“L’ “io” in letteratura. Individualità e introspezione”. Le proposte dovranno pervenire entro il 20 aprile

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Il prossimo numero della rivista di poesia e critica letteraria Euterpe avrà come tema: L’ “io” in letteratura. Individualità e introspezione”.

 

I materiali dovranno pervenire entro il 20 aprile 2020 alla mail rivistaeuterpe@gmail.com

Per poter partecipare alla selezione dei testi per detto numero è richiesto di seguire le “Norme redazionali”.

Per essere informati su ogni aspetto relativo alla raccolta e invio di testi si può seguire anche l‘evento FB dedicato cliccando qui.

 

“La Grande Madre e gli dèi del cielo”, saggio antropologico di Cinzia Baldazzi

Saggio di Cinzia Baldazzi[1]

 

     Nel 1938 Carl Gustav Jung, nello studio Gli aspetti psicologici dell’archetipo della Madre, così la definiva:

La magica autorità del femminile, la saggezza e l’elevatezza spirituale che trascende i limiti dell’intelletto; ciò che è benevolo, protettivo, tollerante; ciò che favorisce la crescita, la fecondità, la nutrizione; i luoghi della magica trasformazione, della rinascita; l’istinto o l’impulso soccorrevole.

     Nelle rappresentazioni di epoca antichissima troviamo l’immagine, sotto forma di piccole statue, di un ente supremo definito Grande Madre da archeologi, etnologi, storici della religione. Racconta Umberto Galimberti:

Nell’area mediterranea ne sono state reperite cinquantacinque contro le cinque maschili, atipiche e malfatte, che rappresentano giovanetti in tenera età. Ciò lascia supporre che la divinità maschile subentri solo in un secondo momento e che il rango della divinità-figlio sia stato conferito solo successivamente dalla divinità madre.

     Si tratta di una deità femminile primordiale, còlta in molteplici forme e ospitata in un’ampia gamma di popoli, civiltà e culture sparsi nel mondo, dalle comunità di cacciatori-raccoglitori del Paleolitico ai clan dedicati all’agricoltura e alla pastorizia del Neolitico. La Grande Madre è alla fonte di un circuito ininterrotto di nascita-sviluppo-maturità-declino-morte-rigenerazione, tipico della vita umana quanto di cicli naturali e cosmici. Il carattere femmineo appare quindi necessario elemento mediatore fra il terreno e il trascendentale. L’uomo, il principio maschile, sembra essere completamente escluso dall’immaginario primitivo, probabilmente in quanto il meccanismo della fecondazione non era ancora chiaro alla coscienza.

    1 Le sembianze – visibili nella celebre Venere steatopigia di Willendorf – pongono in rilievo il simbolismo corrispondente a un “vaso pieno”, ottenuto enfatizzando gli attributi peculiari dell’icona muliebre e penalizzandone altri: mammelle e ventre spesso composte in un grappolo unitario, bacino dilatato, testa senza viso, femore e cosce sottili e sproporzionate, piedi esili del tutto insufficienti a reggere il corpo enorme, infine braccia e piedi appena accennati.

     Riguardo l’asse temporale, la prevalenza di un simile personaggio occupa un periodo esteso che, almeno in Europa, copre gli anni dal 35.000 a.C. al 3.000 a.C. circa; in talune aree del Mediterraneo (tra cui Creta) permane sino al II millennio a.C. inoltrato. La celebrazione della Grande Madre attesterebbe quindi l’esistenza di tribù matrifocali nel Paleolitico e nel Neolitico. Prosegue Galimberti:

     La mancanza di agilità e di forma fa assumere alla Grande Madre una postura sedentaria in stretta aderenza alla terra in cui spesso è incorporata. Anche quando sta in piedi, il suo centro di gravità la spinge verso il basso, verso la terra che, nella sua immobilità, è la sede del genere umano. Seduta, poi, la grande Madre è la dèa troneggiante, quindi la forma originaria del trono stesso.

     Grazie all’esplosione demografica causata dall’introduzione dell’agricoltura e alla relativa crescita di culture ramificate, le “competenze” proprie della gloriosa antenata si scindono e si diversificano in svariate icone muliebri. La Somma Divinità, pertanto, pur seguitando ad esistere accompagnata da liturgie specifiche, si moltiplica in personificazioni distinte per sovrintendere all’amore sensuale (Ishtar-Astarte-Afrodite-Venere), alla fecondità delle donne (Ecate triforme), alla fertilità dei campi (Demetra-Cerere-Persefone-Proserpina), alla caccia (Kubaba-Cibele-Artemide-Diana). Poiché il ciclo naturale delle messi implica le tappe di morte e rinascita del seme, la Grande Madre si connette anche a cerimonie legate alla Luna: tra i riti arcaici riservati alle donne, i più remoti sono quelli di Mater Matuta e della Bona Dea.

     L’origine matrifocale dei clan rurali è stata approfondita dalla studiosa lituana Marija Gimbutas, ponendo enfasi sul ruolo femminile sociale della donna in epoca Neolitica.  Ciò sarà evidente, in seguito, nell’appellativo di “figlio della dèa” attribuito a talune divinità (come Διόνυσος-Diònisos) vincolate alla terra. Un nesso determinante nello sviluppo delle religioni ancestrali è infatti il legame autoritario, il rapporto iniziatico, tra la madre archetipica e il suo compagno, caratterizzato dall’essere minore di lei – per età e poteri – e dal ricoprire spesso il ruolo di giovane amante, assai simile a un figliolo (si veda in proposito la coppia Cibele-Attis).

     Nelle feste e nei misteri per evocare la prosperità, onorare la Madre indica il procedere delle stagioni, insieme alla domanda universale dell’essere umano di poter rivivere al pari dei semi dal terreno. Il processo di rigenerazione la rappresenta con fattezze di rana, pesce, porcospino o clessidra, con doppi triangoli e pietre a spigolo adeguati a evocare una stilizzazione combinata con rami e germogli.

     Accanto al vaso primigenio – in analogo al grembo materno – e alla forza ctonia (da khtòn, Terra), la mitologia le conferisce anche la veste di albero della vita: la genitrice trae alimento da salde radici piantate nel suolo, innalza fronde e foglie per delineare un’ombra protettiva nella quale il nucleo vivente trova rifugio. Significativa la parentela con il vocabolo spagnolo madera (“legname”), affine a «madre», «materia», a cui pure risale l’aggettivo greco madaròs (“umido”, “inzuppato”), il latino madidus (“bagnato”). Spiega ancora Galimberti:

In Egitto il pilastro Ded, conficcato nel monte, è il «legno della vita da cui nascono gli dèi», fino alla più recente simbologia giudaico-cristiana dove il figlio della Vergine nasce nella mangiatoia di legno e muore sulla croce «albero della vita e della morte». La materia lignea, infatti, oltre che madre della vita è anche madre della morte, è il sarcofago divoratore di carne, la cassa che racchiude nella forma dell’albero-pilastro Osiride nel suo legno.

     Ciò vuol dire che tutti i simboli collegati alla Grande Madre, o comunque vicini alle proprietà “materne”, sono di fatto contraddistinti da una forte ambivalenza, da una duplice natura, positiva e negativa: la “madre amorosa” e la “madre terribile”.

     Secondo Carl Gustav Jung, il creatore della “psicologia del profondo”, tutti siamo collegati con numerosi archetipi, ovvero con contenuti primordiali e universali presenti nell’inconscio collettivo: la Grande Madre è sicuramente una delle “immagini” con cui forse più spesso e profondamente entriamo in relazione. Rimane attuale l’interrogativo posto da Jung, vale a dire se tale figura, potenza dell’Inconscio, sia piuttosto salvatrice e nutrice, che non deleteria e distruttiva. Sono quindi altrettanto importanti le istanze negative di cui è portatrice:

Ciò che è segreto, occulto, tenebroso; l’abisso, il mondo dei morti; ciò che divora, seduce, intossica; ciò che genera angoscia, l’ineluttabile.

     La psicologa Anna Maria Cebrelli ha così dettagliato questo aspetto:

In quanto espressione di vita è connessa ai cicli di nascita e morte: ogni nascita, infatti, presuppone la “morte” di uno stato precedente. In questa apparente ambivalenza, la Grande Madre può diventare anche terribile, vorace, predatoria. È il suo “lato ombra”: è la caverna fredda e oscura e anaffettiva; è il vaso che non lascia più uscire il suo prezioso contenuto (che quindi non può crescere, svilupparsi, emanciparsi e diventare autonome; rimane invischiato in una relazione opprimente e vincolante o comunque mantiene tratti infantili, filiali), è la Madre Matrigna che non nutre, non si prende cura ma può uccidere, maltrattare. Non ama più, pensa solo a se stessa.

     Ecco una prima inversione di rotta nel percorso mitico, religioso e antropologico. Nel ragionamento di Galimberti scaturisce una svolta storicamente indiscussa, poiché egli riporta le celebri parole di Platone nel Timeo:

Noi uomini non siamo come le piante della terra, perché la nostra patria è il cielo, dove fu la prima origine dell’anima e dove Iddio, tenendo sospesa la nostra testa, ossia la nostra radice, tiene sospeso l’intero nostro corpo che perciò è eretto.

     Dall’adorazione della fertilità femminile, dalle simbologie del vaso e dell’albero, l’umanità si va separando per volgere lo sguardo verso il cielo. L’itinerario dell’uomo, lungo un tracciato millenario e irreversibile, progredisce dalla sfera terrestre al firmamento, dalle divinità ctonie a quelle uraniche, dalla terra-madre al cielo-padre: è l’allontanarsi dalla visione sensibile di tracce cariche di sostanza verso l’intelletto della loro essenza depurata dall’immaterialità. Il mito narra le tappe di tale sentiero, il graduale avanzamento dai culti della Grande Madre alla venerazione degli dèi dell’Olimpo; la filosofia è pronta a cogliere il messaggio profondo del cambiamento. Ma, alla luce dei millenni trascorsi, un simile genere di passaggio non è stato incontrovertibile, non ha annullato le origini, in quanto, da tempo, la materia ha ripreso importanza e la Terra continua a catturare attenzione con il surriscaldamento, i terremoti, le alluvioni, le attività dei vulcani.

     In certa misura, la filosofia avrebbe ancora un compito maieutico, materno: rappresenta un’unione non riscontrabile in un immediato scenario di applicazioni pratiche, piuttosto nella qualità di plasmare la ψυχή (psiuké) umana, agevolando la nascita del prezioso, famoso “senso critico”, oggi fondamentale se inserito nel contesto di un sistema teso, al contrario, a coltivare concetti espressi acriticamente da nozioni considerate già appurate.

     Dalle viscere dell’anima e della cultura, la filosofia rende possibile l’affiorare di un raziocinio operativo dove la ricerca è ogni volta condotta alla scoperta del mondo stesso da cui ha tratto origine, accogliendo l’individuo in un’apertura totale dal χάος preesistente (khàos, “disordine” o “lacuna”) alla struttura di ordine denominata κόσμος (kòsmos). In un tale status d’idee, nel κόσμος si imporrebbe la sua parola e, nel cammino quotidiano verso l’ignoto, da quasi tre millenni avanza la filosofia. Di certo, nell’orizzonte di un pensiero speculativo proiettato verso l’alto e rivolto al futuro, l’ambiente circostante e l’immanenza terrena sono garantiti dalle fattive radici della ragione, facoltà appartenenti all’uomo materiale.

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     Ma il pensiero non può essere giudicato solo figlio dei dati sensoriali, cioè qualcosa pertinente in esclusiva ai cinque sensi: dovremmo in tal caso supporre che le conoscenze effettive siano valide a patto di venir acquisite nell’arco sensibile, ritenendo di conseguenza vaghi i costrutti ideali frutto del meditare. Per fortuna, la storia ha dimostrato quanto il meccanismo logico-filosofico sia sostanziale anch’esso, coincidendo con processi generativi dell’apprendere gestiti fin dalle origini. Cosa resterebbe, altrimenti, dell’intero insieme della conoscenza, rielaborata riflettendo su dati concreti?

     Torniamo così all’antinomia indicata da Galimberti:

Dalla terra al cielo è dunque l’itinerario compiuto dall’uomo, nel suo lento passare dalla visione sensibile delle cose cariche di materia a quella intelligibile della loro essenza depurata dalla materia. Il mito racconta le cose come sono veramente andate: il lento passaggio dai culti della grande Madre ai culti degli dèi uranici; la filosofia coglie il senso di questo passaggio che è nella natura dell’uomo originariamente aperta alla visione.

     Nelle consuetudini primordiali – in specie nelle aree europee, mediorientali, indiane – incontriamo mitologie, leggende, ritualità rappresentative di un legame fra il regno della madre (terra) e il dominio del padre (cielo). Nella prospettiva storica, il tutto è dovuto a una serie plurimillenaria di contatti e conflitti capaci di avvicinare e mettere in relazione i gruppi agricoli e stanziali del bacino del Mediterraneo con i popoli delle steppe, ovvero i nomadi dediti all’allevamento nelle coste del Mar Nero, nell’Asia Centrale, nelle regioni dell’Arabia. Fra stratificazioni etniche tanto diverse talora prevale il contrasto, talvolta la coesione: questa gamma di discordie e di simbiosi si rivelerà all’altezza di modellare lo spirito delle grandi civiltà classiche – romana, ellenica, iranica, indiana – profondamente sincretiste e al contempo provviste al loro interno di robuste tensioni simboliche.

     Nel complesso sintetizzato dalla mitologia matura, le connessioni fra dèe terrestri e dèi celesti esprimono una cosmologia “dinergica” (emblema di dualismo), dotata di armonia e integrazione, in cui ognuno dei poli rimanda all’altro. La dinergia immanente è, ad esempio, iscritta nell’immagine dell’uovo (indice latente del progredire, del mistero antecedente all’essere), e nell’intreccio di uomo-donna, trascendenza-immanenza, arricchita dall’intreccio di tratti androgini ed ermafroditi, in alcune iconografie di dèi maschili, ad esempio Κρόνος/Saturno ed Ἑρμῆς/Mercurio.

     La simbologia degli dèi del cielo finisce per sovrapporsi alla galleria dei numi femminili della terra, comunque senza annullarla: quest’ultima, pure emarginata, continuerà ad informare di sé in maniera decisiva l’estro individuale, la tecnica artistica, le nuove istanze di fede.

     E sarà forte, allora, la nostalgia per quel periodo, ormai avvolto nella notte dei tempi, in cui il cielo fa la sua comparsa ma è ancora dipendente dalla terra, quando insomma la ridefinizione dell’uomo, la reinterpretazione del proprio posto nell’universo, transita ancora nella feconda contaminazione tra gli agricoltori residenziali, con le radici nella divina madre terra, e i popoli migranti degli allevatori, i quali alzano lo sguardo al cielo affinché le stelle indichino loro il cammino.

CINZIA BALDAZZI

 

 

Ringrazio Adriano Camerini per la collaborazione alla stesura del testo.

 

L’autore del presente testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere in relazione ai contenuti del testo e a eventuali riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE DI RIFERIMENTO

Carl Gustav Jung, Gli aspetti psicologici dell’archetipo della Madre, in “Gli archetipi e l’inconscio collettivo”, Opere, vol. IX, tomo 1, Torino, Bollati Boringhieri 1997, p.83

Marija Gimbutas, Il linguaggio della dèa, trad. Nicola Crocetti, Milano, Longanesi 1990

Marija Gimbutas, Le dèe viventi, trad. M. Doni, Milano, Medusa Edizioni 2005

Umberto Galimberti, Le origini del pensiero filosofico greco, in Emanuele Severino (a cura di), Storia del pensiero occidentale, vol. 1, Milano, Mondadori 2019, pp. 24-26

Anna Maria Cebrelli, Grande Madre: l’archetipo dell’origine femminile di ogni cosa, 12 maggio 2017, https://www.greenme.it/vivere/mente-emozioni/grande-madre-archetipo/

Massimo Donà, “Nomos” e singolarità, in “Quaderni di inSchibboleth”, vol. 1/2018, n.9, “Invisibile ed esperienza”, Roma, 2018

 

 

[1] Cinzia Baldazzi, romana, classe 1955, si è laureata in Lettere Moderne a “La Sapienza” in Storia della Critica Letteraria. È stata cronista teatrale negli anni ’70 e ’80 su quotidiani e periodici, quindi sulle testate online “Scenario” e “News Arte Cultura”. Collabora ai blog “On Literature” e “Alla volta di Léucade”, nonché alla rivista digitale “Euterpe”. Tra le pubblicazioni, Passi nel tempo (2011), commenti a quindici poesie di Maurizio Minniti; EraTre (2016), con il poeta Concezio Salvi e il pittore Gianpaolo Berto; Orme poetiche (2016), antologia di poeti curata da Pasquale Rea Martino; Duecento anni d’Infinito (2019), con Maurizio Pochesci, antologia poetica per il bicentenario dell’idillio leopardiano. Tra i riconoscimenti alla carriera, il “Labore Civitatis” all’interno dell’evento “Tra le parole e l’infinito” (2018). Svolge da tempo un’intensa e riconosciuta opera di diffusione della poesia attraverso divulgazione di nuovi autori, presentazione di libri, organizzazione di incontri tra poeti, coordinamento di reading, interventi critici in caffè letterari. Il suo blog http://lamemoriadiadriano.blogspot.com/ è dedicato a letteratura, arte e musica.

Ricordo di Zavanone e inediti di Gianni Milano; esce il nuovo numero di “Euterpe” con poesie di E. Pecora, F. Pusterla, M.P. Quintavalla e haiku di M. Bettarini

Esce il n°30 (importante traguardo!) della rivista di poesia e critica letteraria “Euterpe”, aperiodico tematico di letteratura online, ideato e diretto da Lorenzo Spurio e rientrante all’interno delle attività culturali promosse dall’Ass. Culturale Euterpe di Jesi.

Tale numero proponeva quale tematica alla quale era possibile ispirarsi e rifarsi: “L’uomo di fronte alla natura: descrizioni, sublimazioni e terrore”.

La prima parte è dedicata al poeta e pedagogista piemontese Gianni Milano. Lorenzo Spurio nel lungo articolo rintraccia i momenti cruciali della vita dell’uomo e della sua intensa produzione letteraria, con una selezionata scelta di inediti da alcune sillogi scritte nel corso degli anni da Milano. Fa seguito un articolo a firma della poetessa e critico letterario Rosa Elisa Giangoia dedicato al ricordo del poeta Guido Zavanone (1927-2019) recentemente scomparso.

Hanno collaborato e contribuito con proprie opere a questo numero della rivista (in ordine alfabetico) gli autori: Abenante Carla, Argentino Lucianna, Baldazzi Cinzia, Bardi Stefano, Bello Diego, Bettarini Mariella, Bianchi Mian Valeria, Biolcati Cristina, Bonanni Lucia, Buffoni Franco, Bussi Alfredo, Calabro´ Corrado, Carmina Luigi Pio, Carrabba Maria Pompea, Cascella Luciani Anna, Casuscelli Francesco, Chiarello Maria Salvatrice, Chiarello Rosa Maria, Cimarelli Marinella, Consoli Carmelo, Corigliano Maddalena, Cortese Davide, Curzi Valtero, D´Errico Antonio G., Dante Daniela, De Maglie Assunta, De Stasio Carmen, Di Iorio Rosanna, Di Palma Claudia, Di Salvatore Rosa Maria, Di Sora Amedeo, Enna Graziella, Ferraris Maria Grazia, Ferreri Tiberio Tina, Fiorenzoni Fiorella, Fiorito Renato, Flores d´Arcais Alessandra, Follacchio Diletta, Fratini Antoine, Fusco Loretta, Gabbanelli Alessandra, Giangoia Rosa Elisa, Giorgi Simona, Kemeny Tomaso, Kostka Izabella Teresa, Langiu Antonietta, Lania Cristina, Lubrano Rossella, Luzzio Francesca, Maggio Gabriella, Malito Antonietta, Marcuccio Emanuele, Milano Gianni, Minerva Gianni, Minore Renato, Mongardi Gabriella, Pardini Nazario, Pasero Dario, Pecora Elio, Pellegrini Stefania, Pierandrei Patrizia, Polvani Paolo, Porri Alessandro, Pusterla Fabio, Quintavalla Maria Pia, Raggi Luciana, Riccialdelli Simona, Saccomanno Mario, Scalabrino Marco, Seidita Antonella, Sica Gabriella, Silvestrini Maria Pia, Siviero Antonietta, Spagnuolo Antonio, Sponticcia Andrea, Spurio Lorenzo, Stanzione Rita, Stefanini Anna Maria, Strinati Fabio, Vargiu Laura, Veschi Michele, Zanarella Michela, Zavanone Guido.

Il nuovo numero può essere letto e scaricato cliccando qui e, a seguire, nei vari formati:

Visualizzazione in ISSUU/Digital Publishing adatta per smartphone e tablet

E-book: Azw3 per Kindle – Mobi – Epub

 

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Di particolare interesse è la sezione saggistica del presente volume che si compone dei seguenti contributi:

ANTOINE FRATINI – “L’importanza dei paesaggi dal punto di vista psicologico”

VALERIA BIANCHI MIAN – “Accendere la luce della coscienza nel collettivo, ovvero due parole sulla ricerca animale a partire dai macachi di Torino e Parma”

ALFREDO BUSSI – “La deriva poetica della promozione territoriale”

FRANCESCA LUZZIO – “Il roditore della natura”

RENATO MINORE – “Le immagini e la voce del calcio”

DILETTA FOLLACCHIO – “Uomo, letteratura e natura. Dalla natura sacralizzata all’«arido vero»

VALTERO CURZI – “Natura Madre nel pensiero romantico”

AMEDEO DI SORA – “Il Paese d’Anima di Tristan Corbière”

STEFANO BARDI – “Natura, magica natura. La poesia di Francesco Scarabicchi”

GRAZIELLA ENNA – “Il paradiso perduto: alcune interpretazioni e variazioni del topos dell’età dell’oro dal periodo classico al Cinquecento”

MARIA GRAZIA FERRARIS – “Il parco della “contemplazione e della riflessione”

TINA FERRERI TIBERIO – “La Natura tra Filosofia e Scienza”

LUCIA BONANNI – “Il mito del changeling come spiegazione di malattie misteriose, rapimenti e scambi di bambini anche in relazione ai fenomeni naturali”

CARMEN DE STASIO – “La distopica sublimazione. Il movimento vorticoso di Il Secondo Avvento di William Butler Yeats”

CINZIA BALDAZZI – “L’uomo e la ragione contro l’«empia natura». Riflessioni sulla Ginestra leopardiana”

 

Ricordiamo, inoltre, che il tema del prossimo numero della rivista al quale è possibile ispirarsi sarà

“L’ “io” in letteratura. Individualità e introspezione”. I materiali dovranno essere inviati alla mail rivistaeuterpe@gmail.com entro e non oltre il 20 Aprile 2020 uniformandosi alle “Norme redazionali” della rivista (http://rivista-euterpe.blogspot.it/p/norme-redazionali.html). È possibile seguire il bando di selezione al prossimo numero anche mediante Facebook, collegandosi al link: https://www.facebook.com/events/823533098100301/

 

“Vita e guerriglia: introduzione alla lettura di Ernesto Guevara” a cura di S. Bardi

Articolo di Stefano Bardi  

Ernesto Guevara, detto il “Che”, nacque a Rosario nel 1928 e morì a La Higuera nel 1967;  simbolo della ribellione sociale nel nome di una società che concepisca gli uomini vedendoli come fratelli, di un’economia che sappia valorizzare il prodotto interno di una politica che sappia disfarsi delle retoriche per scendere in mezzo al popolo. Un rivoluzionario che ancora oggi è richiamato e impiegato come una bandiera socio-politica senza, però, capirne il significato che va rintracciato nei discorsi inerenti alla guerra di guerriglia, al suo diario boliviano e del diario della rivoluzione cubana.

Una prima opera da considerare è il saggio La guerra di guerriglia e altri scritti politici e militari (1967) in cui la rivoluzione popolare si basa sul nemico con il suo esercito militare statalista e sul suo avversario rappresentato dal popolo, costituito da contadini, operai,  pescatori. Guerrigliero da Ernesto Guevara considerato ancor di più del semplice brigante, poiché è rappresentato dal contadino che ben conosce le sofferenze sociali che vive in prima persona, sulla sua pelle, i soprusi del potere dittatoriale. Angherie che spingono il guerrigliero a ribellarsi al potere totalitario; il rivoluzionario è il Salvatore delle masse, che deve trionfare nella lotta di guerriglia dove la sconfitta non è prevista. Vita, quella del guerrigliero, che si carica di un significato trascendentale, poiché la sottrazione della Vita del guerrigliero da parte del nemico. Elemento importante della lotta di guerriglia è la strategia operativa. Pianificazione caratterizzata dalla capacità d’azione del combattente che gli consente di fuggire da un contrattacco difensivo nemico, di muoversi meglio durante la notte, di prendersi gioco tatticamente dell’avversario, di attaccare improvvisamente il fronte nemico, di sfruttare a suo favore ogni fallimento del nemico e di conquistare la vittoria nel più breve tempo possibile. Strategia che, però, non può sussistere senza il boicottaggio che a sua volta non deve essere rivolto alle coltivazioni e alle lavorazioni mezzadre, ma, verso le centrali di energia elettrica, le centrali idroelettriche e le centrali di gas che simboleggiano il potere totalitario. Boicottaggio che deve avvenire attraverso un attacco aereo poiché è l’unico strumento in grado di creare danni irreparabili e perché consente di colpire precisamente le principali vie di comunicazione. Tattica e boicottaggio vanno affiancate alla cura dei feriti e al rispetto della popolazione civile. Il rivoluzionario è inteso da Guevara in due modi: educatore sociale e combattente. Educatore sociale che deve eliminare un organismo ingiusto (la dittatura) per sostituirlo con uno nuovo (la democrazia) che deve basarsi sulle sue conoscenze militari e sociologiche personali, ma anche sulle azioni e sui precetti da insegnare agli altri guerriglieri durante un determinato momento di lotta. Accanto all’educatore sociale c’è il combattente che deve essere originario del luogo in cui si sta svolgendo la guerriglia perché gli consente di usare a suo piacimento tutti i vantaggi del terreno. Combattente che deve essere coraggioso, avere una perfetta strategia bellica e deve trovare la luce anche nelle situazioni più sfavorevoli.

Non scordiamoci, inoltre, della figura del medico che è di vitale importanza; non si limita solo a curare le ferite causate dalla lotta, ma sostiene il guerrigliero eticamente e gli si mostra come un “divino protettore” che lo proteggerà fino alla fine. Accanto a guerriglieri ci sono le loro compagne, da Guevara viste pari ai loro compagni, in grado di usare le armi e di combattere, ma anche di organizzare la comunicazione segreta fra i vari gruppi guerriglieri. Operazione che consente di trasportare munizioni, armi, soldi, informazioni e di essere più libera dalla sorveglianza nemica perché ritenuta un soggetto non pericoloso. Un secondo e ultimo ruolo di vitale importanza è l’educazione dei bambini che gli consente di inculcare nelle nuove generazioni l’ideologia rivoluzionaria.

Importante è la propaganda della guerriglia che deve essere messa in atto attraverso i giornali locali e la radio, poiché sono in grado di diffondere i discorsi dei guerriglieri, gli attacchi nemici e di avvisare indirettamente il popolo alleato.

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Una seconda interessante relativamente agli argomenti da me trattati è il Diario del “Che” in Bolivia o più semplicemente Diario in Bolivia (1968, postumo) la cui edizione completa e definitiva è da considerarsi quella del 2005. Questa opera contiene il resoconto guerrigliero di Guevara contro la dittatura di René Barrientos Ortuño nelle foreste boliviane, dal 7 novembre 1966 al 7 ottobre 1967, ovvero fino al giorno prima della sua dipartita. Diario dove il nemico non è visto come un avversario da eliminare ma come un alleato da recuperare e convertire. Operazione che può riuscire solo seguendo una determinata linea politica, da Guevara intesa come l’unica via da perseguire perché il non rispettarla significava esporsi gratuitamente al fuoco nemico. Altro fattore che risalta da questa pagine è l’accampamento, dal rivoluzionario argentino inteso come uno spazio vitale e dai toni mistici da proteggere, poiché lì risiede la linfa esistenziale del guerrigliero. Accampamento in cui viene attuata la condivisione degli alimenti e degli oggetti fra i vari guerriglieri, che simboleggia la fratellanza e attesta la fedeltà dei guerriglieri alla causa per cui stanno combattendo. Esercitazioni e azioni guerrigliere sono viste, infine, come le principali vie per diventare guerriglieri.   

25326455.jpgUna terza e ultima opera è il Diario della rivoluzione cubana (1996, postumo), ristampato nel 2002, dove leggiamo le fasi della rivoluzione fino al giorno cruciale di Santa Clara ovvero la conquista di Cuba e la caduta del regime dittatoriale di Fulgencio Batista y Zaldívar che porta alla nascita della dittatura di Fidel Castro. Opera dove leggiamo altri aspetti non meramente bellico-militari: l’igiene intima e l’alimentazione giornaliera, dal rivoluzionario visti come dei fabbisogni vitali in grado di mantenere i guerriglieri in ottima salute e di mutarli in esseri sovrumani, imbattibili e immortali; la cura dei nemici feriti per ordine di Fidel Castro, da lui visti sì come nemici, ma, ancora prima come Uomini da rispettare e da lasciar liberi di scegliere se arruolarsi nelle milizie ribelli o vivere come Uomini liberi. Accanto alla cura dei feriti nemici c’è la cura dei feriti ribelli che non sono visti come dei compagni d’armi ma come degli educatori che, dopo la vittoria su Batista, devono educare socialmente, civilmente e politicamente le nuove generazioni alla ideologia castrista. Un ultimo aspetto riguarda l’esecuzione dei traditori, da Ernesto Guevara intesa come una giusta punizione per il tradimento della fiducia dei propri compagni d’armi e come una punizione per l’infedeltà verso la causa della rivoluzione cubana.              

 STEFANO BARDI

 

Bibliografia di Riferimento:

GUEVARA ERNESTO, Diario del “Che” in Bolivia, Feltrinelli, Milano, 1968 e 1969, 1972, 1977, 1973, 2005.

GUEVARA ERNESTO, Diario della rivoluzione cubana, Newton, Roma, 1996 e 2002.

GUEVARA ERNESTO, La guerra di guerriglia e altri scritti politici e militari, Feltrinelli, Milano, 1967.

 

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Ugo Foscolo e il giovane Napoleone in un percorso parallelo, a Senigallia sabato 9 novembre

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Sabato 9 novembre alle ore 17:30 presso il Museo del Giocattolo Antico a Senigallia, in via Pisacane n°43-45 si terrà una serate letteraria organizzata dall’Associazione Culturale Euterpe di Jesi. L’evento, dal titolo “Il giovane Napoleone e Ugo Foscolo” è teso a scandagliare, tra storia ufficiale, produzione letteraria e sensibilità dominanti nel periodo di riferimento, le esperienze umane di due esponenti di spicco della cultura europea.

Durante la serata verranno presentati al pubblico i volumi “Il giovane Napoleone. Tra lo Sturm und Drang e il Romanticismo” del poeta, scrittore e saggista Valtero Curzi pubblicato per i tipi di Intermedia Edizioni nel 2018.

Parimenti la poetessa croata Bogdana Trivak presenterà il suo saggio “Ugo Foscolo e il viaggio sentimentale” pubblicato dalla Fondazione Mario Luzi nel 2018.

Nel corso dell’incontro – che sarà focalizzato sulla fase giovanile del futuro imperatore Napoleone e sulla produzione letteraria di Foscolo – si individueranno possibili tratti d’unione tra i due uomini, percorsi di analisi paralleli, aspetti che possono risultare interessanti per una trattazione allargata che contempli elementi di carattere storico, letterario e umanistico. Un pomeriggio all’insegna della cultura, per approfondire un temperamento nuovo nell’Europa a cavallo tra due secoli, anticipando elementi e attitudini che nel Romanticismo troveranno il loro apice e naturale completamento.

“Dialetto e musica del Salento: Officina Zoè e Antonio Castrignanò”, articolo di Stefano Bardi

Articolo di Stefano Bardi 

Salento, terra dall’arcaica storia e dall’arcaico dialetto come per esempio quello leccese in continua evoluzione e molto parlato ancora oggi. Dialetto che è usato nella letteratura popolare fatta di musica e di parole da gruppi locali come Briganti di Terra d’Otranto, Tamburellisti di Torrepaduli, Zimbaria, Alla Bua, Manekà, I Calanti, Lu Rusciu Nosciu e il gruppo Officina Zoè nato nel 1993. Questo gruppo è formato attualmente da Cinzia Marzo (voce, flauti, tamburello, castagnette), Donatello Pisanello (organetto diatonico, chitarra, mandola, armonica a bocca), Lamberto Probo (tamburello, tamborra, percussioni), Giorgio Doveri (violino, mandola), Luigi Panico (chitarra, mandola, armonica a bocca), Silvia Gallone (tamburello, tamborra, voce) e Laura De Ronzo (danza). Le sue produzioni si basano su musiche tradizionali con testi in salentino trattanti temi legati al lavoro in campagna ma anche temi amorosi, etici, sociali e altri ancora.

0006206_terra-officina-zoe_550 (1)Il 1996 è l’anno dell’album autoprodotto Terra, che sarà poi ripubblicato nel 2005 da Anima Mundi. Terra, qui, intesa sia come Salento in cui far fiorire magici amori sia come campagna, in cui possiamo vedere la sua carne lacerata, con addosso ferite che versano per l’eternità. Lettura quest’ultima che è rappresentata dal forte utilizzo musicale del tamburello salentino che musicalizza i dolorosi aneliti, gli straziati battiti spirituali e i laceranti pianti della campagna salentina.

Una prima tematica è di stampo religioso attraverso la figura di San Paolo, ovvero, il protettore celeste delle vittime tarantate che sono da esse purificate attraverso la sua dolce voce in grado di uccidere la demoniaca tarantola e di riportare l’amore nel cuore della tarantate. Parole, quelle del santo, che sono simboleggiate dal suono del tamburello, non costruito da mani umane, ma nato dal puro spirito divino e in grado di scatenare nelle carni delle tarantate un’intesa eccitazione, che le obbligherà a compiere un ballo liberatorio.

Una seconda tematica è legata alla terra e, più nel dettaglio, alle lavoratrici di tabacco considerate come inutili cerature da umiliare nella canzone “Fimmine fimmine”, alle contadine viste come schiave nella canzone “La tortura” e alle contadine malpagate e sfruttate nella canzone “Lu sule calau calau”.

Una terza tematica riguarda l’amore, dal gruppo salentino musicato come una ragazza dalle divine carni, dai magici e luminosi sguardi, dalle tenebrose e chimeriche chiome, dalle ubriacanti movenze fisico-corporali e dal cuore divoratore di uomini.

Una quarta e ultima tematica riguarda la mitica origine del mare salentino nella canzone “Lu rusciu de lu mare”, dove le cristalline acque sono le dolorose lacrime versate dalla figlia di Nettuno, a causa delle umane cattiverie nel Mondo.

Il 2000 è l’anno dell’album Sangue vivo pubblicato da CNT-Cantoberon. Sangue che è inteso come l’ardente sangue dei salentini tutti, ma anche come resurrezione allo stesso tempo. Sangue letto attraverso il tema del vento nella canzone “Jentu”. Vento sanguinante di passioni che ci abbeverano l’aspra bocca, ci quietano lo straziato spirito, ci riscaldano la bocca di affettuosi baci, ci immergono in elisiache primavere e ci fanno consumare la Vita in nome della frenesia. Vento e sale attraverso la canzone “Sale” che ci allontana dalle luminose esistenze del Padre Celeste per tuffarci in false materialità terrene. Sangue dai toni ancestrali nella canzone “Mamma la luna”, poiché come la luna muove il mondo e i suoi abitanti, lacera le carni e lo spirito e infine, ci affoga nell’eterno sonno per farci poi rinascere come creature ultraterrene dal candido, vergineo e cristallino spirito. Un sangue infine dal passato storico, attraverso la canzone “L’America”, che racconta la partenza dal Sud di molti ragazzi per raggiungere la nuova Terra Promessa, ovvero, l’America. Stato questo in cui si trovava la fortuna e allo stesso tempo però ci si scordava delle proprie mogli, che, ormai da anni senza più notizie dei loro mariti, si rifacevano una nuova vita.

Il 2004 è l’anno dell’album Crita pubblicato da Polosud Record. Un primo tema è sviluppato nella canzone “Ferma ferma”, dove l’erotismo è visto come un lussurioso gioco carnale e come il motore che anima i piaceri, le spiritualità, le luminose gioie, gli inebrianti profumi e i divini amori del Mondo. Erotismo che, però, si basa sull’amore qui musicato nelle canzoni “Anima bella” e “Allu sciardinu”. Nella prima canzone è rappresentato con le sembianze di una dolce fanciulla vista a sua volta come un dolce e caloroso sogno, come una divina ombra da osannare e come un prezioso tesoro da proteggere dalle cattiverie. Nella seconda canzone, invece, è concepito come un magico giardino dalle elisiache atmosfere. Album con tematiche dai magici toni, attraverso le canzoni “L’acqua ci te llavi” e “Tambureddu meu”. Nella seconda canzone, il tamburello salentino è concepito come un magico strumento in grado di creare frenetiche melodie, di accendere l’erotica passione nel cuore dei ragazzi. Album questi affiancati da altri album in studio e live del gruppo salentino, senza però che nessuno degli altri possieda la stessa potenza poetico-musicale di quelli da me analizzati e che rappresentano ad oggi, il testamento poetico-musicale degli Officina Zoè.

Sempre per rimanere nella tradizione e per iniziare un discorso di innovazione, dobbiamo occuparci del cantante e tamburellista salentino Antonio Castrignanò (Galatina, 1977). Il 2010 è l’anno dell’album Mara la fatìa prodotto da Felmay, composto, musicalmente parlando, da pizziche e da tarantelle che musicano il maro, ovvero, l’amaro e aspro universo dei mezzadri salentini. Universo questo trattato nelle canzoni “Mara la fatìa”, “Lu Sule Calau” e “Tremulaterra”. Una canzone, la prima, dove la fatica mezzadra è vista come una necessità economica imposta da altri sulla propria pelle, come un massacrante sforzo psico-fisico, come una straziante lacerazione delle carni e come un universo animato da irreali e spettrali amicizie. Una fatica, che, come ci viene mostrato nella seconda canzone, è regolata dal sole visto come un padrone che tutto decide e che regola la Vita contadina, non tenendo conto delle gioie e dei dolori umani. Campagna infine vista nella terza canzone, come una creatura che si nutre del sudore e del sangue dei braccianti. Sangue e sudore, che sono i principali alimenti delle giovani ninfe partorite dalla campagna salentina. Tematiche queste affiancate da quelle riguardanti la figura del carrettiere e la figura della donna. Carrettiere trattato nella canzone “Cantu a trainiere” dove è visto come una creatura dall’infernale voce, in grado di lacerare le carni, di creare fantastiche storie e di trasportare gli Uomini in chimerici universi. Donna infine poetizzata attraverso la canzone “Signora Madama” e che ci mostra la donna salentina come una schiava del proprio marito, ma anche, come una creatura avara, passionale, focosamente erotica e pia.

antonio-castrignano-fomenta.jpgIl 2014 è l’anno dell’album Fomenta prodotto da TUK Record. Termine fomenta in italiano come infiammazione e che rimanda, alle emozioni che ardono, infiammano, consumano e bruciano lo spirito attraverso canzoni tematicamente forti e accompagnate da tradizionali musiche salentine contaminate da sonorità balcaniche, zingaresche e arabo-gitane che rappresentano l’innovazione poetico-musicale di Antonio Castrignanò. Una prima tematica la possiamo trovare nella canzone “Core meu”, dove il padre e la madre gli vengono nel sogno, il primo con parole colme di sangue e la seconda con parole colme d’amore. In particolar modo attraverso il ritornello, la madre è rappresentata come una creatura colma di amore, bontà, luminosità, dolcezza e come una saggia consigliera per quello che riguarda l’eterna giovinezza, dall’artista salentino riprodotta attraverso il suono del tipico tamburello salentino in grado di salvare gli Uomini dalla terrena Morte e farli vivere, in un universo animato da dolci nostalgie e commoventi reminiscenze. Una seconda tematica la troviamo nella canzone “Fomenta”, dove la Vita è vista come la taranta, ovvero, come un’ardente, passionale ed erotica danza all’interno di una Vita composta da laceranti dolori, da sofferenti croci esistenziali, da oscure brume spirituali e popolata infine da Uomini che muoiono e rinascono ogni giorno. Dolori e sonni eterni che possono essere curati attraverso la pizzica vista come una creatura dalla divina voce, in grado di farci rinascere come paradisiache creature dai dolci aneliti, dalle leggiadre carni, dalle ubriacanti movenze, dall’ardente sangue e da un candido spirito che profuma di libertà. Il tutto musicato da sonorità salentine e gitano-zingaresche realizzate da violini, fisarmoniche e tamburelli a sonagli che simboleggiano gli umani singhiozzi colmi di sofferenza e di lacrime. Una terza tematica è racchiusa nella canzone “Li culuri te la terra” dove l’amore è concepito come una tavolozza dai mille colori simboleggianti dolci reminiscenze, amare ombre esistenziali, accecanti allucinazioni paradisiache e ardenti amori passionali come la melodia della pizzica, le parole della taranta e le sanguigne lacrime della campagna salentina.

Una quarta tematica, la possiamo leggere nella canzone “Furtuna” dove è trattato il dolore spirituale dell’io costretto a consumare i suoi giorni, all’interno di una società insensibile alle emozioni e all’amore. Una quinta tematica, la possiamo ascoltare nel brano strumentale “Terraferma” dove la musica salentina e arabo-gitana simboleggino il cammino migratorio degli Uomini fatto di dolore, lacrime, sangue e morte. Un cammino quello umano che vuole condurre i suoi figli, a una nuova Terra Promessa dove poter vivere nella pace psico-fisica, nell’amore spirituale e nella purificazione carnale. Una sesta e ultima tematica, la rintracciamo nella canzone “Luna otrantina” dove la luna di Otranto è vista come uno specchio riflesso, dove vediamo immagini riguardanti l’esistenza di questa città animata da fatiche marittime, da dolci e amari sogni e da interminabili notti.     

STEFANO BARDI

 

Discografia di Riferimento: 

Officina Zoè, Terra, autoprodotto 1996 e ristampa Anima Mundi, Otranto, 2005.

Officina Zoè, Sangue vivo, CNT-Cantoberon, 2000.

Officina Zoè, Crita, Polosud Record, Napoli, 2004.

Antonio Castrignanò, Mara la fatìa, Felmay, Torino, 2010.

Antonio Castrignanò, Fomenta, TUK Record, 2014.

 

L’autore del presente testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere in relazione ai contenuti del testo e a eventuali riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.

 

 

 

 

 

A Roma un omaggio a Carlo Levi con Michela Zanarella

In occasione dell’imminente spettacolo UN SIPARIO A CANCELLI. Le mille patrie di Carlo Levi testo e regia di Vittorio Pavoncello che sarà al Teatro Elettra di Roma a partire dal 17 ottobre, il 12 ottobre alle ore 18, 30 il Book Store del Palazzo delle Esposizioni ospita la presentazione dei due libri SENZA PIETRE che hanno composto un progetto per Matera 2019 Capitale Europea della Cultura. Interventi di Donatella Orecchia, Roberto Piperno, Michela Zanarella. Oltre al già citato testo spettacolo UN SIPARIO A CANCELLI. Le mille patrie di Carlo Levi andato in scena a Matera all’Auditorium Sant’Anna in maggio a cura del MEIC, sarà presentata la raccolta di poesie SENZA PIETRE che 11 poeti hanno dedicato a Carlo Levi a cura di Michela Zanarella.

Matera è una città che deve molto a Carlo Levi, perché attraverso il suo libro di denuncia e attraverso l’intervento di Adriano Olivetti da lui portato a Matera questa città fu finalmente scoperta e posta all’attenzione della politica e della cultura, mettendo fine a ciò che Alcide De Gasperi definì una “vergogna dell’Italia”. Certo, in questa epoca che guarda solo al presente o ad un futuro senza memoria, ricordare il passato può essere scomodo, ma fu merito dell’opera, di ieri, di Carlo Levi che da “vergogna dell’Italia” Matera è diventata, oggi, capitale della cultura europea del 2019.

Levi dipingeva e scriveva dell’assenza, della mancanza di cui soffriva la gente del meridione e nel suo “Cristo si è fermato a Eboli” ha denunciato la condizione di abbandono e di esclusione dei contadini e dei poveri che vivevano nelle grotte. I libri in questo caso e in particolare “Cristo si è fermato a Eboli” hanno contribuito a fare la cultura e la storia e ci sembra giusto presentare le due pubblicazioni edite da Edizioni Progetto Cultura in un luogo come la libreria Bookstore del Palazzo delle Esposizioni.

Saranno presenti i poeti: Simone Carunchio, Davide Cortese, Flaminia Cruciani, Letizia Leone, Serena Maffia, Marina Marchesiello, Roberto Piperno, Luciana Raggi, Anna Santoliquido, Fabio Strinati, Michela Zanarella.

Brani dallo spettacolo di UN SIPARIO A CANCELLI. Le mille patrie di Carlo Levi saranno interpretati da Oreste Valente

“L’estate prima della Guerra” di Helen Simonson, recensione di Vittorio Sartarelli

Recensione di Vittorio Sartarelli

9788865595367_0_0_626_75.jpgRecensire un libro di una scrittrice britannica è, per me, una nuova esperienza letteraria anche perché questa autrice non appartiene al novero, per altro numeroso, di scrittori inglesi di una certa rilevanza. Questo, infatti, è per lei il secondo romanzo ad essere pubblicato. Lo scenario nel quale si svolge L´Estate prima della Guerra (2016) di Helen Simonson è il Sussex, dove Rye, una piccola cittadina pedemontana del territorio britannico è un promontorio allocato nella zona costiera prossima alla Francia. Accingendomi a questo mio compito, non certo facile, il fatto di trovarmi di fronte ad un volume di circa 500 pagine certo non costituisce un incentivo favorevole che mi spinga con eccessivo interesse a intraprendere il mio lavoro ma, tant’è, questo è il mio obbligo assunto e cercherò di adempierlo nel modo migliore.

La prima impressione che si ha, cominciando e seguitando a leggere questo libro, anche se non si sapesse chi è l’autore dello scritto, apparirebbe evidente che si tratta di una donna e di una donna inglese. Il suo periodare ed il suo fraseggio, pur essendo corretti e in bella forma, sono morbidi, delicati e di natura domestica e familiare oltre che, letterariamente, irreprensibili.

Il suo fervente amore per l’ambiente naturale che la circonda, descritto amabilmente, si identifica con le sue origini britanniche e la descrizione attenta e precisa del tessuto sociale nel quale la vicenda si svolge, non è altro che la connotazione di una società classista e stratificata in concetti umanitari che appaiono come pervasi da un retaggio ancora medievale e discriminatorio che contraddistingue, appunto, il tessuto socio economico britannico del tempo descritto all’inizio del ´900.

I personaggi principali del romanzo sono la signorina Beatrice Nash un’insegnante di Latino, giunta da poco a Rye, che dovrà prendere servizio nell’istituto scolastico del paese, raccomandata da una sua zia appartenente ad una famiglia nobile del circondario regionale, la Signora Agatha Kent e suo marito John esponente di spicco del Servizio Diplomatico britannico, anch’essi appartenenti alla classe abbiente del luogo, il giovane chirurgo Hugh e il giovane poeta Daniel entrambi nipoti dei coniugi Kent, l’adolescente Richard Sidley detto Snout di origine zingaresca. Poi ci sono altri personaggi secondari che interverranno saltuariamente nel corso della narrazione come lo scrittore famoso americano Tillingam, che si è stabilito a Rye, il Sindaco e la moglie di Rye, un amico di Daniel, Crhigmore e suo padre Lord North. Mentre l’insegnante Beatrice incontra una certa ostilità ambientale da parte del Sindaco e della moglie, la famiglia Kent ne assume la tutela ambientale e fra il giovane chirurgo Hugh e Beatrice sorge, in forma quasi segreta, un sottile sentimento amoroso che costituisce una sorta di siparietto sentimentale che si inserisce con favore nell’ordito narrativo.

La narrazione si snoda stancamente per buona parte del romanzo con scene familiari, descrizioni paesistiche, fitti e banali colloqui amichevoli sempre informali, senza molta importanza che hanno configurato la caratteristica interlocutoria del romanzo senza che avvenga niente di nuovo. A questa lunga pausa di eventi fa eccezione l’arrivo in paese, assieme ad altri profughi belgi, di un professore e della figlia giovanissima Celeste.

Siamo nell’estate avanzata del 1914, la Germania ha invaso il Belgio compiendo razzie, stupri e nefandezze varie sulla popolazione, è iniziata la I Guerra Mondiale e il piccolo centro di Rye comincia, unitamente a tutta la Gran Bretagna, a partecipare al fatto bellico che li coinvolge. Inizia tutta una serie di iniziative di solidarietà popolare e nazionale di preparazione alla guerra, centri di reclutamento e associazioni di cittadini che preparano il paese alla guerra con parate, cortei e feste inneggianti alla partecipazione belligerante. Una caratteristica, abbastanza nota, dell’Inghilterra è sempre stata, infatti, la sua partecipazione a tutte le guerre avvenute in Europa e nel Mondo e dalle quali essa ha sempre ottenuto dei vantaggi e delle posizioni di potere nei confronti di altri stati meno potenti e meno capaci di interessi politici preminenti. Tutti i giovani maschi in età maggiorenne si arruolano nelle forze armate britanniche e vengono convogliati nella parte settentrionale della Francia dove si svolge il fronte bellico. Anche i cugini Hugh e Daniel si arruolano, entrambi con il grado militare di tenente, il primo farà parte dell’ospedale da campo mentre Daniel, al quale è morto l’amico Crhigmore in un incidente aereo, farà parte dell’esercito inglese in prima linea. Anche il giovane adolescente Snout, anche se non ancora maggiorenne, con il permesso dei genitori, sarà arruolato come soldato semplice e inviato al fronte. 

A questo punto bisogna fare delle considerazioni che appaiono importanti e giuste nella valutazione critica di questo romanzo. Le prime trecento pagine hanno avuto il compito di illustrare principalmente il bellissimo paesaggio bucolico che circonda e ingloba il piccolo centro di Rye e poi, come ho avuto modo di dire, la descrizione particolareggiata della vita e degli aspetti sociali di questo ridente borgo britannico del Sussex. Soprattutto la scrittrice si è soffermata, alquanto lungamente, nell’illustrare i comportamenti degli abitanti del luogo, evidenziando per quelli più rappresentativi e importanti dal punto di vista sociale, in un ambito classista e rigidamente organizzato in strati sociali con competenze valutazioni e capacità diverse.  Una piramide sociale alla base della quale c’erano i contadini e i proletari mentre al vertice, illuminati e dispositivi, emergevano i nobili e i benestanti con notevoli proprietà immobiliari ed ampie disponibilità finanziarie.

La Simonson ha evidenziato il carattere, i rapporti e le prerogative soprattutto delle donne più importanti della società, soffermandosi spesso in un chiacchierio banale e fine a se stesso tra di loro, rischiando di annoiare il lettore. Per fortuna, l’autrice, nelle ultime cento pagine di questo libro, si riscatta ampiamente e, finalmente, sorprende il lettore con le sue ampie capacità espressive, mettendo in mostra il suo innegabile talento di narratrice di rango. Ci troviamo, quasi improvvisamente di fronte ad eventi e situazioni particolari spesso drammatiche, come la scoperta, purtroppo negativa e socialmente emarginante è il fatto che la giovane Celeste, durante l’invasione bellica del suo Paese, poiché ha subìto delle violenze a causa di uno stupro, si trova in stato interessante. Questo evento la fa diventare per la comunità che l’ha ospitata, una specie di appestata con la quale nessuno vuole più avere a che fare, rischiando l’espulsione dal suo attuale contesto sociale. La minacciata e crudele emarginazione di questa innocente fanciulla ci dà il senso e l’immagine rappresentativa della società gretta e classista esistente in quel borgo britannico, in tutta la sua cruda realtà. Il problema verrà affrontato e risolto brillantemente con un’azione generosa e di forte umanità ed affetto dal tenente Daniel che chiederà a Celeste di diventare sua moglie salvandola dal linciaggio sociale del paese. Immediatamente dopo a questo felice e risolutivo evento l’autrice ci porta, quasi a spron battuto, verso la guerra, in prima linea, dove piovono granate e colpi di cannone che quotidianamente compiono un’impietosa strage di soldati inglesi.

L’arte narrativa poi trova il modo di impressionare e far vivere al lettore quello che succede in un campo di battaglia e successivamente in un ospedale da campo, dove giornalmente e spesso anche di notte i medici in servizio permanente effettivo e soprattutto i chirurghi come il tenente Hugh operano continuamente i feriti, molti dei quali, purtroppo, non riusciranno a salvarsi per l’estrema gravità delle ferite riportate. Il racconto prosegue con l’affannosa ricerca da parte di Hugh del cugino Daniel anch’egli in prima linea e quando finalmente, in un breve periodo di riposo dal suo estenuante lavoro, riesce a ritrovarlo congiuntamente anche al giovanissimo Snout, è molto felice. In seguito ad eventi che quasi si sovrappongono, si assisterà all’acme della drammaticità e della denuncia sociale dell’autrice di alcune ipocrisie belliche di taluni personaggi in alta uniforme, come il Generale Lord North. Costui è un personaggio tronfio e pettoruto, senza principi morali ed umani che, trincerandosi ipocritamente dietro uno sciovinismo di maniera tutto britannico e accampando diritti di vita e di morte sui suoi sottoposti militarmente, farà la misera figura di un dispotico comandante che abusava del suo potere in modo infame e vergognoso per un generale dell’esercito britannico. La storia narrata nel libro avrà poi un epilogo felice e pacifico, tuttavia Helen Simonson con questa sua opera mi ha conquistato anche perché, dietro le magnifiche descrizioni e le artistiche ricostruzioni di un ambiente e di persone a lei molto vicine con le quali ella ha vissuto, si può notare ed apprezzare una sottile ma severa critica alla società britannica dell’epoca con tutti gli annessi e connessi, compresi il classico the delle cinque completato da discutibili tramezzini.

VITTORIO SARTARELLI

 

L’autore del presente testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere in relazione ai contenuti del testo e a eventuali riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.

“Federico García Lorca, il poeta tellurico”: ricordando il Poeta a 83 anni dalla sua morte – incontro a Cupramontana (AN) sabato 17 agosto

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Sabato 17 agosto 2019 alle ore 21:15 presso la Sala del Torchio dei Musei in Grotta (MIG) a Cupramontana (AN) si terrà l’evento culturale “Federico García Lorca, il poeta tellurico”, un incontro di approfondimento per ricordare il celebre poeta spagnolo, intellettuale poliedrico (drammaturgo, scenografo, disegnatore e musicista), membro di spicco della Generazione del ’27, ad ottantasei anni dalla sua morte, avvenuta, per mano franchista nel bel mezzo della guerra civile spagnola il 19 agosto 1933 nella campagna fuori Granada, nei pressi di Viznar.

Il corpo del Poeta – che non venne mai ritrovato neppure nel corso delle più recenti ricerche e richieste di scavo dell’area – rimane a tutt’oggi un dilemma insolvibile che, nel corso del tempo, ha dato vita alla creazione di varie piste investigative e tesi anche piuttosto singolari. 

Durante la serata il critico letterario Lorenzo Spurio (autore nel 2016 di una plaquette poetica dedicata al Poeta nell’occasione degli 80 anni dalla morte, Tra gli aranci e la menta, edita per PoetiKanten Edizioni di Firenze)  traccerà il percorso umano e letterario di quello che l’amico Pablo Neruda (che conobbe alla Residencia de Estudiantes di Madrid negli anni ’20 del Secolo Scorso e ritrovò a Buenos Aires nel 1933) definì, ben prima della sua tragica fine, come un “naranjo enlutado“.

Il percorso, tra le varie opere dell’autore, che esordì nel 1918 con Impresiones y paisajes, proseguirà fino alle opere più note e celebrate del Romancero Gitano (1928) e del Poema del Cante Jondo (pubblicato nel 1931 ma contenente poesie scritte nei 7-9 anni precedenti) per giungere alle poesie più enigmatiche e dal gusto surrealista di Poeta a New York scritte durante la sua permanenza nella metropoli americana nel periodo 1929-1930 e pubblicate solo nel 1940.

Le letture di brani scelti delle sue opere saranno eseguite dalla scrittrice Gioia Casale e a impreziosire la serata saranno gli interventi musicali alla chitarra del Maestro Massimo Agostinelli che con Lorenzo Spurio ha precedentemente collaborato in altri eventi dedicati al poeta granadino. 

“L’Albatro” di Simona Loiacono, recensione di Gabriella Maggio

Recensione di Gabriella Maggio

download.jpgL’Albatro (Neri Pozza, 2019) di Simona Loiacono è un romanzo complesso e raffinato come lo scrittore che ne è protagonista. Una scrittrice siciliana che come Simona Loiacono ha un solido temperamento narrativo, ben testimoniato dalle opere precedenti, non può non essere attratta da Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Lo scrittore, per il suo articolato approccio alla storia siciliana ed alla letteratura europea, per le tormentate vicende editoriali e di critica della sua opera maggiore, dimidiata dal pur magnifico film di Luchino Visconti, invita ancora alla lettura per la sua ricchezza umana e letteraria da cogliere dopo cinquant’anni per quella che effettivamente è stata senza pregiudizi o falansterii di opportunità ideologica. E Simona Loiacono non poteva non restarne colpita.

L’Albatro si compone di due parti, una in forma di diario, che s’immagina scritta dallo stesso Tomasi per consiglio della moglie Licy, e riguarda l’ultimo mese di vita dello scrittore, ricoverato a Villa Angela a Roma, e i ricordi degli avvenimenti più importanti della sua vita adulta; l’altra è la ricostruzione del periodo più felice, l’infanzia. Queste due parti, distinte dal carattere tipografico corsivo e tondo sono affrontate dall’autrice con finezza introspettiva e approfondita conoscenza dell’opera, delle lettere e dei documenti dello scrittore.

La ricostruzione della Loiacono, che intreccia abilmente fatti realmente accaduti a quelli d’invenzione, affianca al piccolo e solitario Giuseppe Tomasi, che comprende l’esaurirsi del ruolo sociale e storico della famiglia a cui appartiene, Antonno, un bambino che era tutto al contrarioci siamo trovati così, l’uno di fronte all’altro, senza parole. Antonno mentre osserva e interpreta il mondo che gli sta attorno intaglia con precisione figure nel legno, ricordi per non farli fuggire. Il titolo l’Albatro è legato a una frase emblematica di questo compagno d’infanzia: Principuzzu, io a vossia ci farò l’albatro…non la lascerò mai. Con tempu bonu o tempo tintu.  Antonno parla in dialetto, la lingua materna degli affetti, dell’intimità, della confidenza. La lingua dell’anima siciliana dello scrittore.  Di Antonno e del suo riaffiorare alla mente nel momento della malattia Lampedusa tace con tutti: “Non ne parlo con nessuno. Men che meno con mia moglie Licy che è una psicologa attentissima, allieva di Freud”.

Indicativa del racconto è anche l’intrigante immagine di copertina. Ritrae una porta socchiusa dalla quale fa capolino una piccola figura umana che guarda protetta dall’ombra. Per un verso è il punto d’osservazione discreto che la scrittrice assume nei confronti di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, per l’altro è il modo di osservare la scena del mondo dello scrittore stesso con attenzione, ma senza farsi notare. Come quando da bambino nel teatro della villa di S. Margherita Belice ha assistito alla rappresentazione dell’Amleto e “la vicenda mi catturò con dolore”. Il racconto dell’Albatro scorre leggero, fondendo in unità le due parti, diaristica e narrativa, e presentando al lettore un rinnovato ritratto di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

GABRIELLA MAGGIO

 

L’autore del presente testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere in relazione ai contenuti del testo e a eventuali riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.

Duecento anni de “L’Infinito”: l’antologia di poesie e quadri a cura di C. Baldazzi e M. Pochesci

download.jpgDuecento anni fa il ventunenne Giacomo Leopardi completava “L’infinito”, quindici endecasillabi sciolti destinati a diventare tra i brani più celebri della letteratura italiana.

A distanza di due secoli, quarantasette poeti e quattordici artisti contemporanei, da ogni parte d’Italia, ne hanno rielaborato, ciascuno a proprio modo, le suggestioni, rendendo omaggio al canto leopardiano sulla pagina e sulla tela, attraverso poesie e quadri.

È nato così “Duecento anni d’Infinito”, antologia curata da Cinzia Baldazzi, critico letterario, e Maurizio Pochesci, curatore d’arte, e pubblicato da Intermedia Edizioni di Orvieto (pp. 150, € 12).

Il volume allinea novantaquattro poesie e quattordici tavole a colori: testimonianze tutte della vitalità e della potenza, della passione e dell’eleganza di un complesso di versi giunto intatto ai giorni nostri, capace ancora di ispirare strofe, suggerire echi e risonanze, alimentare composizioni figurative e tracce astratte. Un “infinito”, insomma, oggi più che mai “presente”.

La prima uscita ufficiale del libro è avvenuta il 18 maggio scorso a Lugnano in Teverina all’interno della manifestazione “Fili diVersi e Infiniti”, realizzata nell’ambito del Maggio dei Libri, curata della locale amministrazione comunale e dal Premio Letterario Città di Lugnano, in collaborazione con Intermedia Edizioni.

Per la metà di settembre è prevista a Roma una presentazione con l’intervento di poeti da tutta Italia.

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Nota introduttiva

Duecento anni orsono, forse in primavera, il ventunenne Giacomo Leopardi completava L’infinito, quindici endecasillabi sciolti destinati a diventare tra i brani più celebri della letteratura italiana. I versi scritti a Recanati avanzano dunque da due secoli tra l’immaginario collettivo per giungere intatti ai giorni nostri, lontani dall’oblio, mai sfiorati dall’ovvio, imparati a memoria, tradotti nelle maggiori lingue del pianeta. Mai la critica letteraria ha trascurato esegesi dotte e commenti puntuali, sempre il mondo della cultura ne ha coltivato la memoria, ininterrottamente le istituzioni scolastiche li hanno collocati in posizione di primo piano. Persino i mezzi di comunicazione di massa, l’industria culturale e la pubblicità li hanno accolti in forme parafrasate, a volte distorte, ma con un fondo di trasporto e rispetto.

Oggi, a distanza di molti anni, quarantasette poeti e quattordici artisti contemporanei, da ogni parte d’Italia, hanno rielaborato, ciascuno a proprio modo, le suggestioni dell’Infinito, rendendo omaggio al canto leopardiano sulla pagina e sulla tela, in poesia e in pittura. Alcuni hanno tratto ispirazione dalla struttura del lessico, dall’impronta biografica dell’autore, dai luoghi originari e dall’incontro di essi con la fantasia di un hic et nunc a se stante; altri hanno reso tributo al grande recanatese scovando echi e risonanze di quel sublime mondo interiore; l’attenzione alla scrittura ha accomunato le composizioni in metri classici e l’utilizzo del verso libero; la potenza del canto ha nutrito estrose sfumature figurative e ispirato complesse tracce astratte.

Testimonianze tutte, in ogni caso, della vitalità e della potenza, della passione e dell’eleganza, di un “infinito” oggi più che mai “presente”: e non solo perché non ha termine, ma soprattutto in quanto è sempre lì a iniziare di nuovo, senza sosta. (c.b., m.p.)

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Poeti antologizzati (in ordine alfabetico):

Elvio ANGELETTI, Sandro ANGELUCCI, Saveria BALBI, Maria Luisa BANDIERA, Roberto BENATTI, Donatella CALÌ, Nunzio CAMMARIERE, Fiammetta CAMPIONE, Paola CAPOCELLI, Annalena CIMINO, Alessandra COSTANZO, Gianfranco CURABBA, Antonio DAMIANO, Alessandra DE MICHELE, Giorgio DELLO, Umberto Donato DI PIETRO, Simona FABBRIZIO, Alexandra FIRITA, Nicola FOTI, Cinzia GARGIULO, Graziano GISMONDI, Giuseppe GUIDOLIN, Rita LAGANÀ e Domenico SACCO, Andrea LEPONE, Nicolò LUCCARDI, Angelo MANCINI, MAPI, Roberto MASSARO, Maurizio MINNITI, Terry OLIVI, Nadia PASCUCCI, Maurizio POCHESCI, Patrizia PORTOGHESE, Pasquale REA MARTINO, Alessandro RISTORI, Rosanna SABATINI, Rosetta SACCHI, Carmelo SALVAGGIO, Concezio SALVI, Salvatore Armando SANTORO, Nando SCARMOZZINO, Otello SEMITI, Lorenzo SPURIO, Carla STAFFIERI, Mario Pino TOSCANO, Fabrizio TRAINITO, Daniela VIGLIANO.

Pittori antologizzati (in ordine alfabetico):

Mariarosaria ABBATE, Rossana BARTOLOZZI, Giampaolo BERTO, Donatella CALÌ, Mauro CAMPONESCHI, Alessandra DE MICHELE, Cesare ESPOSITO, Luciano FABBRIZIO,  Patrick PASSINI, Simona PICONE, Maurizio POCHESCI, Flavia POLVERINI, Marisa TAFI, Luciana ZACCARINI

Approfondimento critico di Vittorio Sartarelli su “La lingua Koinè – Appunti di scrittura e parlata siciliana” di Nino Barone

A continuazione, per volontà dell’autore, si riporta l’intervento critico di Vittorio Sartarelli esposto durante la presentazione del libro “La lingua Koine’” di Nino Barone organizzata dal Coordinamento responsabile del settore culturale dell’Associazione di Lettere, Arti e Sport JO’ con il Patrocinio del Comune di Buseto Palizzolo che si è tenuta presso l’Aula Magna della Biblioteca Comunale.

 

Buona Sera, mi chiamo Vittorio Sartarelli, sono uno scrittore trapanese e ho il gradito compito di presentare questa ultima fatica letteraria dell’amico Nino Barone: “La Lingua di KOINE’” Appunti di scrittura e parlata siciliana – in effetti si tratta di un Saggio Linguistico.

Intanto spieghiamo cosa vuol dire KOINE’ che ai più sembrerà quanto meno misterioso, in effetti si tratta di un aggettivo della lingua greca che tradotto vuol dire: “comune”. Quindi la Lingua comune, cioè la lingua di tutti ma anche di ciascuno appartenente alla stessa regione, ma chi sono le persone deputate a scegliere ed utilizzare al meglio la lingua, proprio i poeti, gli scrittori e gli attori, del teatro e del cinema. Non è la prima volta che mi accingo a parlare e scrivere di questo brillante e talentuoso poeta trapanese, apprezzato e ben noto autore di liriche in dialetto siciliano. Conosciamo da tempo Barone che consideriamo come esponente di spicco della nostra tradizione letteraria popolare; tempo fa ho recensito una sua pubblicazione dal titolo: “Petri senza tempu” e questa opera con la sua recensione verrà pubblicata in una Antologia dei poeti siciliani che uscirà a breve, curata dall’Associazione Culturale Euterpe di Jesi che si è interessata del nostro poeta per le sue qualità liriche e capacità espressive artistiche.

La lingua di KOINE'.jpgStasera però non parleremo di poesia, in quanto quest’ultima pubblicazione non è un’opera lirica bensì un’opera di studio e di ricerca sulla lingua siciliana attraverso le sue viscere, la sua morfosintassi, le sue espressioni tipiche. Ampie, infatti, sono le riflessioni dell’autore sull’oralità della nostra lingua, nonché sull’ortografia e il parlato del quale scrive: “è inconfutabilmente, la sua vera ricchezza, quella che abbiamo appreso in modo naturale dai nostri genitori che sono stati i primi ad insegnarci a parlare.”

La lingua è lo strumento di comunicazione che rende possibile la reciproca comprensione tra i membri di una stessa comunità. È quindi un’Istituzione sociale che suppone da una parte l’attività del parlante che traduce in simboli fonici il concetto che vuole esprimere e dall’altra l’attività di chi ascolta che dalla percezione acustica ricrea il concetto trasmesso. Accingendoci a recensire questo interessante e quasi esaustivo saggio di Nino Barone sulla lingua siciliana, anzitutto siamo rimasti sorpresi, positivamente dalla quantità, qualità e puntualità della ricerca che questo autore, un eccellente poeta, dimostra di avere eseguito uno studio accurato e quasi completo sulla lingua siciliana. E questo non lo affermiamo solo noi perché è chiaramente espresso anche nella dotta e precisa prefazione al volume firmata dall’emerito professore Federico Guastella.

La lingua di un popolo è anche la storia di quel popolo. E la storia ricca e varia del popolo siciliano non poteva far altro che produrre un lessico altrettanto ricco e vario. La base lessicale del Siciliano è, molto probabilmente, derivata dal latino, tuttavia, in effetti, nel lessico della lingua siciliana è possibile trovare eredità o retaggi del greco, dell’arabo, del normanno, del catalano, del francese, dello spagnolo e, andando molto indietro nel tempo, del sanscrito, come ha ampiamente dimostrato l’eminente glottologo siciliano Enrico Caltagirone nel suo volume “Origine e lingua dei Siculi” Queste eredità rappresentano le impronte della storia dell’Isola, fatta da invasioni, dominazioni e guerre, nonché da innumerevoli contatti con le genti indo-europee e mediterranee in genere. Questi eventi, millenari, hanno determinato in quello che era l’idioma originario dei Siculi, una serie innumerevole e continua di contaminazioni, intrusioni e commistioni che tuttora, anche se in misura ridotta, continuano, con la lingua ufficiale Italiana e con termini stranieri, di uso comune che finiscono con l’essere assimilati dalla lingua nella quale penetrano, rimanendovi. E allora, ecco il greco-siculo, il latino siculo- l’arabo-siculo, il franco –siculo, l’ispano-siculo, l’italo-siculo. Ma, sostanzialmente, sempre una lingua, una sola: il Siciliano.

Il siciliano che, dopo il disfacimento del Latino, divenne la prima lingua letteraria italiana (Dante, nel De Vulgari Eloquentia: “tutto ciò che gli italiani poeticamente compongono si chiama siciliano”; e il Devoto: “la Sicilia a partire dal XII secolo, nel periodo delle due grandi monarchie, la normanna e la sveva, ha elaborato la prima lingua letteraria italiana”).

Studiando e facendo ricerche su una lingua non si può dimenticare che bisogna distinguere la lingua parlata da quella scritta che sono foneticamente e sintatticamente diverse e questo concetto appare come assolutamente precipuo nella lingua siciliana, infatti, nelle diverse zone della Sicilia o, addirittura, nella stessa provincia anche a distanza di pochi chilometri, certi termini e certe parole sono diverse nella loro espressione, parlata e scritta.

La parola, infatti, ha un suo compito preciso, è parte di questa verità del linguaggio che nulla concede ad uno sperimentalismo inconcludente di alcuni pseudo poeti di oggi. La lingua di KOINE’ di Barone è un’autentica provocazione, il poeta, dunque diventa quasi un glottologo perché vorrebbe che si realizzasse un nuovo codice linguistico ufficiale, costituito da un corpus di regole grammaticali, morfologiche, sintattiche, ortografiche e fonologiche che trasformasse il vernacolo in lingua letteraria, cioè la lingua comune, pan siciliana, con cui scrivono i poeti che vogliono esprimersi in lingua siciliana.

E questo intento Barone lo ha quasi del tutto raggiunto grazie appunto ai suoi studi e alla sua ricerca sulla lingua, infatti, le sue poesie non sono una espressione tipica del vernacolo trapanese, come potrebbe essere una poesia di un poeta catanese o messinese, interprete ciascuno del proprio idioma locale, ma una espressione in lingua siciliana.

In definitiva, questa ricerca e questi studi sulla lingua siciliana che il poeta Nino Barone ha voluto fare non si può giustificare con una volontà di volere strafare e ben figurare nell’agone poetico e culturale, insomma non lo si può considerare una sorta di esibizionismo culturale, bensì è un amore per la sua terra e le sue tradizioni; il suo talento lirico è ormai noto ed affermato ormai da tempo. Barone per completare le sue conoscenze linguistiche pure essendo un rappresentante affermato della poesia in vernacolo siciliano, ha voluto dimostrare il suo talento lirico e artistico pubblicando anche un libro di sonetti in lingua italiana: “Amor ti tocco” anche questo da me recensito, con il quale ha riscosso un ampio e meritato successo.

Egli ha dimostrato che la classe, la cultura e l’arte, non sono acqua ma espressione di sentimenti elevati, colmati da esperienze di vita vissuta nella comprensione dei valori umani e civili di una persona che ha messo in opera il suo dono naturale di poeta con una sobria capacità artistica e culturale.

Grazie dell’attenzione e una buona serata a tutti!

VITTORIO SARTARELLI

 

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