“Il mondo attraverso i miei occhi” di Fabiana Parenti, recensione di Lorenzo Spurio

Il mondo attraverso i miei occhi di Fabiana Parenti

Zona Editore, Civitella in Val di Chiana (Arezzo), 2010, pp. 135

ISBN: 9788864381107 

Recensione a cura di Lorenzo Spurio

Fabiana Parenti, giovane scrittrice piacentina, esordisce nel mondo letterario con un romanzo dal titolo affascinante ed evocativo, Il mondo attraverso i miei occhi, nel quale, più che abbandonarsi a una sua biografia romanzata, veste i panni di una sua amica, raccontandone pensieri, dolori ed ossessioni in maniera attenta. Così la psicologia del personaggio è tratteggiata in maniera estremamente curata e solo leggendo le varie pagine del romanzo siamo in grado di comprendere la timidezza, il senso di insicurezza della protagonista e la sua solitudine patologica. La Parenti ci fornisce uno sguardo a tutto tondo sul mondo dell’infanzia e dell’adolescenza, non mancando di tratteggiare anche i primi amori, i primi incontri e tutti gli altri momenti che costituiscono dei veri riti di passaggio dall’adolescenza al mondo della maturità.

Quello che utilizza  è un linguaggio piano, scorrevole, che rifugge da qualsiasi verbosità o lungaggine. E’ una prosa diretta, semplice, quasi condensata. La Parenti evita di dirci ciò che sarebbe superfluo e tesse assieme magistralmente i vari episodi che narra scandagliando a fondo l’io della protagonista. Ma tutta la storia ha la forma di una continua ed esasperata ricerca d’identità, dell’individuazione della propria personalità (più volte la protagonista si chiede «Chi sono?») e dunque, facendo ampio utilizzo di flashbacks e di rievocazioni di momenti passati, del labile tentativo di costruzione del sé.

Tutto il romanzo ha la forma di un lungo monologo interiore attraverso il quale impariamo a conoscere la protagonista: sola, debole, indifesa, sensibile e quasi sempre propensa a vedere il bicchiere mezzo vuoto, piuttosto che mezzo pieno. E’ una grande romantica ma non nel senso più melenso, è una ragazza che crede nei sentimenti e che li vive compiutamente, in maniera autentica finendo però per trarre da essi principalmente le componenti meno felici. Ci sono molte frasi che individuano infatti questo vittimismo, questo senso di minimalismo di fronte a grandi questioni e l’esasperante fatalismo: «Le persone ci accompagnano per un pezzo, ma alla fine siamo soli»  (28), «Le nuvole non lasciano spazio alcuno alla felicità» (37), «Il paradiso è dentro di noi, fuori c’è solo l’inferno: almeno, io credo sia così» (75).

La Parenti parla di amore, vita, morte, ricordo e passato ma anche e soprattutto di solitudine, il male invisibile. Ma il romanzo è molto di più. E’ un attenta disquisizione su temi tanto estesi e vaghi che da sempre hanno interessato letterati, religiosi e scienziati: il tempo e la morte. Il romanzo si chiude infatti con una morte, quella della nonna della protagonista ma, più che questa morte, il tema della morte è presente nella prima porzione del romanzo nel quale la protagonista, sola e indifesa, considera il suicidio come possibile scampo al suo male di vivere. Ma il romanzo mette in luce anche un percorso di crescita della protagonista, tra alti e bassi, tra crisi e sofferenze, e contemporaneamente una più completa consapevolezza di sé. Al termine del romanzo osserva infatti: «Morire non è una soluzione, poiché da una resa non si ottiene alcun vanto […] Credo che non confesserò mai di aver voluto morire. Dirò solo che ho scelto di vivere» (133). In questo percorso travagliato e difficile, psicologicamente destabilizzato, è importante la figura materna che, sebbene la protagonista abbia un po’ snobbato per gran parte della narrazione, chiude il romanzo definendola «Una donna con cui ci si può sempre scontrare, ma che non si può fare a meno di amare». Il messaggio della Parenti è chiaro e insindacabile: la vita va vissuta e bisogna rifuggire intenti autolesionistici o idee suicide quando si presentano problemi difficili da superare, stati di solitudine e depressione ed è spesso proprio la morte (di un parente, di un amico) a farci riscoprire il grande valore della vita. Un meraviglioso percorso tra la labile e frastagliata psicologia di un personaggio che potrebbe essere ciascuno di noi, del quale la Parenti si mostra abilissima nello scandaglio dell’io. Complimenti. Anche per la fine e non svelata citazione di McEwan.

a cura di LORENZO SPURIO 

 E’ SEVERAMENTE VIETATA LA DIFFUSIONE O LA RIPRODUZIONE DI STRALCI O DELL’INTERA RECENSIONE.

Intervista a Mario Fiori a cura di Max Dakota

 Gioia Lomasti mi trasmette questa intervista al cantautore Mario Fiori “Suonatore Faber” fatta da Mak Dakota, permettendomi di pubblicarla e divulgarla:

-Quando hai scoperto di avere qualità artistiche?

Mah, in realtà sono gli altri ad attribuirmi tali qualità, diciamo che fin dalla prima adolescenza coltivai la passione di mettere parole in rima e poi giocare con esse. La grande svolta arrivò in seguito quando alle rime cominciai ad unire quei quattro accordi di chitarra come accompagnamento, quello fu il momento in cui realizzai che la canzone era la forma d’espressione che più mi si addiceva, per essere più pratici il mio primo brano fu scritto a dodici anni.

-C’è stato qualche motivo importante che ti ha mosso in questa direzione?


Sicuramente la voglia di dire, sono un inguaribile logorroico ed egocentrico, tutte qualità che servono a chi decide di intraprendere questa strada. Francesco Guccini in una sua canzone disse “…che sempre l’ignoranza fa paura ed il silenzio è uguale a morte”  quindi amo combattere l’ignoranza raccontando quel poco che so sul mondo e sulla vita non sono un professore anzi tutt’altro, sono dell’idea che un libro, un dipinto, una poesia o una canzone possano insegnare molto di più di un vecchio signore in camicia e cravatta seduto dietro una cattedra.
-Secondo te, che significato ha la musica?
La musica è il linguaggio più antico e universale del mondo, la musica è un filo di seta che unisce tutte le persone che in quel momento ascoltano quelle note, poi la musica sa accompagnare ogni nostro stato d’animo è camaleontica, cioè basta sposta una “terza ” di un semitono avanti o indietro per ottenere un accordo dalle sonorità allegre o totalmente tristi, la musica è come dicevo prima anche un grandissimo mezzo d’informazione tantissime sono le iniziative che hanno visto artisti musicali donare le proprie note per fini lodevoli, io non credo che la musica possa cambiare questo mondo, credo piuttosto che la musica possa smuovere le coscienze di chi può cambiarlo. Poi in termini molto più personali ed egoistici posso semplicemente dire che per me la musica è la mia vita.
-Immaginando di descrivere la tua arte in parole semplici, comprensibili a tutti, come la definiresti?

Amichevole, Familiare…
Quando ho tempo, minimo due volte al giorno prendo la chitarra e suono… canzoni mie cover… suono di tutto perché ne sento il bisogno,così come sento il bisogno di mettermi le cuffie e ascoltare musica minimo 5 volte al giorno. Fino ad ora il mio pubblico è composto da amici genitori e il mio gatto ma se un giorno avrò il piacere di vedere molti più visi davanti a me il mio rapporto con loro non cambierebbe, alla fine solo qua semplicemente a raccontare storie, con un ipotetico camino acceso e del buon vino rosso.
-Qualcuno pensa che fare il mestiere di artista sia una strada da “fannulloni”che non porta a nulla, secondo te?
Di fannulloni nel nostro paese ce ne sono tanti,il problema è che prendono migliaia di euro al mese per dormire in comode poltrone nei palazzi del centro di Roma. A parte gli scherzi, la vita di un artista non è semplice, sei spesso lontano da casa e dai tuoi cari ma alla fine questo passa quasi in secondo piano se comunque c’è la passione.  Ogni tanto penso che un poeta un cantautore ecc vendono parole e nulla più, quindi mi sembrerebbe quasi di rubare, ma poi ripenso a tutte le volte che le frasi alcuni grandissimi artisti mi hanno dato la forza di uscire da momenti neri e li capisco che i soldi per l’arte son soldi benedetti.
-Le conoscenze in questo campo sono indispensabili per emergere? 

Purtroppo si, la meritocrazia in questo paese ormai è svanita. Io sono nato nel 1990 quindi tardi, ma negli anni 70 a Roma c’èra il folk studio dal quale poi sono usciti artisti del calibro di Venditti De Gregori, Rino Gaetano ecc. Il folk studio riservava uno o due giorni a settimana all’ascolto dei nuovi artisti cosa che oggi non avviene più. Il problema è dovuto anche ai tantissimi “talent show” che spopolano in giro, prima il cantante cantautore ecc non era quasi considerato un mestiere serio, quindi solamente chi lo sentiva dentro provava a farlo. Oggi ci provano tutti quelli che vogliono avere visibilità, a loro non importa se le canzoni vengono scritte da altri o addirittura se cantano in playback. Purtroppo qui non si parla quasi più di arte ma di mercato. C’è tantissima offerta e la domanda è solo di un certo tipo e di conseguenza chi ha grandi qualità ma poca commerciabilità viene tagliato fuori. Mentre chi ha il simbolo del dollaro al posto delle pupille tramite conoscenze va a fare un mestiere che non è il suo, rubando all’artista il posto di lavoro.
-E’ cambiato qualcosa nel tuo mondo, interiormente?
E’ cambiato moltissimo, sono successe molte cose in questi mesi che mi hanno trattenuto nel fondo di un mare nero come il petrolio. Vivo una situazione molto difficile, la mia malattia, quella dei miei,il fatto di rischiare la casa, ma la botta più brutta che ho avuto è stata la morte di nonna. Ho vissuto con le per 18 anni circa, ed è stata la persona che sempre e comunque ha creduto in me. Sono diventato un po’ più forte forse, ma ho anche capito di quanto possa fare schifo a volte quella bestia che chiamiamo uomo… ho provato sulla mia pelle la pura cattiveria di un signore di 60 anni che si divertiva a farmi star male… è stata una cosa terrificante… li ho capito di quanto possano far schifo alcune persone.
-Che genere di pubblico ti segue?
Un pubblico di amici. Un pubblico che comunque si rispecchia nelle mie idee e nelle mie rime che con me sorride e piange, spero con le mie canzoni di esser “la voce di nessuno” ovvero di tutte quelle persone che non hanno la forza di urlare e farsi sentire, una sola cosa è certa, non sto con il più forte, sto con chi soffre con chi piange con chi però nonostante i momenti brutti sa imbracciare una chitarra e lasciarsi andare ad una canzone per citare Faber potrei dire che sto con tutta la gente che viaggia “In direzione Ostinata e Contraria”.
-Hai un esempio artistico che apprezzi maggiormente?
Assolutamente si. Ognuno di noi ha dei genitori, ovvero coloro che tramite rapporto sessuale lo hanno messo al mondo ma essere genitori non equivale a essere padri e madri. Io dico sempre che i miei genitori mi hanno dato la bicicletta, ma non mi hanno mai detto ne come pedalare ne che strada seguire, ecco per queste indicazioni ho avuto la fortuna di incontrare sulla mia strada tre persone in particolare, Fabrizio De Andrè, Giorgio Gaber e Francesco Guccini. Tre persone simili ma allo stesso tempo differenti. Tre poeti che con le loro parole fuori dal tempo sono riusciti a darmi tanto. Io non ringrazio loro tre per avermi fatto diventare il cantautore che sono oggi li ringrazio invece per aver creato il carattere dell’uomo che sono.
-Faresti della tua arte una professione?
E’ il mio sogno. Come detto prima io amo stare su un palco, amo parlare, ma in questa vita oltre gli ideali ci vuole il pane. Vorrei davvero farlo per mestiere perché credo sia il mestiere più bello del mondo. Non voglio far successo, o meglio voglio fare il mio di successo. Vorrei poter guadagnare quel che mi basta per crearmi una famiglia, e far star bene anche la mia. Comprarmi una casa che sia tutta mia, se un giorno sarò riuscito a raggiungere questi obiettivi potrò dire che i miei giorni li ho vissuti.
-Qual è la migliore qualità in un artista?
Sicuramente L’umiltà. L’artista deve essere umile e non sentirsi mai superiore a colui che osserva la propria arte. Non deve mai sentirsi arrivato,deve sempre cercare un punto più alto deve saper ascoltare, perché spesso il pubblico ha richieste che vanno soddisfatte, ma credo che un artista per definirsi tale debba saper sognare, poi lo dite a me che sono un anarchico… io sono 21 anni che sogno un mondo migliore.
Ti ringrazio Mario per questa intervista.
A cura di Max Dakota
Editing Gioia Lomasti

TUTTI I DIRITTI SONO RISERVATI E NIENTE PUO ESSERE COPIATO E RIPORTATO IN ALTRE FONTI SENZA L’AUTORIZZAZIONE DA PARTE DEGLI AUTORI.
PROMOZIONE ARTISTI PROGETTO A CURA DIVETRINADELLEEMOZIONI.COM
profilo facebook :suonatore faber
Pagina facebook artista gruppo musicale : Mario Fiori
Canale youtube : cantautoremario

Ali di gabbiano, il breve volo di Frida Kahlo

ALI DI GABBIANO

Il breve volo di Frida Kahlo

Articolo a cura di Angela Crucitti 

Probabilmente pensava all’incidente che le cambiò la vita Frida Kahlo, quando dipinse Il bus del 1929. Era il 17 settembre del 1925 quando Frida salì, insieme al suo primo amore Alejandro Gomez Arias, su un autobus. Nei colori caldi e tenui e nelle espressioni dei passeggeri non si legge nulla che prefiguri l’imminente scontro tra l’autobus e un vecchio tram; impatto tragico in cui il corrimano infilzerà la giovane pittrice «come la spada il toro» e la lascerà seminuda, ricoperta di sangue e di polvere d’oro, rovesciata dal sacchetto che l’uomo rossiccio del quadro tiene in mano. Furono mesi incerti quelli dopo la tragedia, in cui la vivace Frida fu costretta a letto per un lungo periodo. Sua madre le costruisce così un letto a baldacchino, con uno specchio che ricopre interamente il tetto del baldacchino. Frida descrive quello specchio come «carnefice dei miei giorni, delle mie notti», lamentandosi di essere obbligata a vedersi continuamente. Impara presto a conviverci e comincia a disegnarsi. Forse deriva proprio dall’imposizione della sua immagine riflessa l’ossessione della Kahlo per gli autoritratti. Si dipinge sempre seria, con la bocca rosso vermiglio dolcemente chiusa e lo sguardo fiero ma dolce, sormontato da due sopracciglia che si uniscono come fossero ali di gabbiano. Sembrano voler spiccare un volo che a Frida non è permesso, a lei che non ha nè ali né piedi ma solo radici che la tengono ancorata saldamente a terra, come si raffigura nel dipinto Le radici.

Inquietante è La colonna spezzata, in cui la pittrice si disegna piangente, a torso nudo e aperto a metà, mostrando nella carne vermiglia, al posto della colonna vertebrale dilaniata dall’incidente, una lunga colonna di marmo scheggiata. Il corpo è puntellato da chiodi, sicuramente simbolo delle enormi sofferenze fisiche e psichiche, ma anche chiodi che la puntellano alla vita, la aiutano a resistere. Non a caso il colore dominante è il bianco, colore della purezza, della rinascita, in contrasto con i colori vivaci, accesi e stridenti della maggior parte dei suoi dipinti, dove a imperare è il rosso sangue. Come in Henry Ford Hospital, che vede una Frida completamente nuda, distesa su un letto macchiato di rosso magenta. Tiene in mano un lungo cordone ombelicale sanguigno che la collega ad un feto, ad un fiore appassito, ad un osso pelvico, simboli della sua impossibilità di procreare, di dare la vita ad un altro essere. Perché oltre all’aborto testimoniato da questo quadro del 1932, la pittrice messicana abortisce altre due volte e sono esperienze che avranno una grande risonanza sulla sua opera.

A segnare il suo modo di dipingere, interviene anche la sua burrascosa relazione col pittore Diego Rivera. I due si sposano il 21 agosto del 1929 e da allora sarà un rapporto costellato di stramberie, viaggi e tradimenti. Tradimenti che uccidono Frida a poco a poco, come testimoniato da Qualche piccola punzecchiatura, ispirato da un fatto di cronaca ma riferito probabilmente alle mille scappatelle di Diego, tra le quali c’è anche Cristina, la sorella minore di Frida. Il dipinto rappresenta una donna nuda cosparsa di sangue, liquido che esce dalla tela e imbratta anche la cornice, a gridare il dolore, la delusione. Ma la coraggiosa artista non si limita a subire; tradisce anche lei ripetutamente il marito con Nickolas Muray, David Alfaro Siqueiros, Isamu Nogochí e Leon Trotzkij, oltre ad avere presunti flirt con donne del calibro di Tina Modotti, Dolores Del Rio e Georgia O’Keefe. I due divorziano nel ‘39 e Frida dipinge il suo quadro dalle dimensioni più grandi, come se volesse estendere il suo rancore e la sua sofferenza su una superficie più vasta. Ne Le due Frida, rappresenta due se stesse che si tengono per mano: una Frida è vestita di bianco al modo europeo e ha il cuore straziato come quello della pittrice che non ha più il suo amore, l’altra indossa l’abito messicano e ha un cuore perfettamente sano e pulsante per Diego. Nonostante i tradimenti e il breve periodo di separazione (conclusosi nel ‘40 con un secondo matrimonio)  i due artisti si completavano, si amavano e si ammiravano. Diego Rivera fu il primo a riconoscere la levatura artistica di quella donnina che gli passava vent’anni e più di venti centimetri..E Frida lo compiaceva, vestendosi alla tehuana, quel modo bizzarro e messicano di agghindarsi che la contraddistinse sempre, e lasciandosi crescere i baffi che a Diego piacevano un sacco. Sapere che anche una donna anticonformista come lei scendesse a compromessi per l’uomo che amava, ce la rende più simpatica, più umana.

Quello che salta all’occhio nei suoi dipinti, oltre al formato piccolo e quindi intimistico, è la raffigurazione dei corpi. Sono corpi molli, pupazzi di gomma, come se la pittrice messicana negando le ossa, negasse anche la fragilità dell’essere umano, che si piega alle circostanze della vita ma non si spezza. Proprio come fa Frida che affronta coraggiosamente la vita, nonostante i suoi ripetuti problemi di salute e di “cuore”, e cerca di ottenerne il meglio. Ma lo scheletro c’è, è sopra il suo letto a baldacchino, dipinto nella sua interezza ne Il sogno: uno scheletro nudo, scarno, atto a rappresentare la morte che sempre incombe su Frida. Ha infatti provato varie volte a suicidarsi, abbandonandosi all’alcool e alle medicine, ma la vita l’ha sempre strappata, l’ha sempre richiesta indietro. Un solo suicidio le è riuscito, nel quadro stupendo che raffigura Il suicidio di Dorothy Hale. Qui vengono descritte le tre fasi della morte violenta dell’attrice americana, attraverso un gioco di prospettiva della figura umana e il bianco sfumato che annulla il tempo e lo spazio. Dal corpo, del tutto vestito di nero, stilla sangue che ancora una volta fuoriesce dalla tela e contamina la cornice.

Frida, nonostante i suoi quadri possano farci pensare il contrario, è sempre stata un’attenta osservatrice della realtà sociale e politica attorno a lei. Per tutta la vita, l’artista messicana lottò in difesa degli oppressi, militò nel partito comunista e undici giorni prima di morire si recò, nonostante il parere contrario dei medici, ad una manifestazione contro la caduta in Guatemala del governo democratico di Jacobo Arbenz Guzman. Nel luglio del 1954, «Frida la fiammeggiante» fu «portata via dalle fiamme», nel crematorio civile di Dolores.

Visse poco quindi la grande pittrice, nata il 6 luglio del 1907. E quando suo padre decise il suo nome, si giustificò spiegando che «Friede, in tedesco, significa pace.» Non sembra un nome adatto ad una donna tenace, combattiva, aggressiva ma dolce nei confronti di quella vita che le riservò sempre sorprese sgradevoli. A noi Frida sa più di libertà, quella libertà che le permise di affermare «che murare viva la propria sofferenza è rischiare di lasciarsi divorare da lei, dall’interno (…), che la forza di ciò che non si esprime è implosiva, devastante, auto-distruttrice. Che esprimere è cominciare a liberarsi.»[1]

a cura di Angela Crucitti

E’  SEVERAMENTE VIETATA LA RIPRODUZIONI DI PARTI O DELL’INTERO ARTICOLO SENZA IL PERMESSO DA PARTE DELL’AUTRICE.


[1] Tutte le citazioni sono tratte da R. Jamis, Frida Kahlo, Longanesi & C., Milano 1991

Antologia di Racconti 100×100, Montecovello Editore

L’idea è quella di raccogliere in un’ unica antologia 100 autori con diversi generi letterari: dal fantasy ai racconti d’ amore, dal racconto di viaggio al racconto d’amicizia, dal teatro ai saggi e via dicendo.

Il vero lettore, non è colui che predilige un solo genere ma è colui che ama  la lettura in quanto tale, quindi, tutti i generi. L’obiettivo dell’antologia è proprio  questo: far leggere al lettore anche quello che gli piace di meno.

E’ una bella sfida, ma sono certa che con il vostro contributo, riusciremo a realizzarla. Per aderire, vi basterà leggere le informazioni di seguito riportate, in alternativa, potete inviare una e-mail all’indirizzo: annaritamurano@yahoo.it

Titolo del libro: 100×100

Sottotitolo: 100 opere di 100 autori

Edizione cartacea: A5

Edizione digitale: A4

Scadenza: 30 Novembre 2011

Pubblicazione: entro il 12 Dicembre 2011

Commercializzazione: sui siti online e in tutte le librerie di Italia oltre che alle varie presentazioni che Montecovello organizzerà

Contenuto: RACCONTI DI QUALSIASI GENERE O SAGGI.

Ogni opera dovrà essere minimo di 5 pagine in formato A5 massimo 10 pagine ( margini 1,5, interlinea 1, carattere 10),

All’autore non è richiesto nessun contributo di partecipazione. In caso di selezione dell’opera, l’autore della stessa è tenuto solo all’acquisto di 3 copie( ogni copia al prezzo di 12 euro).

Oltre alla pubblicazione del racconto nella nostra antologia, saranno premiati i 3 racconti o saggi.

Per l’invio dei racconti: annaritamurano@yahoo.it

Ricordate di inserire i vostri contatti.

Vi aspettiamo numerosi.

Anna Rita Murano

per la MonteCovello Editore

Chi è davvero uno scrittore? Considerazioni di Massimo Acciai sulla difficile definizione di ‘scrittore’

Il seguente articolo è dello scrittore Massimo Acciai, che ha gentilmente concesso la pubblicazione dello stesso su questo spazio.  

Cito dalla Treccani: “Scrittore: chi si dedica all’attività artistica, chi compone e scrive opere con un intento artistico”. Eccolo là lo scrittore; né più né meno!

Per essere definito, o definirsi, “scrittore” non occorre altro. Non occorre un attestato, una “patente”, un permesso, un riconoscimento ufficiale. Non occorre aver mai pubblicato un libro. Non occorre nemmeno, secondo la definizione data, aver mai fatto leggere a qualcuno le proprie opere. Ne consegue che in Italia il numero degli scrittori è imprecisabile e forse molto alto; qualcuno potrebbe aggiungere “magari più alto di quello (altrettanto imprecisabile) dei lettori”; quest’ultima affermazione calzerebbe per la poesia, ma non credo possa dirsi anche per la prosa (curiosamente la maggior parte di coloro che scrivono versi non leggono poi i versi altrui, mentre non ho ancora conosciuto un autore di racconti o romanzi che non sia a sua volta un forte lettore).

Una domanda interessante potrebbe essere questa: perché se “scrittore” è soltanto “colui che scrive con intento artistico” allora spesso nel linguaggio comune si intende “colui che vive di scrittura”? Com’è che si tratta la scrittura alla stregua di un mestiere qualunque?

Chiaro, se non mi guadagno da vivere con la scrittura e qualcuno mi chiede che lavoro faccio, non risponderei “lo scrittore”. Lui mi ha chiesto che lavoro faccio. Il punto è che fare lo scrittore non è necessariamente un lavoro. Non è un vanto. Non è un pretesto per farsi dire “bravo” o un modo per far soldi. Lo scrittore, quello vero (ma esistono scrittori “falsi”?), è semplicemente quello che sente la necessità di scrivere e, anziché reprimerla, dà libero sfogo ad essa attraverso l’azione di prendere un foglio (di carta o elettronico) e riempirlo di parole finché ne vengono assieme alle idee (che possono precedere la scrittura o anche essere simultanee ad essa), e poi magari tornarci su, limare, aggiungere, togliere, finché non sente di aver detto ciò che voleva dire nel miglior modo possibile. Lo scrittore non è nient’altro che questo.

Certo. Ci sono quelli che si guadagnano da vivere con la scrittura. È un sottoinsieme, questo sì quantificabile e molto ridotto, di coloro che credono nella pubblicazione. Ci sono anche scrittori che non hanno la minima intenzione di pubblicare le loro cose; magari hanno scritto capolavori che tengono nei loro cassetti e che si perderanno dopo la loro morte (o anche prima). Se si parla di “purezza” dell’intento artistico, loro sono i più puri di tutti, ma io tralascerei la questione frivola della purezza. Ci sono poi quelli che vorrebbero pubblicare ma non hanno l’anima del “venditore” (perché, diciamo le cose come stanno, questo è chiamato ad essere oggigiorno lo scrittore “pagato”; un “venditore di se stesso”, senza offesa per i venditori) o comunque non intendono farsi prendere per il… portafoglio da pseudo editori che promettono gloria imperitura e chiedono denaro per fornirla attraverso un semplice lavoro da tipografo (salvo poi fornire soltanto le copie stampate e pagate dall’autore, che dovrà poi comunque essere “venditore” per sbarazzarsene… o più verosimilmente regalarle a parenti e amici). Far leva sul narcisismo dello scrittore è una tattica vecchia ma sempre attuale, e perder tempo e denaro è la giusta punizione. C’è chi ci casca ed è felice di cascarci. Contento lui…

Un sacco di soldi girano intorno alla scrittura; servizi per lo scrittore (agenzie letterarie, correttori di bozze a pagamento, editor, consulenti, ecc… senza contare l’ambigua SIAE) tutti a pagamento ovviamente; e ci sono diciamo “servizi” per il lettore (la pubblicazione di un libro che incontri il suo gusto), anche questo “servizio” a pagamento ma a carico del lettore (ma può essere anche gratuito…). La smania di pubblicare nasce proprio dalla falsa idea che solo ciò che è pubblicato (soprattutto se da una casa editrice importante) è degno di essere letto, mentre – per fortuna – non è così. C’è tutto un mercato insomma centrato sulla scrittura (che si divide, come scriveva Umberto Eco, in case editrici rivolte al lettore e case editrici rivolte allo scrittore – quelle che possono giungere all’aberrazione di pubblicare storie della letteratura contemporanea in cui più uno paga e più parole si spendono su di lui…), ma vorrei qui fare un’ipotesi, degna magari di un racconto di fantascienza.

Poniamo che nessuno compri più libri. Nessun editore li pubblicherebbe più. L’editoria crollerebbe. Lo scrittore… smetterebbe di scrivere?

È proprio questa la domanda per comprendere cosa distingue davvero un ragioniere (o un idraulico, o un avvocato…) da uno scrittore di professione. Entrambi traggono sostentamento dai rispettivi mestieri. Entrambi devono soddisfare in primo luogo qualcuno diverso da se stessi (il ragioniere, il cliente o il datore di lavoro; lo scrittore di professione, l’editore ed indirettamente i lettori paganti). Se per assurdo nessuno fosse più disposto a pagare un ragioniere, o un idraulico, o un avvocato, questi non verrebbero certamente a fornire gratuitamente i loro servizi così, perché sentono prepotente in loro il desiderio di far conti o aggiustare un rubinetto o difendere un disgraziato da una qualche accusa… semplicemente cercherebbero un altro lavoro e getterebbero via i loro strumenti. Uno scrittore no. Continuerebbe a scrivere, magari solo (e finalmente!) per se stesso o per pochi amici. Perché scrivere è sostanzialmente qualcosa che nasce dal profondo e che preme per uscir fuori, indipendentemente se qualcun altro apprezza il risultato dello sforzo o addirittura è disposto pagare. Anche un musicista si comporterebbe in maniera analoga. Anche uno scultore o un pittore. Così qualsiasi artista.

Come si può definire chi è davvero uno scrittore, si potrebbe definire per analogia anche chi non lo è: colui che non scrive! Se un autore a caso di best seller non ricevesse più un soldo dai suoi libri e di conseguenza smettesse di scrivere, per assurdo, quello un vero scrittore non lo sarebbe mai stato. Certo, è risaputo che molti autori famosi si servono di “scrittori fantasma” ed anche in quel caso, quando il libro sia opera esclusiva dello scrittore nell’ombra, a quest’ultimo andrebbe il nome di scrittore e non più al primo.

Come definire poi un “buon scrittore”, quella è un’altra questione.

Tornando alla definizione iniziale presa dalla Treccani, tornando alla lingua italiana. Per quanto autorevole possa essere un’enciclopedia, è la lingua corrente quella che conta, e nella lingua corrente “scrittore” è quello che si guadagna da vivere scrivendo. Non lo si può negare, ma qualche contraddizione rimane. Italo Svevo, che quand’era in vita ha pubblicato a proprie spese tutti i suoi romanzi, secondo la lingua corrente non sarebbe stato uno scrittore. Infatti si guadagnava da vivere come commerciante di vernici per sommergibili. Sull’enciclopedia però vado a cercare “Italo Svevo” e non ci trovo “commerciante”; ci trovo “scrittore”. Su questa definizione sarebbe però d’accordo anche l’uomo comunque, quello che accetta il termine di scrittore solo se applicato a chi ne fa un mestiere. Mah…

Personalmente non credo che uno scrittore sia per forza un tizio che fa di tutto per farsi conoscere ed apprezzare e quindi vivere della sua attività artistica (in un mondo perfetto ogni artista avrebbe la possibilità di dedicarsi in pace all’arte senza preoccupazioni economiche). Sono semmai propenso a pensare che un libro sia una sorta di dono, gratuito quindi, che liberamente l’autore può decidere di fare al lettore, per comunicargli qualcosa che gli sta a cuore, senza nemmeno la pretesa o la presunzione che la stessa cosa stia a cuore anche al lettore, il quale ha tra i suoi diritti sacrosanti pure quello di non leggere.

Un ringraziamento ed un saluto ad Andrea Mucciolo per avermi dato lo spunto col suo interessantissimo articolo “Essere scrittori oggi”

MASSIMO ACCIAI 


MASSIMO ACCIAI, laureato in Lettere presso l’Università degli Studi di Firenze con una tesi sulla comunicazione nella fantascienza, ha fondato nel 2003 la rivista culturale online Segreti di Pulcinella insieme a Francesco Felici. Dal 2007 al 2008 collabora con il musicista siciliano Paolo Filippi, per il quale ha scritto circa 140 testi di canzoni, ed altri artisti tra cui Matteo Nicodemo. Nel 2009 appare il suo primo e-book, edito da Faligi, in esperanto e in italiano, La sola absolvita / L’unico assolto. Presso tale casa editrice uscirà a breve il romanzo fantasy Sempre ad est. È redattore della rivista letteraria “L’area di Broca” dal 2006. E’ anche autore di video.

 massimoacciai@alice.it 

http://www.segretidipulcinella.it/

Un baile dominicano, el merengue

La música dominicana inicialmente se conformó mediante la fusión de influencias de España y África, a las que siguieron las de otros países, como Francia y Haití. De España obtuvieron los instrumentos de cuerda, y los adptaron a su medio y a las posibilidades de este país: la guitarra y el tiple. De África con los esclavos de raza negra llegó la tambora, que junto con  el güiro y el acordeón, completan el ritmo del merengue. La danza popular de la República Dominicana se consiguió mediante la fusión de la plena, que son canciones de trabajo de origen africano, y la décima, que es una canción española de estrofas de 10 versos del siglo XVII. La  danza que se corresponde con este tipo de música es el merengue que tiene un poco de ritmos europeos junto con afroamericanos.

El merengue de la República Dominicana  tiene su origen alrededor de 1844 y es uno de los bailes más populares de esta zona. Tiene dos partes: la primera, con líneas cantadas sobre patrones de acordes variables y la segunda que es una sección más rápida.

El merengue se baila en parejas de dos personas y en República Dominicana todos lo saben bailar (jovenes y mayores) y es bailado en muchísimas ocasiones de fiesta pero también en el ámbito domestico, en bares y discotecas. Todos los países tropicales tienen sus bailes y sus música, por ejemplo en Haití están otros tipos de bailes.

Normalmente en el baile del merengue domenicano no hay reglas cerca de la vestimenta que hay que poner pero en algunas fiestas o eventos puedes tener un particular tipo de traje.

Merengue no es el único baile de República Dominicana, son cultivados también otros estilos como la bachata y la salsa. Hoy en día hay un grupo de bachata que ha puesto el país muy alto, se llama Aventura.


FABIOLA TAVERAS ALCANTARA

Santo Domingo, 10-03-2011


Traduzione in italiano dell’articolo.

La musica dominicana inizialmente si costituì mediante la fusione di influenze spagnole e dell’Africa, alle quali seguirono quelle di altri paesi come la Francia e Haiti. Dalla musica spagnola si ripresero gli strumenti musicali a corda (chitarra e tiple) che vennero adottati e impiegati a seconda delle possibilità di questo paese. Dall’Africa degli schiavi neri venne ripreso l’uso del tamburo che assieme al guiro e alla fisarmonica completarono il panorama della musica dominicana del merengue.

La danza popolare della Repubblica Dominicana nacque grazie alla fusione della plena (un genere musicale folkloristico di Porto Rico influenzato dalla musica africana e spagnola che si basa sulle percussioni di panderetas e del guiro), canzoni di lavoro di origine africana, e la decima, una canzone spagnola di dieci versi del secolo XVII. La danza che corrisponde a questo tipo di musica è il merengue che somma dei ritmi europei a dei ritmi afro-americani-

Il merengue della Repubblica Dominicana ha la sua origine attorno al 1844. E’ il ballo più popolare di tutto il paese.

Si compone di due parti, la prima costituita da frasi cantate su accordi musicali variabili e la seconda che si caratterizza per l’andamento più rapido.

Il merengue si balla in coppia e nella Repubblica Dominicana tutti lo sanno ballare (giovani, anziani) ed è ballato in moltissime occasioni di festa ma anche all’interno dell’ambito domestico, nei bar e nelle discoteche. Tutti i paesi tropicali hanno i propri balli e la propria musica, ad esempio nel vicino Haiti ci sono degli altri tipi di balli.

Normalmente nel ballo del merengue dominicano non ci sono regole per quanto concerne il vestiario dei ballerini ma in alcune feste ed eventi può essere previsto un particolar indumento da indossare durante la danza.

Il merengue non è l’unico ballo della Repubblica Dominicana, sono coltivati anche altri stili come la baciata e la salsa. Oggigiorno, gli Aventura, un gruppo di baciata, sta avendo un grande successo nel paese.


FABIOLA TAVERAS ALCANTARA

Santo Domingo, 10-03-2011

Tradotto da LORENZO SPURIO

Jesi, 13-03-2011

República Dominicana

INIZIA OGGI LA COLLABORAZIONE CON FABIOLA TAVERAS ALCANTARA, RAGAZZA DOMENICANA CHE PARLERA’ DELLA CULTURA DEL SUO PAESE.

EMPIEZA HOY LA COLABORACIÓN CON FABIOLA TAVERAS ALCANTARA, CHICA DOMINICANA QUE NOS HABLARÁ DE LA CULTURA DE SU PAÍS.

República Dominicana es un país caribeño situado en la isla La Española, compartiendo isla con Haití. La Española es la segunda isla mas grande del Archipiélago de las Antillas, estando situada al Oeste de Puerto Rico y al Este de Cuba y de Jamaica. Los Dominicanos se refieren a veces a su isla como Quisqueya, un nombre para la Española usado por los indígenas Taínos que significa «madre de todas las tierras».

Si te preguntan por República Dominicana, seguro que lo primero que piensas son en playas paradisiacas y hoteles / resorts de todo incluido, pero República Dominicana es mucho más que sol y playa. Empezando por Santo Domingo de Guzmán, fundada en 1496 fue la primera ciudad del nuevo mundo, nos habré las puertas a la ruta monumental, con su zona colonial declarada Patrimonio de la Humanidad por la UNESCO.

Para los interesados en visitar República Dominicana, pueden pasar su estancia con todo tipo de lujos en uno de los exclusivos complejos turísticos de la República Dominicana, situados principalmente todos ellos en Punta Cana, pero si por el contrario te gusta más la aventura, este país posee tantas mezclas culturales, parajes naturales y personalidad que vale la pena explorarlo a fondo, siendo la región más suroeste de República Dominicana, la zona más desconocida de la isla y la menos turística, una región muy deprimida económicamente pero por su diversidad de paisajes, la hacen junto a la zona de Samaná, el lugar con mas encanto y magia del país.

FABIOLA TAVERAS ALCANTARA

Santo Domingo, 09-03-2011

Traduzione in italiano dell’articolo:

La Repubblica Dominicana è un paese dei Caraibi situato sull’isola di La Española (o Hispaniola), assieme al paese di Haiti. La Española è la seconda isola più grande dell’arcipelago delle Antille e si trova ad ovest di Porto Rico e ad est di Cuba e Giamaica. I domenicani sono soliti riferirsi alla loro isola chiamandola con il nome di Quisqueya, un nome che veniva usato dagli indigeni Taínos e che significa “madre di tutte le terre”.

Se qualcuno ti parla della repubblica Dominicana sicuramente la prima cosa che ti salta alla mente sono le spiagge paradisiache, gli hotel e i resort con tutti i confort ma la Repubblica Domenicana è molto di più di sole e spiagge. Santo Domingo de Guzmán, prima città del nuovo mondo venne fondata nel 1462 e aprì le porte alle rotte commerciali e con il vecchio continente. La città e la limitrofa zona coloniale sono state dichiarate Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco.

Per chi fosse interessato a visitare il paese, è possibile trascorrere il soggiorno in un hotel di lusso in uno degli esclusivi complessi turistici della Repubblica Dominicana, situati principalmente attorno a Punta Cana ma, a chi interessa l’avventura questo paese possiede tanti mix culturali, posti naturali che vale la pena esplorare a fondo, essendo la regione più a sud-ovest della Repubblica Dominicana, la zona meno conosciuta dell’isola e la meno turistica, una regione dall’economia precaria ma che per la sua eterogeneità di paesaggi la rende, assieme alla zona di Samaná, un luogo ricco di incantesimo e di magia.

FABIOLA TAVERAS ALCANTARA

Santo Domingo, 09-03-2011

Tradotto da LORENZO SPURIO

Jesi, 10-03-2011

Un sito WordPress.com.

Su ↑