Approcciandomi a “Paesaggio con ossa” (Arcipelago Itaca, 2017) devo riconoscere la precisione del verso: nelle righe che si susseguono trovo perizia e necessità di dire, in alcuni tratti addirittura uno sfogo o una lamentazione. La struttura lievemente procedente nel verso della prosa è la forma unica che possa in effetti possa plasmarsi alle necessità di quel che s’ha/si vuole dire. Il linguaggio è chiaramente asciutto – e non potrebbe essere diversamente – perché per descrivere la miseria e il dolore, la nefandezza e il sonno della mente, non s’abbisogna di fronzoli né di linguismi ricercati. La caratura tipica della penna della De Marchi è quella di forgiare versi a volte argomentativi altre volte ipnotici, fortemente visuali, che scorrono per diapositive continue, anche slegate tra loro. Ciò in alcuni contesti genera, oltre allo scoramento dinanzi a quanto vien detto, anche un attimo di vertigine che spesso si risolve nei finali laceranti che tolgono dubbi e, spesso, anche le poche possibili certezze.
Mi rimangono nettamente in mente versi come “Il corpo disteso dimentica di essere stato già vivo” o “mi trovo più spesso/ dove non sono” e, ancora, “si fatica a produrre silenzi, siamo qui per mangiare/ i nostri tormenti“. Se è vero che le immagini che spesso vengono a delinearsi tra i versi – non di rado in forma antitetica – danno una sensazione di negativo e di desolazione, d’altro canto si crea anche un contorno di illeggibile enigmaticità che può esser utile e fruttuoso in chi, più che cercare facili risposte e versi limpidi, ricerca la realtà che può sviscerarsi dal tormento e dal viluppo di pensieri. Le immagini – ritorno a dirlo – sono in prevalenza fosche e di disagio, di allontanamento da quel quieto e parco vivere della mediocrità borghese o comunque popolana d’oggi. Tra di queste senz’altro è la siringa che esordisce in un brano poetico nel quale vien mantenuto per tutto il corso il procedimento di assunzione all’interno di una realtà liquida per iniezione (“forse non eri in vena“); ecco che gli scenari – mai un accenno al tempo atmosferico, neppure un riferimento toponomastico, neppure vago e i “paesaggi” sono così d’ossa, pregni d’assenza e derelizione, invalicabili e che generano tormento, condizioni d’asfissia e di sospensione temporale dove ciò che accade s’iscrive in maniera invisibile fagocitati da un detto roboante che è illusorio e coprente di tanto inespresso e taciuto. Ecco, dunque, una poesia molto venosa – piena di sistole che pulsano – percorsa da canali dove la vita pullula e rifluisce, un dire che si costruisce ‘plasticamente’ all’atto di pronunciarlo, vera e tormentata, dettata dal ritmo dell’ansia e del delirio comunicativo.

Lella De Marchi
Nei meandri di una questione sociale degradata nella quale si pone con volontà il dito nella piaga con l’intenzione di esacerbare barbarismi quotidiani, insolenze diffuse e marginalità vergognose, la Poetessa alza la visiera dell’ampio cappello e con sguardo nitido e ferino osserva il mondo, l’inabitabile stanza che ci attornia, nella penuria di compassione e di rassicurazione. C’è paura nei versi, ma non solo, c’è il riconoscere la paura che è già qualcosa d’altro dalla paura propriamente detta. La convinzione ( termine che nella poetica della Nostra ha da esser preso con vari paia di pinze) che sembra in qualche modo risaltare è che il tempo che si vive ha la forma di una condanna maturatasi al singolo non si sa in seguito a quale episodio. Si tratta di un tempo che si spezza e si lacera, che annulla e deprime o, più spesso, come nelle truci immagini dello stupro, che si ferma per restare sospeso, ingestibile, come una piuma che continua a volare cadenzando in alti e bassi senza mai toccare terra né raggiungere una posizione apicale invisibile all’occhio.
I “Momenti” (prima silloge del volume) che Lella De Marchi descrive sono episodi di lotta interiore, di assassinio delle interiorità e di bieca de-responsabilizzazione umana. La chiusa di questa silloge è di una resa indescrivibilmente forte e da toglier il fiato “mi mostra sicuro il luogo/ nascosto dove il tempo risiede senza/ far rumore“. Ci sono spazi che non sono abitati dal suono eppure il tempo scorre anche lì. Luoghi resi inospitali, non dall’ecosistema arido, ma dall’incivile azione dell’uomo che, sprezzante di tutto, bistratta il suo simile, cosifica l’altro, lo brutalizza e lo nientifica alla cieca ricerca di una banale quanto illusoria imposizione.
Le “Astuzie” che la De Marchi mette in gioco nella parte centrale del volume sono senz’altro degne di essere rimarcate. Con il groppo nella gola delle immagini di profonda sofferenza e silenzio che il lettore ha ormai incamerato delle precedenti poesie dedicate alla giovane Malina, qui il lettore trova una poesia in qualche modo ben più energica e invettiva, sagace e irruenta, risoluta e di una più marcata volontà d’azione. La lirica che apre la silloge chiarifica anche il sentimento altruistico che s’esplica nella necessità di un impegno attivo e congruo atto al rinnovamento: “forse sapevo/ di cielo e non di terra forse siamo capaci di cambiare/ la nostra sostanza“. Considerazione questa non da poco che nella terminologia di ‘sostanza’ fa venire alla mente i vari stati di materia e, ancora, in un non ricercato cameo, un richiamo al precedente volume di poesie “Stati d’amnesia” (LietoCollo, 2013).
Il linguaggio della poetessa, finora assai materico e così ben adatto a creare immagini nell’interlocutore, si fa qui leggermente più filosofico ed elucubrativo (si noti i non radi casi in cui viene utilizzata la parola ‘teorema’ che, oltre al richiamo pasoliniano, fa riferimento a una terminologia scientifica dove, data per assodata la validità di alcuni assiomi, si procede alla formulazione di un teorema che ne raggruppa le varianti di formulazione) e, ancora, alla prassi (dal greco praxi, l’attività pratica a presupposto o completamento d’un’ideologia). La De Marchi sostiene “l’amore dimora nella prassi“.

Lella De Marchi
La ricerca di un messaggio univoco quando ci si approssima a letture poetiche che tanto hanno di personale e di vissuto può risultare un trabocchetto se non vestire i panni di clamorosi abbagli o rotte non praticabili, eppure alcuni versi della Poetessa debbono senz’altro esser prelevati – così, come si distilla il liquore più prezioso – dai brani nei quali sono contenuti; pongo attenzione a un verso che così dice: “insegnami il luogo della sfumatura dove dura ciò che non dura“, metafora che fa uso di tautologia, inversione, antitesi e che fa vorticare la testa. La fa girare velocemente, ci fa chiudere gli occhi, reclamare pace attorno a noi. Se riapriamo gli occhi dopo un po’ di quel vorticare sommesso, ci sembra di avere una realtà nuova, ottenuta con sforzo, che non siamo però in grado di rilevare o attuare. Ci ha illuminato e rinvigorito, sostenuto e fortificato. Sono queste le potenzialità delle liriche della De Marchi: versi che scuotono, che ti serrano la gola e poi di colpo ti lasciano, frasi che ti mesmerizzano, altre che t’impongono di rifletterti allo specchio per vedere chi sei, altre, ancora, che ti obbligano a sederti per non farti male, o a stenderti addirittura. Ciò che in maniera ben più nefanda subisce Malina nella violenza fisica e nel disagio nei quali è immersa: “non si alza non si alza/ […]/ adesso cade adesso cade, invece lei si regge/ […]/il suo corpo che non esiste/,la forma dell’aria/ […] in controluce le macchie sul suo corpo“.
Ritorna – ma in effetti non ci si era mai slegati da ciò – la privante condizione sociale, abitativa e solitaria di Malina dalla Poetessa definita senza se e senza ma con termini netti che non necessitano di amplificazioni critiche: “sei stata creata emblema/ vivente dell’umana sciagura“. Sorta di capro espiatorio, di Madonna degli oppressi, di martire dell’umana tragedia. La poetessa – dinanzi alla desolazione alla perversa inanità dovuta dal raccapricciante ‘spettacolo’ – opera una trasfigurazione immaginando la cara Malina altro da sé e in altre circostanze a lei meno avverse con un’operazione metamorfica nella quale è palese la volontà di risoluzione a quel dramma: “Se appartenessi al mio paesaggio saresti un lichene,/ saresti un fiore che sopravvive alle avversità./ nel nostro deserto di sole ossa“. Il tema di Malina è il tema del corpo, di quella materialità dolente, di quella prevaricazione continua, di quello stupro lacerante che nella società contemporanea è merce diffusa. Esso è una copertura, una pelle che copre i sensi d’intimità, passione e sentimento, un contenitore che viene leso producendo danni palpabili e altri, insondabili all’occhio, ben peggiori e inscalfibili. “Il corpo è un rifugio solo se nudo nel sole, nel breve/ spazio tra un albero e l’altro, solo se ha forma/ di abisso, nel breve spazio tra un osso ed un altro“.
In “Deliri” si pone il tema dell’appartenenza al proprio locus. Tema da sempre nevralgico in tutta la letteratura e divenuto elemento principe in quegli autori esuli che, per vari motivi, hanno finito per eleggere una patria diversa da quella natale. In poesia, poi, tale questione è stata spesso letta e interpretata alla luce delle considerazioni dell’intellettuale in merito alla propria collocazione in quanto tale, in maniera ben più estesa, dunque, alla mera localizzazione geografica. Il tema posto dalla De Marchi non ha nulla a che fare con intendimenti volti a ricercare una definizione spaziale, si tratta più di una necessità di concepire se stessi in relazione a un contesto – pur mentale – piuttosto che sperimentare la marginalità, la desolazione, l’abbandono, l’allontanamento, la sevizia. “Non basta ipotizzare un’assenza di vento o/ di vibrazione, non è sufficiente“, scrive la Poetessa ponendo in chiusura la questione di una reificazione dal paesaggio. Anche in questo caso, come d’altronde accade per l’intero lavoro, la chiusa della silloge è dedicata al pensiero di Malina non quale entità universale nella totalità delle sue definizioni ma nella forma concreta, tangibile, esperibile della sua macerata fisicità: “il tuo corpo nudo e disteso nella roulotte non è/ un corpo vero, fuori di qui non esiste nemmeno./ di lui, mi fido“. La fase di ricerca di un rapporto con una proiezione di contesto dà luogo all’annullamento della forma, alla sua riduzione totale a possibilità non più percorribile. Quel corpo che non esiste – e che poche pagine prima era così presente e implorante, tra ecchimosi e denutrizione – non fa più parte di un immaginario reale perché l’accumulo di sofferenza che il procedimento poetico ha arrecato nell’elaborazione delle immagini, ha portato all’esigenza della sua rottamazione. Si tratta di una distruzione irreale, che si realizza man mano della ripresa di Malina,ma che è pur sempre una forma di nascondimento motivata da un oblio che si anela con foga.

Lella De Marchi
Infine il corpo ritorna ad essere centrale nella sezione “Gesti”, una delle più struggenti ed evocative, più plasmatiche e vorticose dell’intero libro. Trovano posto liriche ispirate e dedicate a donne che hanno lasciato il segno non solo nel mondo della cultura ma in termini di impegno sociale. Artiste performative e fotografe italiane e straniere che hanno messo al centro dei loro happening e performance il corpo umano studiandolo e offrendolo alla comprensione del pubblico sotto vari luci. Da Ketty La Rocca (1938-1976) nota per le “Craniologie” (1973), serie di radiografie al cervello con cui nella fase finale della sua vita si spogliò senza timidezza del male fisico che l’ammorbava a Gina Pane (1939-1990) di cui la Poetessa scrive “ogni/ gesto si muove nella carne./ ogni gesto tocca la carne/ la incide ogni gesto provoca una ferita lascia/ sul corpo una traccia sentimentale“. La Pane, icona indiscussa della performance art degli anni ’70 con particolare attenzione alla body-art, rimane nota – tra le varie istallazioni in giro per il mondo – per la performance nella quale si auto-infliggeva dolore, una sorta di martirio spettacolare al quale lo scioccato pubblico prendeva parte con curiosità o riprovazione. La stessa ebbe a dire (fonte: Wikipedia) “Vivere il proprio corpo vuol dire allo stesso modo sia la propria debolezza, sia la tragica e impietosa schiavitù delle proprie manchevolezze”. Una disanima, quella della Pane, pur dalle connotazioni voyeuristiche e inclini alla spettacolarizzazione mediante situazioni-limite e ready-make fatti col proprio corpo. Omaggio anche a Cindy Sherman (n. 1954) che – devo confessarlo – non conoscevo e che sono andato a scoprire proprio grazie al volume di Lella di Marchi. Nella poesia a lei dedicata si parla del corpo in relazione a forme di mutabilità, di cambiamento e trasformazione per mezzo di un processo di travestimento (l’incipit, invadente e risolutivo, già anticipa: “il corpo non abita il genere“).
Ricerca e studio del corpo e delle sue ambivalenze, soprattutto nelle forme di contatto e relazione con un pubblico sconosciuto, una massa spesso piena di tabù e di inconfessati desideri. Nell’istallazione “Sex pictures” (1989) la Sherman introdurrà anche l’elemento-immagine del manichino, poi proposto in smembramenti inconsueti e in scene piccanti o atte a risvegliare pensieri sepolti. La De Marchi omaggia sapientemente e con profondo rispetto anche Francesca Woodman (1958-1981), fotografa statunitense che si specializzò nel nudo femminile in bianco e nero, artista morta all’età di ventidue anni; nella lunga poesia che ha lei come dedicataria la De Marchi annota verso la chiusura “tutte cose che sono in me quanto le vedo tutte le cose che/ non possono essere me perché suono fuori di me./ il mio corpo è in tutte le cose che vedo ma non tutto/ intero, a pezzi, un po’ qua e un po’ là, in modo vago” che richiama anche “Tutte le cose sono uno” (Prospettiva, 2015), titolo di una recente pubblicazione di narrativa breve della De Marchi.
Altrettante liriche sono dedicate alla performer francese Sophie Calle (n. 1953) alla quale scrive di “quanto sia impossibile/ penetrare nel fondo di ognuno di esse” e di “quanto sia necessario/ avvicinare ogni corpo, un corpo alla volta, quanto sia/ necessario chiedere ad ogni corpo di lasciarci una/ testimonianza ulteriore di sé“. In questo gineceo di presenze femmine da ricordare che hanno segnato distintamente l’arte concettuale e performativa delle ultime decadi non mancano neppure la fotografa americana Nancy Goldin (n. 1953) portavoce e difensore di un messaggio di sincretismo autentico tra arte e vita, nota anche per l'”Autoritratto un mese dopo esser stata picchiata” ben presto divenuto manifesto contro la violenza di genere e, ancora, le ben più note Marina Abramovic (n. 1946) definita “la nonna della performance art” e Vanessa Beecroft (n. 1969), artiste e performer di fama mondiale che hanno affrontato in modi diversi il tema della corporeità: dalla sperimentazione del dolore in Abramovic e il rapporto con il pubblico quale sconosciuta alterità, al tableau vivant di nudo della Beecroft. Autrici complesse e mai scontate che lanciano messaggi chiari – spesso di denuncia – o di riprovazione verso un mondo in cui la massificazione dei commerci, la molteplicità delle comunicazioni, il mancato dialogo e l’indifferenza generale fanno dell’uomo un essere spesso distaccato e incompreso, corazza di dolore a coprire uno stato di disagio.

Uno scatto di una performance dell’artista Vanessa Beecroft tenutasi nel 2009.
In chiusura una lirica densa, dove le immagini si ricorrono e si affastellano, dove il verso lungo non dà requie al respiro e trascina in maniera concentrica verso una spirale di materia, di carne viva, che arde e si spolpa distaccandosi dall’osso. Si tratta della concretizzazione completa di quell’allucinante stato di delirio che ha anticipato la distorsione della frivola quotidianità e del cosiddetto normativismo: “è un immenso paesaggio con ossa, vita che vive senza ornamenti di necessari ornamenti“.
Non è affatto un caso che sia dedicata a una delle voci più distinte della poesia italiana del secolo scorso, autrice di “Variazioni belliche” (1964) e di “La libellula” (1985). Il percorso della De Marchi si chiude con un mesto e al contempo vigoroso ossequio e tocco amicale verso Amelia Rosselli della quale pure ci si riferisce alla “caduta” e alla sua disposizione “in fondo alle scale” che, di certo, non può non rimandare all’immagine scomposta del suo corpo ai piedi della rampa dove si suicidò. La Rosselli – via Lella De Marchi – pronuncia frasi livide che racchiudono tormento e instabilità ma anche esigenza di cambiamento: “l’aria ha una forma che fa paura che non è astratta se vista da/ noi“. Mi è venuto intuitivo pensare a una poesia che scrissi mesi fa e che dedicai alla stessa Rosselli, dal titolo “Hai dominato l’aria”, nella quale sono presenti alcune fosche considerazioni sulla incongetturabile esistenza e sulla vorticosità degli accadimenti che hanno capacità di generare lesioni interne di vario tipo. Nella stessa scrivo “Il muro respira tensioni/ tra stinti capelli arcuati/ soppesi il balzo dell’aria/ quando il cumulo pesa/ e torce idee di sospensione/ […]/ Arcigna è quella rampa/ che ti ha dato la vita;/ […]/ Hai scorso di colpo il percorso/ il foglio che centrifuga il mondo/ non l’hai lasciato vuoto“.
Jesi, 03-01-2018
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