N.E. 01/2023 – “Il paradigma cristologico nella poesia di Amelia Rosselli”. Saggio di Gino Scartaghiande

gyro devocet aerio

(Catullo, 66, 6)

Premessa

La presente postilla fa seguito al questionario sulla poesia propostomi da Lorenzo Spurio e pubblicato con le mie risposte sul numero 32 di “Euterpe” del dicembre 2020. Vi riprendo specificamente la domanda “Che definizione si sente di dare di poesia?”, a cui cerco di rispondere da un punto di vista rigorosamente fenomenologico e tenendo presente il titolo/tema suggerito dalla redazione per questo primo numero del nuovo corso della rivista: “I libri: lo specchio dell’io”. Lo svolgimento verte attorno all’idea di libro-libellum-libellula su cui credo si imperni l’opera di Amelia Rosselli. Ne rivisito ascendenze dal “novum lepidum libellum” catulliano; dalle tradizioni liturgiche orali preabramitiche; dalle litanie senza parole medioevali; dal senso pittorico polittico dell’arte italiana e straniera, di tutti i tempi e luoghi.

I

A ben vedere, e con il girare un po’ più alla larga sulla domanda, direi che la quête, la questio, la ricerca, il ritrovamento, sono di già altrettante componenti essenziali della poesia, percepita nella sua totalità e nel come lei stessa si pone. Una ulteriore didascalia su di essa, una chiosa, o anche un commento, a non altro potrebbero condurre che alla segreta decrittazione, e seppure l’eco, di quel capro espiatorio, sofferente, ma alla fine gioioso, che lei stessa è. E che mentre corrisponde alle nostre attese di una vera e salvifica bellezza, subisce puntualmente la violenza che di un suo uso improprio l’artefice cattivo, ovvero insano – quel vesanum poetam di oraziana memoria (Ars poetica, 455) – è coattamente spinto a farne in quanto suo mitico antagonista.

Ed oramai, con troppi poeti borghesi, è stato compiuto un errore ermetico, proprio in quanto mis-fatto mimetico, ovvero la proposta di un’arte mitica, non effettuale. Ed è quasi per un “nonnulla” – una doppia negazione che afferma – che Amelia Rosselli riesce a neutralizzarne la carica distruttiva – in ispecie dell’ermetismo nostrano – innalzando tra il 1958, centenario di Lourdes, e il 1979, la sua Croce, di cui La libellula (1958) è il patibulum e l’Impromptu (1979) lo stipes. Quest’ultimo, nella stessa posizione apicale dell’INRI, riporta il proprio incipit –“Il borghese non sono io”–  quale decrittazione fenomenologica di quell’ acronimo latino.

Ritorna così, entro l’abscondita effettualità della poesia, l’originale tetragramma del Golgota, come sappiamo scritto oltre che in latino anche in ebraico e in greco, in qualità di fenomeno dell’impronunciabile nome di Iahvè. Anche Amelia non lo pronuncia, ma ne afferma la presenza tramite una doppia negazione – che è anche una doppia sospensione, ovvero epochè fenomenologica – quella del borghese che nega Dio, e quella di sé stessa che non è il borghese. Come se Iahvè stesso, tramite l’incipit di Amelia, venisse ad affermare il proprio nome manifestandosi non per quello che è – “Io sono colui che sono” – ma per quello che non è. L’incipit di Impromptu non è altro così che l’ineffabile nome di Jahvè già contenuto nel tetragramma INRI, a leggere quest’ultimo con le iniziali in ebraico, e ovviamente da destra a sinistra1.

E anche il senso del “rullo”-Libellula di Amelia è “davvero non cinese, anzi cristianissimo, ispirato al tema della giustizia ebraica”, come lei stessa ci dice nelle Note a «La Libellula» nell’edizione SE (1985) del  poemetto. Tale sua abscondita lettura porterà questo primo “libello” di Amelia ad essere quell’intarsio-patibulum, quel “volatile”asse orizzontale della Croce, che, prima levitando qui e là entro il corpus rosselliano, con il frammento del ’62-’63 apparso su «il Verri», e dopo la sua prima pubblicazione integrale su «Nuovi Argomenti» del gennaio-marzo 1966,  e il quasi occultamento in apertura del mare magnum della Serie ospedaliera del ’69,  acquisterà poi, stavo dicendo, piena visibilità solo con la citata edizione SE del 1985, quale libro a sé stante, pur con la coda di 31 testi tratti da Serie ospedaliera, allorquando, nel suo volo su di lui,  potrà inserirsi nel cuore stesso dello stipesImpromptu, scritto nell’inverno del 1979 e già pubblicato nel febbraio dell’81 per farsi trovare pronto ad accoglierlo, tale “libello” maggiore, nel suo definitivo asSEtto cruciale. Reiterandovi lo stesso nome della casa editrice SE, una volta messe tra parentesi tutte le realtà contingenti, quale essenziale parte dell’opera verbale di compimento fenomenologico, anche nel suo rivolgersi geopolitico Sud-Est verso Gerusalemme, il proprio Golgota.2

La poetessa Amelia Rosselli

Così come lo stesso fenomeno occitanico di un abscondito nome dell’Immacolata Concezione, aveva già portato i poetae novi di Sicilia e di Provenza a cantarne la bellezza sub specie di donna angelicata, fino alla conchiusa preghiera alla Vergine di Dante e di Petrarca. E in quello stesso giorno dell’11 febbraio, giorno dell’apparizione di Nostra Signora e della tragica morte di Amelia Rosselli e di Sylvia Plath, troveremo le due poetesse ai piedi dei Pirenei, in quella stessa grotta, con tutto il carico dell’interdetto della modernità, ma come a risolversi comunque in quella origine occitanica, in quell’identico sé, da cui s’era mosso tutto il giro occidentale della poesia.

L’antico catasterismo callimacheo della Chioma di Berenice, viene così di nuovo ad una ipostasi terrena ai giorni nostri, dopo essere stata già fonte d’ispirazione per le nuove forme grammaticali scritte di Arnault Daniel e Iacopo da Lentini. La chioma in effettinon è mai stata separata, fosse anche solo per nostalgia, dal vertice della sua Regina; vuoi da Berenice stessa che l’aveva offerta in voto alla propria madre deificata Arsinoe II Zefirite, vuoi dai poetae novi latini che da essa, tramite Callimaco, ricevono la possibilità di ricongiungersi alla tradizione lirica greca; vuoi, nei cantori siciliani e provenzali, come riverbero del nome di Maria per il catasterismo della propria donna dentro. E anche per essi, come già in Callimaco, la formadei loro piccoli suoni ha l’ufficio di una eguale offerta votiva di sé, come di preghiere d’amore, ovvero supplicanti litanie, e nel contempo ringraziamento per i doni ricevuti da Madonna.

Al compimento della questio, quale preghiera, o litania, concorre nei poeti fra Due e Trecento questa nuova forma di scrittura fatta di piccoli suoni che culminerà nei sonetti e nelle canzoni di Dante e di Petrarca, non senza essere repleti ovviamente di tutta quella scientia crucis cui aveva esperito la Mater Dei. Ipostasi dolorosa cui ritorna d’emblée, sospintavi dalla tragicità della Storia, Amelia Rosselli allor che tiene fra le braccia il figlio morto Rocco Scotellaro: “Dopo che la luna fu immediatamente calata / ti presi fra le braccia, morto”3. E prima ancora, in qualità di figlia, il proprio padre assassinato Carlo.  

Di “primato della litania” nella poesia di Amelia Rosselli – ovvero, aggiungo io, di un canto bellico di antichissima ascendenza biblico-angelica quale fondamento musicale a doppia voce che si apre nel contrappunto barocco di un terzo distale – parla Arnaldo Colasanti, come della “vettorialità di uno spazio” che proprio nel rigido, immobile e reiterato rigore grammaticale della scrittura fa sì “che la musica stabilisca un moto perpetuo”, una sorta di suo eterno e salvifico infinito. Nello specifico Arnaldo Colasanti commenta un testo di Variazioni Belliche, “Dopo il dono di Dio vi fu la rinascita. Dopo la pazienza”, intervenendo nella trasmissione radiofonica Paesaggio con figure, incontro con Amelia Rosselli condotto da Gabriella Caramore4.  

È proprio questo spazio musivo baroco, già culminante nell’antitesi del “et ardo, et son un ghiaccio”di Petrarca CXXXIV, il vettore emanante della parola-idea, ed è “perpetuo”in quanto “speranzoso”sempre, e anzi, come suonano gli ultimi due versi del testo di Amelia: “Speranzosi barcolliamo fin che la fine peschi / un’anima servile”.  E sono, tali ultimi due versi, finalmente secreti quali resina liberatoria, che libera cioè, dopo una spossante fuga attraverso pareti di reiterata fissità grammaticale, tutto il profondo contenuto e significato del testo, a lungo trattenuto dal moderno interdetto.

Che poi non sarebbe altro, questa “anima servile”, che la teoria veterotestamentaria del servo di Dio in Isaia, e nell’arte quel sacrificio di sostituzione che di dovere l’artista ha da compiere su se stesso e che nella sostanza è quanto proclamato da Lautréamont nel primo dei suoi Canti di Maldoror: “Je parerai mon corps de guirlandes embaumées, pour cet holocauste expiatoire”. E tale pervenuto ad Amelia, “cet holocauste expiatoire”, quale luminare eco di molteplici fasci biblici di luce-or, di forza credo già durante i suoi giovanili campeggi estivi nel Vermont, ancor prima che rintracciasse come lei stessa ci ricorda, una copia del libello ducassiano, tradotto in italiano sotto forma di poemetto, su di una bancarella romana, quale evento scatenante l’ispirazione di Libellula.

Proprio vicinissimo alla mansarda di Amelia di via del Corallo, precisamente in via di Parione, aprirà i battenti nel 1977 la libreria Maldoror di Giuseppe Casetti, che terrà a battesimo Francesca Woodman, proveniente da New York, con le prime esposizioni delle sue foto, oltremodo caravaggesche. Il tutto nel maggior coacervo barocco della Piazza Navona di quegli anni.

Dei libri, delle cose in sé, come fiotti d’acqua in un bicchiere di finissimo, trasparente cristallo, sono ad un tempo contenente e contenuto, scritture a mo’ di ipostasi di altrettante sefirot, strumenti di Dio, illuminazioni senza limiti, presenza di quell’infinito ein soft biblico, vento o soffio come quello che tra le piante ricolma di pienezza Giacomo Leopardi, e che investe qualsiasi oggetto senza cambiamento della propria forma ed essenza.

II

No. Se, come ho modo di credere, la poesia è persona che assomma in sé storia e geografia secondo emanazionidi un suo rigorosissimo fenomeno, è di già nel Vermont che Amelia viene dapprima raggiunta dal faro-lanterna della Montevideo-Monte dell’orao, patria di Isidor Ducasse; da quel “ver luisant” del primo canto degli Chantes, che nel Ver-mont di Amelia diventerà la sua Libellula-lucciola.

È Isidor Ducasse che le annuncia l’Idea della parola, veicolata poi da una lunga linea sud-nord del continente americano, tanto meravigliosa quanto adimensionale, che passa per i cotonifici della Nouvelle-Orleans di Edgar Degas, precursore e altro padre pontificale dell’anima-tutù del “volatile”, nonché ligneo poemetto-patibulum di Amelia; risale poi, tale faro-lanterna, per gli studi sui sonetti “delle prime scuole italiane” degli Spazi metrici rosselliani cui aveva riguardato dapprima il giovane Eliot da una finestra della Smith Accademy di Saint Louis –“Wen we came home across the hill / No leaves were fallen from the trees”5 – fin su nelle vallate del Vermont, sui verdi altipiani dove durante i camp estivi un’adolescente Amelia mungeva mucche, andava a cavallo, pitturava fienili, si bagnava nei “fiumiciattoli”, vedeva la notte illuminarsi di lucciole, e di giorno tra le acque l’iridescenza delle libellule.

Di quelle esperienze dirà nell’intervista radiofonica sopra citata: “volevo diventare se possibile […] agricoltore”. Già nel Vermont era diventata una contadina del Sud, prima ancora dell’incontro con Rocco Scotellaro, e cioè si preparava a quel sacrificio di sé, che per l’artista equivale al diventare contadino, secondo una derivazione dantesca, da Comoedia, canto della villa, e cioè portatore di un canto remisus et humilis, che Dante fonda sull’autorità del sermo rusticus oraziano, e che arriverà fino agli ultimissimi versi dell’Impromptu di Amelia: “ E se paesani / zoppicanti sono questi versi è // perché siamo pronti per un’altra / storia”.

Un canto remisus et humilis, contenente un’“altra storia” e da essa contenuto, che la fa da padrone anche sul dato stilistico-grammaticale già in Dante, dove troviamo un essenziale sconvolgimento della classica ripartizione fra tragico, comico ed elegiaco potendo essere d’uso il sermo humilis nel trattar della tragedia e quello altissimo, superior, nel riguardare il più felice, ovvero comico esito del Paradiso. Un canto che contiene in sé perpetuamente l’essersi dispogliato di ogni addentellato mitico, una volta riconosciuto, oltre ogni illusione, quanto il mito stesso uccida e richieda, letteralmente e fuor d’ogni metafora, vittime, non altro che l’intera umanità dei diseredati.

Per contro, il sacrificio dell’artista contadino è un efficiente rito espiatorio di sostituzione, e tutta l’arte non è altro che questo offrire sé stesso come vittima regale – si ricordino il primo re storico di Atene, Teseo, e il sacrificio volontario del proprio padre Egeo –al posto di quei giovinetti che nel labirinto cretese vengono dati in pasto al Moloch del successo, in ispecie al mito letterario di una morte famosa, quel “famosae mortis amorem”, già stigmatizzato da Orazio (Ars, 469) il cui prezzo poi graverà sull’intera umanità.

Tale mito-mostrum da vincere non è altro che quello stesso a cospetto del quale nasce e si sostiene ogni formad’arte, come ci ha dimostrato mirabilmente il canone del sonetto lentinese, a fronte sia di un siciliano mostrum-polifemico – nel nostro caso un rosselliano “Otello siciliano” su cui Amelia impernia il suo Sleep-fuga – sia nel contrasto con l’ideologia epicurea di Federico II; come pure, in ambito provenzale, il distinguersi, il prendere le distanze di Arnault Daniel da una Montpellier già in balìa del più inveterato gaudentismo universitario.

Sono queste le origini siciliane di Amelia, cui lei teneva enormemente. È stata concepita a Lipari, come non manca occasione di ribadire, da dove lo stesso suo padre Carlo aveva attuato la sua mirabolante Fuga in quattro tempi. Quella stessa che Amelia realizzerà nel fenomeno di una sola parola-idea, Sleep, che sarà quel suo “giro del pane”, o “panegirico”, o “rullo cinese”, in cui è contenuta fin dal concepimento tutta la sua esistenza, e da cui attua il proprio contrappunto di fuga nel concentrico infinito della parola, e verso la concezione di un’altra immacolatezza, da cui forse già una volta era stata toccata ma che è pur sempre da riconquistare: paris-lipari / pari-sleep. La scossa vulcanica liparota le dà anche, a suo buon uso, energia per simile impresa, così da poter capovolgere di nuovo tutto il metro grammatico della modernità.

Il qualmetro grammatico, sotto la cui egida possiamo riunire poesia e musica, scrittura e teatro, così come l’età classica ce lo aveva tramandato, aveva di già subito uno scossone assoluto nel Medioevo con l’avvento del cristianesimo, allorché i tre generi poetici, tragico, comico ed elegiaco, andarono escatologicamentee di fatto via via sussunti verso le finalità del secondo, quello comico.

Comoedia è titolo dantesco che si va costituendo di già durante tutto il Medioevo, Dante non fa che portarlo a maturità rivelandone, al contempo e all’interno stesso della propria opera, tutta la contraddizione con la più canonica classificazione retorica dei generi. Il fatto definitivamente esplicitato, anche se pur sempre presente nella tradizione poetica di tutti i tempi, è il fine comico sussunto dalle arti di “perducere ad felicitatem” l’umanità intera già“in hac vita” (Dante, Epistola XIII). Compito per il quale sarà infine di un rigore del tutto felice l’esito della risorta poesia o “metro grammatico” moderno, quello per dirla con Petrarca rinato “apud Siculos” (Ad Socratem suum, Familiares,I,1).

La stessa Comoedia nel suo fenomeno si basa, per usare ancora le parole di Arnaldo Colasanti a commento del testo di Amelia ed estendendole alle origini stesse della poesia moderna, su di “una logica non della rappresentazione, non del senso, ma della esibizione grammaticale”, intendendo tale esibizione grammaticale quale mostra da parte della grammatica di un “altro moto” all’interno di una sua fissità, documentabile quale moto effettuale che Amore stesso detta al poeta e che pur potendo essere rappresentato e significato resta non-compreso e non-rappresentato anche da parte di coloro che “per prova” ne hanno fatto esperienza. La quale esperienza il nuovo metro grammatico può solo esibire in un suo infinito approssimarsi al proprio oggetto, ma senza mai coincidere perfettamente con esso-lui.

Tale è il rigido canone grammaticale stilnovista donde Dante inizia il suo viaggio ultraterreno, che ha come meta l’ineffabile. Anche queste categorie si possono universalizzare ovviamente, essendo sempre identico il portato dell’ispirazione artistica in tutti i tempi e luoghi.

È il dato univoco di una loro esplicitazione personale nell’ambito di una cattolicità confessionale il fatto nuovo che sorge con il medioevo cristiano; il teatro dell’anima, la sua rappresentazione, si riducono quasi a zero, in favore della testimonianza di una presente esperienza fenomenologica del Logos trinitario cristiano. Si pensi alla Trinità di Brunelleschi in Santa Maria Novella, al suo essere una liturgia, e attraverso di essa un lavoro fatto per il popolo.

Allorché per Amelia questo “moto” si attua modernamente quasi attraverso un automatismo grafico-modale, come da antichi modi ecclesiastici, ovvero liturgici, della musica medioevale. E come questi, vengono poi ad aprirsi, quasi per un loro “effetto paradossale” dice ancora Arnaldo Colasanti, in una “spazialità” ulteriore, come tra le pareti di un fermo innalzarsi delle masse d’acqua del mare, lo spazio salvifico per il popolo ebraico in fuga verso la libertà.

Sono acque che un’alga tinge di rosso, ma se passaggio può esservi è dovuto al sangue dei martiri. Perché ogni cosa si paga, secondo quel precetto di Lucilio al giovane Albino per cui la virtù è conoscere il giusto prezzo per le cose in mezzo alle quali ci troviamo e viviamo, “praetium persolvere quis in versamur6.    

Tale punto di fuga delle arti è pienamente di un portato/portante orante, e ancor più in Amelia attinge ad un formulario sacro, ancorato più alla presenza di un Logos effettuale ripeto, che non ad una logica della sua rappresentazione, o del senso di lui. E non è altro, per l’appunto, che una litania, la quale da una parte sussume il metro grammatico classico avvolgendolo in una modalità polittica medievale; e dall’altra tutti gli esiti formali della modernità, financo l’automatismo surrealista, a quella modalità polittica medievale assoggettandoli, e facendoveli coincidere.

Che la forma polittica sia originariamente quella di un libellum dalle molte pieghe aprentesi e chiudentesi a piacimento, riporta immediatamente il titolo rosselliano in ambito catulliano, al suo “lepidum novum libellum / arida modo pumice expolitum” (Catullo, 1,1-2), non senza il corteggio di una significativa messe di fenomeni consonanti con la mineraria Lipari rosselliana e l’excrucior del carme 85; lepidum, Lipari, pomice, expolitum, excrucior. Dove il sacrificio amoroso dell’odi et amo, è già programmato nella macchina dolorosa dell’arida pumice, dell’essersi appena ripulito, e fattosi atto ad invocare la propria protettrice, “o patrona virgo” (Catullo, ibidem, 9).

Amelia sarebbe così la pittrice musicale di un polittico che abbraccia tutta la Storia, con la Croce centrale dei suoi due poemetti e i pannelli delle altre sue opere attorno di essa. Una sorta di Santa Ildegarda di Bingen della modernità per universalità e profondità di interessi, in un percorso convertente che è pure il simile della fenomenologia di Husserl, di quello attuato da più d’uno fra i suoi discepoli, ed esemplarmente da Edith Stein nel ritorno dalla fenomenologia al tomismo. E tutto ciò preservando il contenuto, anzi esaltandolo. Perché la problematica legata al canone musicale “non è solo metrica o ritmica ma di contenuto”, sottolinea Amelia di seguito alle parole di Arnaldo Colasanti.

Detto tra parentesi, proprio l’insieme dei due poemetti di Amelia contorniati da tutte le sue opere a formare un polittico – si tratta di veri e propri insiemidi lasse-sequenze medioevali, che hanno cioè come nucleo fondante le litanie post-liturgiche della Messa dai primi secoli fino al XII-XIII, lì dove la musica senza parole è sostenuta da vocalizzio memorizzata da un pacchetto di prosodie schematiche preparate ad hoc– affonda lontanissimo le proprie radici in tutta la Storia umana.

“La santità dei santi padri”, che è l’incipit di Libellula, è appunto una formula ipocoretica, ovvero vezzeggiativa, avente anche quella funzione iterativo-mnemonica quale ritroviamo nell’epica greca, già presente in quelle varie realtà cultuali che vanno dall’antico Egitto a tutto il bacino mesopotamico in cui, è bene ricordare, non mancavano ispirazioni monoteistiche pre-abramitiche, si pensi all’idea monoteistica del faraone Akhenaton (metà XIV secolo a. C.) o al principio del dio unico del persiano Zoroastro. E di fatti non c’è nulla nella poesia universale di più antico di questo incipit-formulario rosselliano –“La santità dei santi padri” – precipitatoci addosso, a noi moderni, direttamente dalle fonti orali del Genesi, a testimonianza di quella  reazione  cultuale che portò gli ebrei nomadi  tra l’Alta Mesopotamia e l’Egitto, al riassorbimento dell’ideale del deserto in quello ecclesiale, fino alla formazione dell’edah Israel, la chiesa di Israele, sorta attorno alla tradizione profetica pre-mosaica, quella appunto della  “santità dei santi padri”, partendo dalle antichissime iscrizioni religiose assire  di parentelacon la divinità , del XX secolo a. C., fino ad arrivare al “Codice di Santità” e alla “Legge della Santità” di Levitico 17,26, nonché 1,7, dove la Santità  “è legata con il potere di sacrificare nel Tempio”.

Va da sé che Libellula nella quadruplice simmetria delle sue ali, che sempre ricordano il momento rotativo fisicodello spin e dello spinore, è in tutto e per tutto anche un angelo babilonese. E non sorprendono affatto, questi carotaggi culturalmente abissali, in un lignaggio ebraico, quale quello dei Rosselli di Livorno, come pure da Livorno l’altro dei Modigliani, memore anch’esso, attraverso l’arte scultorea di Amedeo, dei “pilastrini di bellezza” di Babilonia, quei piccoli obelischi votivi al deo Marduk, messi davanti le porte a protezione delle case, e portanti di notte lucerne illuminate. A Marduk molti studiosi fanno risalire l’origine extra-olimpica di Apollo.

Amedeo Modigliani che, detto per inciso, sarà lo scultore discobolo che lancerà ad Amelia quei Canti di Maldoror che portava sempre in tasca; fino a farglieli ritrovare su di un vecchio banco di Roma, come ispirazione scatenante, ovvero liberatoria, per la sua Libellula.

Il fatto è che l’antica grammatica, irrigidita ancor più in scale modali ecclesiastiche nel Medioevo era proprio in quanto tale quel vivo legno atto a secernere tanto contenuto. Ed era pur sempre quel pino della Colchide, quale persona viva, che parla a Catullo (ait) in forma di Phaselus ille, sospinto nelle acque del Garda. Echi collodiani sono pur presenti, laddove è un figlio che parla.

E tale sua rigidità lignea di persona viva dicevamo, l’arte grammatica ha rifulso nei suoi poeti, se già Catullo ne aveva tratto quel suo excruciorpatibulum dell’odi et amo; e per Amelia è stato il mezzo per ritrovare classicamente, rivoltandosi da ogni gratuita modernità surrealista, il profondo tesoro di un proprio excrucior, da essa tanto ricercato: “Io non so / quale vuole Iddio da me, serii / intenti strappanti eternità”7  e poterne parlare sempre il contenuto. Amelia non cerca l’eccezione, ma piuttosto la regola, e la trova.

Di necessità, e purtroppo, l’arte grammatica viene uccisa tra Otto e Novecento dall’ideologia positivista, il suo contenuto vilipeso, l’albero tagliato, fatto a pezzi. Collodi si trova davvero tra le mani un ciocco di legno morto, una grammatica defunta. Ed è giocoforza ricominciare dalla sua riesumazione: “Pinocchio col suo bravo abbecedario nuovo sotto il braccio prese la strada che menava alla scuola”. Ma non più di una scuola di Stato si trattava, bensì di quella di un padre-madre desolato. Funzione di lingua attonita-atonale ripresa da Amelia e presenziata nella sua partecipazione al Pinocchio di Carmelo Bene (1961). 

Emanuele Conegliano, meglio conosciuto col nome preso da converso di Lorenzo da Ponte, discendente da una comunità ebraica di Conegliano – sembra che il papà Geremia avesse sposato, dopo la morte della prima moglie Anna Cabiglio, madre di Lorenzo, una Rachele Pincherle – già sui ventuno anni insegnava retoricaal Collegio Marconi di Portogruaro. Emigrato negli Stati Uniti, si stabilisce a New York dedicandosi all’insegnamento della lingua e letteratura italiana e aprendovi una propria libreria; nel 1825 diventa professore di italiano alla Columbia University a Manatthan.

Un secolo e passa dopo, tra il 1941 e il 1945, durante il suo soggiorno nel sobborgo newyorkese di Larchmont, Amelia si recherà una volta a settimana a lezione di italiano dalla nonna, Amelia Pincherle Rosselli; “ricordo che andavo con la mia bicicletta dall’altra parte del villaggio, o cittadina, di fronte a Long Island, a tener su l’italiano con studi su Dante presso mia nonna”, (Paesaggio con figure, cit.).

Una Libellula dunque partita da Montevideo sotto forma di lucciola nella notte e che risalendo il subcontinente americano arriverà a New Orleans dove Degas le appronterà la bellissima anima-tutù, trasmutandola in libellula e rinviandola  poi a Saint Louis tra il Missouri e la Louisiana di Eliot che la specializzerà con tutto il suo precipuo corredo  poetico-filosofico – da Dante alla fenomenologia di Husserl – e ancora per poi volare, pazza d’Amore e di colori, sui boschi e gli stagni e le “fienaggioni”del Vermont ad incontrare gli occhi meravigliati di una dodicenne Amelia. 

Ma soprattutto idea ducassiano-dantesca, se la stessa ispirazione dei Canti di Maldoror deriva a sua volta dalla Commedia di Dante, in primis dal volo delle gru di Inferno V: “comme un angle à perte de vue de grues fileuses, meditant beaucoup, qui, pendant l’hiver, vole puissamment à travers le silence” (Canti di Maldoror, I). Esuli mazziniani erano già da qualche decennio a Montevideo quando Isidore Ducasse vi nasce nel 1849, a diffondervi, tra le altre cose, il verbo dantesco, come poi, una volta a New York, i Rosselli saranno accolti e circondati da esuli di primordine e dalla stessa “Mazzini Society” creata da Gaetano Salvemini nel 1939.  

Di tradizione familiare mazziniana, anche Amelia Rosselli nonna leggerà Dante ai suoi nipoti. La lingua di Dante si trasfonderà nell’opera di Amelia Rosselli con tale robustezza ed icasticità, con così altissima recezione vocazionale, come forse non era ancora accaduto lungo il corso dei secoli.

“Tener su l’italiano”, dopo la catastrofe positivista tra Otto e Novecento ci pensa questa superstite famiglia Rosselli, nonna Amelia, nuore e nipoti, a trovare una terra promessa per salvare la lingua. La loro traversata dell’Atlantico inseguiti dai sommergibili tedeschi, non è diversa da quella degli ebrei in fuga dall’Egitto, e il sangue dei martiri atto a “persolvere praetium” per il passaggio delle acque di sempre, sarà stato pur quello dei tre fratelli Rosselli, Aldo, il primogenito, il protomartire, caduto ventenne sul fronte del Carso nel 1916, Carlo e Nello fatti assassinare nel 1937 in Francia dal regime fascista.

Non era ovviamente una nazioneluogo per salvare qualcosa, tutto era stato già distrutto; tutto era già perduto per Amelia Rosselli nonna, già giovane sposa abbandonata dal marito Joe Rosselli, poi vedova dopo la prematura morte di questi, alla fine privata anche di tutti e tre i figli. La “terra promessa” i Rosselli la portavano dentro di sé, e unirono il loro atollo di libertà all’altro che Lorenzo da Ponte aveva sospeso un secolo prima sopra le acque della Storia come Documento in una perenne  ghenizah diantica Schola ebraica.

Note

1

Anche Robert Graves, nei suoi studi sull’alfabeto irlandese, seguendo un suo metodo molto personale individua nella successione delle lettere del Tetragrammon, e leggendovi anche le vocali nascoste, il nome ineffabile di Dio.  

2

L’instabilità “volatile” del poemetto ne fa una sorta di nubecola cruciale che avvolge la nostra moderna «Civiltà delle macchine». Il riferimento è alla nota rivista su cui “Amelia Rosselli sostiene […] che La libellula vide la luce nel 1959” (Giovannuzzi 2003). Lo stesso critico però non indica in quale luogo Amelia sosterrebbe quanto sopra, limitandosi a riferire che il dato bibliografico è acquisito anche dalla Tandello (1997). C’è di fatti che alla verifica sui numeri di «Civiltà delle macchine», il poemetto “non compare, né quell’anno né i successivi”, continua sempre Giovannuzzi, “né i precedenti” aggiunge la De March (2006). D’altra parte, se prescindiamo da una pubblicazione a mezzo stampa, e intendiamo quel “vide la luce” come atto di nascita dell’opera nel momento stesso in cui il poeta ne concepisce l’esistenza, la convinzione di Amelia di un’irreale pubblicazione del poemetto su «Civiltà delle macchine» nel 1959 sarebbe vera, ma appunto di una verità non reale, bensì superiore e fenomenologica, riguardante una sua più profonda intenzionalità perseguita proprio mettendo in parentesi il dato realistico, e anzi, come è proprio della natura di Amelia quando il dato di fatto contrasta con il fenomeno della propria vocazione, a optare decisamente per quest’ultimo.  Di un manifesto filo di idealismo nei Rosselli, in tutta la loro storia familiare tra Otto e Novecento, parla di prima mano Aldo Rosselli nelle sue cronache su di essi (Aldo Rosselli, La famiglia Rosselli, Bompiani, 1983). Ma in Amelia si ha un decisivo salto verso il rigore delle Ideen di Husserl, per cui non si accetta “il dato di fatto” se questo non è conforme al fenomeno. Che è quanto già veniva a rivelarsi in un Carlo Rosselli bambino di quattro anni, allorché si oppose alla partenza della nurse Emmy che sua madre Amelia aveva dovuto licenziare per le sopraggiunte ristrettezze economiche dopo la separazione dal marito. Carlo vi si oppose “protestando che non voleva fosse partita”.  L’episodio ci è raccontato in un passo delle sue Memorie (il Mulino, 2001),dalla signora Amelia che così conclude: “si può ben dire di Carlo, che non ha mai voluto, fatto uomo, che una cosa fosse, quando andava contro la sua volontà”.  E così anche la nostra Amelia, proprio in linea con il carattere del padre, se il titolo “Civiltà delle macchine” è mimetico di quello ben più vero e antico di “La civiltà cattolica”, è su quest’ultima rivista che intenzionalmente pubblica il suo poemetto nel 1959, venendosi a trovare in un mondo delle essenze, e non della mimesi, in cui la sua dolorosa macchina poetica, fatta di carne e di legno, si fa sorella a quella dell’excrucior catulliano, oltre che alla precedente macchina di tortura mentale del perifyseos lucreziano, entrambe d’indubbia impronta amorosa. A fronte di una meccanica editoriale del tutto disamorante, e di tanta pseudo-civiltà letteraria, Amelia oppone la propria vibrante termodinamica amorosa, quale energon di una ispirata liturgia popolare, di lavoro già del tutto compiuto da lei stessa per il popolo di Dio. Lo stesso dicasi per le sue idiosincrasie nei confronti  della stampa massificata delle varie case editrici. La sua idea di libro stampato invece, era di un albero vivo, di una Croce vivente. La cosa le riuscì miracolosamente con l’edizione Saggiatore della Serie Ospedaliera, dove non solo i testi conservano i caratteri e la spazialità del dattiloscritto, ma tutto l’insieme è di già la tavola lignea di un polittico pittorico in cui il concentrico e geometrico quadro in copertina di un labirinto mentale rappresenta gli annali di quel suo albero-“giro del pane”, in cui sacrosantamente il patibulumLibellula si contorna delle metope ospedaliere del proprio sacrificio per una effettuale Salus  populi romani. Verrebbe in atto l’immagine-azione come di Tempi moderni di Chaplin (1936) e, oltre l’ineffettuale tuffo pitagorico degli ermetici-idealisti nell’eternità, o quello altrettanto ineffettuale del meccanismo-romanzo dei famosi mulini a vento, Amelia affronta la stritolante meccanica moderna, se non anche proprio aristotelica, impiantandovi dentro il proprio patibulum. La stessa com-posizione di La libellula va di pari passo, in una visione al contempo sincronica e diacronica, con tutto il resto del polittico, dalle Variazioni all’Impromptu; quando in concomitanza con altri suoi libri, quando acquisendo una sua più specifica autonomia. Giusto perché Amelia parte da un’Idea innata e, a partire dalla nuova famiglia Rosselli dopo l’abbandono di Joe Rosselli, familiare della Croce, che invece era stata effettivamente rimossa da tutto l’idealismo ermetico, rielaborandoun suo imperantepolittico giottesco – la Crocefissione – la cui sola elevazione può dare significazione alla propria ideogrammatica pittoricità, caduto ormai ogni velo di arte, di musica e parola, straziatosi ormai ogni gradino del nazi-ritmo, caduta lei stessa ai piedi della Croce, tra i residuati suoi versi “paesani e zoppicanti” dell’Impromptu.

3

Amelia Rosselli, Cantilena (poesie per Rocco Scotellaro) (1953), in Primi Scritti 1952-1963, Guanda 1980.

4

Una trascrizione della trasmissione, andata in onda il 25 ottobre 1992, si può leggere in È vostra la vita che ho perso, Le lettere, 2010, pag. 265-319.

5

T. S. Eliot, Song, 1-2.

6

Ettore Bolisani, Lucilio e i suoi frammenti, Padova 1932.

7

Amelia Rosselli, Roberto, chiama la mamma, trastullantesi nel canapè, in Variazioni belliche.

*

Questo testo viene pubblicato su questo dominio (www.blogletteratura.com) all’interno della sezione dedicata relativa alla rivista “Nuova Euterpe” a seguito della selezione della Redazione, con l’autorizzazione dell’Autore/Autrice, proprietario/a e senza nulla avere a pretendere da quest’ultimo/a all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ vietato riprodurre il presente testo in formato integrale o di stralci su qualsiasi tipo di supporto senza l’autorizzazione da parte dell’Autore. La citazione è consentita e, quale riferimento bibliografico, oltre a riportare nome e cognome dell’Autore/Autrice, titolo integrale del brano, si dovrà far seguire il riferimento «Nuova Euterpe» n°01/2023, unitamente al link dove l’opera si trova.

Francesca Luzzio su “Emozioni senza compiacimento” di Gabriella Maggio

Emozioni senza compiacimento

Apre la silloge Emozioni senza compiacimento (Il Convivio Editore, 2019) di Gabriella Maggio, una pagina di haiku che, in un certo senso, possiamo considerare sinossi dei sentimenti, dei pensieri e delle emozioni che riceveranno più ampia esplicazione nelle poesie che compongono la silloge, il cui titolo è a sua volta indicatore dell’atteggiamento psicologico e razionale con cui la poetessa affida alla poesia il suo sentire perché essa “è una grande madre / accogliente e generosa / alma poësis” (in “La poesia”, p. 40).

L’attributo alma è una parola colta di matrice latina, che deriva dal verbo alere che in italiano significa nutrire, alimentare e perciò dare vita, pertanto la poesia è per lei, proprio come una madre fisica, però dà vita allo spirito e genera perciò catarsi per continuare a essere e ad esserci nel senso heideggeriano del termine, ossia nel costante impegno civile ed etico che dovrebbe caratterizzare ogni essere vivente  per continuare ad andare “con curiosità immutata… ancora  verso il mondo” (poesia “Col tempo”, p. 30) perché la conoscenza  aumenta ulteriormente il desiderio di sapere e agire nella famiglia, nella società, nel mondo.

La poesia è quindi per Gabriella Maggio così come per Amelia Rosselli, “luogo di integrale dicibilità, un equivalente del nesso inconscio/coscienza, un luogo nel quale vengono meno i confini tra interno ed esterno, tra privato e sociale in una completa ricollocazione dell’io nel mondo” (Luperini; Cataldi, La scrittura l’interpretazione, ed. Palumbo).

E così Gabriella Maggio, proprio perché anche per lei la poesia è luogo integrale di dicibilità, ora esprime il suo amaro stupore di fronte alle nuove generazioni che inseguono le news sugli schermi del telefono e scambiano il caos che essi generano con la conoscenza, ora l’ascolto del suono dell’arpa diviene per lei “fiotto dell’acqua sui sassi” (poesia “Ascoltando l’arpa”, p. 20), oppure esprime la sua pietà nei confronti dell’accattone che guarda “avida la moneta” (poesia “Nel cerchio d’oro”, p. 38) e tanto altro ancora in un eterogeneo flusso che guarda fuori da sé e in sé e nello sguardo rivolto alla sua interiorità non può non accorgersi, fra l’altro, del fluire del tempo che nel suo scorrere le lascia tanti ricordi di ciò che è accaduto e di ciò che sarebbe potuto accadere e tutto ormai sta chiuso a chiave nel suo cuore. Né l’accumulo ormai cospicuo è sempre positivo sia a livello esistenziale che sociale, ma l’eterogeneità di eventi e conseguenti comportamenti che la vita nel suo fluire costante genera, non muta nella poetessa la curiosità con cui continua ad andare “ancora verso il mondo” (poesia “Col tempo”, p. 30).  

La libera versificazione trova nella pregnanza linguistica e nell’uso appropriato della metafora e di altre figure retoriche, la sua valorizzazione estetico-emotiva sia che proponga realtà oggettive o penetri nell’essenza umana dell’io.

FRANCESCA LUZZIO

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Giorgia Deidda esordisce con l’opera intimista “Sillabario senza condono” (dedicata a Gabriele Galloni)

Segnalazione di Lorenzo Spurio

Giorgia Deidda (Orta Nova, FG, 1994) dichiara di amare la poesia e la letteratura, in particolare quella russa e tedesca. Sta frequentando la Facoltà di Lingue presso l’università di Bari. Tra le sue passioni di sempre figurano le lingue straniere perché – sostiene – “attraverso di esse riesco a cogliere l’essenza del significato e del modo di pensare di popolazioni che hanno avuto influenze diverse dalle nostre”. La sua prima pubblicazione poetica è Sillabario senza condono (PlaceBook Publishing, Rieti, 2020) volume che ha dichiarato essere dedicato al suo ex-compagno il poeta Gabriele Galloni (1995-2020), recentemente scomparso. Tra le sue letture preferite si ritrovano le opere di autrici intimiste e confessionali quali Sylvia Plath, Amelia Rosselli e Anne Sexton, poetesse accomunate dal nefasto epilogo suicidario.  

Nella nota critica di Alberto Barina, che accompagna le liriche del volume, è possibile leggere: «È un esordio poetico importante quello di Giorgia Deidda che con la sua poesia ci trascina dentro una scrittura già decisamente matura […] La consapevolezza del dolore, dell’inadeguatezza al quotidiano, la lucidità di saperne cogliere attimi, sfumature, momenti e l’abilità di ‘liberarsene’ attraverso la scrittura. […] I [suoi] testi si presentano […] quali frutto di una sorta di scrittura automatica, […] poesie molto più brevi, condensate, a tratti enigmatiche, ermetiche, cariche di immagini visionarie, dove il lettore deve abbandonare le proprie certezze e la propria visione delle cose ‘in orizzontale’».

A continuazione una scelta di testi estratti da Sillabario senza condono.

Conta fino a tre e senti il mondo spegnersi;

è la fine.

La distesa nera non sa che d’inchiostro, e le luminose fisse,

le mie stelle da comodino

non spiano più i tuoi passi. E gli anni

colano sul cuscino, una chirurgica

fama di folla che si scolla come carta.

Stringo le dita a pugno, ma la ferita

mi cancella come gesso su una lavagna.

Io non esisto, se non ora,

se non nel tempo della distruzione metafisica della memoria.

Gli orologi ticchettano ed intralciano

l’ingorgo dei nervi, strappano

l’immagine perenne, la tua faccia scorticata e ferruginosa

che ancora balbetta parole di ghiaccio.

Non ti comprendo. E io continuo a dormire,

con un brillio di scaglie che mi attanagliano

la morte dei sensi, il sonno profondo.

La paralisi più soffice, l’immobile nulla da addentare

che culla

la veste nuziale del ricordo, un pallore affaticato;

inciampo in stralci di tessuti e cuori bruciati,

mentre un verminoso sorriso stentato

mi pasticcia la faccia.

***

Disinnescato l’attimo in cui

io ero preda del vuoto, ho ricreato specchi per buttare sassi al mio volto,

ed odiarlo fino a farlo diventare scarno.

Nessuno sa l’inferno,

di avere un manto prezioso e non poterlo far vedere,

di indossare collane con gli artigli mentre

il sangue sgorga viscoso e lento su tutto il corpo.

Dio, mi perdono per tutte le promesse, giuro che non ne farò altre, disegnerò il bianco del mare e la sua spuma

e poi mi rannicchierò nella paura,

l’ultima cosa che mi tiene in vita.

***

Io non voglio morire ma se possibile,

offritemi un piatto abbondante,

dove le stelle si riuniscono per farmi camminare,

e dove le bottiglie di vino sono ancora piene

e io non ho alcun bisogno di farle sparire.

Dio, ridammi il piacere del gusto, ché l’ho perso di nuovo,

ha lasciato spazio ad un’ignominia e scalfita sorte, e io la protagonista

che mi barcameno senza sosta.

In fondo ciò che chiedo è requie, senza morte,

perché io voglio vivere e sentire ed amare – ecco quello che mi manca –

e stringere con le mie dita qualcosa che non sia più etereo ma che abbia forma.

Fammi essere me stessa, o cambiami, trasmutami,

fà di me quel che vuoi.

Intanto, riposo.

***

Quest’anima mia la costruisco ogni giorno, mentre lavacri di sogno

permeano il blu delle fresche notti, passate tra le lacrime.

Questa mia anima è sovraccarica e spenta,

le ci vorrebbe

una cosa completa e ritagliata, infilata esattamente tra i bordi, nessuna sbavatura,

la si dovrebbe ricucire con cura con petali di rosa,

stirarla e re-indossarla come una vecchia giacca.

Ma io sono troppo cresciuta e mi sono fatta stretta, e per allargarmi

ci vorrebbe

una pinza grande di quelle che tagliano le bordature,

levigata per bene e fatta su misura.

Non crediate che le anime siano tutte gemelle di chi le porta addosso;

molto spesso strabordano e si fanno aria, lasciando pezzi di vuoto,

spesso scarseggiano e ci si vuole innamorare, innamorare, innamorare

per non sentirsi soli.

Beato chi, invece, ha l’anima perfetta;

eppure anche lui ha i suoi crucci.


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“Paesaggio con ossa” di Lella De Marchi. Recensione a cura di Lorenzo Spurio

9788899429287_0_0_0_75.jpgApprocciandomi a “Paesaggio con ossa” (Arcipelago Itaca, 2017) devo riconoscere la precisione del verso: nelle righe che si susseguono trovo perizia e necessità di dire, in alcuni tratti addirittura uno sfogo o una lamentazione. La struttura lievemente procedente nel verso della prosa è la forma unica che possa in effetti possa plasmarsi alle necessità di quel che s’ha/si vuole dire. Il linguaggio è chiaramente asciutto – e non potrebbe essere diversamente – perché per descrivere la miseria e il dolore, la nefandezza e il sonno della mente, non s’abbisogna di fronzoli né di linguismi ricercati. La caratura tipica della penna della De Marchi è quella di forgiare versi a volte argomentativi altre volte ipnotici, fortemente visuali, che scorrono per diapositive continue, anche slegate tra loro. Ciò in alcuni contesti genera, oltre allo scoramento dinanzi a quanto vien detto, anche un attimo di vertigine che spesso si risolve nei finali laceranti che tolgono dubbi e, spesso, anche le poche possibili certezze. 

Mi rimangono nettamente in mente versi come “Il corpo disteso dimentica di essere stato già vivo” o “mi trovo più spesso/ dove non sono” e, ancora, “si fatica a produrre silenzi, siamo qui per mangiare/ i nostri tormenti“. Se è vero che le immagini che spesso vengono a delinearsi tra i versi – non di rado in forma antitetica – danno una sensazione di negativo e di desolazione,  d’altro canto si crea anche un contorno di illeggibile enigmaticità che può esser utile e fruttuoso in chi, più che cercare facili risposte e versi limpidi, ricerca la realtà che può sviscerarsi dal tormento e dal viluppo di pensieri. Le immagini – ritorno a dirlo – sono in prevalenza fosche e di disagio, di allontanamento da quel quieto e parco vivere della mediocrità borghese o comunque popolana d’oggi. Tra di queste senz’altro è la siringa che esordisce in un brano poetico nel quale vien mantenuto per tutto il corso il procedimento di assunzione all’interno di una realtà liquida per iniezione (“forse non eri in vena“); ecco che gli scenari – mai un accenno al tempo atmosferico, neppure un riferimento toponomastico, neppure vago e i “paesaggi” sono così d’ossa, pregni d’assenza e derelizione, invalicabili e che generano tormento, condizioni d’asfissia e di sospensione temporale dove ciò che accade s’iscrive in maniera invisibile fagocitati da un detto roboante che è illusorio e coprente di tanto inespresso e taciuto. Ecco, dunque, una poesia molto venosa – piena di sistole che pulsano – percorsa da canali dove la vita pullula e rifluisce, un dire che si costruisce ‘plasticamente’ all’atto di pronunciarlo, vera e tormentata, dettata dal ritmo dell’ansia e del delirio comunicativo.

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Lella De Marchi 

Nei meandri di una questione sociale degradata nella quale si pone con volontà il dito nella piaga con l’intenzione di esacerbare barbarismi quotidiani, insolenze diffuse e marginalità vergognose, la Poetessa alza la visiera dell’ampio cappello e con sguardo nitido e ferino osserva il mondo, l’inabitabile stanza che ci attornia, nella penuria di compassione e di rassicurazione. C’è paura nei versi, ma non solo, c’è il riconoscere la paura che è già qualcosa d’altro dalla paura propriamente detta. La convinzione ( termine che nella poetica della Nostra ha da esser preso con vari paia di pinze) che sembra in qualche modo risaltare è che il tempo che si vive ha la forma di una condanna maturatasi al singolo non si sa in seguito a quale episodio. Si tratta di un tempo che si spezza e si lacera, che annulla e deprime o, più spesso, come nelle truci immagini dello stupro, che si ferma per restare sospeso, ingestibile, come una piuma che continua a volare cadenzando in alti e bassi senza mai toccare terra né raggiungere una posizione apicale invisibile all’occhio.

I “Momenti” (prima silloge del volume) che Lella De Marchi descrive sono episodi di lotta interiore, di assassinio delle interiorità e di bieca de-responsabilizzazione umana. La chiusa di questa silloge è di una resa indescrivibilmente forte e da toglier il fiato “mi mostra sicuro il luogo/ nascosto dove il tempo risiede senza/ far rumore“. Ci sono spazi che non sono abitati dal suono eppure il tempo scorre anche lì. Luoghi resi inospitali, non dall’ecosistema arido, ma dall’incivile azione dell’uomo che, sprezzante di tutto, bistratta il suo simile, cosifica l’altro, lo brutalizza e lo nientifica alla cieca ricerca di una banale quanto illusoria imposizione.

Le “Astuzie” che la De Marchi mette in gioco nella parte centrale del volume sono senz’altro degne di essere rimarcate. Con il groppo nella gola delle immagini di profonda sofferenza e silenzio che il lettore ha ormai incamerato delle precedenti poesie dedicate alla giovane Malina, qui il lettore trova una poesia in qualche modo ben più energica e invettiva, sagace e irruenta, risoluta e di una più marcata volontà d’azione. La lirica che apre la silloge chiarifica anche il sentimento altruistico che  s’esplica nella necessità di un impegno attivo e congruo atto al rinnovamento: “forse sapevo/ di cielo e non di terra forse siamo capaci di cambiare/ la nostra sostanza“. Considerazione questa non da poco che nella terminologia di ‘sostanza’ fa venire alla mente i vari stati di materia e, ancora, in un non ricercato cameo, un richiamo al precedente volume di poesie “Stati d’amnesia” (LietoCollo, 2013). 

Il linguaggio della poetessa, finora assai materico e così ben adatto a creare immagini nell’interlocutore, si fa qui leggermente più filosofico ed elucubrativo (si noti i non radi casi in cui viene utilizzata la parola ‘teorema’ che, oltre al richiamo pasoliniano, fa riferimento a una terminologia scientifica dove, data per assodata la validità di alcuni assiomi, si procede alla formulazione di un teorema che ne raggruppa le varianti di formulazione) e, ancora, alla prassi (dal greco praxi, l’attività pratica a presupposto o completamento d’un’ideologia). La De Marchi sostiene “l’amore dimora nella prassi“. 

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 Lella De Marchi  

La ricerca di un messaggio univoco quando ci si approssima a letture poetiche che tanto hanno di personale e di vissuto può risultare un trabocchetto se non vestire i panni di clamorosi abbagli o rotte non praticabili, eppure alcuni versi della Poetessa debbono senz’altro esser prelevati – così, come si distilla il liquore più prezioso – dai brani nei quali sono contenuti; pongo attenzione a un verso che così dice: “insegnami il luogo della sfumatura dove dura ciò che non dura“, metafora che fa uso di tautologia, inversione, antitesi e che fa vorticare la testa. La fa girare velocemente, ci fa chiudere gli occhi, reclamare pace attorno a noi. Se riapriamo gli occhi dopo un po’ di quel vorticare sommesso, ci sembra di avere una realtà nuova, ottenuta con sforzo, che non siamo però in grado di rilevare o attuare. Ci ha illuminato e rinvigorito, sostenuto e fortificato. Sono queste le potenzialità delle liriche della De Marchi: versi che scuotono, che ti serrano la gola e poi di colpo ti lasciano, frasi che ti mesmerizzano, altre che t’impongono di rifletterti allo specchio per vedere chi sei, altre, ancora, che ti obbligano a sederti per non farti male, o a stenderti addirittura. Ciò che in maniera ben più nefanda subisce Malina nella violenza fisica e nel disagio nei quali è immersa: “non si alza non si alza/ […]/ adesso cade adesso cade, invece lei si regge/ […]/il suo corpo che non esiste/,la forma dell’aria/ […] in controluce le macchie sul suo corpo“.

Ritorna – ma in effetti non ci si era mai slegati da ciò – la privante condizione sociale, abitativa e solitaria di Malina dalla Poetessa definita senza se e senza ma con termini netti che non necessitano di amplificazioni critiche: “sei stata creata emblema/ vivente dell’umana sciagura“. Sorta di capro espiatorio, di Madonna degli oppressi, di martire dell’umana tragedia. La poetessa – dinanzi alla desolazione alla perversa inanità dovuta dal raccapricciante ‘spettacolo’ – opera una trasfigurazione immaginando la cara Malina altro da sé e in altre circostanze a lei meno avverse con un’operazione metamorfica nella quale è palese la volontà di risoluzione a quel dramma: “Se appartenessi al mio paesaggio saresti un lichene,/ saresti un fiore che sopravvive alle avversità./ nel nostro deserto di sole ossa“. Il tema di Malina è il tema del corpo, di quella materialità dolente, di quella prevaricazione continua, di quello stupro lacerante che nella società contemporanea è merce diffusa. Esso è una copertura, una pelle che copre i sensi d’intimità, passione e sentimento, un contenitore che viene leso producendo danni palpabili e altri, insondabili all’occhio, ben peggiori e inscalfibili. “Il corpo è un rifugio solo se nudo nel sole, nel breve/ spazio tra un albero e l’altro, solo se ha forma/ di abisso, nel breve spazio tra un osso ed un altro“. 

In “Deliri” si pone il tema dell’appartenenza al proprio locus. Tema da sempre nevralgico in tutta la letteratura e divenuto elemento principe in quegli autori esuli che, per vari motivi, hanno finito per eleggere una patria diversa da quella natale. In poesia, poi, tale questione è stata spesso letta e interpretata alla luce delle considerazioni dell’intellettuale in merito alla propria collocazione in quanto tale, in maniera ben più estesa, dunque, alla mera localizzazione geografica. Il tema posto dalla De Marchi non ha nulla a che fare con intendimenti volti a ricercare una definizione spaziale, si tratta più di una necessità di concepire se stessi in relazione a un contesto – pur mentale – piuttosto che sperimentare la marginalità, la desolazione, l’abbandono, l’allontanamento, la sevizia. “Non basta ipotizzare un’assenza di vento o/ di vibrazione, non è sufficiente“, scrive la Poetessa ponendo in chiusura la questione di una reificazione dal paesaggio. Anche in questo caso, come d’altronde accade per l’intero lavoro, la chiusa della silloge è dedicata al pensiero di Malina non quale entità universale nella totalità delle sue definizioni ma nella forma concreta, tangibile, esperibile della sua macerata fisicità: “il tuo corpo nudo e disteso nella roulotte non è/ un corpo vero, fuori di qui non esiste nemmeno./ di lui, mi fido“. La fase di ricerca di un rapporto con una proiezione di contesto dà luogo all’annullamento della forma, alla sua riduzione totale a possibilità non più percorribile. Quel corpo che non esiste – e che poche pagine prima era così presente e implorante, tra ecchimosi e denutrizione – non fa più parte di un immaginario reale perché l’accumulo di sofferenza che il procedimento poetico ha arrecato nell’elaborazione delle immagini, ha portato all’esigenza della sua rottamazione. Si tratta di una distruzione irreale, che si realizza man mano della ripresa di Malina,ma che è pur sempre una forma di nascondimento motivata da un oblio che si anela con foga.

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Lella De Marchi 

Infine il corpo ritorna ad essere centrale nella sezione “Gesti”, una delle più struggenti ed evocative, più plasmatiche e vorticose dell’intero libro. Trovano posto liriche ispirate e dedicate a donne che hanno lasciato il segno non solo nel mondo della cultura ma in termini di impegno sociale. Artiste performative e fotografe italiane e straniere che hanno messo al centro dei loro happening e performance il corpo umano studiandolo e offrendolo alla comprensione del pubblico sotto vari luci. Da Ketty La Rocca (1938-1976) nota per le “Craniologie” (1973), serie di radiografie al cervello con cui nella fase finale della sua vita si spogliò senza timidezza del male fisico che l’ammorbava a Gina Pane (1939-1990) di cui la Poetessa scrive “ogni/ gesto si muove nella carne./ ogni gesto tocca la carne/ la incide ogni gesto provoca una ferita lascia/ sul corpo una traccia sentimentale“. La Pane, icona indiscussa della performance art degli anni ’70 con particolare attenzione alla body-art, rimane nota – tra le varie istallazioni in giro per il mondo – per la performance nella quale si auto-infliggeva dolore, una sorta di martirio spettacolare al quale lo scioccato pubblico prendeva parte con curiosità o riprovazione. La stessa ebbe a dire (fonte: Wikipedia) “Vivere il proprio corpo vuol dire allo stesso modo sia la propria debolezza, sia la tragica e impietosa schiavitù delle proprie manchevolezze”. Una disanima, quella della Pane, pur dalle connotazioni voyeuristiche e inclini alla spettacolarizzazione mediante situazioni-limite e ready-make fatti col proprio corpo. Omaggio anche a Cindy Sherman (n. 1954) che – devo confessarlo – non conoscevo e che sono andato a scoprire proprio grazie al volume di Lella di Marchi. Nella poesia a lei dedicata si parla del corpo in relazione a forme di mutabilità, di cambiamento e trasformazione per mezzo di un processo di travestimento (l’incipit, invadente e risolutivo, già anticipa: “il corpo non abita il genere“).

Ricerca e studio del corpo e delle sue ambivalenze, soprattutto nelle forme di contatto e relazione con un pubblico sconosciuto, una massa spesso piena di tabù e di inconfessati desideri. Nell’istallazione “Sex pictures” (1989) la Sherman introdurrà anche l’elemento-immagine del manichino, poi proposto in smembramenti inconsueti e in scene piccanti o atte a risvegliare pensieri sepolti. La De Marchi omaggia sapientemente e con profondo rispetto anche Francesca Woodman (1958-1981), fotografa statunitense che si specializzò nel nudo femminile in bianco e nero, artista morta all’età di ventidue anni; nella lunga poesia che ha lei come dedicataria la De Marchi annota verso la chiusura “tutte cose che sono in me quanto le vedo tutte le cose che/ non possono essere me perché suono fuori di me./ il mio corpo è in tutte le cose che vedo ma non tutto/ intero, a pezzi, un po’ qua e un po’ là, in modo vago” che richiama anche “Tutte le cose sono uno” (Prospettiva, 2015), titolo di una recente pubblicazione di narrativa breve della De Marchi. 

Altrettante liriche sono dedicate alla performer francese Sophie Calle (n. 1953) alla quale scrive di “quanto sia impossibile/ penetrare nel fondo di ognuno di esse” e di “quanto sia necessario/ avvicinare ogni corpo, un corpo alla volta, quanto sia/ necessario chiedere ad ogni corpo di lasciarci una/ testimonianza ulteriore di sé“. In questo gineceo di presenze femmine da ricordare che hanno segnato distintamente l’arte concettuale e performativa delle ultime decadi non mancano neppure la fotografa americana Nancy Goldin (n. 1953) portavoce e difensore di un messaggio di sincretismo autentico tra arte e vita, nota anche per l'”Autoritratto un mese dopo esser stata picchiata” ben presto divenuto manifesto contro la violenza di genere e, ancora, le ben più note Marina Abramovic (n. 1946) definita “la nonna della performance art” e Vanessa Beecroft (n. 1969), artiste e performer di fama mondiale che hanno affrontato in modi diversi il tema della corporeità: dalla sperimentazione del dolore in Abramovic e il rapporto con il pubblico quale sconosciuta alterità, al tableau vivant di nudo della Beecroft. Autrici complesse e mai scontate che lanciano messaggi chiari – spesso di denuncia – o di riprovazione verso un mondo in cui la massificazione dei commerci, la molteplicità delle comunicazioni, il mancato dialogo e l’indifferenza generale fanno dell’uomo un essere spesso distaccato e incompreso, corazza di dolore a coprire uno stato di disagio. 

VB64; Vanessa Beecroft; Deitch Projects
 Uno scatto di una performance dell’artista Vanessa Beecroft tenutasi nel 2009. 

In chiusura una lirica densa, dove le immagini si ricorrono e si affastellano, dove il verso lungo non dà requie al respiro e trascina in maniera concentrica verso una spirale di materia, di carne viva, che arde e si spolpa distaccandosi dall’osso. Si tratta della concretizzazione completa di quell’allucinante stato di delirio che ha anticipato la distorsione della frivola quotidianità e del cosiddetto normativismo: “è un immenso paesaggio con ossa, vita che vive senza ornamenti di necessari ornamenti“.

Non è affatto un caso che sia dedicata a una delle voci più distinte della poesia italiana del secolo scorso, autrice di “Variazioni belliche” (1964) e di “La libellula” (1985). Il percorso della De Marchi si chiude con un mesto e al contempo vigoroso ossequio e tocco amicale verso Amelia Rosselli della quale pure ci si riferisce alla “caduta” e alla sua disposizione “in fondo alle scale” che, di certo, non può non rimandare all’immagine scomposta del suo corpo ai piedi della rampa dove si suicidò. La Rosselli – via Lella De Marchi – pronuncia frasi livide che racchiudono tormento e instabilità ma anche esigenza di cambiamento: “l’aria ha una forma che fa paura che non è astratta se vista da/ noi“. Mi è venuto intuitivo pensare a una poesia che scrissi mesi fa e che dedicai alla stessa Rosselli, dal titolo “Hai dominato l’aria”, nella quale sono presenti alcune fosche considerazioni sulla incongetturabile esistenza e sulla vorticosità degli accadimenti che hanno capacità di generare lesioni interne di vario tipo. Nella stessa scrivo “Il muro respira tensioni/ tra stinti capelli arcuati/ soppesi il balzo dell’aria/ quando il cumulo pesa/ e torce idee di sospensione/ […]/ Arcigna è quella rampa/ che ti ha dato la vita;/ […]/ Hai scorso di colpo il percorso/ il foglio che centrifuga il mondo/ non l’hai lasciato vuoto“. 

 Lorenzo Spurio

 Jesi, 03-01-2018

 

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