In questo momento di morte e guerre, nasce spontaneo chiedersi se possa bastare una poesia per salvare il mondo. Poesia come preghiera profonda, pianto intenso, ma anche inno alla vita. Siamo ormai consapevoli del fatto che le armi non potranno mai risolvere i problemi dell’umanità e che tutto si ripeterà recidivamente, come un rituale. Ma se le bombe, gli spari, i cannoni, il sangue, non possono salvarci, potrà forse farlo la preghiera?
Già sembra di intravedere un sorriso di scetticismo in coloro che leggeranno questa domanda. Tuttavia, tentare un nuovo percorso verso la pace, è necessario e urgente. Una sola piccola poesia, come preghiera umana, al di là di ogni credo religioso e filosofico, in nome dell’Uomo, della Vita, della Speranza, potrebbe trasformarsi in un seme fertile che potrebbe sbocciare dopo essere stato coltivato e curato con amore e attenzione. Come un canto antico che affiora dai pori della nostra pelle, dal nostro DNA sopravvissuto per milioni di anni ad ogni ostilità nei confronti della nostra evoluzione. È un enigma cercare di comprendere perché l’Uomo voglia trovare la pace attraverso la guerra, la vita attraverso la morte, l’amore attraverso l’odio. È un mistero nascosto nel profondo dell’ego umano, nella parte “bestiale” che caratterizza l’uomo, quella più oscura e terribile, che si sarebbe dovuta smussare attraverso lo sviluppo dell’anima unita all’intelligenza, soprattutto sociale, che contraddistingue la razza umana da quella animale e dai suoi istinti spesso crudeli.
È quindi il momento di rivalutare la preghiera. Non quella da filastrocche infantili ma quella che nasce da un sentito profondo, che punta a catturare l’essenza più spirituale e pura che ancora si annida dentro gli esseri umani e che non trova più il passaggio per fuoriuscire, alla luce, verso il prossimo.
Ci siamo riempiti di beni materiali e anche di nozioni intellettuali, di conoscenza fine a se stessa, ma abbiamo tralasciato il cuore, la sacralità anche delle nostre debolezze e delle nostre paure, della nostra capacità di commuoverci, di stupirci di fronte all’alba e al tramonto, che non sono mai gli stessi. Si è arrivati a scambiare la spiritualità per debolezza, per inutilità, per nullità, poiché non sembra portare profitti. Di conseguenza, la preghiera, l’inno alla bellezza umana e divina, hanno perso forza e sembrano spesso essere fonti di imbarazzo e incapacità. Si è giunti ad una sorta di capolinea per l’umanità. È assolutamente necessario trovare nuove direzioni e nuove motivazioni per la felicità, la pace e la convivenza sulla terra. Perché (tornare ad) essere idealisti e romantici e tentare di salvare noi stessi con la poesia, l’implorare la vita, l’amore, il nostro credo, la natura, il nostro essere più profondo?
Le prime forme di comunicazione linguistica dei nostri antenati erano simili a suoni cantati, liriche primordiali. Erano armonia e bellezza, andate perse con il materializzarsi della vita umana sulla terra, quando si ha iniziato a lottare per sopravvivere, per poi volere accumulare potere e ricchezze. Perché non tornare all’età dell’innocenza, come fossimo ancora bambini, incontaminati dalle negatività che ci circondano? Ci siamo riempiti del nulla svuotandoci. Perché non riprovare ripartendo dal poco per raggiungere una completezza e realizzazione con la semplicità e la sincerità? Basterebbe una poesia? Un canto? Un inno?
Il ritorno all’umiltà, in primis, ci potrebbe veramente salvare; questa enorme parola “umiltà”. Bisogna avere tanto coraggio ad essere umili. E la poesia è umiltà perché ci denuda di fronte al mondo e ci dona il coraggio di essere nuovamente ed autenticamente “uomini”.
Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.
Ripercorrendo la nostra tradizione mi sembra che a tre si possano ridurre le definizioni di arte: l’arte concepita come un fare, come un conoscere, come un esprimere. Senza dubbio tali posizioni vanno poste in relazione per il fatto che l’esclusione di una sola di esse condurrebbe inevitabilmente al fallimento. Una conoscenza senza espressione e senza produzione è vana; una produzione senza conoscenza è vuota; un’espressione senza conoscenza sarebbe amorfa. Si tratta, dunque, di cogliere la relazione in senso gerarchico o paritetico. Nell’antichità prevalse la tûcnh: il poeta trae il suo nome dal verbo poiûw (faccio) all’interno — è bene rilevarlo — di una distinzione tra arti liberali e arti servili. Il Romanticismo decretò il prevalere dell’espressione mediante l’identificazione dell’arte con sentimento. Il Decadentismo, soprattutto nella prima fase, sancì il trionfò di un’arte quale conoscenza. Il “novecento”1 propose una quarta concezione, non del tutto nuova del resto, e cioè quella di un’arte fine a se stessa, che culminò nel gioco, nella bizzarria, nel divorzio tra significante e significato, autoreferenziale ed autosufficiente, posizione che non va inclusa nella categoria del “fare”, perché affrancata da ogni metodologia strumentale.
Quale potrebbe, dunque, essere la funzione, il compito o, semplicemente, la posizione dell’arte nell’età “globalizzata”?
In primo luogo, occorre ribadire la sua autonomia e non più sotto il profilo teorico, quanto piuttosto dal lato etico,
non solo nel senso che il riferimento ad un determinato pubblico o ai suoi rappresentanti porta fuori strada, ma addirittura nel senso che il concetto di fruitore “ideale” è dannoso per ogni dibattito sulla teoria dell’arte, che è tenuto a presupporre semplicemente l’essenza e l’esistenza dell’uomo in generale2.
E oggi il fruitore altro non è che il mercato. La cultura è assoggettata alle sue direttive e si basa sulla soddisfazione del cliente, sull’incremento di bisogni fittizi, sugli spot, sui i cartelloni, sulla spettacolarizzazione di alcuni fenomeni mediatici. L’arte, infatti, è negata non solo quando diventa raziocinio o puro gioco tecnico, è negata anche quando si prostituisce a ogni tipo di potere sia politico sia economico sia ideologico sia mediatico, quando viene utilizzata come mezzo e non come fine.
Il primo passo, pertanto, consiste nel restituirle l’intrinseca dignità e questo si attua nel momento in cui l’artista produce un’opera nella quale, esprimendo la propria originale concezione dell’esistenza, sintetizza la Weltanschauung del momento storico-culturale in cui si trova a vivere. Del resto, l’uomo possiede in sé due caratteristiche contraddittorie: l’universalità e l’individualità, cioè egli appartiene a una medesima specie umana e nello stesso tempo è unico ed irripetibile. E proprio nell’opera d’arte si realizza nel modo più completo e più perfetto il suo modo originale di vivere l’identica natura umana.
Senza dubbio questo paradigma rivaluta la portata conoscitiva dell’arte, che permette di uscire dal circolo vizioso di un’estetica relativista autogiustificatrice e di aprire la strada ad una produzione che “rivela” una situazione o storica o epocale o intellettuale o, soprattutto, esistenziale. Per raggiungere tale scopo, l’estetica deve agganciarsi a un pensiero capace di superare l’agnosia relativista:
Com’è caduto il vecchio pregiudizio che bastasse «versificare» un sistema filosofico per tradurre il pensiero in poesia, così deve cadere l’idea che la filosofia distrugge l’arte se non è risolta in immagine o in azione, ch’è un pregiudizio altrettanto insulso quanto il primo. La filosofia può esser presente come tale in un’opera letteraria, e contribuire con questa sua esplicita presenza al valore artistico di essa. Naturalmente c’è poi una presenza implicita, non meno efficace e profonda, ed è quella per cui nell’opera tutto, anche la menoma inflessione stilistica, è significante, e rivela la spiritualità dell’autore, e quindi anche il suo modo di pensare, la sua Weltanschauung, la sua filosofia3.
Luigi Pareyson, pertanto, non solo indica come esigenza intrinseca dell’arte il supporto di un pensiero capace di rivelare un nuovo modo di concepire il reale, ma anche in grado di attingere alla “verità”. E la verità, quella con la “v” minuscola, non è una definizione, non implica un’affermazione; oggi la verità è un progetto di lavoro, di ricerca, di dialogo. Nessuno può indicare allo scrittore la via per lavorare, perché verità non è affatto sinonimo di cronaca, di descrizione, di relazione, di reportage. L’arte esige che la contemporaneità sia percorsa, sondata, sia presentata, interpretata, rappresentata in tutte le sue dimensioni, nelle sue contraddizioni, nelle sue espressioni.
La verità, ad ogni modo, richiede doti creative, si trova al fondo del crivello del ricercatore che ha setacciato quintali di sabbia e alla fine individua il luccichio della pepita. La parola, la scena, la forma, quando agganciano il mondo, imprigionano lo sconvolgente divenire e la multiformità dell’accadere per mezzo di strumenti che ogni momento della civiltà si forgia e che l’artista stesso contribuisce a forgiare, accogliendo il lavoro precedente e consegnandolo ai posteri.
Ma il nostro non è più tempo di gloria, non è più tempo di memoria. Oggi è il kair’$ del fare, dell’operare, del pro-gettare. Il mondo è cambiato, la letteratura è cambiata. Non basta, però, una mano di bianco sul muro per gridare alla novità. Il romanzo, il teatro, il racconto, la lirica, tutti generi che nell’Ottocento e nel Novecento hanno mutato aspetto, ora sono sottoposti a un’azione devastante: non sono più in grado di ripercorrere il perimetro di fenomeni complessi come la multiculturalità, come la globalizzazione, come la necessità di una governance mondiale capace di imbrigliare i poteri dell’economia e della finanza.
E che si ricominci a parlare di verità lo testimoniano diversi orientamenti contemporanei, tra i quali quello del “realismo interno” americano, il quale intende opporsi sia al tradizionale realismo metafisico, che postula l’esistenza di una realtà esterna conosciuta dalla mente umana, proprio dell’aristotelismo e del Positivismo, sia al relativismo gnoseologicamente scettico. Secondo Hilary Putnam, in accordo con il senso comune.
Quindi la mente umana può giungere a un primo e fondamentale risultato: esiste un mondo con il quale ci correliamo in modo diverso a seconda del contesto storico e della prospettiva scientifica assunta. Anzi, secondo Francesco Tomatis interprete del personalismo cristiano, l’essere umano nel suo rapporto con il mondo si presenta non come modello ontologico, ma come strumento “irrelativo” e ciò permette sia di non ricadere nelle metafisiche classiche o moderne sia di non limitarsi alla frammentarietà postmoderna delle singole posizioni finite. Il rapporto con una realtà è condizione ineludibile per ogni essere umano sotto ogni profilo, genetico, biologico, psichico, linguistico, sociale, economico, esistenziale e, pertanto, anche gnoseologico e, come tale, anche artistico.
Alla luce di tale prospettiva, approfondiamo il problema della portata conoscitiva dell’arte.
Oggi non è più il tempo di creare arte solo con il fine di rappresentare la bellezza e di procurare un piacere estetico, oggi ci si deve proporre il fine di produrre un tipo di conoscenza “olocrematica” (÷loj «che forma un tutto intero» e cr≈ma «cosa che si usa, utensile»), onnistrumentale (non “onnicomprensiva” ossia che deve comprendere tutto) nel senso che adopera la totalità degli strumenti gnoseologici umani. Di conseguenza, è la conoscenza (la scoperta di una nuova apertura sul reale) che produce il piacere estetico, non il piacere estetico che produce la conoscenza. Nulla vieta di considerare l’armonia artistica come strumento di intelligibilità del complesso, del molteplice e del caotico, sempre restando nell’ambito di un’impostazione gnoseologica. Ho parlato di arte “olocrematica” perché nei suoi risultati più convincenti è presente il segno dell’intero essere umano, del suo trovarsi nel presente, del suo essere storia, individuo, cultura e civiltà, della sua attitudine a progettare il futuro e soprattutto della sua necessità di interrogarsi sui quesiti esistenziali, della relazione con se stesso, con gli altri e con il mondo. Questa forma suprema di conoscenza si invera non per mezzo di concetti, ma in un “oggetto” che può essere il marmo, la parola, il colore, il suono, la fotografia, la ripresa cinematografica ecc. La filosofia, come la scienza, servendosi della razionalità, “de-finisce” la realtà, le dà forma, la pone in ordine, la cataloga, la anatomizza, la viviseziona; l’arte, invece, è conoscenza di realtà in-formale, in-definita, non caotica però, molteplice, complessa, multiforme, contraddittoria, in divenire.
L’artista, pertanto, non è un filosofo, che organizza il suo pensiero secondo i princìpi di non contraddizione, di coerenza e di consequenzialità e neppure produce in modo in-effabile quasi fosse ispirato da una divinità, come pensavano gli antichi. Il processo di conoscenza artistica presenta tali e tante interconnessioni che è veramente arduo solo pensare di descrivere precise procedure, perché è il risultato della partecipazione dell’intero essere umano in tutte le sue componenti: fisiche (il poieén), mentali, percettive, emotive, sentimentali, consce, inconsce, progettuali, memoriali, individuali, relazionali e collettive (l’uomo è storia), per cui ogni de-finizione esclude parti consistenti di questo processo.
Ogni conoscenza è arte? L’arte rappresenta una, la più qualificante, modalità di conoscenza e la validità di un’opera sarà proporzionale all’ampiezza e alla profondità della sua portata conoscitiva. L’arte del “novecento”, immersa nella crisi di un pensiero che, scisso il significante dal significato, non poteva comunicare se non la negazione di ogni possibilità gnoseologica, si è prevalentemente concentrata su se stessa a descrivere gli strumenti (parola, segno, colore, forma, suono ecc.) fino alla propria negazione. Ma può essere considerata arte la negazione di se stessa? Può essere considerato cibo la negazione di ogni elemento commestibile?
Alla luce di tale aporia va affrontato anche il problema del rapporto tra stile e contenuto. Lo stile è il dasein, l’“esserci” dell’opera, della cosa, di una scultura, di un libro, di un quadro, di una sinfonia. Non confondiamo, però, il progetto con l’attuazione, perché esiste sempre uno scarto tra intenti e risultati. «Lo scultore pensa in marmo», sostiene Oscar Wilde. E la diversità di risultati non consiste nell’armonia, nella precisione, nella bellezza o nell’ingegno, ma nella resa, nell’effetto, nella potenza di una rappresentazione che nel veicolo stilistico riesce a fissare per mezzo della Weltanschauung individuale quella di un’epoca.
Ma l’arte non è solo conoscenza. Se, come afferma giustamente Dewey, l’arte è sempre più che arte, con Pareyson concludiamo che l’arte è sempre più che conoscenza:
Per la molteplicità degli atti e intenti e scopi dell’uomo, essa è sempre insieme professione di pensiero, atto di fede, aspirazione politica, atto pratico, offerta di utilità sia spirituale che materiale. Nel far arte, l’artista non solo non rinuncia alla propria concezione del mondo, alle proprie convinzioni morali, ai propri intenti utilitari, ma anzi li introduce, implicitamente o esplicitamente, nella propria opera, nella quale essi vengono assunti senza essere negati, e, se l’opera è riuscita, la loro stessa presenza si converte in contributo attivo e intenzionale al suo valore artistico, e la stessa valutazione dell’opera esige che se ne tenga conto. Anzi, l’arte non riesce ad essere tale senza la confluenza di altri valori in essa, senza il loro contributo e il loro sostegno, sì che da essa s’emani una molteplicità di significati spirituali e s’annunzi una varietà di funzioni umane. La realizzazione del valore artistico non è possibile se non attraverso un atto umano, che vi condensa quella pienezza di significati con cui l’opera agisce nel mondo e suscita risonanze nei più diversi campi e nelle più varie attività, e per cui l’interesse destato dall’arte non è soltanto una questione di gusto, ma un appagamento completo delle più diverse esigenze umane4.
Il filosofo, quindi, affida agli artisti non solo di dire “come” è il mondo nel modo più completo, autentico e umano possibile, ma anche di “pro-gettare” il mondo, perché l’arte è arte non malgrado la filosofia, la teologia, la sociologia, la morale, la retorica, la scienza, la linguistica, la tradizione, i generi letterari, la storia, la biologia, la fisica, l’astronomia ecc., ma perché le diverse discipline proprio nella loro “sostanzialità” particolare sono dal genio “trans-formate” in arte. Come la “datità” umana non può essere scomposta nelle sue componenti (fisiche, chimiche, storiche, psichiche, sociali, culturali ecc.), così l’arte fa convergere in sé l’intera vita, l’intera realtà dell’artista, soggetto unico ed irripetibile e contemporaneamente uguale all’intera specie umana.
All’arte, quindi, si spalanca una fondamentale dimensione morale: «Siamo tutti fatti di ciò che ci donano gli altri: in primo luogo i nostri genitori e poi quelli che ci stanno accanto; la letteratura apre all’infinito questa possibilità di interazione con gli altri e ci arricchisce, perciò, infinitamente» (Tzvetan Todorov), che si traduce in questo momento storico in un gigantesco compito, quello di procedere ad un’opera di “re-incanto” dei valori culturali a cominciare dalla restituzione del senso del reale:
L’animo postmoderno sembra condannare ogni cosa e non proporre nulla. La demolizione è l’unica occupazione per la quale l’animo postmoderno sembra adatto. La distruzione è l’unica costruzione che esso riconosce. La demolizione di costrizioni coercitive e di resistenze mentali è per esso il fine ultime e lo scopo dello sforzo d’emancipazione; verità e bontà, afferma Rorty, si prenderanno cura di se stesse non appena ci saremo presa la dovuta cura della libertà5.
Esaurito il kair’$ destruens, il poeta si inserisce nel kair’$ construens:
Mentre [l’animo postmoderno] rifiuta semplicemente ciò che passa per verità, smantellandone le presunte, solidificate versioni passate, presenti e future, esso scopre la verità nella sua forma originaria che le pretese moderne avevano mutilato e distorto al di là della pubblica ammissione. Anche di più: la demolizione scopre la verità della verità, la verità in quanto risedente in se stessa e non negli atti violenti commessi su di essa; la verità che è stata mascherata sotto il dominio della ragione legislativa. La verità, quella reale, è già lì, prima che abbia avuto inizio la sua laboriosa costruzione; essa ripostula proprio nel terreno su cui si sono erette le artificiose invenzioni: apparentemente per mostrarla, in effetti per nasconderla e soffocarla6.
Note
1 Nella categoria “novecento” si intende includere i fenomeni culturali denominati anche “Secondo Decadentismo”, i quali traggono origine dal divorzio tra significante e significato.
2 Walter Benjamin, Charles Baudelaire, Tableaux parisiens, Frankfurt, Suhrkamp 1991, vol. IV-1, p. 9.
3 Luigi Pareyson, I problemi attuali dell’estetica, in Momenti e problemi di Storia dell’Estetica, Milano, Marzorati 1987, vol. IV, pp.1833-1834-1835.
4Ibidem, p. 1832.
5 Zygmunt Bauman, Il re-incantamento del mondo (Re-Enchantement), o come si può raccontare la postmodernità, in Zigmunt Bauman, Globalizzazione e glocalizzazione, Roma, Armando 2005, p. 219.
6Ibidem.
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La poesia è ancora oggi interprete necessaria della vita e dell’attualità perché stimola le coscienze. È come una riparazione, una lotta contro l’evanescenza del tempo, lo sfiatamento della giornata, come dice il poeta Franco Arminio. È il tentativo di cogliere il senso delle cose e delle vicende con parole ritenute giuste e precise per evitare la perdita d’identità. Oggi nel regno del prosaico, nel senso proprio che rimanda al carattere della prosa, la poesia per fortuna è ancora possibile, fa da argine al profluvio di parole che dilaga intorno a noi e ci chiede una concentrazione ed uno sforzo che ci riporti a noi stessi, come dimostra Antonino Causi con la pubblicazione delle poesie Sincronia tra cuore e mente (Il Convivio Editore).
Quaranta poesie equamente distribuite tra le sezioni Cuore e Mente, distinzione che, come dice Lorenzo Spurio nella brillante prefazione “non nasce da una reale idea di cesura, da una volontà di istituire due zone apparentemente distanti e slegate perché è evidente quanto la componente razionale-intellettiva e quella pulsionale-emotiva vengano a unirsi determinando quel climax di sensazioni e di pienezza emotiva…spesso difficile da verbalizzare”.
L’Io lirico di Antonino Causi non si risolve in immagini, ma si dà in frammenti, in frantumi di un intero a cui il poeta, figlio del nostro tempo parcellizzato, anela, sensibile all’amore, al male di vivere, alla violenza.
Ricordi, assenze, attese, ricerca di un’armonia in sé e nel mondo connotano i testi poetici: “Aspetto un giorno / che novella letizia / possa sciogliere questo doloroso / nodo dell’anima (in “Assenza”); “E il mio infinito / sarà una nuova alba / che aspetta ancora / la sua ritrovata melodia (in “Carillon”). Eppure non manca la speranza di una vita più piena: “Gusteremo i nostri giorni / e canteremo inni alla vita / quando le albe e i tramonti / stringeranno nostri cuori (in “Tornerà l’estate”).
Risentita è sempre l’attenzione del poeta a quanto oggi accade nella società, alla violenza come leggiamo in “Verità per Giulio Regeni” e in “A Patrick Zaki, prigioniero di coscienza”, alle tematiche ecologiche in “La montagna deturpata” e in “Se questo è vivere” e alla crisi dei valori nel ricordo di Attilio Manca e Domenico Asaro.
Come Antonino Causi dice nel secondo esergo del volume: “Il poeta è l’artigiano della parola, / costruisce emozioni e sentimenti / da donare agli altri”, la poesia è certamente un dono, ma soprattutto è un fatto sociale, che ha bisogno di lettori e li avvicina fra loro.
GABRIELLA MAGGIO
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La gradevole collaborazione tra la poetessa e direttrice di “Vetrina delle Emozioni” Gioia Lomasti (che in precedenza ha pubblicato, tra gli altri, un volume poetico dedicato a Fabrizio De André) e il noto poeta partenopeo Luciano Somma ha dato alla luce un pregevole volume dal titolo “Note condivise” nei quali i due autori dibattono e approfondiscono temi di attualità e relativi al mondo poetico. La pubblicazione è distribuita da Youcanprint.
L’assidua frequentazione dei due poeti ha portato negli anni a una significativa collaborazione sulle onde della scrittura e ha permesso di raccogliere una serie di articoli e approfondimenti su tematiche di vario genere, d’interesse collettivo e calate nella quotidianità di noi tutti.
Gioia Lomasti è nata a Ravenna, è un’appassionata di letteratura sin da bambina. Negli anni ha conquistato l’attenzione della critica letteraria con la partecipazione a concorsi di poesia ed eventi culturali che l’hanno vista premiata nel podio, oltre a varie recensioni alle sue opere. Molti suoi scritti sono dedicati al cantautorato italiano.
Luciano Somma è nato a Napoli. Ha iniziato a scrivere testi per canzoni e poesie dall’età di tredici anni. Ha all’attivo moltissime pubblicazioni poetiche singole o in antologie, anche a scopo scolastico. Ha scritto e scrive su un numero imprecisato di periodici, centinaia i premi vinti, è risultato vincitore per ben due volte della prestigiosa Medaglia d’argento del presidente della Repubblica e di una Laurea Honoris Causa che gli è stata attribuita nel 1987.
Si selezionano poesie di impronta civile per una antologia tematica dal titolo “Non uccidere. Caino ed Abele dei nostri giorni” che sarà pubblicata da The Writer Edizioni nei primi mesi del 2017.
L’intenzione è quella di proporre, mediante una serie di liriche selezionate dai curatori Izabella Teresa Kostka e Lorenzo Spurio, un percorso concreto all’interno di difficili dinamiche sociali che caratterizzano la nostra contemporaneità dove la violenza, l’indifferenza e l’abuso verso le minoranze sembrano dominare in modo ancor più marcato da come ci viene dato di conoscere mediante la stampa.
Questa antologia parlerà di ciò che di nefasto ed imprevedibile accade nel mondo, di quelle notizie terribili che giungono alle nostre orecchie e che ci fanno star male anche se non vissute direttamente. Il volume darà voce al tormento e alla sfiducia, ma anche all’indignazione e ai moniti di ribellione, farà parlare gli animi di persone che non accettano le ingiustizie che dominano in un mondo gravato dalla corruzione, dal materialismo, dalla facile convenienza. Canti di denuncia, brani di disprezzo e voglia di verità, brani impegnati o semplici riflessioni dettate dal clima di allarmismo e sfiducia nel quale l’uomo purtroppo in questi tempi è piombato.
A seguire le indicazioni tecnico-logistiche per poter prendere parte al progetto antologico:
Tematica:
Si prediligeranno tutti quei componimenti che lasceranno parlare l’uomo stanco di episodi di violenza e discriminazione, casi di violenza domestica, stupri, femminicidi, incesto, pedofilia, abuso psicologico e fisico, bullismo, episodi di xenofobia, omofobia, fanatismo, violazioni dei diritti, tirannie, sistemi corrotti e antidemocratici, nonché si riferiscano a una azione malvagia dell’uomo contro i suoi simili: guerre, scontri civili, lotte di autodeterminazione, segregazioni, discriminazioni razziali, religiose, etc., stragi, terrorismo, minaccia nucleare, insensibilità e disprezzo nei confronti dei propri simili, degli animali e degli ecosistemi.
In base alle varie tematiche i curatori provvederanno ad istituire sezioni interne dedicandole a ciascun argomento/tema trattato.
Non verranno accettate poesie che presentino elementi razzisti o di incitamento all’odio, alla discriminazione e alla violenza, aspetti denigratori, offensivi, blasfemi, pornografici o politici.
Elaborati:
Ciascun poeta può inviare un massimo di tre poesie inedite in lingua italiana. Non verranno prese in considerazione poesie in lingue straniere o in dialetto, seppur accompagnate da relativa traduzione in italiano. Ciascun testo dovrà essere scritto e salvato in formato Word e dovrà avere una lunghezza massima di 30 versi (senza conteggiare gli spazi tra strofe, né il titolo). È gradito, in apertura a mo’ di dedica o in nota a piè di pagina, un accenno diretto al fatto storico/di cronaca al quale ci si riferisce con la lirica o da quale episodio è stata evocata. La nota dovrà essere breve e avere una lunghezza di non più di due righe.
Assieme alle tre poesie è richiesto l’invio della propria nota biobibliografica, in un altro file Word, che dovrà essere scritta in terza persona ed avere una lunghezza non eccedente le 15 righe.
Fotografie:
Si selezionano altresì immagini (fotografie) che richiamino o siano collegate ad una delle tematiche di cui sopra, affinché i curatori provvedano a scegliere tra quelle che perverranno l’immagine di copertina del volume. Ciascun autore può inviare un massimo di tre proposte. Le foto dovranno pervenire alla mail di cui sotto in formato .jpeg. Se di grande dimensioni potranno essere inviate mediante sistema di condivisione We Transfer e ciascuna dovrà avere l’indicazione del suo titolo.
Scadenza:
Gli elaborati dovranno pervenire alla mail proartem@yahoo.com entro e non oltre il 10 dicembre 2016.
Selezione:
I curatori del progetto antologico, Izabella Teresa Kostka e Lorenzo Spurio, leggeranno tutti i materiali pervenuti e provvederanno a selezionare quelli che a loro discrezione e giudizio riterranno più pertinenti e di buona qualità. Entreranno nel volume un massimo di 40 poeti che potranno essere presenti –a seconda della selezione- con un unico testo, due poesie o tutte e tre.
I curatori provvederanno ad informare dell’avvenuta selezione entro il 10 gennaio 2017 mediante comunicato diffuso sui Social ed inviato a mezza mail a tutti i partecipanti.
La selezione operata dai curatori è insindacabile e non verranno fornite motivazioni circa l’esclusione al progetto di determinati testi od autori.
Pubblicazione:
Ogni autore selezionato si impegna, con successivo modulo-liberatoria che verrà poi inviato, all’acquisto minimo di 2 (DUE) copie della antologia al prezzo di 20€ (VENTI EURO) comprensivo di spese di spedizione mediante piego di libro ordinario. Il pagamento dovrà essere fatto verso The Writer Edizioni i cui riferimenti verranno forniti in un secondo momento.
Beneficenza:
Scopo dell’iniziativa è quello di sostenere economicamente con questo progetto una realtà di emarginazione, dando vicinanza e supporto anche materiale nei confronti di un ente che si occupa della difesa delle donne
I curatori del volume, d’accordo con The Writer Edizioni, hanno deciso che i ricavi derivanti dalla iniziativa antologica detratti le spese di stampa e i costi tecnici editoriali verranno destinati totalmente all’Associazione contro la violenza sulle donne “Pronto Donna” di Arezzo (www.prontodonna.it). I curatori provvederanno a dare notizia dell’avvenuto versamento effettuato da The Writer con tale iniziativa antologica mediante i loro canali.
Presentazione:
L’antologia verrà presentata al pubblico in alcuni eventi in varie parti d’Italia durante il 2017 secondo un calendario di date e di eventi che verrà poi indicato per tempo e divulgato affinché i poeti partecipanti alla iniziativa possano intervenire per dar lettura ai propri componimenti.
Norme importanti:
I partecipanti inviando propri componimenti dichiarano automaticamente che le poesie/fotografie sono frutto del proprio unico ingegno e che ne detengono i diritti ad ogni titolo. Dichiarano altresì –per la sezione poesia- che esse sono inedite, dunque non pubblicate in altri volumi cartacei –personali o collettivi- dotati di codici ISBN. Qualora tali indicazioni non saranno rispettate, la responsabilità ricadrà direttamente su di loro.
Informazioni:
Per ciascun tipo di richiesta o di informazione, gli autori possono scrivere alla mail proartem@yahoo.com che verrà letta da entrambi i curatori o scrivere in Facebook nella pagina relativa all’evento, raggiungibile a questo link:
La lettura può provocare dipendenza? Può avere gli stessi effetti che una droga ha sul fisico e sulla mente? A queste domande ha cercato di rispondere Serena Maffia in “Librodroga”, pubblicato da Aras Edizioni.
Librodroga è una passeggiata attraverso gli studi di creatività e sulle scienze cognitive applicate alla letteratura svolti fin’ora in tutto il mondo per riflettere su quanto sia necessario conoscere il nostro cervello per una piena comprensione delle capacità umane e l’importanza della lettura come accrescimento del nostro bagaglio mnemonico esperienziale utile al problem solving.
La lettura, fino ai limiti della dipendenza da mondi fittizi, è il motore della coscienza e dell’intelligenza umana.
“Attraverso gli studi di psicologi e narratologi si arriva ad affermare che la lettura, crea dipendenza e può sviluppare sindromi psichiatriche – ha spiegato Serena Maffia – potremmo addirittura considerare la lettura una vera e propria “usanza” stupefacente: libro come librodroga. È una idea azzardata, che ho cercato di chiarire e di dimostrare, in maniera anche giocosa, seguendo il filo logico di coloro che da tempo si occupano di libri e di lettura a livello cognitivo”.
Serena Maffia è docente di comunicazione efficace, metodologia della progettazione, creatività, storytelling e public speaking allo IED di Roma. Studiosa di Scienze cognitive applicate alla letteratura e alla creatività, consulente di comunicazione e giornalista per la televisione è stata inviata per Rai3, Rai Educational con la trasmissione GAP, su Italia1 con il programma Voglia, addetto stampa in Campidoglio a Roma del Presidente del Consiglio Comunale e di maggioranza, condirettore di “Mosaico” Rio de Janeiro (Brasil), direttore della rivista “Polimnia”, sceneggiatrice e script analyst per la Medusa-RTI Mediaset. Autrice di numerose opere di narrativa, poesia, teatrali e regista, è direttore artistico del CAS Centro Arte e Spettacolo e presidente del Centro Poesia di Roma.
Annalisa Soddu, poetessa e scrittrice di origini sarde, ha voluto lanciare circa un mese fa una iniziativa poetica nel Social più frequentato, Facebook. Creando un semplice evento dal titolo “Poeti per il sociale” la Nostra ha dato un mese di tempo, a partire dal 5 settembre u.s. per inviare un massimo di due testi poetici a testa con una nota personale stringata da pubblicare sulla bacheca dell’evento. Denominatore comune è stato quello di ispirarsi o dedicare i propri versi a episodi che concernono la cronaca sociale, ossia a quegli episodi storico-politici, geopolitici e disagi che l’uomo contemporaneo incontra nel relazionarsi al senso di comunità. I poeti hanno risposto con entusiasmo alla iniziativa, totalmente gratuita e volta alla creazione di una antologia virtuale contenente tutti i testi presentati occupandosi di tematiche quali l’immigrazione e la sciagura per mare di molte persone che arrischiano la propria esistenza col pensiero di attraccare in una terra di speranza, l’infanzia negata, gli abusi, la follia o la patologia che porta a perdere la memoria, scontri con una burocrazia artefatta e asfissiante, casi di suicidio per bullismo, la violenza di genere, l’interesse ecologico e la criminalità organizzata. Sono solo alcune delle tematiche toccate in forma lirica dai tantissimi poeti, appartenenti a varie regioni d’Italia (qualcuno anche residente all’estero) che hanno dato il loro contributo per la posa di questo primo e fondamentale mattone per la costruzione di un qualcosa più solido che faccia breccia nelle coscienze di tutti.
L’opera si apre con una prefazione da me curata e si chiude con la postfazione scritta da Mariuccia Gattu Soddu, madre della curatrice e poetessa sarda.
Nell’antologia sono presenti poesie di Alessandro Grimaldi; Anna Carella; Anna Intorcia; Anna Maria Dall’Olio; Anna Maria Folchini Stabile; Annalisa Soddu; Carla Spinella; Carlo Zanutto; Carmelo Loddo; Carmen De Vito; Carmine Montella; Catello di Somma; Clara Raffaele; Claudio Macchi; Crescenza Caradonna; Cristina Lania; Dora Farina; Emanuele Marcuccio; Emanuele Schemmari; Ernesto Ruggiero; Felice Serino; Francesca Capriglione; Francesca Luzzio; Francesco Fucarino; Francesco Paolo Catanzaro; Gaetano Napolitano ( Sendero Luminoso), Gianna Occhipinti; Giovanni Croce; Giovanni Sollima; Giulio Sacchetti; Giuseppe Tavormina; Giuseppina Carta; Graziella Cappelli; Graziella De Chiara; Gustavo Tempesta; Ileana Zara; Immacolata Cassalia; Irene Molli (C. G.) ; Laura Vivi; Lilla Omobono; Lorenzo Spurio; Lucia Manna; Luisa Casamassima; Manuela Magi; Marco Parisi; Maria Antonietta Doglio; Maria Chiarello; Maria Ronca; Maria Rosa Lancini Costantini; Marzia Carocci; Oscar Sartarelli; Paola (Damiana) Pintus; Paola Alba Maria Mannetta; Paola Surano; Paolo Landrelli; Patrizia Pierandrei; Renato Fedi; Rino Marciano; Rolando Attanasio; Rosa Mannetta; Rosa Maria Chiarello; Rosa Ruggiero; Rosa Surico; Salvatore D’Aprano; Salvatore Famiglietti; Sandra Mirabella; Saverio Chiti; Silvana Galia; Valentina Meloni; Valerio Vescovi; Vincenza Davino; Vincenzo Lagrotteria; Vito Adamo.
Caffè letterario – Centro Congressi Unione Industriale
Via Vincenzo Vela, 17 – TORINO
lunedì 2 marzo 2015 – alle ore 15.00
Domenico Quirico – Il grande califfato
Il giorno in cui, per la prima volta, parlarono a Domenico Quirico del califfato fu un pomeriggio, un pomeriggio di battaglia ad al-Quesser, in Siria. Domenico Quirico era prigioniero degli uomini di Jabhat al-Nusra, al-Qaida in terra siriana. Abu Omar, il capo del drappello jihadista, fu categorico: «Costruiremo, sia grazia a Dio Grande Misericordioso, il califfato di Siria… Ma il nostro compito è solo all’inizio… Alla fine il Grande Califfato rinascerà, da al-Andalus fino all’Asia». Tornato in Italia, Quirico rivelò ciò che anche altri comandanti delle formazioni islamiste gli avevano ribadito: il Grande Califfato non era affatto un velleitario sogno jihadista, ma un preciso progetto strategico cui attenersi e collegare i piani di battaglia. Non vi fu alcuna eco a queste rivelazioni. Molti polemizzarono sgarbatamente: erano sciocchezze di qualche emiro di paese, suvvia il califfato, roba di secoli fa. Nel giro di qualche mese tutto è cambiato, e il Grande Califfato è ora una realtà politica e militare con cui i governi e i popoli di tutto il mondo sono drammaticamente costretti a misurarsi. Questo libro non è un trattato sull’Islam, poiché si tiene opportunamente lontano da dispute ed esegesi religiose. È soltanto un viaggio, un viaggio vero, con città, villaggi, strade e deserti, nei luoghi del Grande Califfato. Parte da Istanbul e si conclude in Nigeria, fa tappa a Groznyj in Cecenia e nelle pianure di Francia, nel Sahel e in Somalia. Parla di uomini, delle loro storie, delle loro azioni e omissioni. Mostra come al-Dawla, lo stato islamista, esista già, poiché milioni di uomini ogni giorno gli rendono obbedienza, applicano e subiscono le sue regole implacabili, pregano nelle moschee secondo riti rigidamente ortodossi, vivono e muoiono invocandone la benedizione o maledicendone la ferocia.
Nondimeno, come Christopher Isherwood approdato nel 1930 a Berlino, con la sua potente narrazione, Domenico Quirico diventa, in queste pagine, «una macchina fotografica» con l’obiettivo così aperto sulla cruda realtà della nostra epoca, che ne svela il cuore di tenebra meglio di mille trattati e saggi.
Domenico Quirico è giornalista de La Stampa, responsabile degli esteri, corrispondente da Parigi e ora inviato. Ha seguito in particolare tutte le vicende africane degli ultimi vent’anni dalla Somalia al Congo, dal Ruanda alla primavera araba. Ha vinto i premi giornalistici Cutuli e Premiolino e, nel 2013, il prestigioso Premio Indro Montanelli. Ha scritto quattro saggi storici per Mondadori (Adua, Squadrone bianco, Generali e Naja) e Primavera araba per Bollati Boringheri. Presso Neri Pozza ha pubblicato Gli Ultimi. La magnifica storia dei vinti e Il paese del male.
«Ho superato, nel momento in cui sono stato catturato, una frontiera fatale, sono entrato, me ne accorgo vivendo con loro, nel cuore di tenebra di una nuova fase storica, di un nuovo groviglio avvelenato dell’uomo e del secolo che nasce: il totalitarismo islamista globale». Domenico Quirico
L’era capitalista sta per essere schiacciata sotto il peso delle sue nefandezze.
Capitalismo nella società del postmoderno sta oggi ad indicare un apparato negativo, un sistema di far fruttare il denaro in maniera disonesta e indiscriminata, senza regole, senza remore morali, odioso libertinaggio speculativo di forme economico-finanziarie che hanno assunto la caratteristica di veri cataclismi nell’ottica brutale di una logica violenta e millantatoria, che si avvale solo d’ingenti somme di denaro da far fruttare al massimo del rendimento consentito. La logica da cui prende le mosse origina da una contaminazione a livello egoistico personale che fa di tutto per “arraffare” ricchezza inquinata, dove il malaffare e la disonestà fanno la parte del leone, nutrendosi di volta in volta di ordinamenti obsoleti, di sotterfugi e millanterie, contravvenendo ogni remora morale. Esorbitante diventa l’individualismo egocentrico e l’accaparramento di guadagni illeciti.
Il termine “capitalista” si trova per la prima volta secondo P: Bernitt nel 1790 pronunciato da Mirabeau, stante ad indicare nella Francia di allora una persona ricca, con un potere enorme ricavato esclusivamente dai redditi delle sue sostanze. Il significato del termine divenne in seguito dominante e fu usato in molti altri casi in cui vi fosse necessità di speculare sul reddito e di farlo fruttare indiscriminatamente, invadendo anche il denaro pubblico e investendolo di ufficialità, ove non vi sia neppure l’ombra delle garanzie, contaminando in tal modo, l’economia che si vede invasa da titoli-spazzatura che vanno ad intaccare l’economia del povero risparmiatore indifeso di fronte a cotanto meccanismo di genialità perversa.
Per “capitalismo”, allora, è inteso un sistema di produzione sussidiaria che scinde il reddito da lavoro, anzi lo esclude: facendo della forza produttiva dell’interesse e dell’investimento la sue armi vincenti, il suo massimo punto di forza. Già il termine stesso: “interesse privato” esprime un luogo intensamente accrescitivo di trasformazione del guadagno che da facile diventa illecito e, in tal modo, trascina con sé tutti gli egoismi ad esso connessi e le negatività, le nefandezze implicite o esplicite di attribuzione del denaro con caratteristiche improprie, quasi sempre di natura deprecatoria e iniqua.
Spesso il termine “capitalismo” è seguito da oscuri presentimenti negativi, quali espressioni derivanti da una frattura che, se sta nell’ordine delle cose come iniqua, ne segna certamente una involuzione di segno etico-morale, in funzione di quella sventurata sete di potere e di arrivismo economico che ogni individuo porta in sé, nella sua parte più malvagia e perversa.
In realtà, nella società del postmoderno il dio-denaro divenuto segno distintivo di malaffare e di mercato illecito, ha prodotto solo scompensi e catastrofiche inversioni di accaparramenti illeciti dell’economia planetaria; ha forgiato una società “malata”, priva di scrupoli, compromessa a tal punto da rappresentare un pericolo per le nazioni, poiché va ad inserirsi in un sistema di scambi direzionali difettivi dell’ordinamento etico del mondo.
Il “capitalismo” moderno accoglie in sé il fondamento più deprecabile dell’individuo, in quanto l’istinto perversivo di accaparramento dei beni materiali è divenuto nel tempo sempre più invasivo ed esponenziale dominandone il senso speculativo con mezzi illeciti. I danni che ne derivano sono nell’ordine morale, ma anche di “potere” sugli altri.
La degenerazione del prodotto speculativo inquina e corrode la mente, paralizza le capacità economico-finanziarie di un popolo o nazione, riduce le norme vigenti in mere e improponibili devianze, entro cui il genere umano viene stritolato da un complicatissimo meccanismo che lo ammorba e corrode, in un deterioramento e pervertimento della logica e della coscienza.
La poesia più bellaè il ricordo.(in “Un ricordo”, BDA, p. 26)La tua vitaè una catenaci tiene insieme la catena della memoria,lei non sarà mai sepoltamai si dissolverà.Tutto è memoria.(in “La memoria”, CELS, p. 30)
Solitamente riservo una recensione o commento a ogni libro singolo, ma questa volta mi sento di fare un’eccezione per varie ragioni, la prima delle quali è che ho letto i due libri di Giuseppina Vinci parallelamente e da essi ne ho tratto un significato e insegnamento molto importante e per lo più condivisibile. Giuseppina Vinci, è una docente di materie classiche al Liceo Classico Gorgia di Lentini, in provincia di Siracusa, e negli ultimi anni si è dedicata con attenzione e capacità alla scrittura. I generi che ha trattato sono molto diversi tra loro: si va dalla poesia al racconto, dal saggio letterario su opere/poesie della letteratura italiana e inglese, all’articolo di giornale. Il suo primo libro, Battito d’ali (Aletti Editore, 2010) è una silloge di poesie ed è la prima di queste a dare il titolo alla raccolta, in essa si legge:
La natura ci ha donato le capacità
del sentire e del discernere,appunto ali per viaggiarenei sentimenti,nei pensieri.in “Battito d’ali”, p. 17.
In questa prima silloge, Giuseppina Vinci utilizza i versi e le azioni della natura (il battito d’ali, il fragore di un’onda, la forza del mare) per esprimere i concetti universali di carattere ontologico che da sempre interessano e disturbano l’essere: qual è il senso del vivere? Dove andremo a finire? Esiste la vita eterna?, questioni che in parte la poetessa riassume in maniera laconica in questi versi: “Niente rimane nel nulla/ ma tutto è legato all’eternità” (in “Tempo dell’attesa”, p. 25).
Il secondo libro, Chiara è la sera (Angelo Parisi Editore, 2012) si compone di racconti, poesie e articoli di giornale. La parte delle poesie si apre con un omaggio a un grande della letteratura inglese, Thomas Hardy, che la poetessa ricorda e celebra durante la visita della sua tomba: “Solo accanto a te ho pregato” (p. 21) e ad Hardy è indirettamente dedicata anche la poesia “Tess” dedicata all’omonima eroina del suo celebre romanzo: “Tess, creatura amata/ […] tutti siamo te!” (p. 39). Nella silloge di poesie precedente, invece, era contenuto un impareggiabile lode a Keats, uno dei più grandi poeti in assoluto della letteratura: “La tua arte per sempre/ nei nostri cuori vivrà” (p. 29), conclude Pina Vinci.
Molte le poesie dall’intento chiaramente sociale e civile come “Combatti” nella quale la poetessa intima il giovane e l’uomo d’oggi a combattere, a manifestare le sue idee, a non lasciarsi mettere i piedi in testa e non farsi abbindolare dai potenti che ricercano sempre più potere; lo sguardo è a tratti amaro (“la sciocca strada della vita”, p. 24), a tratti catastrofico (“il male trionfa”, p. 24) e in parte sottende a una filosofia esistenzialistica cupa ed estrema: “L’unica cosa certa è l’infelicità” (p. 17) con echi di Schopenahuer e Leopardi (si noti che al poeta romantico marchigiano è dedicata una poesia commemorativa intitolata “Recanati” nella quale si legge: “Recanati oggi/ devo renderti onore/ devo inchinarmi ai Suoi versi/ all’immortalità della Poesia/ alla Speranza della Poesia” (p. 37).
Chiari i riferimenti alla religione nei simboli dell’acqua, della tomba (“La tomba racchiude il tutto e il nulla”, p. 43), della cenere, del tempo che passa, nel Natale, e nel fascino della creazione di cui la poetessa parla in “Land’s end” (p. 34).
La poetessa celebra anche la sua terra d’origine, Lentini, celebre per i grandi natali di Gorgia e Jacopo e l’esorta a riaversi dal torpore nel quale è caduta e a risorgere: “Ritorna ai tuoi antichi splendori” (p. 22) è la chiusa di questa poesia.
I racconti sono accomunati dalla loro brevità e al contempo dalla ricchezza dei sentimenti in essi contenuti: si parla di predestinazione e di religione, ma anche di senso del dovere, dell’importanza della famiglia e del rispetto e del dolce ricordo della figura materna, che nel racconto “Una donna”, viene descritta con un parallelismo con la poetessa Emily Dickinson: “Una viva nel ricordo dei suoi cari. Dimenticata dai tanti che l’hanno conosciuta. L’altra famosa nel mondo per la Sua poesia. Ho amato entrambe” (p. 19).
La parte conclusiva, quella sotto forma di articoli di giornale, contiene riflessioni, commenti apparsi su vari quotidiani locali e nazionali dove l’autrice esplica quelle che a suo dire sono le problematiche dell’oggi, cercando di indagare le ragioni dello stato letargico e indisposto della politica italiana e il perché di tanta violenza e sopraffazione. Mi sento di dire che gli articoli qui proposti, per tema, possono essere suddivisi in almeno quattro categorie:
– gli articoli d’attualità, che prendono spunto da un fatto accaduto e al quale l’autrice ha partecipato più o meno attivamente (un incontro di poesia nel Liceo Classico, una visita a New York del dopo 11 settembre)
– gli articoli sull’incertezza politica e il caos sociale (con riferimenti più o meno diretti e criticità nei confronti di certe classi di governo)
– articoli ermeneutici che partono da un’analisi-confidenza con l’insegnamento cristiano e i testi biblici, il cui studio l’autrice invoca venga fatto con più dedizione nelle scuole
– articoli su alcuni drammi sociali: la guerra, il razzismo, l’inferiorità della donna, etc.
Di politica si parla molto in questi articoli datati 2008: si parla della fine del governo Prodi, del clima d’incertezza, del momento delle elezioni, della classe dei potenti che “conclud[ono] patti di acciaio o di argilla con altri potenti” (p. 45) facendo finta di non sapere che “sarà sottoposto a un giudizio supremo” (p. 45). C’è insoddisfazione nei confronti dell’oggi visitato con criticità e delusione: i giovani nominano Aldo Moro come se si trattasse di un personaggio di secoli molto distanti da noi e questo genera nell’autrice rammarico e in un altro articolo lo stallo ideologico e la mancanza di una visione oggettiva e concreta all’interno delle fazioni politiche porta a chiedersi alla donna: “E se tornassero Almirante e Berlinguer? Intanto saremmo tutti più giovani. Quelli erano politici puri nelle loro convinzioni” (p. 64).
Ma i personaggi del nostro oggi che il lettore incontrerà saranno molteplici: da Martin Luther King, martire della battaglia d’uguaglianza razziale, a Obama che incarna un po’ la vittoria della classe nera che in America è sempre stata un po’ considerata sopraffatta e minorizzata; si incontreranno i pontefici: da Montini a Giovanni XIII, il Papa Buono, sino a Giovanni Paolo II e a Papa Ratzinger ricordato nel suo messaggio d’inizio Pontificato e in quello tenuto all’università di Ratisbona che tanto creò disagio e scompiglio. Personaggi che, uniti ad Aldo Moro di cui si parlava, rappresentano la cristianità e l’importanza della religione nel tessuto sociale italiano e occidentale in genere. “Riflettevo giorni fa su quanto sia diverso il mondo occidentale da quello orientale” (p. 72) scrive Giuseppina Vinci aprendo poi alla necessità al “rialzamento” della politica italiana.
E la poetessa descrive a tinte forti quelli che sono i mali del secolo, i sistemi corruttivi e denigratori che rendono il Belpaese una nazione felice sì, ma decenni orsono (l’Italia è qui utilizzata come grancassa dell’Occidente tutto): la subordinazione e la violenza nei confronti della donna, il maschilismo, il fondamentalismo religioso e il terrorismo che è presente nel sostrato di vari articoli tra cui “America spezzata e umiliata!” in cui la Vinci scrive “Ho sentito l’America spezzata. La padrona del mondo umiliata” (p. 49) a seguito del grande attentato nel 2001; ma in questo libro si parlerà anche della cattiva legge elettorale italiana, della necessità della revisione del sistema giudiziario e di quello scolastico, di quote rosa ed ogni idea, di ogni singola persona, dovrà essere tenuta da conto perché “Le idee ci distinguono, altrettanto le opinioni; ma se le idee e le opinioni non si espongono, che vale possederle?” (p. 68).
Il messaggio è chiaramente gravato da insoddisfazione nei confronti di decenni di malgoverno e falsa democrazia e mancata meritocrazia che conduce la poetessa a servirsi di parole potenti che vennero utilizzate da J.F. Kennedy: “Non chiedetevi cosa lo Stato può fare per voi, ma cosa voi potete fare per lo Stato” (cit. p. 51). Tutti, dunque, siamo utili e dobbiamo esserlo. Basta che ce ne rendiamo conto e che ci impegniamo collaborativamente e attivamente per un progetto condiviso (tanto in politica, quanto nelle altre sfere) affinché la paura, “che testimonia la piccolezza dell’essere umano” (p. 62) venga messa fuori gioco.
E per sempre.
I due libri di cui ho parlato sono:
Battito d’alidi Giuseppina VinciAletti Editore, Roma, 2010ISBN: 978-88-6498-168-0Numero di pagine: 42Costo: 12 €Chiara è la seradi Giuseppina VinciAngelo Parisi Editore, Lentini (SR), 2012ISBN: 9788896137284Numero di pagine: 76
CHI E’ L’AUTRICE?
GIUSEPPINA VINCI è nata a Lentini (Siracusa), la città di Gorgia e Jacopone. Insegna al Liceo Classico Gorgia di Lentini da circa diciotto anni, dopo aver insegnato presso altre scuole pubbliche della stessa città: anni che hanno significato momenti di formazione, crescita e indimenticabili amicizie. Attenta alle problematiche sociali, ha pubblicato articoli su quotidiani nazionali e locali. I suoi due libri sono la raccolta di poesie “Battito d’ali” (Aletti, 2010) e “Chiara è la sera” (Angelo Parisi Editore, 2012).
Il premier spagnolo José Luis Rodriguez Zapatero ha annunciato negli ultimi giorni che non si ricandiderà come probabile futuro primo ministro nelle elezioni del prossimo anno. In molti paventano la fine dell’era socialista per la Spagna che tanto ha favorito l’economia spagnola sebbene l’abbia spesso tagliata un può fuori dalle grandi decisioni dei grandi della terra. Un probabile ritorno del Partido Popular? Magari, per alcuni, secondo i quali Zapatero non è che abbia governato bene e ha messo in secondo piano elementi importanti ai cattolici-conservatori quali la chiesa e la famiglia. L’ultimo ministro del PP fu José Maria Aznar ampiamente contestato a seguito dell’impegno militare della Spagna in Iraq e che, proprio pochi giorni prima delle elezioni nel 2004, venne “destituito” dal popolo in seguito ai tragici attentati dell’11 marzo 2004. Gli attentati infatti altro non erano che la risposta sanguinosa e vendicativa di frange fondamentaliste islamiche presenti sul suolo spagnolo per invocare la jihad a seguito dell’occupazione dei crociati dell’Iraq.
Così proprio in quelle elezioni venne eletto José Luis Rodriguez Zapatero e la Spagna da cattolicissima, conservatrice (pur sempre moderata) e tradizionalista virò improvvisamente all’altra sponda: si tinse di rosso (dei socialisti e degli obreros en huelga), propose una politica più in linea alle esigenze del popolo ma allo stesso tempo si mise in duello aperto con la Chiesa, primo tra tutti con i matrimoni omosessuali e poi con il permesso dell’adozione di bambini a coppie di fatto. Tutto questo sarebbe stato impensabile almeno dieci anni prima se si pensa anche che la Spagna è sempre stata assieme a Italia e Francia (quest’ultima in parte minore) strenua difensore della cristianità. Ma questi sono altri tempi e le cose devono cambiare (mentre negli altri paesi, Italia in testa, tutto rimane maledettamente statico). E’ semplice rendersi conto che in paesi a noi vicini geograficamente e culturalmente sia cambiato qualcosa quando allo stesso tempo nel nostro paese si perdura un fissismo senza precedenti.
Alle elezioni del 2004 il PSOE di Zapatero ottenne il 42,59% dei voti aggiudicandosi la vittoria, mentre il PP guidato da Aznar il 37,71% dei voti. Significativo lo scarto della vittoria dei socialisti dunque, alla quale bisogna ascrivere anche la forte impronta dell’attentato terroristico a Madrid che richiamava in causa direttamente la politica militarista di Aznar.
Nelle elezioni successive solitamente è facile che venga rieletto il precedente primo ministro, a meno che non si sia stato coinvolto in affari illeciti, crisi o cattiva conduzione del suo ruolo. Questa regola venne rispettata e Zapatero nel 2008 vinse con il 43,6% dei voti mentre il PP, che proponeva come leader Mariano Rajoy, ottenne il 40,1% dei voti. In questo caso poco è stato il margine di scarto tra i due partiti, segno evidente che la Spagna è divisa completamente in due tra i due partiti (similmente a quanto avviene di solito nelle elezioni italiane sebbene nel caso italiano ci siano coalizioni di partiti che gravitano attorno a due grandi partiti).
Le prossime elezioni sono fissate per il 2012 cioè tra un anno e si sa quanto il tempo sia fondamentale per poter condurre una buona campagna elettorale. Il PP certamente proporrà come suo candidato il leader del PP, Mariano Rajoy che per la seconda volta tenta di essere eletto, dopo la sconfitta del 2008.
Chi proporrà invece il PSOE dato che Zapatero dice di non volersi ricandidare? Circolano vari nomi ma ovviamente alcuni sembrano essere i più favoriti. In un breve ma significativo excursus che la giornalista Elisabetta Rosaspina ha fatto in un articolo apparso ieri sul Corriere della Sera figurano questi probabili esponenti: Alfredo Perez Rubalcaba (attuale ministro degli interni e dall’ottobre scorso vice presidente del governo), Carmen Chacón (la prima donna ministro della difesa), il basco Patxi Lopez (che nel 2009 è diventato il primo presidente della comunidad autonoma dei Paesi Bachi dopo la supremazia del PNV, partito nazionalista basco), José Bono (presidente del Congresso dei deputati), José Blanco Lopez (attuale ministro delle infrastrutture e vice segretario organizzativo del PSOE) e Tomas Gomez (ex sindaco di Parla, una città vicino Madrid e segretario del PSOE di Madrid). – Nella foto a destra: Alfredo Perez Rubalcaba e Carmen Chacón.
I possibili eredi sono dunque cinque anche se due sembrano essere i più papabili ossia Alfredo Perez Rubalcaba e Carmen Chacón. Già oggi El País apriva in testata con “Rubalcaba es el cartel electoral preferido tras la renuncia de Zapatero”. Anche un’inchiesta condotta da El País sul grado di preferenza dei vari ministri spagnoli attesterebbe una netta prevalenza per Rubalcaba. Sempre oggi il sito di El País ha pubblicato una statistica molto interessante:
Rubalcaba dunque di fatto è già, potenzialmente, il nuovo presidente de gobierno? Staremo a vedere chi la spunterà.
Oggi lunedì 7 marzo 2011 in Spagna è entrato operativo il nuovo limite di velocità in autostrada, prima fissato a 120 km/h. Una mozione del governo è riuscita ad ottenere l’abbassamento della velocità massima in strade ad alto scorrimento di 10 km/h. L’attuale velocità massima consentita è pari ai 110 km/h, ben al di sotto dei corrispettivi limiti di velocità dei gli paesi europei:
Austria: 130 km/h
Francia: 110-130 km/h
Germania: Non esistono limiti ma la velocità massima consigliata è 130 km/h
Grecia: 120 km/h
Italia: 130 km/h
Olanda: 120 km/h
Portogallo: 120 km/h
Spagna: 110 km/h
Svizzera: 120 km/h
Regno Unito: 112 km/h
La decisione della rivisitazione del limite massimo è stata adottata per far fronte all’eccessivo consumo di benzina e all’aumento dell’inquinamento ma è chiaramente un segno a favore anche della probabile ed opinabile riduzione di incidenti e di morti.
I segnali stradali non sono stati sostituiti ma sono state applicati degli adesivi con il nuovo limite di velocità sulle autostrade.
Secondo molti spagnoli la nuova misura restrittiva non ha gran senso e addirittura alcuni membri del Partido Popular l’hanno definita un disparate ossia una sciocchezza.
Chi sforerà il limite anche di un solo km/h e fino a un massimo di 141 km/h sarà tenuto a corrispondere il pagamento di una multa pari a 100 Euro mentre chi sforerà addirittura i 141 km/h sarà obbligato a pagare una multa di 300 Euro. Con il superamento dei 151 km/h al guidatore verranno inoltre tolti due punti dalla patente. L’introduzione del nuovo limite dunque, se da una parte, ha come obiettivo quello di ridurre il consumo di benzina e di energia, dall’altro sembra destinato ad incrementare le casse della Guardia Civil e degli enti predisposti al controllo del rispetto dei limiti. Un caso monetario insomma, che non manca di sollevare dubbi, critiche e polemiche. Secondo le stime questa misura farà risparmiare alla Spagna 1.400 milioni di euro all’anno. Si vedrà.