“Le danze del tempo” di Martino Ciano, recensione a cura di Lorenzo Spurio

Le danze del tempo

di Martino Ciano

con prefazione di Tania Paolino

Roma, Arduino Sacco Editore, 2011

ISBN: 978-88-6354-372-8

Pagg. 143

 

Recensione a cura di Lorenzo Spurio

  

“La sua droga perfetta era il passato” (pag. 51).

 

Confesso senza remore che i romanzi di guerra o che comunque fanno riferimento a particolari momenti storici di conflitto o di ribellioni non sono il mio forte ma ho accettato con piacere di leggere il romanzo di Martino Ciano, scrittore esordiente calabrese, grande studioso di storia. Dopo un’interessantissima nota di prefazione curata da Tania Paolino, nella quale si sottolinea soprattutto il valore del tempo nel romanzo, la lettura si snoda attraverso una serie di capitoli che in esergo riportano citazioni tratte dalla Bibbia. La storia contenuta nel romanzo è triste e inumana, come lo sono tutte le storie di guerra. Martino Ciano mette in scena non tanto il dolore e la devastazione degli oppressi ma il cinismo e la spregiudicatezza di coloro che si credono superiori, invincibili, potenti sopra ogni cosa. Di coloro che credono di poter decidere le sorti degli altri quando invece questo è un compito che appartiene solo a Dio.

Il setting iniziale con il quale si apre la storia è Auschwitz, luogo che non necessita di presentazioni. E’ il 1944 e al lager arrivano deportati dalle varie zone della Germania. Siamo, però, come narra la storia, alle ultime battute del regime hitleriano. Il tenente Karl Von Kliest, “l’immagine del perfetto ariano” (pag. 21), si rende colpevole di una serie di violenze e crudeltà tra cui l’uccisione dell’ebreo Jacob e di suo figlio Ismael, nomi che ricordano importanti personaggi biblici. Von Kliest rappresenta la Germania nazista, è un prepotente convinto degli ideali della purezza della razza; decide e manda a morte chi vuole arrogandosi un compito che non gli appartiene. E’ un piccolo Hitler, anzi forse addirittura più potente di Hitler che, come si è detto, ormai si trova nella sua fase calante. Ciano scrive, infatti, “Hitler ormai è finito. Ha paura anche di se stesso” (pag. 26).

Ma come narra la storia, lentamente le cose volgono male per i nazisti e le armate russe fanno il loro ingresso in Germania minacciando Berlino che poi riescono ad assediare. Il tenente viene mandato a Berlino dove, assieme ad altri gerarchi valorosi, è tenuto a organizzare la difesa della città. Non ci riusciranno e tra tanta morte e distruzione il tenente riuscirà a salvarsi e mettersi in fuga. L’impressione che ho avuto è che Ciano sottolinei di continuo l’impossibilità di salvezza per i deboli, i poveri, gli emarginati e sfruttati e di contro l’invincibilità, la salvezza dei cattivi, dei criminali quasi come se Dio osservasse tutto di nascosto e neppure lui riuscisse a regolare gli eventi.

Ma quando la Germania è ufficialmente caduta e con essa lo spregiudicato regime, allora le cose cambiano e non c’è più posto per i crudeli nazisti che prima hanno dominato la scena. Chi fugge, chi si salva, chi si converte, chi si pente, chi si autoelimina, chi nascosto rimane convinto delle proprie idee. Von Kliest decide di farsi fuori. Non riesce a sopportare di vivere in una società che non risponde più ai suoi ideali, ai progetti della sua gente. Non accetta la sconfitta. Non vuole lasciarsi uccidere dai rossi e lasciare che il proiettile delle loro pistole macchi quel corpo ariano e ne sconsacri l’essenza. Si punta la pistola alle tempie ma solo in quel momento, similmente a una pistola scarica nel celebre Gli Indifferenti di Moravia, scopre che i colpi sono finiti. E’ un caso? E’ una vendetta del destino? Non lo sappiamo fino a che non continuiamo nella lettura. La mia idea è che il non poter morire del tenente sia una sorta di pena divina silente come avviene al vecchio marinaio dell’omonima ballata di S.T. Coleridge. Ma come sempre la vita è fatta di un prima e un dopo, un passato e un presente. Ci troviamo ora a Colonia, città natale del tenente, nel 1962. La guerra è finita da tempo, sono trascorsi anni difficili e la ricostruzione del paese è stata lenta e dolorosa. La guerra non solo ha cambiato i luoghi, distrutto le case e annientato intere famiglie, ma ha contribuito a incrinare le psicologie dei sopravvissuti, rendendoli deboli, incurabili in virtù dei traumi subiti. Il tenente, seppur anziano, mantiene in un certo senso la sua integrità di sempre; “La sua anima ancora ricordava il passato, lo desiderava” (pag. 50), scrive Ciano. Sappiamo bene che chi vive del passato è un uomo che non è in pace con se stesso, nostalgico, solo, inattuale e pericoloso. E ancora una volta Karl si identifica con il marchio della dissolutezza, della perversione e dell’immoralità: è nazista nell’anima, alcolista, misogino, violento, tradisce la moglie e ancora a distanza di anni non riesce ad accettare (e forse a comprendere) che la sua Germania gloriosa non c’è più e che gloriosa non lo è mai stata: “ma io ci credo ancora” (pag. 56), confida a un suo vecchio amico.

La costruzione antitetica dei personaggi che popolano il romanzo esemplifica questa struttura manichea del mondo: i nazisti contro gli ebrei, i tedeschi contro i bolscevichi, il Bene e il Male, l’umano e l’animalesco, Dio e Satana, l’amore verso l’altro e l’amore verso se stesso, la ragione e la forza, l’io e l’altro. Ma in fondo non sono rilevanti nomi, luoghi, anni e altre caratterizzazioni che ci consentono di inserire la storia in un particolare momento perché una storia di guerra è metafora di ciascuna guerra, sia essa europea o a noi lontana.

Il tenente Von Kliest vive in una dimensione che è fatta di ricordi del passato, di memorie, di progetti e idee che nel passato non hanno preso corpo e il suo presente non è che un passato onnipresente che non annuncia mai a dar la staffetta a quel presente liquido, attuale, al momento. E’ un uomo che mentalmente è già morto e sepolto da decenni, come la sua ideologia, ma che vive in un corpo regredito e involuto. E’ espressione più chiara dell’imbarbarimento della società, dell’illusorietà della superiorità dei potenti sui deboli, del ritorno forzato a un sistema tirannico, prepotente, insano, chiaramente impopolare e inattuale per il suo tempo. E’ un ritorno allo stato di natura, a quella selvaggia e primordiale. Ma anche per lui arriva il momento della resa dei conti: la presa di coscienza, il pentimento, il rimorso, la paura del suo passato. Guardando sua figlia Martha, infatti, non può far a meno di ricordare gli innocui occhi di Ismaele, un bambino ucciso anni prima solo perché ebreo e perché aveva inveito contro di lui per difendere suo padre. E così Karl finisce per “[essere] stuprato da quei ricordi seppelliti” (pag. 59). Ciano impiega un linguaggio freddo, diretto, tagliente e crudo che, però, ben lontano da avere l’intenzione di scioccare, è perfettamente in linea e adeguato a quando va narrando: violenze, nefandezze, stupri, desolazione, rotture, abbandoni, sia fisici che metaforici.

E poi segue il sogno-incubo in cui Karl si vede di fronte a Jacob e Ismael, prova paura e rimorso e l’avvenimento onirico è di sicuro espressione inconscia del fatto che Karl non ha ancora fatto pace con se stesso, con il suo passato che, invece, ritorna a ossessionarlo, minacciarlo, indebolirlo e ad accusarlo per ciò che in assenza di un minimo di raziocinio tanti anni prima ha fatto per asservire un’ideologia assassina. Verso il finale dell’opera tanto egoismo e sicurezza di sé lasciano, però, il posto all’insicurezza, alla debolezza e alla dannazione del personaggio che anni prima si è macchiato di ignominiosi crimini; il suo passato crudele si mischierà al suo presente, alle vicende quotidiane della sua famiglia e proprio all’interno di questo universo si compirà una sorta di vendetta che, troppo pesante da sostenere, lo condurrà a un suicidio (ipotizziamo), questa volta con esito. Ciano condensa il tutto in una frase: “Solo vivendo si comprende la morte, solo peccando si comprende l’espiazione” (pag. 138). C’è una sorta di comprensione e di animo cristiano in questo: il perdono e l’espiazione alle colpe sono sempre disponibili e alla portata di tutti, efficaci solo se l’individuo è capace di crederci veramente.

Ciano ci accompagna in un viaggio doloroso, inserendo le intere vicende narrate in una precisa cornice storica che evidenziano la sua passione e competenza in tale ambito e ci consegna una parabola sulla cattiveria, sulla condizione del cuore umano macchiato dalla colpa. Karl Von Kliest è fratello di Kurtz di Heart of Darkness, e pertanto non è altro che l’espressione più pregnante di quel cuore di tenebra che attanaglia l’umanità.

 a cura di Lorenzo Spurio

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Le Perseidi, Odi e Poesie Varie di Andrea Gigante

Le Perseidi – Odi e Poesie Varie di Andrea Gigante

Arduino Sacco Editore, Roma, 2011, pp. 186

ISBN: 9788863544387

Recensione di Lorenzo Spurio

Il libro d’esordio di Andrea Gigante, una ricchissima silloge poetica dal titolo Le Perseidi, è molto complesso e variegato, frutto di un ampio lavoro di analisi metrico e di studio particolareggiato della letteratura classica.  Il più grande merito che riconosco, a mio modesto parere nell’opera di Gigante, oltre a saper trattare temi tanto diversi e difficili che affondano nel sociale è quello della sua meticolosità stilistica e metrica, il suo amore per la forma, per le sonorità, per la sillabazione attenta. Così il classicismo di Gigante non è solo tematico e celebrativo di una poesia gloriosa appartenuta al passato ma anche e soprattutto stilistico e metrico.

Se dovessimo ipotizzare di che cosa tratta questa silloge, basandoci sul titolo allora dovremmo immaginare che si parla di Perseo, ritratto in copertina dopo aver decapitato Medusa nella famosa scultura del Cellini posta nella Loggia dei Lanzi a Firenze. Ma chi è Perseo? Che cosa rappresenta? Le Perseidi sono delle vestali di Perseo? E’ una possibile interpretazione ma dobbiamo tenere conto che è anche il nome di una costellazione e quindi possiamo intendere queste poesie come delle stelle che luccicano, affascinando l’uomo per la loro magia.

In “Alla lira” fuoriesce un’appassionante immagine del poeta: «Che cosa fare debbano i poeti si chiedono; / Devono fare quello cui da sempre provvedono: /       Cantar l’amore, il bello, il grande, il mondo, / Con la memoria vincere il cupo e tristo oblio, / Degli scuri misteri ridir lo sfolgorio / E scandagliare tutto fino in fondo». Curiose le odi “Il Risorgimento” in onore ai festeggiamenti per i 150 anni dell’unità d’Italia e “I partigiani” in onore ai sessantacinque anni della liberazione d’Italia nella quale Gigante osserva: «I tiranni gettare vollero i dissidenti / In fosse e di atti vïolenti /          Inebriarsi, amando la morte».

La poesia di Gigante è una poesia dall’andamento lungo, quasi prosaico dal messaggio criptico, implicito, che va ricercato a fondo e che, come nella grande tradizione poetica, si caratterizza per una serie di inversioni di parole. Va letta attentamente se non si vuol perderne l’essenza. Gigante propone così temi, stili e linguaggi diversi che però non creano rottura all’interno della silloge, proponendo poesie filosofiche e poesie impegnate che trovano fondamento nella storia, nella memoria o in problemi sociali. Ma sa anche essere una poesia intima e personale come in “A te”. Insomma l’autore esordiente ci accompagna in un percorso variegato che è possibile percorrere prendendo vie diverse. E’ proprio questo, credo, che l’autore vuole favorire: un viaggio in spazi tanto diversi ma che riescono ad affascinare tutti.

Mi capita di leggere molte sillogi di poesia ma devo dire che questo è il primo esperimento che incontro di una poesia classica, sicuramente fuori dai tempi attuali che ha il desiderio di riprendere forme, stili e aspetti appartenenti a un’età di splendore della poesia. Non è però obsoleta né nostalgica perché se la forma è conservatrice, i contenuti sono molto aperti, attuali e condivisibili. Complimenti all’autore.

ANDREA GIGANTE è nato a Roma nel 1986. Si è laureato in Lettere Moderne all’Università “Roma Tre” con una tesi di letteratura francese su un’opera di Geroges Perec. Sta studiando per conseguire la Laurea Magistrale in Italianistica. Le Perseidi, Odi e poesie varie, è il testo d’esordio dell’autore che non cela la sua fascinazione per il mondo della letteratura classica.

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LORENZO SPURIO

Jesi, 17 Luglio 2011


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San Silvio e il drago di Ivo Ragazzini

San Silvio e il drago di Ivo Ragazzini

Arduino Sacco Editore, Roma, 2011, pp. 86

ISBN: 9788863544158

Recensione di Lorenzo Spurio

Il libro di Ivo Ragazzini, San Silvio e il drago, è un romanzo breve che si fonda sulla parodia. Non dobbiamo infatti immaginare niente che abbia a che fare con draghi sputa fiamme in carne ed ossa né tantomeno alla battaglia tra bene e male con un drago per l’appunto combattuta da San Giorgio. Il sottotitolo rivela infatti subito l’intento comico del testo: “La leggenda del santo protettore della libertà”. Se associamo le parole ‘Silvio’ e ‘libertà’ capiamo subito a chi Ragazzini voglia riferirsi, cioè al signor B. Non è un libro politico né tantomeno irriverente verso il signor B. ma si propone come divertente riscrittura senza pretese ideologica di presentare una storia che noi conosciamo.

Ragazzini non svela mai chi si cela dietro la figura di San Silvio, infatti già nella sua prefazione osserva: «Il suo nome era San Silvio e il resto lo dovrete scoprire da soli». Così siamo da subito chiamati a collaborare con lo scrittore nella ricerca di una possibile identità. Non sarà difficile svelarla, come si vedrà. San Silvio è una caricatura parodica che non ha nessun intento agiografico se non quella di far spesso riferimento al potere miracoloso del suo personaggio.

Così se decidiamo di scarnificare il messaggio di Ragazzini il santo è il signor B.  che, per le sue vicende storiche nell’imprenditoria e nella politica ha finito per costruire un’immagine alta di sé, elevandola, “santificandola”, da renderla ben più grande della sua persona stessa. E chi è allora il drago in versione contemporanea che osteggia un “santo” di tale calibro? Sono forse i comunisti, le toghe politicizzate, i magistrati corrotti, l’informazione avversa, le intercettazioni ingiuriose contro il premier? Sì. Ma, visto che san Silvio è presentato come un santo del futuro, dobbiamo immaginare che il suo processo di canonizzazione nell’età a noi contemporanea non è ancora iniziato e che, per proclamare un santo, è necessario che questo sia almeno morto da decenni e ne sia stata comprovata la santità. Le informazioni sulla storia di questo santo sono però abbastanza confuse e contraddittorie, secondo alcuni era un laico secondo altri era un religioso. Qualcuno lo considerava un “cavaliere liberale” e in questa accezione ecco un altro chiaro riferimento al signor B. Ed ecco svelata la forza di questo santo: il grande ottimismo, le sue felici battaglie sui draghi rossi (comunisti?), gli attacchi a «strani uomini della quercia armati di martello e falcetto» (D’Alema? Fassino?).

Ragazzini è abile manipolatore delle vicende biografiche del signor B. qui riprodotte in chiave comica e parodica che non posso non generare almeno un piccolo sorriso: il santo, dice Ragazzini, possedeva a Milano «reti e canali dove pescare», riferimento esplicitassimo alle sue reti Mediaset. Sulla falsariga degli attacchi politici che vengono mossi al signor B. per la sua filosofia millenaristica del comunismo, Ragazzini sottolinea la preoccupazione di quello che sarebbe poi diventato santo per la minaccia e la dilagante eresia rossa, il comunismo.

Così, con la decisione dell’uomo di combattere contro questa bestia, il drago si allea con una serie di «amici prodi» e viene detto che «cominciò a corrompere una lega e una mastella intera di seguaci». Non è necessario esplicitare i riferimenti che sono per altro già particolarmente evidenti. Ragazzini spara completamente addosso una serie di accuse che la stampa e una certe fazione politica hanno sempre utilizzato per screditare il signor B. facendo anche riferimento a patti d’onore, collusioni con associazioni segrete e corrotte, sempre impiegando un linguaggio metaforico intessendo una serie di parallelismi che si fondano sui suoi intenti satirici. Non mancano riferimenti a giornalisti che hanno sempre attaccato il signor B.: Travaglio e Santoro, quest’ultimo descritto come Minotauro o ai finti amici: Fini, Casini per poi a passare al libertinaggio del signor B. spiegandolo mediante la presenza di tentazioni demoniache.

Una scrittura tutta contemporanea e postmoderna che, ben lontana dall’intento di denigrare o sconfessare il signor B., finisce per divertire il lettore e per strappargli un sorriso. Anche a quello che condivide la politica del signor B.

LORENZO SPURIO

9 Luglio 2011

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Pensieri senza pretese, Intervista a Christian Lezzi

INTERVISTA A CHRISTIAN LEZZI

Autore di Pensieri senza pretese

Arduino Sacco Editore, Roma, 2011

Intervista a cura di Lorenzo Spurio

 

LS: Quali sono i tuoi autori italiani e stranieri preferiti? C’è qualche testo in particolare che ami? Se si perché?

CL: Sinceramente non ho un autore di riferimento. Diciamo che vado a periodi, mi muovo per stile, per sensazioni trasmesse. Vario molto, a seconda dell’umore, come se fosse una ricerca interiore, un percorso che arricchisce, passo dopo passo, libro dopo libro. Passo con facilità dai classici russi al verismo siciliano, dal decadentismo francese ai voli arditi di D’Annunzio, dall’immaginifico tetro di Howard Phillips Lovecraft allo spirito guerriero di Yukio Mishima, dalla leggerezza profonda di Banana Yoshimoto, alla straordinaria poesia di Dylan Thomas, dal teatro dell’assurdo di Sartre e Camus, al crudo realismo dipinto da alcuni seppur dolcissimi versi della compianta e meravigliosa poetessa milanese Alda Merini. Passando ovviamente per mille altre cose, mille dettagli e sfumature, alla ricerca di emozioni, di colori e di odori, di immagini che prendono forma, dando vita alle parole. Non disdegno i contemporanei, adoro la potenza espressiva di Faletti, snobbato dai più e non capisco perché, e amo follemente la capacità descrittiva di Patrick Süskind (Il Profumo, per citare un suo romanzo) o di Sebastian Fitzek (La Terapia) o ancora Thomas Harris (Hannibal). Un testo in particolare? Ti direi, così su due piedi, Canti Pisani di Ezra Pound. E’ una questione di pelle, di emozioni che nemmeno uno scrittore può spiegare nel leggere un simile capolavoro.

LS: Perché la scelta della poesia di temi tanto diversi tra loro che, forse, avrebbero potuto essere meglio amalgamati in una narrazione?

CL: Perché la vita stessa, nel bene e nel male, non è monotematica. Lo scibile umano è fatto di mille schegge di vissuto, mille e più esperienze contrastanti e contraddittorie. E tutte accadono senza un preciso ordine temporale, senza preavviso. Ordinare per categoria le mie poesie sarebbe stato come cercare di mettere in ordine le varie fasi della vita, ma la vita non ha un iter logico, sappiamo per certo dove sono collocate la nascita e la morte, ossia l’alfa e l’omega della nostra esistenza, ma per il resto, le cose accadono senza seguire uno schema. Io narro le emozioni, positive o negative che siano, in ordine casuale, in base al momento, all’ispirazione, ai fatti contingenti. Proprio come se fosse vita vera o vissuta. Nella vita di tutti i giorni ti capita di essere innamorato, ma anche disperato per la perdita di un amico, di un fratello, del lavoro. Le emozioni si sovrappongono e si susseguono con una casualità non calcolabile. Questa è la mia poesia e, di conseguenza, la logica della raccolta.

LS: C’è una poesia in particolare della raccolta che ti piace? Perché?

CL: Tutte le Poesie che scrivo sono miei riflessi d’anima, pensieri scritti con il sangue, provati sulla pelle, in molti casi. Naturalmente sono legato a tutti i miei scritti, ma forse darei la priorità ad alcune di esse, per via delle emozioni che suscitano in me stesso, ancora oggi, nel rileggerle. Anche a distanza di tempo. Ma non intendo fare una graduatoria o un elenco, anche perché, le poesie a cui sono più legato oggi, potrebbero essere sostituite da altre, già domani.

LS: Nella tua silloge uno dei temi più importanti è quello della memoria, connessa all’infanzia. Nella tua vita il ricordo è così importante? Perché?

CL: Non necessariamente memoria connessa all’infanzia. Memoria e ricordo, in generale. Di cose passate, di momenti vissuti, di sorrisi che non rivedrai e di parole che si sono perse nei meandri della memoria. O di qualcosa o qualcuno che è un ricordo continuo, fino al momento in cui lo rivivrai. Il ricordo, inteso come punto di partenza, come scuola di vita, come presa di coscienza della propria vita, è importante per tutti, non solo per me. Certo, guai a vivere nel passato, come novelli reduci, ma nemmeno si può prescindere da esso e da ciò che è stato. Vivere l’oggi per il domani, ma traendo insegnamento da ieri.

LS: Nelle poesie c’è un immagine che ricorre spesso. E’ quella del labirinto. In che maniera questo universo intricato si legata alle tue liriche?

CL: La mente umana ama i labirinti, ha una propensione tutta sua a perdercisi dentro. In senso poetico, posso dirti che il concetto di labirinto incarna un po’ la mia ricerca di una scrittura visuale, in cui le parole, i concetti, si inseguono, danzano insieme, dipingono emozioni e stati d’animo… in sintesi, si perdono e si ritrovano nel mondo della varia umanità. Allo stesso modo, io amo danzare con le parole, vedi la mia Poesia “In catene”, in cui pensi di leggere una cosa e invece…

LS: Quanto di autobiografico c’è nella raccolta?

CL: Questa è una domanda a cui, per mia scelta non darò mai una risposta chiara. Mettiamola così: scrivo di me anche quando non scrivo di me, ma non sempre scrivo di me. E’ contorto, lo so, ma è una questione di labirinti emotivi e mentali. Ciò che trovo importante è trasmettere contenuti emozionali, sensazioni, spaccati di vita e di esperienza. Che poi, questi riflessi d’anima e di esistenza, siano vissuti in prima persona o solo sfiorati per sentito dire, poco importa. Io canto di vita, di morte, d’amore… e di altri abissi da esplorare. Devono per forza essere miei, questi labirinti, per essere credibili?

LS: Nella silloge c’è una poesia che parla di guerra. Qual è stata la genesi di questa lirica? Avevi un conflitto bellico in particolare in mente quando scrivevi?

CL: No, non c’è un conflitto in particolare, anche se chi conosce la mia vita potrebbe pensare il contrario citando ad esempio il conflitto nei Balcani, nel Golfo Persico o in Palestina. Questa poesia è nata spontanea, come tutte le altre, al pari di un fiore di campo, irrigata dal disgusto provato nei confronti dell’umana stupidità che, per il tornaconto di qualcuno, trascina in una lotta fratricida intere nazioni. Un po’ di storia, un po’ di attualità. Purtroppo di fertilizzante, per concimare un fiore del genere, ne abbiamo da vendere.

LS: La poesia che parla dell’Istria, del Carso e delle foibe dimostra la tua conoscenza di pagine nere della storia d’Italia. Quanta ricerca e analisi storica c’è nelle tue poesie?

CL: Potrei scrivere un libro in tre giorni su quei tristi accadimenti. Ma pensa, ho pianto scrivendo una poesia. Figuriamoci se scrivo nel dettaglio di fatti reali che ancora mi prendono alla gola. Quella dell’Istria, di Fiume, della Dalmazia, per me non è solo storia, ma un qualcosa che mi tocca da vicino, che mi brucia dentro. Sono terre che mi scorrono nelle vene, che mi brillano negli occhi, ma volutamente non darò dettagli autobiografici. I fatti citati non vanno dimenticati. Sono stati criminalmente taciuti per anni da una democrazia nata storpia. Ora è giusto che la verità si diffonda, superando gli interessi ideologici della politica. Per quanto riguarda le altre poesie, non c’è, di norma, molta ricerca storica nello scriverle. Il mio è uno scrivere d’impulso, d’istinto, una sorta di Spontaneismo Armato (di penna).

LS: Nella silloge ci sono vari riferimenti al mondo dell’arte pittorica. Mi colpisce in maniera particolare i riferimenti a Boccioni e al futurismo. Questo movimento artistico-letterario che ha da poco compiuto i cento anni secondo te quanto è stato importante per la cultura italiana e quanto lo è per te e per la tua scrittura?

CL: Sono sempre stato appassionato d’arte, complice un genitore che è un Broker d’Arte visuale, oltre che di collezionismo, alta orologeria e gioielli. Sono cresciuto in mezzo ai dipinti e questo mi ha impresso un certo amore per l’arte contemporanea in particolare. Adoro le sperimentazioni, le cose originali che fanno dell’artista, un vero Artista. Rifare oggi ciò che faceva Canaletto, trecento e rotti anni fa,  o Fontana appena 50 anni fa, rende operai dell’arte, non Artisti. Il vero artista inventa, sperimenta, crea nuove tendenze, segna il sentiero mai battuto prima. Io voglio dovermi soffermare per 45 minuti a capire il significato di un’opera, aprendo la mente, perdendomi dietro a mille ragionamenti. Ad una mostra impressionista mi annoio, ci vogliono 30 secondi a capire cosa stai guardando. E vorrei fosse così anche per chi legge le mie poesie, rileggendole con attenzione, analizzando i concetti, elaborandole fino a capirne davvero il senso. Il futurismo è stato un momento di rottura, un terremoto che ha rinnovato la scrittura, la pittura, e mille altre arti. E non solo il mondo delle arti, ovviamente. Pur denigrato e svilito da molti, a causa della sua collocazione storica, è stato un movimento di vitale importanza per l’era moderna. Nel mio modo di scrivere forse ci rientra per caso, quasi inconsciamente, come fosse una solida base d’appoggio nel tentativo di essere personale, di fuggire gli stereotipi poetici. Forse, per gusti e per stilistica nello scrivere (vedi le mie metafore), mi sento più vicino alla metafisica (De Chirico, Kostabi, Rabarama). Io non scrivo in rima e rifuggo come la peste la moda imperante dello scrivere poesie che non hanno un contenuto, ma che badano solo alla musicalità di quanto scritto. Io parlo di cose concrete, le canzoni le lascio scrivere ai cantautori. E con questo rispondo alla critica mossami in una recensione del mio libro. Le mie poesie sono “trascurate” dal punto di vista metrico e musicale perché io scrivo la sostanza delle cose, non la loro forma. La metrica omologa gli scrittori, mentre l’estrema ricerca della musicalità va a discapito dei contenuti. Lungi da me offendere un mostro sacro della poesia, come il compianto maestro Mario Luzi, ma a me, di sapere “chi ha potato così male il pino” non importa poi tanto. Per farla breve e per chiudere la questione, quella trascuratezza è assolutamente voluta. E’ come se fosse un atto di forza, di ribellione contro le mode e gli stereotipi di cui sopra. A me interessa mettere in chiave poetica dei concetti concreti, di vita reale, vissuta o solo osservata, il resto è noia, per dirla con Califano. E poi, forse, è già troppo ciò che ho fatto ad oggi. Ho scritto la mia prima poesia in data 3 Agosto 2010, undici mesi fa. Nonostante le apparenze, sono solo alle prime armi.

LS: Hai altri lavori in cantiere? Idee?

CL: La mia attività poetica è quasi quotidiana. Conto di pubblicare un nuovo  e-book di poesie dopo l’estate, ma ho appena pubblicato Pensieri Senza Pretese, non ho molta fretta. Dallo scorso Febbraio 2011 poi ho iniziato a scrivere un romanzo, uno psycho-thriller molto complicato nella sua storia ingarbugliata. Spero di venirne a capo, di non perdermi nei suoi labirinti e di riuscire nell’intento. Ma non è facile, sono ancora ad un centinaio di pagine formato A5. Un po’ la pubblicazione del libro, un po’ l’effettiva complessità degli argomenti trattati, ha rallentato i lavori. Ma molto presto riaprirò il cantiere. Per fortuna ho accanto a me una persona speciale, Isabella, la donna cui ho dedicato una poesia omonima e tutto il libro (nei ringraziamenti) che, guarda il caso alle volte, è una Psicoterapeuta. Non solo mi appoggia nella mia attività, ma mi aiuta anche con le complicate questioni relative alla psiche umana e alle sue devianze comportamentali e patologiche.

 

Ringrazio Christian Lezzi per avermi concesso questa breve intervista.

LORENZO SPURIO

7 Luglio 2011


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Pensieri senza pretese, di Christian Lezzi

Pensieri senza pretese di Christian Lezzi

Arduino Sacco Editore, Roma, 2011

Recensione di Lorenzo Spurio



Christian Lezzi, scrittore ed opinionista milanese, mi ha proposto l’idea di scrivere una recensione per la sua raccolta di poesie. Non mi sono tirato indietro perchè il ruolo di recensore mi aggrada e perché questa silloge poetica dal titolo curioso ha richiamato da subito la mia attenzione. Mi piace molto soffermarmi sui titoli delle opere prima di proseguire nella loro lettura. Pensieri senza pretese è una raccolta di poesie che tratta temi diversi fra loro ma ogni lirica è accomunata da questo desiderio del Lezzi di presentare uno spaccato semplice, comune, senza orpelli, senza tante pretese per l’appunto. Ed anche nella prefazione, con una forma di diminutio tutta contemporanea, l’autore cerca in un certo senso di scusarsi per non essere in grado di riconoscersi un poeta propriamente detto. Preferisce definirsi opinionista ma è un dato di fatto che chiunque scriva una poesia, sia praticamente un poeta. Christian Lezzi non fa sicuro eccezione. La lirica che apre la raccolta, “Inchiostro nelle vene”, è una singolarissima sintesi della poetica del Lezzi, un prototipo di poesia personale che può essere poi riscontrato in tutte le altre: «un demone che si impossessa di te, questo è scrivere».

Il tema dell’amore è spesso presente in maniera esplicita o allegorica mediante alcuni immagini ricercate e interessanti ma spesso questo tema è minacciato dall’idea della morte o anche dalla nostalgia per i tempi andati. Le immagini che ricorrono maggiormente sono le risate, gli sguardi, labirinti, volti di donna ma, in via generale, la silloge si caratterizza per un’atmosfera grigia e cupa dovuta alle tematiche crepuscolari che affronta: il ricordo, il dolore, la guerra, l’esilio, la nostalgia e la solitudine. Un senso di sofferenza del protagonista aleggia intorno alla lirica “Resa” in cui il poeta invoca a lasciarsi andare per porre fine alle sofferenze terrene, è una dolce invocazione al suicidio: «Chiudi la partita senza aspettare un domani diverso che non sia solo l’estensione di ieri e di oggi con gli stessi pensieri tristi solitari e morenti», ma subito dopo si cambia registro ed è la vita a prevalere:  «oggi non è tempo di morire». In “Guerra” il Lezzi ci fornisce una fine lirica pacifista che, più che sottolineare gli aspetti più crudi degli scontri bellici, fa riferimento alla violenza e alla spietatezza del genere umano, incapace di evitare tragedie di inaudita gravità.

In “Cenere alla cenere” il macigno di un ricordo che immaginiamo doloroso e connesso, forse, alla perdita della donna amata si conclude però con la riappropriazione della propria vita, con la forza di ragione che riesce addirittura ad allontanare da sé quel momento del passato, quasi a voler ricordare che la forza della ragione può tutto, anche cancellare i momenti vissuti: «Come polvere alla polvere disperdi al vento il suo ricordo ti liberi del ricordo e finalmente torni a vivere».

Curiosissimi riferimenti al mondo dell’arte figurativa trapelano in “Incontri”: una donna che spicca fra i presenti «come una macchia di colore su una tela del Boccioni». Di Boccioni e del futurismo nella poesia è presente la tecnica della multi prospettiva e della immagini seriali. Un ottimo modo, a mio vedere, per celebrare un grande pittore e sculture poco ricordato. Il futurismo ritorna in maniera indiretta anche in “Metavita” dove il poeta fa riferimento all’uccisione del chiaro di luna che non può non farci pensare l’omonimo manifesto marinettiano del 1909.  In “Concetti spaziali” ritorna il tema dell’arte, in questo caso plastica, nell’atto di tagliare la tela con una lama, esperienza artistica che ci fa pensare direttamente all’opera di Lucio Fontana: «Afferri la lama e con gesto deciso ferisci il supporto aprendo un mondo nuovo creando una nuova dimensione». Una particolareggiata analisi nello scandaglio dell’io, nei recessi della personalità, è presente nella poesia che porta il titolo “Psiche” che sembra essere un vero e proprio omaggio al padre della psicanalisi.

Il tempo è il grande protagonista della raccolta mediante episodi della vita che fanno riferimento ad esso: l’infanzia o i ricordi del passato, il presente liquido e difficile, il futuro inconoscibile e apparentemente precario. Nella poesia “Tempo” è proprio quest’ultimo il vero sovrano, descritto mediante una serie di costruzioni metaforiche di particolare impatto poetico: il tempo si dilata e si comprime descrivendo quindi anacronismi che sono estranei al canonico scorrere del tempo.

Sono numerose le liriche contenute nella silloge e ciascuna meriterebbe un’analisi attenta ma posso concludere che la raccolta, pur non seguendo un ordine tematico come ha riconosciuto lo stesso Lezzi nella sua prefazione, finisce paradossalmente per avere una grande compattezza. La poliedricità dei temi trattati non è fastidiosa e l’interesse nella lettura è incentivato da questo continuo cambio di temi e di immagini evocate. L’unico cruccio, forse, risiede nella limitata musicalità delle liriche e nella trascuratezza metrica ma neppure questi aspetti sono capaci di minare l’ottima impostazione del Lezzi nel presentare squarci lirici talvolta drammatici, altre volte altamente romantici.

LORENZO SPURIO

Jesi, 4 Luglio 2011

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