane sole, hanno ringraziato per il piacevole intermezzo nel loro pomeriggio di solitudine domenicale».[10] Lo spettro delle risposte è assai ampio: dalla prepotente indifferenza che non dà scampo al performer e che lo silenzia subito chiudendo la chiamata dopo pochi secondi, a un atteggiamento di curiosità mista al tormento che, invece, motiva l’apertura della chiamata… vale a dire il destinatario non interviene (in nessun modo, in nessuna forma) ma resta in ascolto, un po’ inebetito e un po’ affascinato. Dall’altra parte ci sono casi che evidenziano un reale interesse, finanche (raro) una reale partecipazione dell’interlocutore che fa domande, interviene, commenta, addirittura (rarissimo) esprime un giudizio critico o un parere su quel testo o che, avendo introiettato il meccanismo e avendolo trovato utile e divertente al contempo, chiede di poter recitare lui stesso una sua poesia. Nel chiamare a caso i numeri tratti dall’elenco, in effetti, c’è la stessa possibilità di chiamare un meccanico che un poeta, un chirurgo appena rientrato a casa da una dura giornata di lavoro o un modesto carpentiere, come pure un italiano o uno straniero, un anziano o un bambino (e potremmo continuare così all’infinito!) ad ulteriore evidenza di questa applicazione fortemente libera e partecipativa, democratica, scevra da parametri di qualsiasi natura. Così come sono variegati i profili umani dei destinatari, altrettanto lo sono le loro risposte, le loro non risposte, le loro esitazioni, fughe, riprovazioni e condanne.

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Alcune considerazioni dello stesso Cortese in merito alla performance possono aiutarci a comprendere ancor meglio il raggio d’azione e gli intendimenti di questo procedimento, finanche gli esiti raggiunti. In una recente intervista da me condotta al poeta, questi ha rivelato che «Le mie aspettative non sono state deluse. Ero convinto che in molti sarebbero rimasti ad ascoltare, anche solo per curiosità, e così è stato. […] Certamente l’avere all’altro capo del filo un perfetto sconosciuto fa mettere sulla difensiva. Ma lo avevamo messo in conto. Faceva parte del gioco. […] Da questa performance si può desumere che anche tra quelli che non si professano amanti della poesia ci si può ritagliare uno spazio d’attenzione per quest’arte meravigliosa». 

Chi meglio della stessa ideatrice della performance può parlarcene? A continuazione qualche mia domanda posta a Francesca Fini e le sue preziose risposte.[11]

1) Com’è nata l’idea di questa performance e quali obiettivi si proponeva? Essi possono considerarsi raggiunti?

La performance è nata in seguito ad una riflessione che personalmente porto avanti da moltissimo tempo sulla possibilità concreta di realizzare una performance interattiva e immersiva, in cui la separazione tra pubblico e privato, spettacolo e spettatore, venga realmente abbattuta. La risposta a questo eterno quesito, nel caso delle performance che implicano un coinvolgimento del pubblico presente nello stesso spazio del performer, è chiaramente no. Nel senso che il coinvolgimento viene condizionato dalla consapevolezza dello spettatore di essere coinvolto nell’azione artistica, dalla sua preoccupazione di calarsi in una parte e, quindi, di vestire la maschera di ciò che ci si aspetta da lui in quanto spettatore-attore. Comincia quindi, inevitabilmente, a recitare una parte. E dove c’è recitazione, dove c’è rappresentazione, non c’è più performance art. Ho notato come quasi sempre le performance cosiddette interattive, realizzate cioè coinvolgendo il pubblico presente nello spazio performativo, consapevole di diventare parte dell’opera, naufraghino in una sciatta mistificazione concettuale, in una maldestra simulazione di spontaneità e autenticità. Ho quindi immaginato un performance radicale che si basi sul coinvolgimento di un pubblico veramente inconsapevole, ignaro di diventare parte di un’azione artistica. L’idea del telefono è stata prodotta da queste riflessioni, e da lì si è poi sviluppato il concept generale della performance “The Call Center”, con la collaborazione di Davide Cortese, che in scena è semplicemente se stesso, nella doppia veste biografica di poeta e di operatore di call center. Gli obiettivi credo siano stati felicemente raggiunti.

 

2) Porterete questa performance in altri contesti, riproponendola, con la partecipazione di un pubblico come fatto al Marco Asilo di Roma?

La performance “The Call Center” è pensata come dispositivo portatile, adattabile a qualsiasi contesto espositivo e a versioni site-specific. Sono già in contatto con altri festival interessati ad ospitarla, anche all’estero, e con una società per realizzare un vero e proprio set, con gli stessi strumenti e arredi che vengono utilizzati in un call center, lavorando con veri operatori di telemarketing commerciale, che affronteranno una sfida assolutamente nuova, quella di tenere al telefono il potenziale cliente con la poesia.

 

3) La performance può essere definita come un esperimento sociologico? Se sì, ora che è terminata, quali dati di lettura e analisi possono essere dedotti e riferiti?

Ogni opera di performance art pubblica è, di fatto, un esperimento sociologico: innesca una serie di domande, a cui spesso non si trovano risposte esaurienti, sul rapporto tra arte e vita, tra esperienza e rappresentazione, tra verità e finzione. Nel caso di “The Call Center”, questo principio è del tutto evidente. Naturalmente nessuno di noi ha scelto di registrare i dati prodotti dalla performance per una sua lettura analitica, e neppure abbiamo sviluppato preventivamente un criterio scientifico per la registrazione di questi dati. Perché abbiamo scelto di rimanere nel campo effimero dell’arte performativa, il cui impatto è sempre transitorio, la cui narrazione si apre a infinite possibili letture e il cui criterio fondamentale non è quello del senso ma della sensazione. La sensazione più clamorosa che sicuramente questa performance ci ha dato – comunicandola con forza al pubblico presente in sala, quello sì, vero spettatore oltre la quarta parete – è che oramai siamo abituati esclusivamente a comunicazioni di carattere utilitaristico e commerciale. Da cui, ovviamente, abbiamo imparato a difenderci. La comunicazione puramente empatica, priva di secondi fini, tra sconosciuti, non è più considerata qualcosa di possibile per lo stile di vita contemporaneo. Si cerca dietro la strategia, la fregatura, il trucco. La chiacchiera inutile ma utile, senza scopo ma con un fine, per ammazzare il tempo e così dargli un senso, quella dei nostri nonni e di quelli prima di loro, è severamente bandita. Con Davide abbiamo provato che invece questo tipo di comunicazione fa parte del nostro DNA già antico. Ce ne siamo accorti ascoltando lo scambio con quegli interlocutori – pochi ma buoni – che hanno deciso di far cadere il sospetto, di stare al gioco, di farsi trascinare in una situazione così insolita e surreale. E quando riattivi quella latente porzione di codice del nostro DNA, in un sonnacchioso pomeriggio domenicale, scoppia la magia.

Lorenzo Spurio

 

Bibliografia

Bertotto Giulia, “L’arte contemporanea nella poesia: The Call Center”, Slam Contemporary, 3 novembre 2019, https://slamcontempoetry.wordpress.com/2019/11/11/larte-contemporanea-nella-poesia-the-call-center/

Di Genova Arianna, “John Giorno, l’artista che regalava poesia al telefono”, Il Manifesto, 13/10/2019, https://ilmanifesto.it/john-giorno-lartista-che-regalava-poesie-al-telefono/

Tiberia Antonietta, “Poesia al telefono. Call Center poetico al MACRO asilo”, Il Mangiaparole, n°7, luglio/settembre 2019, p. 44.

Intervista a Francesca Fini per performance novembre 2019: https://www.youtube.com/watch?v=DfJ1okAHKRI

http://performart.altervista.org/the-call-center-performance-art-tv/

https://abitarearoma.it/the-call-center-davide-cortese/

https://vimeo.com/groups/21825/videos/385885170

 

Note di riferimento 

[1] Antonietta Tiberia, “Poesia al telefono. Call Center poetico al MACRO asilo”, Il Mangiaparole, n°7, luglio/settembre 2019, p. 44.

[2] Francesca Fini è un’artista interdisciplinare la cui ricerca spazia dalla video-arte al documentario sperimentale, dal teatro alla performance art, dalle arti digitali all’installazione pittorica, inoltrandosi in quel territorio di confine dove le arti visive si ibridano, cercando di proporne una sintesi nuova proprio nel linguaggio performativo contemporaneo. Negli anni ha performato ed esibito il suo lavoro in numerosi contesti di alto livello sia in Italia che all’estero tra cui al MACRO (Roma), Manege Museum (San Pietroburgo), Schusev State Museum of Architecture (Mosca), Arsenale (Venezia), a Toronto, Chicago, San Paolo, Rio. Ha realizzato “Ofelia non annega”, un lungometraggio sperimentale, che mescola il linguaggio della performance art a quello dell’archivio storico. I suoi video sono distribuiti da Video Out di Vancouver e VIVO Media Art Center.

[3] Davide Cortese è nato sull’isola di Lipari (ME) nel 1974 e vive a Roma. Per la poesia ha pubblicato ES (1998), Babylon Guest House (2004), Storie del bimbo ciliegia (2008), Anuda (2011), Ossario (2012), Madreperla (2013), Lettere da Eldorado (2016) e Darkana (2017). I suoi versi sono inclusi in numerose antologie e riviste cartacee e on-line, tra cui Poeti e Poesia e I fiori del male. Nel 2015 ha ricevuto in Campidoglio il Premio Internazionale “Don Luigi Di Liegro”. Autore anche di raccolte di racconti.

[4] Non si è trattata della prima performance di questo tipo dato che già due anni prima, nel novembre del 2017, venne realizzato, sebbene in una dimensione domestica nello studio di Francesca Fini. Qui si trova il video di quella esperienza: https://www.facebook.com/performancearttv/videos/544181842601278/ mentre a questo link un estratto della performance romana: https://vimeo.com/groups/21825/videos/385885170

[5] «Dial-A-Poem scaturì da uno scambio con il sodale Burroughs; all’inizio, le linee previste erano dieci, poi crebbero: bisognava strappare più persone possibile dalla banalità del loro everyday», in Arianna Di Genova, “John Giorno, l’artista che regalava poesia al telefono”, Il Manifesto, 13/10/2019, https://ilmanifesto.it/john-giorno-lartista-che-regalava-poesie-al-telefono/

[6] In altri casi il perfomer declama direttamente la poesia senza nessuna richiesta in tal senso e il messaggio poetico, l’attacco d’arte, anticipa un qualsiasi tipo di rapporto dialogico tra mittente e destinatario.

[7] Davide Cortese in una recente intervista privata da me fatta ha dichiarato che «Amy Lowell è un’autentica passione di Francesca Fini e piace molto anche a me. Francesca ha dedicato a questa affascinante poetessa un film meraviglioso: Hippopoetess». Nessuno dei destinatari, come rivelato dallo stesso Cortese, è stato in grado di accennare o intuire l’autore di determinate liriche lette durante la performance.

[8] L’uso del corsivo è mio per sottolineare alcune parole-chiave nella descrizione del progetto fatta dallo stesso autore-performer.

[9] Giulia Bertotto, “L’arte contemporanea nella poesia: The Call Center”, Slam Contemporary, 3 novembre 2019, https://slamcontempoetry.wordpress.com/2019/11/11/larte-contemporanea-nella-poesia-the-call-center/

[10] Antonietta Tiberia, “Poesia al telefono. Call Center poetico al MACRO asilo”, Il Mangiaparole, n°7, luglio/settembre 2019, p. 44.

[11] Intervista condotta a livello privato per e-mail il 24-01-2020.

 

L’autore del presente testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere in relazione ai contenuti del testo e a eventuali riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.

Ricordo di Zavanone e inediti di Gianni Milano; esce il nuovo numero di “Euterpe” con poesie di E. Pecora, F. Pusterla, M.P. Quintavalla e haiku di M. Bettarini

Esce il n°30 (importante traguardo!) della rivista di poesia e critica letteraria “Euterpe”, aperiodico tematico di letteratura online, ideato e diretto da Lorenzo Spurio e rientrante all’interno delle attività culturali promosse dall’Ass. Culturale Euterpe di Jesi.

Tale numero proponeva quale tematica alla quale era possibile ispirarsi e rifarsi: “L’uomo di fronte alla natura: descrizioni, sublimazioni e terrore”.

La prima parte è dedicata al poeta e pedagogista piemontese Gianni Milano. Lorenzo Spurio nel lungo articolo rintraccia i momenti cruciali della vita dell’uomo e della sua intensa produzione letteraria, con una selezionata scelta di inediti da alcune sillogi scritte nel corso degli anni da Milano. Fa seguito un articolo a firma della poetessa e critico letterario Rosa Elisa Giangoia dedicato al ricordo del poeta Guido Zavanone (1927-2019) recentemente scomparso.

Hanno collaborato e contribuito con proprie opere a questo numero della rivista (in ordine alfabetico) gli autori: Abenante Carla, Argentino Lucianna, Baldazzi Cinzia, Bardi Stefano, Bello Diego, Bettarini Mariella, Bianchi Mian Valeria, Biolcati Cristina, Bonanni Lucia, Buffoni Franco, Bussi Alfredo, Calabro´ Corrado, Carmina Luigi Pio, Carrabba Maria Pompea, Cascella Luciani Anna, Casuscelli Francesco, Chiarello Maria Salvatrice, Chiarello Rosa Maria, Cimarelli Marinella, Consoli Carmelo, Corigliano Maddalena, Cortese Davide, Curzi Valtero, D´Errico Antonio G., Dante Daniela, De Maglie Assunta, De Stasio Carmen, Di Iorio Rosanna, Di Palma Claudia, Di Salvatore Rosa Maria, Di Sora Amedeo, Enna Graziella, Ferraris Maria Grazia, Ferreri Tiberio Tina, Fiorenzoni Fiorella, Fiorito Renato, Flores d´Arcais Alessandra, Follacchio Diletta, Fratini Antoine, Fusco Loretta, Gabbanelli Alessandra, Giangoia Rosa Elisa, Giorgi Simona, Kemeny Tomaso, Kostka Izabella Teresa, Langiu Antonietta, Lania Cristina, Lubrano Rossella, Luzzio Francesca, Maggio Gabriella, Malito Antonietta, Marcuccio Emanuele, Milano Gianni, Minerva Gianni, Minore Renato, Mongardi Gabriella, Pardini Nazario, Pasero Dario, Pecora Elio, Pellegrini Stefania, Pierandrei Patrizia, Polvani Paolo, Porri Alessandro, Pusterla Fabio, Quintavalla Maria Pia, Raggi Luciana, Riccialdelli Simona, Saccomanno Mario, Scalabrino Marco, Seidita Antonella, Sica Gabriella, Silvestrini Maria Pia, Siviero Antonietta, Spagnuolo Antonio, Sponticcia Andrea, Spurio Lorenzo, Stanzione Rita, Stefanini Anna Maria, Strinati Fabio, Vargiu Laura, Veschi Michele, Zanarella Michela, Zavanone Guido.

Il nuovo numero può essere letto e scaricato cliccando qui e, a seguire, nei vari formati:

Visualizzazione in ISSUU/Digital Publishing adatta per smartphone e tablet

E-book: Azw3 per Kindle – Mobi – Epub

 

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Di particolare interesse è la sezione saggistica del presente volume che si compone dei seguenti contributi:

ANTOINE FRATINI – “L’importanza dei paesaggi dal punto di vista psicologico”

VALERIA BIANCHI MIAN – “Accendere la luce della coscienza nel collettivo, ovvero due parole sulla ricerca animale a partire dai macachi di Torino e Parma”

ALFREDO BUSSI – “La deriva poetica della promozione territoriale”

FRANCESCA LUZZIO – “Il roditore della natura”

RENATO MINORE – “Le immagini e la voce del calcio”

DILETTA FOLLACCHIO – “Uomo, letteratura e natura. Dalla natura sacralizzata all’«arido vero»

VALTERO CURZI – “Natura Madre nel pensiero romantico”

AMEDEO DI SORA – “Il Paese d’Anima di Tristan Corbière”

STEFANO BARDI – “Natura, magica natura. La poesia di Francesco Scarabicchi”

GRAZIELLA ENNA – “Il paradiso perduto: alcune interpretazioni e variazioni del topos dell’età dell’oro dal periodo classico al Cinquecento”

MARIA GRAZIA FERRARIS – “Il parco della “contemplazione e della riflessione”

TINA FERRERI TIBERIO – “La Natura tra Filosofia e Scienza”

LUCIA BONANNI – “Il mito del changeling come spiegazione di malattie misteriose, rapimenti e scambi di bambini anche in relazione ai fenomeni naturali”

CARMEN DE STASIO – “La distopica sublimazione. Il movimento vorticoso di Il Secondo Avvento di William Butler Yeats”

CINZIA BALDAZZI – “L’uomo e la ragione contro l’«empia natura». Riflessioni sulla Ginestra leopardiana”

 

Ricordiamo, inoltre, che il tema del prossimo numero della rivista al quale è possibile ispirarsi sarà

“L’ “io” in letteratura. Individualità e introspezione”. I materiali dovranno essere inviati alla mail rivistaeuterpe@gmail.com entro e non oltre il 20 Aprile 2020 uniformandosi alle “Norme redazionali” della rivista (http://rivista-euterpe.blogspot.it/p/norme-redazionali.html). È possibile seguire il bando di selezione al prossimo numero anche mediante Facebook, collegandosi al link: https://www.facebook.com/events/823533098100301/

 

Inchiesta sulla poesia. Forme, contaminazioni e codici linguistici, tra atrofia della critica e pressappochismo versificatorio

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CLICCA QUI PER IL LINK DIRETTO ALLA INCHIESTA

[scadenza per compilazione e invio: 29/02/2020]

Sulla scorta di alcune recenti letture e approfondimenti sulla letteratura italiana contemporanea, con particolare attenzione alla poesia, mi è sembrata buona cosa, in chiusura di questo anno, proporre, mediante un format online di semplice uso (collegandosi a questo link), un sondaggio rivolto ai poeti italiani con l’idea di sentire le proprie opinioni e considerazioni su una serie di aspetti importanti della poesia odierna.

Alcune considerazioni sullo stato attuale della poesia, esposte dalla poetessa e critico letterario Rosa Giangoia, possono essere utili a evidenziare la situazione odierna: «La poesia sembra vivere un momento molto particolare, caratterizzato da contraddizioni. Da un lato, infatti, la produzione di testi poetici è molto ampia e diffusa ad opera di una miriade di autori, di cultura diversa e di orientamento di pensiero vario e diversificato, che producono testi quasi a getto continuo. Per lo più sono anche attivissimi in rete, in siti specialistici e in gruppi dedicati sui social, in cui postano con frequenza loro testi, che raramente vengono discussi con argomentazioni e valutazioni critiche, ma di solito sono fatti oggetto di elogi da parte di lettori sulla base di consonanza e spontaneismo.  […] Si assiste in molti casi a uno svilimento dell’attività poetica, sovente frutto di spontaneismo e di improvvisazione, con la conseguenza di una produzione sciatta, banale, ripetitiva, scarsamente originale, all’insegna dell’emotività e del sentimentalismo».[1]

Partendo dall’assunto che «La letteratura è dappertutto»[2], come sostenuto da Giulio Ferroni in una recente pubblicazione, nel sondaggio ci si è posti lo stratificato e mutabile universo poetico come elemento d’indagine da una serie di punti di vista differenti. Il sondaggio si costituisce di ventuno domande pensate come possibili input, tracce da poter investigare in maniera libera, senza un particolare limite di estensione in relazione ad aspetti quali la poesia civile[3], l’importanza della musicalità e della componente orale della poesia con annesse domande in relazione alla lingua e alla traduzione, ma anche al dialetto.

Ricorrendo sempre a Ferroni che sostiene che «in ogni modo non sembra più possibile delimitare la letterarietà in un campo specifico, che escluda il vario irrompere delle ibridazioni a cui la parola scritta viene sottoposta», ci si è posti, per converso, anche la questione – che reputo nevralgica – del rapporto tra poesia e altri codici espressivi, vale a dire le contaminazioni e le rappresentazioni multidisciplinari, le applicazioni che nel suo infinito contenitore di temi e approcci può abbracciare.

Vengono altresì poste domande, per fini statistici che permettano di argomentare i dati che saranno raccolti, in merito ad aspetti più personali del proprio legame con la poesia (età nella quale si è cominciato a produrre, numero di libri prodotti, numeri di libri letti al mese) che possono fornire indicazioni rilevanti per una considerazione tout court sulla poesia contemporanea. Il progetto, che non ha previsto nessuna data di scadenza quale termine per poter completare le domande del sondaggio, ha la volontà di raccogliere un congruo numero di materiali, in risposta, in riferimento ai vari quesiti che possano, in una seconda fase, essere letti, comparati e forniti in maniera esatta e dai quali poter trarre, eventualmente, delle considerazioni più circostanziate.

La rivista fiorentina L’area di Broca (ex Salvo imprevisti), diretta dalla poetessa Mariella Bettarini, ha dedicato nei mesi scorsi uno dei suoi numeri proprio a fare il punto sulla poesia contemporanea proponendo quesiti importanti sulla funzione e la rilevanza nella nostra società della poesia, di come essa sia cambiata nel corso degli ultimi decenni e ponendo particolare attenzione alle nuove forme poetiche che traggono sostentamento soprattutto dall’oralità e dalla virtualità. Un compendio molto interessante con gli interventi, tra gli altri, di Mariella Bettarini, Maria Grazia Calandrone, Maurizio Cucchi, Caterina Davinio, Roberto Deidier, Luigi Fontanella, Marco Giovenale, Giuliano Ladolfi, Mia Lecomte, Giorgio Linguaglossa, Elio Pecora, Evaristo Seghetta Andreoli, Adam Vaccaro, Luciano Valentini e il sottoscritto che è stato edito in forma sintetica sul n°106-107 (luglio 2017-giugno 2018) della rivista cartacea (disponibile anche in formato digitale, scaricabile in PDF dal relativo sito) e in forma integrale, nella completezza dei vari interventi, in un volume edito da Porto Seguro Editore di Firenze nel 2019.

L’aspetto che credo sia rilevante, o comunque che deve essere rimarcato, è che tale sondaggio, pur aperto liberamente a tutti, è stato espressamente pensato e voluto per essere rivolto direttamente ai poeti. Ha come finalità proprio quella di sentire cosano pensano i poeti – coloro che la poesia la producono e non solo la leggono – di questo genere, degli approcci e delle forme, nonché delle nuove modalità espressive, come la pratica diffusa del reading e della performance, come quella del poetry slam che sempre genera pareri molto discordanti.

Lello Voce, considerata l’anima centrale di questa espressione poetica creata da Marc Kelly Smith, sostiene che «Lo slam è un atto radicalmente politico: non solo perché riporta il poeta nella polis, ma perché rivendica il nostro diritto di essere ancora proprietari della lingua con la quale parliamo, con la quale amiamo e odiamo, con la quale gioiamo e soffriamo, con la quale accettiamo quell’altro che ci sta di fronte e occupa uno spazio che, se non ci fosse lui, potrebbe essere nostro, ma che, se lui non c’è, non avrebbe alcun senso di essere».[4] Il poeta e performer Dome Bulfaro, presidente della Lega Italiana Poetry Slam, ha raccolto una serie di scritti, opinioni di poeti e testimonianze – che danno voce a entrambi i sostenitori e i detrattori di questo fenomeno – nel ricco testo Guida liquida al poetry slam. La rivincita della poesia (2016) che dovrebbe sicuramente esser letto per avere un approfondimento su ogni aspetto di questa poesia empatica che si fa viva e prende corpo proprio nella sua forma di spoken language.[5]

In relazione alla dimensione orale della poesia è rilevante ricordare il progetto ideato e curato da Giovanna Iorio in collaborazione con Alan Bates nato un anno fa circa con la volontà di creare una grande enciclopedia di poesia vocale, la Poetry Sound Library (PSL).[6] Un’antologia della voce dove ciascun autore, che viene localizzato sulla mappa del globo e del quale si forniscono note bio-bibliografiche, dà lettura, nella sua lingua, a un componimento poetico. Il progetto, al quale da subito hanno aderito poeti da ogni parte del mondo, si è ben presto interessato anche alla poesia dialettale e dar voce anche agli autori scomparsi. L’iniziativa, che è stata presentata in un evento dedicato al Museo Macro Asilo di Roma il 14 aprile 2019 dal titolo “Riflessioni sulla voce”[7], nasce dalla volontà, strenuamente difesa dall’ideatrice Giovanna Iorio, di «preservare la voce, tornare alla purezza del suono, togliere il fruscio della carta delle parole, risvegliare i suoni primordiali del vento, restituire alla poesia la potenza della voce».[8] Essa contempla, a dicembre 2019, le voci di un totale di 1112 poeti viventi e decine di poeti del passato. Nella prefazione del volume pubblicato a seguito della presentazione ufficiale del PSL l’ideatrice Giovanna Iorio così ha annotato: «La Poetry Sound Library (abbrev. PSL) non è un altro archivio sonoro ma la prima mappa mondiale delle voci poetiche. […] è soprattutto un’utopia, un paese ideale solo per i poeti, un «luogo che non esiste», il «non» «luogo» οὐ τό̟ος di Tommaso Moro. Come ogni utopia anche la PSL aspira alla formulazione di un assetto poetico che non trova ancora riscontro nella realtà e che qui viene proposto come ideale e come modello; è utopia anche nel senso limitativo del termine, perché aspira a un modello non realizzabile, astratto, ma nel far questo sottolinea la forza critica verso situazioni esistenti e la positiva capacità di orientare forme di rinnovamento sociale. […] La PSL ha creato un pianeta silenzioso per ascoltare la voce dell’altro. Può contenere, e di fatto contiene, gli archivi di tutto il mondo e i poeti di ogni epoca e luogo. Proprio come un nuovo mondo, sogna di ospitare tutte le voci poetiche e per questo è un progetto che non verrà mai completato, può solo desiderare di essere portato a termine. Grazie agli strumenti della mappa, i poeti più importanti del passato emergono dagli archivi e tornano vivi, nella città e nei luoghi dove hanno vissuto e operato. […] Si percepisce, esplorando la mappa, che esiste una sola voce, la Voce della Poesia, polifonica e dirompente se la si ascolta in un nuovo modo e senza gerarchie, limiti spaziali o temporali. […] La PSL fa di-vertire e cambiando direzione si tracciano nuove geografie. I percorsi sonori sulla mappa invitano ad esplorare questo mare ignoto della poesia sonora. Emoziona ascoltare le voci nelle lingue di tutto il mondo, senza la rassicurante presenza di una traduzione. L’ascolto va al di là della comprensione del senso delle parole».[9]

Sui rapporti tra scienza e poesia, oggetto di analisi di uno dei quesiti, mi viene da segnalare alcuni recenti progetti che hanno parlato di questo. In una recente recensione di Rosa Elisa Giangoia dal titolo “La poesia della matematica”, apparsa sulla rivista Xenia dove, si parla del volume Duet of Formula (2016) di Laura Garavaglia e Mariko Sumikura e si legge: «Quello che le liriche raccolte vogliono evidenziare è che tanto la matematica quanto la poesia indagano gli aspetti problematici della realtà come l’inizio, la fine, la vita, la morte, avendo come obiettivo un oltre indefinito, anche perché entrambe investigano il dilemma dell’infinito, dell’incommensurabile, dentro e fuori l’uomo e la realtà».[10] Va anche segnalato il pamphlet di Roberto Maggiani, edito in formato e-book da La Recherche, ricco di citazioni e riferimenti, dal titolo Poesia e scienza: una relazione necessaria? (2019) dove il tema nevralgico delle interrelazioni e intersezioni tra i due campi vengono presi in considerazione con acume da vari punti di vista. Eugenio Nastasi nella sua “Breve riflessione” che chiude questa dissertazione osserva: «Se è vero che la fisica quantistica “cerca di spiegare quello che accade a una particella prima che entri in gioco l’osservatore”, lo stesso procedimento può essere esteso all’ologramma poetico prima di concretizzarsi, nella mente del poeta, in sintagma del poiein. In qualche modo, voglio dire, come nell’universo della fisica quantistica “la realtà esiste solo nel mondo dei numeri immaginari”, gli elementi dell’atto creativo poetico o similari, fluttuano in un “loro” mondo, complementare o speculare a quello dell’osservatore-poeta, fino a quando viene assorbito e reso accessibile dalla “cernita” che ne fa il poeta».[11] Sui rapporti tra poesia e astrofisica mi sento di fare senz’altro il nome del poeta Corrado Calabrò che con Quinta dimensione (2018) ha spalancato le porte della poesia a una dimensione altra, che s’interroga sull’uomo e ammicca alla scienza e ai suoi traguardi.[12]

Ferroni segnala che la «pluralità delle esperienze, dà luogo a una frantumazione degli spazi e dei livelli, con un’articolazione di nicchie e strati che tendono a chiudersi in se stessi, spesso tra loro impermeabili» ed è, in questa atrofia poetica e iperproduzione libraria, il rischio che maggiormente si paventa e che dovrebbe essere, se non allontanato del tutto, senz’altro reso il meno invasivo possibile tenendo a mente un aforisma di Carl Sandburg che recita: «La poesia è l’apertura e la chiusura di una porta che lascia chi vi guarda attraverso a fare congetture su ciò che ha visto per un istante».[13]

Non solo attenzione verso il poeta in quanto fautore della creazione e custode di sapienza (finanche affabulatore, quando non stratega e utilizzatore di codici avulsi dalla praticità spicciola della vita) ma anche verso il critico la cui funzione, negli ultimi anni, sembra essersi un po’ svuotata o semplicemente dissipata in questa variegata schiera di tuttologi e di informatori che fanno cronaca e spesso travalicano la critica propriamente detta, agghindata di indecorose banalità o gossip senz’altro a latere l’oggetto libro. Colui che si colloca in mezzo tra l’autore e il pubblico, una volta inteso come interprete del testo e per questo spesso associato a una sapere tecnico, accademico e pedante, quale estrattore di significati nascosti. Semmai un commentatore in grado di contestualizzare contenuti, analizzare forme, ampliando aspetti, trovando rimandi, ascoltando echi, sapendo cogliere la centralità delle immagini, le correlazioni spesso non così manifeste, ma plausibili secondo un dato tipo di avvicinamento al testo. Citando ancora Ferroni, che molto si è espresso sull’argomento, e in maniera quanto mai chiara, non ci si può non riconoscere nelle sue parole: «Tuttologia e specialismo sono spesso fuorviati dall’ostentazione di sicurezza dell’interprete, dalla pretesa di dire a tutti i costi qualcosa di nuovo e dall’ossessione dell’iperinterpretazione, dal voler far prova di saperne di più di ciò che il testo contiene».

Nel corso del sondaggio si forniscono anche domande atte a chiedere gli autori – sempre in fatto di poesia – tanto italiani che stranieri che si reputano, per ragioni proprie, i più importanti per la poesia, che vanno senz’altro letti e studiati e tenuti a mente. Questo consentirà di poter avere dati attendibili in merito alla poesia che realmente si legge (e dunque si ama) che non ha da essere valutata meramente con ciò che nelle librerie viene comprato, spesso in maniera semplicistica, sulla scorta di una suggestione avuta magari dalla semplice copertina o da un lontano consiglio di qualcuno che non di rado non ha come epilogo che quello di lasciar depositare polvere su quel libro acquistato.

Ed è per questa ragione che vengono proposte nel sondaggio anche due domande che reputo lungimiranti e necessarie al contempo, che guardano ciascuna in una direzione precisa: una al passato e l’altra al futuro. La prima di esse, infatti, ha a che vedere con quali autori, se si ritiene che ve ne siano, sembrano essere i grandi assenti, palesemente dimenticati e tralasciati a dispetto della loro importante opera letteraria (complici magari la disattenzione di critici, l’inadempienza di familiari che potrebbero meglio curare l’eredita letteraria, nel caso di autori passati a miglior vita, e soprattutto il palese disinteresse delle major editoriali che puntano altrove, verso il facile guadagno). L’altro quesito, invece, tende a chiedere quali poeti – più o meno giovani – della scena odierna meriterebbero una conoscenza, diffusione maggiore, vale a dire quali esponenti che, causa della marginalità insita della poesia e – di nuovo – del poco interesse editoriale, non godono di quella fama che, effettivamente, meriterebbero.

Si tratta, in qualche modo, di poter comprendere meglio alcuni dei tanti tracciati che la poesia nel corso del tempo, con esiti vari, ha scritto e percorso, vicoli bui e strade per lo più asfaltate, passaggi ampi e cunicoli leggermente impraticabili, a rappresentare i tanti percorsi dei poeti che, anche grazie a un sistema di rimandi, citazioni e di un universo intertestuale, sono interconnessi tra loro, che si vivificano a vicenda, colloquiando tra età e spazi diversi. Intertesto che è rimando ma anche polifonia interpretativa come osservato dalla poetessa Erika Burkart in alcuni suoi versi: «Un frammento vien letto/ da ciascuna epoca in modo diverso,/ dentro vi proiettiamo l’attualità,/ spieghiamo, aggiungiamo e combiniamo,/ scopriamo; sui bordi estremi,/ nei più profondi interstizi/ prolifera un che di vago e di sinistro,/ che fa paura e intriga».[14]

Questo sondaggio, in ultima battuta, è un mezzo per interrogare i tanti poeti sulla loro arte; anche perché, come Ferroni propone e incalza, la critica possa resistere mediante un mezzo efficace che gli consenta di «interrogare i linguaggi» dal momento che «L’impegno interpretativo non può disporre di nessuna sicurezza, ma può fare affidamento sulla continuità di un leggere e di un interrogare». Affinché si possano aggiungere tante valide pagine a quella millennium poetry che, come Magrelli ha sottotitolato, non è che un viaggio sentimentale nella poesia italiana.

 

Link diretto all’Inchiesta sulla poesia

 

 

Riferimenti

AA.VV., L’area di Broca. Poesia XXI. Il punto sulla poesia contemporanea, Porto Seguro, Firenze, 2019.

AA.VV., Poetry Sound Library. Riflessioni sulla voce, e-book n°233, La Recherche, 2019.

Bulfaro Dome, Guida liquida al poetry slam. La rivincita della poesia, Agenzia X, Milano, 2016.

Burkart Erika, Poesie, Campanotto, Paisan di Piave, 2005.

Ferroni Giulio, La solitudine del critico. Leggere, riflettere, resistere, Salerno Editrice, Roma, 2019.

Garavaglia Laura, Sumikura Mariko, Duet of Formula, Japan Universal Poets Association, Kyoto, 2016.

Maggiani Roberto, Poesia e scienza: una relazione necessaria?, e-book, La Recherche, 2019.

Magrelli Valerio, Millennium poetry. Viaggio sentimentale nella poesia italiana, Il Mulino, Bologna, 2015.

Poesia, Crocetti, Milano, anno XXXII, novembre 2019, n°353.

Spurio Lorenzo, “La Quinta dimensione di Corrado Calabrò il poeta che strizza l’occhio alla scienza”, Blog Letteratura e Cultura, 18/08/2019, https://blogletteratura.com/2019/08/18/la-quinta-dimensione-di-corrado-calabro-il-poeta-che-strizza-locchio-alla-scienza-a-cura-di-lorenzo-spurio/

Xenia, Trimestrale di Letteratura e Cultura, AGF Edizioni, Genova, n°3, 2009.

 

 

Lorenzo Spurio (Jesi, 1985), poeta, scrittore e critico letterario. Per la poesia ha pubblicato Neoplasie civili (2014), Tra gli aranci e la menta. Recitativo dell’assenza per Federico García Lorca (2016) e Pareidolia (2018). Ha curato antologie poetiche tra cui Convivio in versi. Mappatura democratica della poesia marchigiana (2016) e Sicilia: viaggio in versi (2019). Per la narrativa ha pubblicato tre raccolte di racconti brevi. Intensa la sua attività quale critico con la pubblicazione di saggi in rivista e volume, approfondimenti, prevalentemente sulla letteratura straniera, tra cui il volume Cattivi dentro: dominazione, violenza e deviazione in alcune opere scelte della letteratura straniera (2018). Si è dedicato anche allo studio della poesia della sua regione pubblicando Scritti marchigiani (2017) e La nuova poesia marchigiana (2019). Tra i suoi principali interessi figura il poeta e drammaturgo spagnolo Federico García Lorca al quale ha dedicato un ampio saggio sulla sua opera teatrale, tutt’ora inedito e tiene incontri tematici. Presidente dell’Associazione Culturale Euterpe di Jesi, fondata a marzo 2016, e Presidente di Giuria in vari concorsi di poesia, tra cui il Concorso di Poesia “Città di Porto Recanati – Premio Speciale Renato Pigliacampo”, il Premio Letterario “Città di Chieti” e il Premio Letterario Internazionale “Antonia Pozzi – Per troppa vita che ho nel sangue” di Pasturo (LC); ha ideato e presiede il Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi” che ha sede a Jesi, giunto nel 2020 alla nona edizione. Su di lui si sono espressi, tra gli altri, Giorgio Bàrberi Squarotti, Dante Maffia, Corrado Calabrò, Ugo Piscopo, Nazario Pardini, Antonio Spagnuolo e Sandro Gros-Pietro.

 

[1] Xenia, Trimestrale di Letteratura e Cultura, AGF Edizioni, Genova, n°3, 2009, pp. 35-36.

[2] Giulio Ferroni, La solitudine del critico. Leggere, riflettere, resistere, Salerno Editrice, Roma, 2019. Tutte le citazioni di Ferroni sono tratte dal medesimo libro.

[3] A partire dall’amara e annichilente citazione (ma anche indirettamente propositiva per un impegno serio, costante e convinto) di Theodor Adorno che ebbe a dire «Scrivere una poesia dopo Aushwitz è barbaro e ciò avvelena anche la stessa consapevolezza del perché è divenuto impossibile scrivere oggi poesie» si legga il breve articolo di Letizia Leone dal titolo “Quale poesia dopo lo scandalo insostenibile della Storia?” apparso sulla rivista romana Il Mangiaparole, anno 1, numero 4, ottobre-dicembre 2018.

[4] Dome Bulfaro, Guida liquida al poetry slam. La rivincita della poesia, Agenzia X, Milano, 2016.

[5] In relazione all’universo dello slam vorrei segnalare due interviste da me fatte a due poeti performer che, nelle loro rispettive zone, sono stati e sono promotori di poetry slam e hanno rivestito il ruolo del Maestro di Cerimonia: “Intervista al poeta e performer Max Ponte”, in Blog Letteratura e Cultura, 07/01/2018 (https://blogletteratura.com/2018/01/07/intervista-al-poeta-e-performer-max-ponte-a-cura-di-l-spurio/ );   “La poesia orale. Intervista alla poetessa aquilana Alessandra Prospero”, in Blog Letteratura e Cultura, 19/01/2018 (https://blogletteratura.com/2018/01/19/la-poesia-orale-intervista-alla-poetessa-aquilana-alessandra-prospero-a-cura-di-l-spurio/). Va, inoltre, osservato che Max Ponte è ideatore di una formula innovativa di gara poetica che può essere considerata di derivazione della poetry slam denominata “Angelico Certame” (https://angelicocertame.org/2016/09/06/regolamento/) che si disputa a Torino. S’iscrive in questo ambito di rivisitazione anche la Gara poetica itinerante nelle antiche terre picene “Ver Sacrum” (https://associazioneeuterpe.com/regolamento-2/), ideata dal sottoscritto assieme a Michela Tombi, organizzata dall’Associazione Culturale Euterpe di Jesi che ha toccato i maggiori centri della regione Marche nel corso del 2019 e ha avuto la sua finale del campionato a Cupramontana (AN) lo scorso 14/12/2019.

[6] Sito internet: https://poetrysoundlibrary.weebly.com/

[7] Gli atti di questo incontro sono raccolti in un numero monografico col medesimo titolo sulle edizioni online della rivista La Recherche, e-book n°233, 2019. Nel volume, a cura di Roberto Maggiani e Giuliano Brenna, dopo l’introduzione di Giovanna Iorio e la prefazione di Stefania Di Lino, figurano, tra gli altri, gli interventi di Lucianna Argentino, Michela Zanarella, Nadia Chiaverini, Anna Maria Curci, Annamaria Ferramosca, Maria Pia Quintavalla, Eugenia Serafini, Maurizio Soldini, Giuseppe Vetromile.

[8] Al fine di una maggiore diffusione e organizzazione del progetto, la fondatrice ha istituito degli Ambasciatori, una sorta di collaboratori diretti che, in prima linea, hanno sposato il progetto e si impegneranno a condividerlo ampiamente e diffonderne le potenzialità, soprattutto nella loro zona. Tra di essi Anna Maria Curci, Michael Rothenberg, Caterina Davinio, Cinzia Marulli, Michela Zanarella, Roberto Maggiani, Paolo Saggese, Giuseppe Vetromile, il sottoscritto e vari altri.

[9] AA.VV., Poetry Sound Library. Riflessioni sulla voce, e-book n°233, La Recherche, 2019.

[10] Xenia, Trimestrale di Letteratura e Cultura, AGF Edizioni, Genova, n°3, 2009, p. 80.

[11] Roberto Maggiani, Poesia e scienza: una relazione necessaria?, e-book, La Recherche, 2019.

[12] Una mia recensione al volume è stata pubblicata su Blog Letteratura e Cultura il 18 agosto 2019 ed è disponibile qui: https://blogletteratura.com/2019/08/18/la-quinta-dimensione-di-corrado-calabro-il-poeta-che-strizza-locchio-alla-scienza-a-cura-di-lorenzo-spurio/

[13] Poesia, Crocetti, Milano, anno XXXII, novembre 2019, n°353, p. 10.

[14] Erika Burkart, Poesie, Campanotto, Paisan di Piave, 2005.

 

NOTA- Il presente articolo, a firma di Lorenzo Spurio, e´ stato pubblicato in anteprima sul blog “Alla Volta di Leucade” del prof. Nazario Pardini in data 23-12-2019. E´ severamente vietato riprodurre, in forma integrale o parziale, i contenuti dell´articolo senza il permesso scritto da parte dell´autore.

“Boati dal profondo” di Pasqualino Cinnirella, recensione di Lorenzo Spurio

8972e-boati-dal-profondo.pngIl poeta Pasqualino Cinnirella di Caltagirone (Catania) con all’attivo le pubblicazioni poetiche “Pieghe d’animo 1963-1977” (1978), “Fuochi sull’aia 1978-1985” (1987) e “Meditazione” (2001) è recentemente uscito con una nuova opera poetica, “Boati dal profondo”, per i tipi di The Writer Edizioni. Le liriche, tutte dotate in calce del riferimento preciso alla data della loro stesura, sono inframmezzate da commenti critici di diversa lunghezza di eminenti critici e studiosi di letteratura, tra i quali Nazario Pardini, Pasquale Balestriere e Maria Grazia Ferraris (solo per citarne alcuni), che si dedicano ad approfondire alcuni aspetti dell’arte poetica del Nostro. 

Le tematiche profonde che legano le varie liriche qui contenute sono il ricordo (di quando, affranto dalla noia e rabdomante nel campo del padre, “[s’] insaccav[a] di sole alto”,13), l’amore, la comunione con l’ambiente campestre, il sacrificio del lavoro, le figure dei cari (soprattutto quella del padre, vero e proprio maestro di vita difatti scrive in “Passaggi” che lui “impartiva alla mia coscienza, intatta allora,/ il suo modo giusto di vivere da uomo”, 23) finanche le tematiche di carattere etico-civile ad abbracciare, in un ideale girotondo di pace, le esistenze derelitte di chi, vicino o all’altro capo del pianeta, “vive[…] piegato al grigio degli eventi” (17).

La recensione integrale è stata pubblicata il 12/02/2019 sulla testata “Radio Doppio Zero” ed è disponibile cliccando qui. 

“Il coraggio delle donne: profili ed esperienze femminili nella letteratura, storia e arte”, è uscito “Euterpe” n°27

E’ uscito il nuovo numero della rivista di letteratura “Euterpe”, il n°27 che proponeva quale tematica di riferimento “Il coraggio delle donne: profili ed esperienze femminili nella letteratura, storia e arte”.

A questo numero hanno collaborato: ALIPRANDI Mario, AMARAL Ana Luísa, APA Livia, ASPREA Pasquale, BALDI Massimo, BARDI Stefano, BARENDSON Samantha, BENASSI Luca, BERGNA Anna, BIOLCATI Cristina, BOLLA Giorgio, BISUTTI Donatella, BONANNI Lucia, BONFIGLIO Anna Maria, BUFFONI Franco, CALDIROLA Stefano, CARDILLO Lucia, CARMINA Luigi Pio, CASTAGNOLI Elisabetta, CASUSCELLI Francesco, CASULA Carla Maria, CECCARELLI Liviana, CHIARELLO Maria Salvatrice, CHIARELLO Rosa Maria, CIMARELLI Marinella, CIMINO Tommaso, COPPARI Elena, CORIGLIANO Maddalena, COSSU Marisa, CUPERTINO Lucia, CURZI Valtero, D’AMICO Maria Luisa, DALL’OLIO Anna Maria, DAMIANI Claudio, DAVINIO Caterina, DE GIOVANNI Neria, DE MAGLIE Assunta, DEL MORO Francesca,  DE ROSA Mario, DE STASIO Carmen, DEMI Cinzia, DI IANNI Ida, DI IORIO Rosanna, DI PALMA Claudia, DI SALVATORE Rosa Maria, DI SORA Amedeo, DOMBURG-SANCRISTOFORO Anna Maria, DOMENIGHINI Luciano, FABBRI Angela, FERAZZOLI Andrea, FERRARIS Maria Grazia, FERRERI TIBERIO Tina, FOIS Massimiliano, FOLLACCHIO Diletta, FRESU Grazia, FUSCO Loretta, GABBANELLI Alessandra, GIANGOIA Rosa Elisa, GRECO Angela, GRIFFO Eufemia, GRILLO Emma Giuliana, GUIDOLIN Giuseppe, INNOCENZI Francesca, KEMENY Tomaso, LANDI Chiara, LANIA Cristina, LEONE Ivana, LEALI Maddalena, LINGUAGLOSSA Giorgio, LOSITO Antonietta, LUZZIO Francesca, MAFFIA Dante, MAGGIO Gabriella, MANGIAMELI Antonio, MANNA Anna, MARCUCCIO Emanuele, MARELLI Dario, MARTILLOTTO Francesco, MASSARI Raffaella, MELILLO ANTONIO, MELONI Valentina, MESSINA Raffaele, MONGARDI Gabriella, MONTALI Alessandra, MOREAL Liliana, MOSCE’ Alessandro, MUSICCO Mirella, NARDI Lucia, NICOLOSI Ada, OPPIO Danila, PACILIO Rita, PARDINI Nazario, PAVANELLO Lenny, PELLEGRINI Stefania, PERRONE Cinzia, PIETROPAOLI Alessandro, PISANA Domenico, PITORRI Paolo, PIZZALA Gabriella, PORSTER Brenda, PREDILETTO Vincenzo, PROSPERO Alessandra, RAMPINI Nazarena, RUGGIU Mariangela, SABIA Mara, SANTARELLI Anna, SANTINELLI Franca, SARTARELLI Vittorio, SCAVOLINI Tania, SIROTTI Andrea, SOLDINI Maurizio, SPURIO Lorenzo, STANZIONE Rita, TOFFOLI Davide, VALENTE Maria Laura, VALERI Walter, VALLI Donato, VARGIU Laura, VENEZIA Paola, VESCHI Michele, VITALE Carlos,VIVINETTO Giovanna Cristina, ZANARELLA Michela, ZAVANONE Guido.

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Particolarmente pregevoli i contributi per le rubriche articoli/critica letteraria, segnaliamo i contenuti della rubrica “Ermeneusi”:

ARTICOLI

MARIA LUISA D’AMICO – “Ritratto di una donna coraggiosa: Frida Kahlo”

AMEDEO DI SORA – “Eleonora Duse: il teatro come vita” 

CINZIA DEMI – “Il rumore del pennino: Petronilla Paolini Massimi (1663-1726)”

GRAZIA FRESU – “Le madri coi fazzoletti bianchi”

ALESSANDRA GABBANELLI – “Una poetessa del 1500: Gaspara Stampa”                

ANNA MANNA – “Il grande affresco barocco nelle inquietudini regali di Cristina di Svezia”

ANNA MARIA BONFIGLIO – “Selma Lagerlof, la prima donna Premio Nobel per la letteratura”                                                           

CINZIA PERRONE – “Artemisia Gentileschi: una femminista ante-litteram” 

MARISA COSSU – “Grazia Deledda”   

ELENA COPPARI – “Anaïs Nin: il coraggio di esprimere la propria sensualità”  

FRANCA SANTINELLI – “Stamira, l’eroe di Ancona”         

FRANCO BUFFONI – “Emily Dickinson”              

LENNY PAVANELLO – “Louisa May Alcott, Margaret Mitchell e Jane Austen: la voce delle donne”                                                                                       

ALESSANDRO PIETROPAOLI – “Jane Austen e l’idea di romanzo al femminile”

TINA FERRERI TIBERIO – “Maria Montessori, donna coraggiosa e anticonformista”  

LORETTA FUSCO – “Tina Modotti, tra genio e passione”                         

FRANCESCA LUZZIO – “Profili da spolverare: la siciliana Maria Alaimo”                    

LORENZO SPURIO – “Ricordo minimo della poetessa Renata Sellani”                         

MADDALENA LEALI – “Ritratto di Christine de Pizan (1365-1431)”           

 

CRITICA LETTERARIA 

MARA SABIA – “Di poesia e resilienza: ritratto di Alda Merini”  

DILETTA FOLLACCHIO – “Le Novelle orientali di Marguerite Yourcenar e il Genji Monogatari di Murasaki Shikibu”                                                              

NERIA DE GIOVANNI – “Grazia Deledda: il coraggio di credere al proprio destino”     

VALTERO CURZI – “Ipazia, Eloisa e Frieda Kahlo: il coraggio di vivere al femminile”    

DAVIDE TOFFOLI – “Il fascino, sempre rinnovato e indelebile, delle bulbare.  Sull’opera antologica della poetessa Biancamaria Frabotta”                      

MASSIMILIANO FOIS – “Rina De Liguoro, diva fulgente del cinema silenzioso”      

LUCIA BONANNI – “Vita interiore, immaginario e creatività nelle opere di Lauren Simonutti e Anne Sexton”                                                                                     

EUFEMIA GRIFFO – “Jane Austen e quella sottile seducente ironia”               

STEFANO BARDI – “Scritture “spirituali”. Note a margine sulle esperienze

letterarie di Patrizia Valduga, Francesca Duranti e Marguerite Yourcenar”          

PAOLO PITORRI – “Chi era Sylvia Plath? La campana di vetro e la sua costellazione”   

GIORGIO LINGUAGLOSSA – “Una ermeneutica sopra una poesia inedita di Donatella Costantina Giancaspero”                                                                        

MARIA GRAZIA FERRARIS – “Cristina, ovvero la ricerca della felicità”         

LORENZO SPURIO – “Nella casa di Maria Costa. La poetessa messinese attraverso l’universo oggettuale che ha lasciato e il ricordo commosso dell’artista Pippo Crea”    

CARMEN DE STASIO – “Virginia Woolf – leggère impressioni: breve viaggio in Le Onde

MARIA LAURA VALENTE – “Joryū nikki bungaku. Un approfondimento sulla letteratura   diaristica femminile di epoca Heian”                                                   

 

La rivista può essere letta e scaricata in formato pdf cliccando qui.

 

E’ anche possibile leggerla in formato ISSU (consigliato per tablet e smarphone) cliccando qui.

Come da editoriale si ricorda che:

  • Il vecchio sito della rivista non sarà più raggiungibile perché verrà soppresso. Tutti i materiali in esso contenuti sono stati caricati in una sezione dedicata del sito dell’Associazione Culturale Euterpe dove potranno essere consultati e raggiunti a partire da questo link.
  • A partire da questo numero dedicheremo ogni qual volta un evento pubblico per presentare i contenuti della rivista dove gli autori saranno invitati a partecipare intervenendo con una breve esposizione dei loro testi o lettura di stralci. La presentazione di questo 27esimo numero si terrà a Senigallia (AN) il 8 settembre 2018 presso il Palazzetto Baviera alle ore 17:30. Nella pagina che segue è possibile prendere visione della locandina dell’evento con tutte le informazioni logistiche. Gli autori che vorranno partecipare sono invitati a darne comunicazione a mezzo mail, confermando la loro presenza, almeno 5 giorni prima, di modo da poter organizzare adeguatamente la scaletta.
  • Il prossimo numero della rivista avrà come tema al quale sarà possibile ispirarsi “Musica e letteratura: influenza e contaminazioni”. L’invio dei materiali dovrà avvenire entro il 20-12-2018. Il relativo evento del prossimo numero su FB è presente a questo link.

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