“Il ‘libbro’ di Gianni Rodari”: l’antologia per rileggere lo scrittore lombardo

STILE EUTERPE VOL.4
“IL ‘LIBBRO’ DI GIANNI RODARI”
Raccolta tematica organizzata dall’Ass. Culturale Euterpe

!!!! Speciale partecipazione ai minori con favole, fiabe, novelle, piccoli racconti, ninne nanne, scioglilingua, filastrocche, storie raccontate”

Un «libbro» con due b sarà
Soltanto un libro più pesante degli altri,
o un libro sbagliato,
o un libro specialissimo? 

Il redattore della rivista di letteratura online “Euterpe” Martino Ciano ha ideato il progetto Stile Euterpe – Antologia tematica per una nuova cultura, volto a rileggere, riscoprire e approfondire mediante opere di produzione propria (racconti, poesie, articoli, saggi e critiche letterarie) un intellettuale di prim’ordine del panorama culturale italiano del Secolo scorso.

I volumi già editi sono:
– AA.VV., Leonardo Sciascia, cronista di scomode realtà, a cura di Martino CianoPoetiKanten Edizioni, Sesto Fiorentino, 2015, 124 pp., ISBN: 9788894038859.
– AA.VV., Aldo Palazzeschi, il crepuscolare, l’avanguardista, l’ironico, a cura di Martino CianoLorenzo SpurioLuigi Pio CarminaPoetiKanten Edizioni, Sesto Fiorentino, 2016, pp. 212, ISBN: 9788899325275.
La selezione di materiali per il terzo volume, Elsa Morante, rivoluzionaria narratrice del non tempo, a cura di Valentina Meloni nel 2017 non ha permesso la pubblicazione di un volume ma i materiali sono stati pubblicati nel n°22 della rivista (Febbraio 2017).

Il progetto:

Ogni anno i redattori della rivista sceglieranno un autore contemporaneo. 
I partecipanti potranno inviare saggi, racconti e poesie che siano fedeli allo stile, alle tematiche e al curriculum letterario che ha caratterizzato la figura intellettuale di Gianni Rodari. Il volume porterà il titolo di “Il «libbro» di Gianni Rodari” con riferimento ad alcune sue considerazioni apparse ne Grammatica della fantasia (1937) in cui si legge: Un “libbro” con due b sarà/ Soltanto un libro più pesante degli altri,/ o un libro sbagliato,/ o un libro specialissimo? 
Per la partecipazione all’iniziativa editoriale bisognerà riferirsi all’opera dell’autore, alle sue fasi e percorso letterario, ai suoi luoghi cari e alle tematiche di fondo della sua carriera di scrittore di fiabe, racconti, narrazioni nonché di pedagogista, giornalista e teorico del mondo del mirabolante. Gli autori potranno anche ispirarsi direttamente ai personaggi delle sue narrazioni, ampliandone i caratteri o provvedere a sequel o prequel di narrazioni già note mediante la narrazione di Rodari all’ampio pubblico.
L’obiettivo non è quello di plagiare o scovare il nuovo Gianni Rodari, bensì omaggiare o rileggere lo stile dello scrittore di Omegna, attraverso un’antologia tematica, aperta soprattutto a coloro i quali hanno apprezzato il serio impegno dell’autore nei riguardi del mondo dell’infanzia (ma non solo). In questo modo Euterpe vuole dare risalto ad autori che, benché siano piuttosto noti da poter definire ‘classici’ risultano spesso un po’ sommersi o letti in chiave meramente ludica e semplicistica com’è il caso di Rodari.

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Gianni Rodari

Selezione del materiale e composizione dell’antologia:

I partecipanti potranno presentare:
– 2 poesie/ filastrocche/ ninna-nanne (massimo 30 versi l’una) 
– 1 racconto/ favola/ fiaba (massimo cinquemila caratteri spazi esclusi) 
– 1 saggio breve o articolo (massimo cinquemila caratteri: spazi, note a piè di pagina e bibliografia escluse);
– 1 recensione a un suo libro (massimo cinquemila caratteri spazi esclusi)
-1 intervista (allo stesso autore o a terzi nella quale risulti ben centrato il tema dell’infanzia o il riferimento a Rodari)

La novità di quest’anno è rappresentata dalla possibilità di partecipazione anche da parte di minori: bambini, ragazzi e adolescenti (sino all’età di 18 anni) e scuole che potranno inviare, grazie all’aiuto e alla disponibilità dei genitori, tutori, insegnanti o di chi ne fa le veci, le loro produzioni: favole, fiabe, novelle, piccoli racconti, ninne nanne, scioglilingua, filastrocche, storie raccontate.

Ci si può candidare a un massimo di due sezioni. 
I lavori, corredati dei propri dati personali e un curriculum letterario, dovranno essere inviati a rivistaeuterpe@gmail.com entro il 31-12-2018.
L’organizzazione del futuro volume sarà promossa dalla Redazione della Rivista di letteratura Euterpe e l’opera verrà curata dal critico letterario prof. Francesco Martillotto.
Entreranno a far parte dell’Antologia un congruo numero di testi poetici, narrativi e saggistici nonché recensioni, articoli e critiche letterarie alle sue opere o eventuali adattamenti cinematografici di storie narrate. 
La pubblicazione dell’antologia, che avverrà entro la primavera del 2019, sarà dotata di regolare codice ISBN, immessa nel mercato librario online e disponibile alla consultazione e al prestito in alcune biblioteche del catalogo OPAC della penisola dove verrà depositata. 
La partecipazione alla selezione dei materiali è, come sempre, gratuita. 
L’autore selezionato per la pubblicazione s’impegnerà ad acquistare nr. 2 (DUE) copie dell’antologia al prezzo totale di 20€ (spese di spedizione incluse con piego di libri ordinario) dietro sottoscrizione di un modulo di liberatoria rilasciato alla Ass. Culturale Euterpe e versamento della cifra direttamente alla casa editrice. 

Premiazione:

Non vi sarà una premiazione, non essendo il progetto volto alla costruzione di una classifica di premiati. Tutti i selezionati verranno pubblicati in antologia secondo i criteri sopra esposti. In base ai tempi di selezione e pubblicazione dell’antologia, sarà scelta una location dove verrà presentata l’opera alla quale gli autori presenti nel testo sono caldamente invitati a intervenire. Gli autori hanno altresì diritto e facoltà di proporre all’organizzazione eventuali luoghi e date, in vari ambiti del territorio nazionale, dove il volume – con il loro appoggio e aiuto – potrà essere presentato al pubblico.

Info:
http://www.associazioneeuterpe.com

ass.culturale.euterpe@gmail.com

rivistaeuterpe@gmail.com

“Da Viznar a Prypiat” di Lucia Bonanni, con un commento di Lorenzo Spurio

Da Viznar a Prypiat” di Lucia Bonanni[1]

 

i bambini di Viznar

mangiano croste di pane

nero e sotto il lucore della luna

nuova al bivio di Alfacar

per la strada serpentina corrono

in cerca di poetiche presenze

 

i bambini di Prypiat

mangiano fette di pane

bianco, unto di scorie radioattive

 

tra fumi accecanti e case deserte

sotto i raggi di una luna in lutto

con la voce rotta dalle vampe

graffiano versi di preghiera

e le ustioni nelle ossa corrono

a cercare unguenti

nella foresta rossa dove si aggira l’orso

 

i bambini andalusi 

hanno negli occhi i sogni

delle mele rosse

e tra muri a secco e pallide infiorescenze

giocano con bambole di pezza

e spade di cartone

e già vedono nella città fantasma

i compagni ucraini che raccattano

numeri atomici e pezzi di reattori

 

dalle vie di Viznar alla città di Prypiat

la solitudine é tragedia immane

e la primavera ugualmente perde

le gemme tra aranci denudati

e il livore tossico di paludi oscene

 

 

Commento di Lorenzo Spurio

Una lirica costruita magistralmente su due piani temporali e spaziali diversi che hanno in comune il dramma dell’infanzia: bambini soli e denutriti, impauriti e minacciati da un morbo dal quale non ci si può sottrarre. La poetessa abruzzese Lucia Bonanni, che ha alle spalle un’intensa attività di insegnamento, pone al centro della sua attenzione e ricerca proprio la tragedia umana della miseria, della denutrizione e della malattia in ambienti dove si sottolinea la dolorosa assenza di una giovane voce stroncata troppo presto (Federico Garcia Lorca) o contrassegnati da un flagello smisurato che è figlio della deriva dell’uomo contemporaneo. La luna passa da un fulgore conoscitivo nel quale è insito il mistero della vita e l’affabulante ricerca del senso esistenziale (il “lucore della luna”) a una morte decisiva e virulenta, spasmodica e incontrollata (la “luna in lutto”) in parte già presente nella parte incipitaria se consideriamo che, nelle valenze allegoriche dell’Andaluso, la morte spesso s’annida nell’immagine sconsolata e preziosa della luna. La poetessa è capace di trasvolare età differenti, a distanza di circa un secolo, e di spalmare la sua sentita tribolazione dinanzi al tormento di un’infanzia derelitta, marginalizzata e contaminata, di proiettarsi in ambienti che appartengono a ecosistemi, geografie, nazionalità e latitudini diverse. Grida di dolore, dall’Andalusia accecata dal sole alla boscosa foresta – ora rossa – in Ucraina, che hanno una vibrazione che si palpa e un’eco inconfessata che screzia l’unico cielo.

Questa poesia è risultata vincitrice assoluta della V edizione del Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi” (2016), prima premiata su un totale di 986 testi giunti da ogni parte d’Italia. La motivazione del conferimento, prodotta dal poeta palermitano Emanuele Marcuccio, e letta nel giorno della cerimonia premiativa, così recita: “In cinque rapide e taglienti strofe la poetessa istituisce diacronicamente un raffronto spazio-temporale tra due ambiti socio-culturali lontani e diversi ribadendo i diritti dell’infanzia che sono uguali per tutte le latitudini. Presenta così, agli occhi del lettore “incantato” una invitation au voyage nella terra andalusa dei bambini di Viznar, all’indomani dell’assassinio del poeta Federico García Lorca, per poi catapultarlo, ai giorni nostri, nella terra ucraina dei bambini di Prypiat. L’intera lirica evoca in maniera inequivocabile un grido al mondo contro ogni regime totalitario.[2]

Poesia che rivendica il diritto all’infanzia felice e che condanna l’inciviltà e la mancata premura dell’uomo nel proteggere sé e le generazioni che seguiranno da quell’inquinamento putrido che esacerba le già profonde “ustioni nelle ossa”.

 

L’autrice

foto-lucia-bonanniLucia Bonanni è nata ad Avezzano (AQ) nel 1951. Dopo aver conseguito il diploma di Maturità Magistrale, si è dedica all’insegnamento e successivamente si è trasferita in un paese del Mugello, in provincia di Firenze, dove tutt’ora risiede. È autrice di poesia, narrativa, critica letteraria, e saggistica con all’attivo numerose pubblicazioni di articoli, racconti, saggi e raccolte di poesie oltre a recensioni e prefazioni per testi poetici e narrativi di autori contemporanei. In volume ha pubblicato le sillogi Cerco l’infinito e Il messaggio di un sogno, oltre a un cospicuo numero di testi poetici in antologie, raccolte tematiche e riviste di cultura e letteratura online e cartacee. Dal 2018 è redattrice per la rivista di letteratura online “Euterpe” nella sezione di saggistica “Ermeneusi”. Ha svolto e svolge il ruolo di giurata in commissioni di concorsi letterari nazionali. Quale partecipante è risultata più volte finalista, menzionata e vincitrice in premi letterari nazionali e internazionali, tra di questi il 1° premio alla VI edizione del Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi” di Jesi con un saggio dedicato ai Canti orfici e altri scritti di Dino Campana. Ha seguito corsi di fotografia e si dedica anche al linguaggio fotografico quale complemento dell’arte letteraria. 

 

NOTE

[1] In un tempo diacronico i bambini di differenti aree geografiche e diversa realtà socio-culturale narrano la vicenda umana e poetica di Federico Garcia Lorca, assassinato nei pressi di Viznar il 19 agosto del 1936, e il disastro nucleare di Chernobyl, avvenuto il 26 aprile del 1986 e che portò alla distruzione della vicina città di Prypiat; nella sincronia dei piani evocativi i bambini andalusi e quelli ucraini levano la loro voce a difesa dei diritti dell’infanzia. [N.d.A.]   

[2] La poesia, unitamente alla motivazione del conferimento del premio, è stata pubblicata nell’opera antologica del premio. Il volume può essere consultato e preso in prestito nelle biblioteche dove è stato depositato, di seguito indicate: https://tinyurl.com/y6vcjtnv   

“I Bambini Ciliegio e altre storie” di Giorgia Spurio

Esce il nuovo libro della scrittrice ascolana Giorgia Spurio

copertina ufficiale - i bambini ciliegio e altre storie.jpgSi tratta del libro di fiabe “I Bambini Ciliegio e altre storie” (Macabor Editore, 2018).
“I Bambini Ciliegio e altre storie” raccoglie cinque storie con protagonisti i bambini.
Funghi, rose, bimbi hanno qui una loro vita fiabesca e rendono ancora più magica la bellezza di una natura straordinariamente viva. E poi c’è tanto altro ancora da scoprire.
È un libro ideale per piccoli e grandi, da leggere insieme per riflettere sull’infanzia, la magia, la natura, l’ecologia, il bullismo, i sogni, la famiglia, l’amicizia, le diversità.
L’età di lettura è dai 7 anni.
Le storie sono così distinte: una storia dal Bosco, una storia di Fate, una storia dal Passato, una storia di Oggi, una storia di un Dolore e di una Rinascita.
Ad arricchire il libro ci sono i disegni dell’illustratrice ascolana Federica Orsetti.

Scheda libro “I Bambini Ciliegio e altre storie”:
http://www.macaboreditore.it/home/index.php/hikashop-menu-for-products-listing/product/39-i-bambini-ciliegio-e-altre-storie

L’autrice

Giorgia Spurio è nata il 21 dicembre 1986 ad Ascoli Piceno, laureata in Lettere presso l’Università “Carlo Bo” di Urbino. È musicista. Lavora nel sociale come educatrice. Insegna musica nelle scuole primarie e d’infanzia. È vicepresidente della Cooperativa Sociale Il Melograno. Collabora con le ACLI, ideando e lavorando per progetti di educazione civica destinati ai ragazzi delle scuole. Ha pubblicato libri di poesia vincendo a prestigiosi premi letterari, tra cui “Quando l’Est mi rubò gli occhi”, “Dove bussa il mare” e “Le ninne nanne degli Šar”. Nel 2017 pubblica il romanzo “L’inverno in giardino” (Edizioni Montag) e il libro di poesie “L’orecchio delle dèe” (Macabor Editore). Vince il Premio InediTO – Colline di Torino per la narrativa ed è premiata al Salone del Libro di Torino. Nel 2018 esce il libro di fiabe “I Bambini Ciliegio e altre storie” (Macabor Editore).

FB: https://www.facebook.com/GiorgiaSpurioScrittrice/

Twitter: https://twitter.com/SpurioGiorgia

Sabato 24 febbraio il primo incontro del ciclo di eventi letterari “Cattivi dentro”, attorno al saggio di L. Spurio vincitore del Premio Casentino 2017

Sabato 24 febbraio alle ore 17:30 presso la Biblioteca La Fornace di Moie di Maiolati Spontini (AN) con il Patrocinio del Comune di Jesi e della Provincia di Ancona si terrà il primo appuntamento del ciclo di eventi letterari attorno al recente saggio Cattivi dentro. Dominazione, violenza e deviazione in alcune opere della letteratura straniera […]

via “Bambini cattivi: disadattamento e incomprensione” sabato 24 febbraio il primo incontro tematico su “Cattivi dentro” di Lorenzo Spurio — Associazione Culturale Euterpe

II Concorso Internazionale di Poesia “Sentieri DiVersi” della Ass. Il Cigno Bianco di Bitetto (BA)

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Concorso Internazionale di Poesia

“ Sentieri DiVersi” – Seconda edizione 2017

Poesia a tema – I diritti dei bambini tra l’infanzia e l’adolescenza

Non c’è a questo mondo grande scoperta o progresso che tenga, fintanto che ci sarà anche un solo bambino triste.
(Albert Einstein)

 

Il Premio “Sentieri DiVersi” ha come incipit l’abbattimento delle barriere mentali,  diventate pilastri della nostra società: i suoi margini. Non arrendersi agli stereotipi è la nostra Mission; salvaguardare l’anima è il tentativo non utopistico che noi poeti possiamo afferrare con la poesia, dandole ali per spiegarsi in un cielo immenso: il Cambiamento.

 

REGOLAMENTO

1) PARTECIPAZIONE

Al concorso possono partecipare cittadini italiani o stranieri, secondo le modalità del presente regolamento. I componimenti potranno essere presentati in lingua italiana, dialettale o straniera. Nel caso di poesie scritte in lingua dialettale o straniera è obbligatorio allegare una traduzione in lingua italiana per ogni componimento inviato.
2) SCADENZA

Le opere dovranno pervenire entro e non oltre il 30.10.2017.
3) SEZIONI

Sezione A: Poesie edite o inedite sul tema “I diritti dei bambini tra l’infanzia e l’adolescenza”. Sezione riservata a tutti gli autori che abbiano un età superiore agli anni 18.

Sezione B: Poesie edite o inedite sul tema “I diritti dei bambini tra l’infanzia e l’adolescenza”. Sezione riservata agli studenti anche universitari.

Le opere presentate non verranno restituite.

4) LUNGHEZZA DELLE OPERE

Le opere non dovranno superare i 30 versi.

5) N° COPIE DA INVIARE E MODALITA’ DI INVIO

Si può partecipare con una poesia, riportata su file in formato word.

Le opere dovranno essere spedite al seguente indirizzo mail sentieridiversi2017@libero.it,  indicando nel corpo della lettera tutte le generalità dell’autore (nome, cognome, indirizzo completo di C.A.P, n° telefonico e di cellulare, eventuale indirizzo e-mail), la dichiarazione di paternità dell’opera e la liberatoria alla eventuale pubblicazione su un’antologia. Nell’oggetto della mail bisogna riportare la sezione per cui si partecipa e il titolo della poesia.

Gli studenti, oltre a tutte le altre generalità (nome, cognome, indirizzo completo di C.A.P, n° telefonico e di cellulare, eventuale indirizzo e-mail), dichiarazione di paternità dell’opera e liberatoria per la pubblicazione su un’antologia, dovranno indicare anche la scuola/università di appartenenza, il/la docente di riferimento e, se minorenni, il nome di almeno un genitore.

6) QUOTA DI ADESIONE

 Partecipazione gratuita.

7) PREMI

Sezione A:

Primo classificato 300,00 €;

Secondo classificato 200,00€;

Terzo classificato 100,00€.

Sezione B:

Primo classificato 300,00 €;

Secondo classificato 200,00€;

Terzo classificato 100,00€.

La Giuria potrà assegnare eventuali premi speciali e/o menzioni d’onore.

I premi in denaro devono essere ritirati di persona pena la decadenza dal premio.

 8) PREMIAZIONE

La cerimonia di premiazione si terrà a Bitetto, presumibilmente il 09.12.2017.
9) NOTIZIE SUI RISULTATI

Tutti i concorrenti finalisti saranno informati direttamente sull’esito del concorso e sulla data e luogo della premiazione. Inoltre, i risultati, saranno pubblicati sulla pagina facebook dedicata al concorso e sul sito concorsiletterari.it .

Resta, tuttavia, obbligo da parte dei concorrenti di tenersi informati sull’andamento del concorso.

10) GIURIA

I componenti della giuria, il cui giudizio è inappellabile ed insindacabile, coordinati dal Dott. Massimo Vito Massa – Scrittore e Presidente dell’Associazione “L’Oceano nell’Anima” e U.N.A.C.I., sono:

  1. Dott. Giacomo Balzano – Scrittore e Psicoanalista;
  2. Prof. Silvana Calaprice – Docente Universitaria e Vice Presidente Nazionale UNICEF;
  3. Dott.ssa Francesca De Giosa – Vice Presidente Nazionale Associazione Maestri Cattolici Italiani;
  4. Dott. Luca Lombardi – Membro del Consiglio Direttivo dell’Accademia Italiana di Studi Numismatici e Titolare Casa Editrice Biblionumis;
  5. Dott.ssa Maria Pina Santoro – Scrittrice e Dirigente Psichiatra Psicoterapeuta Centro Salute Mentale ASL/BA;
  6. Dott.ssa Marina Stancarone – Critica Letteraria;
  7. Dott. Gilberto Vergoni – Scrittore e Dirigente medico Neurochirurgo Presso Asl Cesena.

11) PATROCINI

Patrocinato dall’UNICEF – sezione provinciale di Bari, dalla Regione Puglia, dall’Università di Bari “Aldo Moro”, dall’Associazione Arma Aeronautica-Sezione di Bari, dall’Associazione Maestri Cattolici Italiani – sezione di Bari, dalla Frates donatori di sangue, dalla Biblionumis Edizioni, dall’Associazione “Africa Solidarietà Onlus”,dall’Associazione Culturale Euterpe e dall’Associazione Culturale “L’Oceano nell’Anima”.

Eventuali sponsor saranno comunicati successivamente.

12) NOTE

La partecipazione al concorso internazionale di poesia “Sentieri DiVersi” – seconda edizione –  implica la totale conoscenza ed accettazione incondizionata del presente regolamento e l’autorizzazione al trattamento dei dati personali, ai sensi della legge 675/96.

13) L’ANTOLOGIA

La prestigiosa CASA EDITRICE BIBLIONUMIS del Dott. Luca Lombardi, in collaborazione con la Giuria del Premio Internazionale di Poesia “Sentieri DiVersi”, selezionerà le opere migliori da poter inserire in un’Antologia schedata OPAC ( Catalogo Nazionale delle Biblioteche )

L’ANTOLOGIA FARÀ PARTE DI UNA COLLANA RIENTRANTE IN UN PROGETTO, raccogliendo i percorsi tematici del Premio. Gli autori verranno coinvolti un una successiva presentazione delle loro opere. L’invio della mail per la partecipazione al concorso costituisce a tutti gli effetti liberatoria per il consenso alla pubblicazione dei componimenti sull’eventuale Antologia, fatto salvo il diritto d’Autore che rimane in capo al concorrente. Non è previsto alcun obbligo di acquisto.

La partecipazione al Premio implica la tacita autorizzazione a pubblicare componimenti ed eventuali foto su tutti i mezzi di diffusione del Premio senza ulteriori formalità. Verranno spediti per mail gli attestati di partecipazione.

14) INFORMAZIONI

Tutte le informazioni relative al Premio saranno pubblicate sulla pagina facebook dedicata al Concorso o scrivendo all’indirizzo mail sentieridiversi2017@libero.it.

 

                                                                                                   Il Presidente del Premio

                                                                                                   Dott.ssa Maria Musicco

                                                                                                                                                                                                      

“Bambini” di Anna Vincitorio, recensione di Francesca Luzzio

Anna Vincitorio, Bambini, Blu di Prussia, 2016.

Recensione di Francesca Luzzio

 

AAA IMMA....pngIl titolo della plaquette di Anna Vincitorio, Bambini, induce il lettore a sorridere perché naturalmente si è portati a pensare a delle poesie ricolme di tenerezza e affetto, ma  basta  volgere lo sguardo all’immagine del bimbo in copertina, al suo sguardo perso nel vuoto, alle sue labbra inarcate per sospettare che la discrasia presente tra titolo e immagine nasconda qualcosa.  Infatti già il titolo della prima lirica, “Bambino in guerra”, spegne ogni illusione di vivere liete emozioni.  La  drammatica bellezza dei versi anzi accresce progressivamente la sofferenza di chi, dotato di sensibilità e di sani principi etico-morali, legge di tanta glaciale indifferenza  degli adulti di fronte ai deboli, ai piccoli che non possono, né sanno  difendersi.

Dopo la poesia sui bambini-soldato, l’autrice volge lo sguardo ai bambini del terzo mondo, malati di AIDS, invisibili agli occhi dell’opulento mondo occidentale che, sordo alle immagini, si limita a “interrompere il video/e spegnere la luce” e “tutto torna normale” (in “Bambini invisibili”, pag.18). Ma la poetessa non demorde e continua nella sua amara denuncia per cercare di scuotere le coscienze, così utilizza la sua sapienza versificatrice per esprimere la sua profonda pietà nei confronti dei bambini abbandonati, abusati dai pedofili, dei bimbi migranti che vedono le loro umili tende, i loro rifugi distrutti, o ancora vittime di cruenti riti tribali. Forse il colore della pelle è indice d’inferiorità? Forse Gesù aveva gli occhi azzurri? E Maria Maddalena che Gesù perdonò non aveva i capelli neri?                                          

Una denuncia forte, lancinante che, se da un lato ci pone di fronte alla profonda umanità e sensibilità della poetessa, dall’altro fa emergere l’insensibilità, i vizi di tantissimi adulti che abusando dell’innocenza, uccidono il futuro dell’umanità.

La poetessa ci pone di fronte ad una realtà ossimorica: infanzia sinonimo di gioia, tenerezza, sogno e amore, quale di fatto dovrebbe essere; infanzia sinonimo di violenza, abbandono, privazione, quale di fatto è per molti bambini.  Così  indirettamente evidenzia anche la drammatica condizione socio-economica del mondo che, oggi come ieri, vede le nazioni divise in ricche e povere, in sfruttatrici e sfruttate, condannando comunque, sempre e in ogni luogo, i poveri e i diseredati a un perenne sfruttamento e alla miseria.

La poetessa nella sua commossa e partecipe denunzia si serve di versi liberi, pur non mancando assonanze: “…compimento/….mistero” (in “Cronaca”, pag.25) o consonanze  e quasi rime: “…silente/ …radiante” (idem), anche tra versi lontani fra loro, quale l’urgere del suo sentire progressivamente le ha suggerito;  adopera ora un linguaggio schietto, semanticamente pregnante, al di fuori di ogni allusività, quasi a voler mettere il lettore di fronte al fatto, quale esso realmente è: “l’ascia vibra/ e pesante colpisce/ per abbattere tutto./ Alberga ancora/in alcuno pietà?”(in “White Christmas a Coccaglio”, pag.23); tal’altra un linguaggio metaforico che trova spesso nella natura e nei suoi elementi il correlativo intuitivo-alogico che meglio ne rende la pienezza semantica, così gli eserciti dei bambini-soldato sono “campagna coltivata a grano./Ancora non maturo il tempo/per la sua chioma d’oro” o ancora “girasoli [che] hanno reclinato/la testa” (in “Bambino in guerra”, pag.13) .

A volere ulteriormente rimarcare la gravità e la persistente attualità del drammatico argomento, si potrebbe citare molta della produzione saggistica e narrativa che nel tempo lo ha affrontato, ma in fondo basta concludere sostenendo quanto diceva Dostoevskij: “offendere un bambino è il peccato più grave di cui un adulto si possa macchiare”.

Francesca Luzzio

 

L’autrice di questa recensione acconsente alla pubblicazione online su questo spazio senza nulla chiedere né all’atto della pubblicazione né in futuro e attesta, sotto la propria responsabilità, di essere un suo testo personale, frutto del suo unico ingegno. 

“L’orecchio delle dèe” di Giorgia Spurio, recensione di Lorenzo Spurio

Giorgia Spurio, L’orecchio delle dèe, Macabor, Francavilla M.ma, 2017.

Recensione di Lorenzo Spurio 

spurio.jpgCompiendo una sintesi del nuovo libro di Giorgia Spurio potremmo parlare di “miti d’acqua”. Il lettore si appresta, infatti, a leggere poesie nelle quali fanno capolino di continuo divinità dell’Antica Grecia che s’identificano, quale locus primigenio e caratterizzante, proprio nell’acqua, vale a dire nel mare. Si tratta di oceanine, ninfe, di Poseidone, Medusa e tante altre ancora che l’autrice inserisce nei righi delle sue liriche con una doppia intenzione. Da una parte richiama la classicità e dunque i relativi miti, le narrazioni che Ovidio ci riporta per mezzo delle Metamorfosi, di queste entità dalle doti soprannaturali che, poste in condizioni di pericolo, condanna o di morte, adottano o gli viene imposta l’adozione di una forma diversa. Si tratta, dunque, del tema del cambiamento particolarmente caro alla letteratura di ogni tempo, compresa la tradizione religiosa e biblica che fornisce numerosi esempi, spesso in chiave morale, di caratteri che sono portatori di verità, messaggi e forme di salvezza. Per permettere di situare bene i riferimenti alle divinità classiche Giorgia Spurio ha dedicato una parte di appendice del volume per raccontare, in forma sintetica, le vicende principali di questi personaggi e i loro destini. Apparato che risulta particolarmente utile per chi non ha fatto studi umanistici di un certo tipo o per chi non li ha molto freschi. L’altra intenzione dell’autrice con l’utilizzo di questa simbologia mitologica è finalizzata all’attualizzazione di forme di violenza e di sperequazione sociale che pullulano nella nostra realtà. Vale a dire gli attributi, le vicende caratteristiche, le sorti o le peculiarità di queste divinità (la pietrificazione data dal guardare Medusa, il sacrificio di Andromeda, la voracità di Cariddi,…) divengono significative e rilevanti nella descrizione di tipi caratteriali, di forme sociali, di complessi attitudinali e sistemi d’approccio nel mondo di oggi.

Il libro non è un innalzamento dell’età classica, piuttosto un sapiente e riuscito sistema di rimando continuo tra l’antichità leggendaria della narrazione mitologica e il mondo concreto della quotidianità. Si instaura una sorta di confronto, che non è un parallelismo, ma che ha più la forma di un raffronto dotto e mirato tra mito e realtà, tra antichità e contemporaneità, tra tragicità (il mito è spesso tragico) e crudeltà (figlia del male d’oggi). Unico denominatore comune sono le ambientazioni che sono quelle marine, dove si compiono condanne, premonizioni, spergiuri, lotte e metamorfosi forzate che in altri termini sono attualizzate al mare nostrum fucina di vittime di migranti che anelano alla libertà e al diritto alla speranza. Il Mediterraneo diviene acqua dei numi tutelari ma anche mezzo di congiunzione tra sponde spaventosamente distanti, disgiunte da recessi profondi e perigliosi.

Giorgia Spurio, com’era avvenuto per le sue precedenti raccolte poetiche, sempre mosse da intenzioni di denuncia sociale e motivate da sdegno e riprovazione verso le politiche comunitarie (Quando l’Est mi rubò gli occhi del 2012, Dove bussa il mare del 2013 e Le ninne nanne degli Šar del 2015) torna con questa raccolta ad occuparsi, in chiave forse più ricercata, delle gravose  situazioni del mondo dove dominano la sventura e la caduta, la disperazione e il tomento, la lotta e l’odio, nonché il male nella forma della morte violenta. L’attenzione è rivolta in primis all’universo infantile. Da convinta ed orgogliosa insegnante nella scuola, l’autrice è particolarmente attaccata e coinvolta a tutto ciò che ha a che vedere con i bisogni e le problematiche dei meno grandi. Con premura e amore filiale la Nostra sente dentro di sé montare la rabbia per gli accadimenti infausti che più recentemente hanno campeggiato sulle pagine della cronaca internazionale: l’annosa questione dei barconi fagocitati nel Mediterraneo (di cui percepiamo indirettamente anche un richiamo alla disattenzione pubblica e al pervasivo menefreghismo dell’Europa che tanto discute e poco agisce); Giorgia ci parla di “fantasmi imprigionati/ nei relitti affondati” (23).

La poetessa allude ai bombardamenti in Siria con particolare attenzione all’attacco aereo a Manbij con un vasto numero di morti civili, tra cui bambini. La sofferenza per le morti degli infanti viene trasmessa per mezzo delle urla delle madri, che intuiamo essere sgraziate e senza fine. Un dolore titanico che spezza famiglie, annulla il ciclo della vita, stronca ciascuna speranza: “ha solo un aspetto, il potere:/ che ha l’odore di una lacrima” (37). Si parla di bambini morti e di donne che cessano di colpo di essere madri, ma anche di orfani, di bambini che, come nella più atroce fiaba, perdono il calore e la sicurezza dei genitori dovendo affrontare, soli, tutte le battaglie che la vita gli porrà innanzi.

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La poetessa ascolana Giorgia Spurio durante una premiazione di un concorso letterario nel quale è risultata vincitrice.

Nonostante la trattazione di simili tematiche, sebbene non vengano mai sviscerate in maniera palese, il linguaggio adoperato non è mai acuminato e graffiante, tendente a svelare un mondo in disfacimento dove l’aguzzino è sempre pronto a sottomettere la sua vittima. Giorgia Spurio utilizza un verso tendenzialmente breve e piano, pulito e chiaro, con una predilezione verso le immagini nitidi e rivelatrici delle azioni umane, avendo compiuto la saggia scelta di non insozzare di sangue e metallo il candore di versi che hanno il richiamo del mito. Non ci si pone – neppure lontanamente, né con intenti polemici – la questione del motivo del male, delle ragioni della violenza né c’è intenzione di localizzare, in maniera più o meno chiara, i fautori delle sciagure. L’orecchio delle dèe esprime il punto di vista di Giorgia Spurio, indagatrice attenta delle indicibili sofferenze umane in un’età in cui gli accadimenti più spregevoli e luttuosi non risparmiano neppure i bambini. Risulta doveroso ricordare allora anche il recente bombardamento con armi chimiche (fosforo bianco) avvenuto in Siria, nella provincia di Idlib, ad aprile di quest’anno, che ha portato alla morte per inalazione di sostanze altamente tossiche di decine di ragazzi.

La tradizione popolare ci ha consegnato le favole quali narrazioni di intrattenimento non fine a se stesso, ma spesso volto a enucleare un intendimento morale, studiato poi anche in termini pedagogici. Pur avendo molti elementi che rendono questi testi adatti per i giovanissimi (la presenza spesso di animali parlanti, la centralità di un personaggio che si batte per la giustizia inseguendo le leggi del suo cuore, le finalità ludiche e morali) essi non mancano di essere assai violenti. Si pensi, solo per fare alcuni esempi, all’abbandono di Pollicino e dei suoi fratelli ad opera dei genitori che, a causa di problemi economici, decidono di lasciarli in balia di sé stessi nel bosco similmente a quanto avviene ad Hansel e Gretel; la perfidia delle due sorellastre verso la sventurata Cenerentola e  la Sirenetta che, per amare il suo uomo, acquista una pozione con la quale la sua pinna si trasforma in gambe umane, ma in cambio le viene tolto il canto con il taglio della lingua.

Ecco allora che nella poesia “La Balena Bianca di nessun romanzo” Giorgia Spurio ci fornisce una risposta dinanzi all’impiego di questo genere che, come riassunto, ha i sui pro e contro, mettendoci al corrente del rifiuto del finale della narrazione: “Ogni notte le madri rimboccavano le coperte/ ai figli, piccoli, senza raccontare la fine/ di quelle leggende/ mai che la morte potesse toccare i loro visi/ Mai” (27-28). Dinanzi a una società che si è omologata al male e che non è neppure in grado di preservare le nuove generazioni è meglio impiegare la più semplice mistificazione: non è possibile narrare di morte in un mondo dove essa è già all’ordine del giorno. La cronaca che si sostituisce alla favola. Il mondo spensierato e ludico che viene sopraffatto dalla nefandezza delle azioni umane che hanno amplificazione dappertutto.

C’è un’ultima importante sezione nel libro che ha il titolo di “Resurrezioni” e che vuole permettere un respiro diverso, fomentare una possibilità di redenzione e di ravvedimento da parte dell’uomo che possa redimerlo e condurlo a una dimensione di quiete sociale. Non si tratta, a mio avviso, di un comparto scontato o forzato, questo, piuttosto, necessario se davvero è nostra intenzione accettare l’idea che al male possa opporsi il bene, evitando la facile rassegnazione o, ancor peggio, la mera indifferenza. Ecco allora che quel processo mimetico e metamorfico che Giorgia aveva impiegato con riferimento alle divinità dell’antica Grecia e alle loro non felici storie ritorna qui, nelle poesie più marcatamente pregne di vita reale, di disagio sociale, di impellente trattazione. La poesia “Boccioli” canta l’avanzata di una primavera solidale e allargata, il rifiorire del buono come pure la giusta preservazione dell’istituto dell’infanzia. Questa poesia ha il tono di un testo tra il liturgico e il salmodico, l’idea di un mondo di pace non ha la forma illusoria di un’ipotetica utopia ma della saggia convinzione, di un rinnovamento salvifico pronosticabile e raggiungibile. Da un mondo di polvere ed urla, di case abbattute e dove la luna, unica regina del cielo ha deciso di rimettere il suo diadema regale e caracollare a terra come tutti gli uomini, Giorgia Spurio traccia il presagio del bene: i bambini ritorneranno ad abbracciare le proprie madri, i demoni diventeranno angeli, la luce riaffiorerà ed anche la luna, dimentica del suo passato inglorioso e della sua abdicazione, tornerà indomita e lucente a regnare nei cieli in ogni angolo del pianeta.

Lorenzo Spurio

Jesi, 23-04-2017

“Le ninne nanne degli Šar” di Giorgia Spurio: presentazione il 17 settembre

presentazione - coop

COMUNICATO STAMPA

Giorgia Spurio, giovane scrittrice ascolana pluripremiata e con vari libri di poesia pubblicati, continua i suoi incontri con i lettori e con gli amanti della scrittura e della poesia. Sabato 17 settembre ore 18, il suo nuovo libro “Le ninne nanne degli Šar” farà tappa al Centro Commerciale Città delle Stelle (presso lo spazio adibito, spazio Fuoriluogo) a Castel di Lama (AP), in collaborazione con la libreria Mondadori.
A moderare l’incontro saranno Maria Grazia Isolini e Matteo Giorgi.
Un incontro immerso nella magia del verso e di un viaggio, quello del bambino protagonista che con la sua famiglia dovrà lasciare la Macedonia per arrivare in Italia.
Il libro, definito “romanzo di formazione in versi”, sarà un viaggio per piccoli e grandi. Sarà un viaggio “reale” con dettagli geografici dai monti Šar, al confine tra Kosovo e Macedonia, fino alle coste d’Italia. Sarà un viaggio interiore, ricco di dettagli pedagogici.
Un viaggio che solo i libri riescono realmente a creare.”

Verso est, oltre l’est

E’ possibile raccontare la guerra ai bambini?
L’articolo di Tullio Bugari sull’incontro con il giovane Matthias Canapini

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Raccontare la guerra ai bambini. È più facile o più difficile? Mi chiedevo questo ieri sera mentre osservavo Matthias seduto di fronte a un bel gruppo di bambini di 6, 7 anni o poco più, a mostrare le sue foto scattate in Siria, Ucraina e altri luoghi sulle cronache di questi tempi. Eravamo al campo di rugby di Falconara, questo il titolo dell’incontro: “Verso Est, mini laboratorio di disegno narrativo con Matthias Canapini; il giovane rugbista, esploratore, scrittore coinvolgerà i mini atleti in un epico racconto di paesi lontani”.

54321Verso Est, come il titolo del suo primo libro, autoprodotto per essere più veloci, perché Matthias già riparte, dopo domani, questa volta si spingerà ancora più a est, attraverserà Croazia, Bosnia e Serbia, poi Romania, Ucraina e ancora, fino all’India e al Nepal. Conta di rientrare verso ottobre o novembre.

È arrivato “il viaggione”, quello grosso, che progettava già…

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“La grazia di casa mia” di Julio Monteiro Martins, recensione di Lorenzo Spurio

La grazia di casa mia
Di Julio Monteiro Martins
Rediviva Edizioni, 2013
ISBN: 9788897908029
Pagine: 182
Costo: 14 €
 
Recensione di Lorenzo Spurio
 
 
Sono il poeta
che ha deciso di non mentire.
Il poeta impopolare
a cui poco è rimasto
da dire.
Tre o quattro cose,
tutte cose tristi,
tutte cose vere. (79)

 

graziadicasamiaLo scrittore di origini brasiliane Julio Monteiro Martins è recentemente uscito con una nuova pubblicazione, una raccolta di poesie dal titolo La grazia di casa mia (Rediviva Ediz., 2013), seconda silloge poetica nel percorso letterario del professore e saggista che contribuisce a ispessire il suo già ricchissimo curriculum letterario. Nell’opera, come è saggiamente osservato da Rosanna Morace che tempo fa ha dedicato una monografia all’opera dello scrittore, ci troviamo di fronte a un ampio spettro di tematiche: dal ricordo di momenti passati, alla memoria dolorosa di episodi di violenza subiti tanto familiari quanto sociali, il mondo degli affetti con una apprezzabile lirica dedicata agli amici e poi ai figli e alla donna amata, i quesiti sulla morte e sul decadimento dell’uomo che realizza la fugacità del tempo e la sua inclemenza. Il tutto è chiaramente sorretto da quel sempre presente amore e disincanto per la terra natia, il Brasile, che l’autore non può fare a meno di evocare, tener vivo ed esplicitare nei tanti riferimenti toponomastici, nell’utilizzo di lessemi in portoghese e in riferimenti che legano il passato dell’uomo a quella terra tanto amata.

Non è un caso che il titolo della raccolta sia La grazia di casa mia e la stessa Morace si domanda quale, in fondo, sia la casa di Julio Monteiro Martins, se il Brasile oppure Lucca, la Toscana dove vive da tanti anni. Ho inteso il concetto di “casa” del quale il poeta parla in almeno due maniere diverse. La casa è lo spazio in cui nasciamo, dove ci sentiamo protetti e dove ci identifichiamo, dove condividiamo esperienze con i nostri cari, scrigno della nostra introduzione nel mondo civile, baluardo di difesa e porto dove confidarci, amare e sentirci amati. La casa è uno spazio privato in cui l’uomo è l’unico padrone e dove gestisce la sua abitudinarietà come vuole, senza per forza di cose doversi uniformarsi alla comunità, da qui il detto “a casa sua ognuno fa quello che vuole”. Nelle poesie in cui l’autore cita la casa respiriamo frequentemente una certa desolazione, caratteristica di un animo inquieto, tormentato a causa di una lontananza fisica e temporale da quel nucleo di vita, da quel nido, quella identificazione dell’uomo con la sua terra/lingua/cultura. La graziosità (piacevolezza) e il ringraziare (l’attestazione di riconoscenza per un dono ricevuto) sono delle terminologie che discendono dal lessema di “grazia” e che danno man forte alla comprensione di questa silloge. La casa, il luogo custode dei nostri ricordi, della nostra infanzia e dei primi affetti è chiaramente un luogo piacevole, benevole, quasi una sorta di eden che amplifica la sua carica di bellezza/ricchezza/positività proprio per la lontananza da quello spazio che l’autore percepisce, soffre e con la quale convive ormai da “esiliato” in una terra non sua.

La tematica dell’espatrio, della lontananza della propria terra vissuta con dolore e nostalgia, con rimpianto e desolazione, centrale anche nella sua produzione in prosa è contenuta nella lirica “Vivere in esilio” che è il fiore all’occhiello dell’intera silloge. L’autore esordisce nella lirica con una sorta di analisi epistemologica delle parole osservando che “vivere in esilio” (95) non è altro che un ossimoro, ossia una costruzione del linguaggio composta da termini che portano un significato tra loro avverso, contrastante. Da qui capiamo che la vita dell’esiliato Julio Monteiro Martins (un esilio che, ricordiamo, esser frutto di una decisione dello stesso autore e  non una misura coercitiva subita da sistemi di potere) è sostanzialmente dura, difficile, tormentosa e per forza di cose dettata dalla nostalgia, dalla mancanza, dall’ossessione del ricordo e dalla vacuità delle memorie legate ad un posto lontano che non si sposa con il qui ed ora, come se appartenesse ormai ad un’altra esistenza. Pur essendo quello dell’esilio una decisione presa dallo stesso autore a seguito di una serie di episodi tanto familiari quanto sociali che lo riguardano e dei quali parla abbondantemente in alcuni estratti di e-mail riportati da Alessio Pardi nella postfazione, esso è connotato in maniera molto negativa quale espressione di soggiogamento, prigionia, reclusione e sottrazione della propria individualità (“Esilio,/ gabbia senza sbarre”, 96) proprio a voler rimarcare il fatto che esso è come una libertà surrogata, falsa, illusoria che non ha un ingabbiamento fisico e tangibile, ma emotivo, psicologico, sensoriale. Spostandoci verso la conclusione della lirica l’esilio diventa uno “squallido ballo/ senza musica” (97), ancora una volta manifestazione di una caricatura dell’esistenza, vissuto in un ballo che dovrebbe unire e far divertire e che, invece, privo di musica, si ripiega sulla monotonia, il silenzio e la privazione. La condizione di lontananza dall’amato Brasile, infine, diventa emblema di un non-vivere associabile alla funesta morte, “vivo l’esilio/ come funebre kermesse” che il Nostro non può che fronteggiare con il pensiero dolce e materno della “eternamente assente/ grazia di casa mia” (97).

 Sfogliando le pagine che compongono questo nutrito libro, ci rendiamo ben presto conto come questa “grazia di casa mia”, questo porto franco, enclave dal disordine e dall’angoscia, sia da intendere anche a livello non figurato nel necessario e immancabile ricorso all’arte poetica. Julio Monteiro Martins canta il Brasile attraverso la sua poesia e lo rimembra con particolare attenzione nelle forme di sopruso vissute dai suoi cari sulla loro pelle (la bisnonna massacrata di botte in un tentativo di furto a casa sua, la deplorevole condizione delle favelas, lo sterminio nella guerra dell’Araguaia). Dall’altra parte si arma di poesia (e di letteratura in genere) per divulgare le sue esperienze, le sue inquietudini, i suoi convincimenti. Lo scrittore, infatti, ha un curriculum letterario molto ampio dove primeggia soprattutto la produzione in prosa tra numerose pubblicazioni di racconti e di romanzi, sia in lingua italiana che in portoghese e nell’esperienza poetica, seppur sia inscindibile dal suo fare letteratura, non può non notarsi l’influsso della sua predilezione per la narrativa: a volte ci sono dei versi lunghi, si dà molta importanza all’aggettivazione, il linguaggio è spesso fatto a partire dall’utilizzo di terminologie che appartengono al mondo reale, concreto, pratico, piuttosto che terminologie utilizzate in analogie e metafore; l’autore ricorre spesso all’utilizzo di connettivi che solitamente si impiegano nella paratassi della narrazione o nell’argomentazione. La poesia “Roraima, Alaska” sembra addirittura una didascalia di un testo di geografia o la spiegazione di un bigliettino turistico, promozionale, dove è utilizzato un linguaggio prosastico, atto alla descrizione dei luoghi d’interesse del Nostro. Questo produce come conseguenza il fatto esplicito che lo stile poetico dell’autore è profondamente caratterizzato e il lirismo, piuttosto che da particolari stratagemmi metrici o fonici, è dettato da accostamenti bizzarri di parole dei quali pure ha modo di parlare in una lirica dal titolo chiarificatore “I paradigmi imprevisti”:

 

L’accostamento insolito,
sorprendente,
e a volte anche bizzarro
di due sostantivi, di due cose
che non dovrebbero mai
comparire insieme
come il tumore e il diamante,
il petalo e il piombo.
 
Ognuno di questi paradigmi
potrebbe causare
un breve e benevolo
cortocircuito mentale. (71)
 

Julio Monteiro Martins nella sua poesia parla spesso della poesia e di cosa intenda con questa parola: nell’età nella quale viviamo quando sentiamo pronunciare la parola di poesia non dobbiamo pensare unicamente a Dante, Petrarca e magari a Montale, ma tener presente che la nostra contemporaneità è ricca e pulsante di poeti, di anime profonde che hanno da dire delle cose. Julio Monteiro Martins è una di queste e non è semplicemente una persona che ha qualcosa da dire, ma che ha anche i mezzi necessari per farlo: le sue poesie, se non fosse per gli a capo, potrebbero essere lette tutte d’un fiato, come dei mini raccontini, delle analisi, degli appunti di pensieri buttati sulla carta, perché in effetti la sua poetica, piuttosto che distinguersi per il carattere istintuale e la momentaneità, si caratterizza per l’elucubrazione e la progressione. Molti poeti possono scrivere decine di versi solamente per ricordare ad esempio un momento del passato vissuto in compagnia del rumore delle onde, il Nostro, invece, da grande padre della narrazione, anche nella poesia predilige la consequenzialità degli eventi, la progressione di quanto si descrive. Nelle poesie Julio Monteiro Martins, uno dei più celebri e citati scrittori migranti nel nostro paese, c’è sempre una causa e un effetto (spesso anche la considerazione dei rimedi), c’è un attore e un ricevente, un prima e un dopo, quasi che l’autore non riesca ad affrancarsi da quelli che sono i capisaldi della narrazione. Ne fuoriesce una poesia che descrive, che ricorda anche i dettagli, che denuncia, che riflette e fa riflettere, che anima alla ricerca, che mette l’autore direttamente di fronte a uno specchio per consegnarci i tanti riflessi delle sue esperienze, dei suoi ricordi, delle sue idee. E’ per questo che la poesia che Julio Monteiro Martins fa e che in un certo modo difende quale esponente di una generazione poetica che si contraddistingue proprio per il non poter esser classificata, etichettata e standardizzata in una generazione (ma che bella parola!!) che per molti aspetti supera la poetica di ascendenza classicista, con i suoi orpelli e stratagemmi estetici, senza negarla, offenderla né annullarla, ma per dar voce al fatto che la poesia è di tutti e che come ogni forma d’arte deve rimanere nel tempo democratica e disponibile a tutti. Lo scrittore parla di “poesia sporca,/ stracciona,/ deforme e malandata” (9) ossia di una poetica da sobborgo, underground, che dà voce anche ai recessi dell’umanità, alle debolezze e alle sue nefandezze, dunque una poesia civile, di sdegno e di denuncia. Ed ecco perché all’appuntamento festoso che si richiama nella lirica d’apertura la poesia finisce per mostrarsi in abiti semplici, anzi sporchi e rotti, come mero residuo di un passato di splendore. Ma quando gli viene detto che avrebbe fatto meglio a non presentarsi in quelle condizioni, essa risponde “Non lo so”, sapendo in cuor suo che, anche in veste di stracci, la Poesia non teme giudizi ed è forte ed orgogliosa del suo verbo.

 

E dov’è la poesia, bè,
caro mio?
Eh bè,
tutto c’entra con tutto,
e la poesia è ovunque,
caro mio. (15)

 

La poesia è per l’autore sinonimo di sintesi della sua letteratura in prosa dove però è centrale la considerazione proprio sul far poesia, consapevole del fatto che essa nasca in maniera inconscia, imprevista e che è incontrollabile e al tempo stesso necessaria: “La poesia è senz’altro una cosa bella/ ed è una bella cosa scriverla” (17).

Ma c’è di più, il Nostro è un autore che ama giocare con le parole, invertirle, accostarle, interpellarle come fosse un ragazzino impegnato con delle Lego a combinare pezzi diversi per costruire oggetti, abitazioni e forme di senso compiuto, per poi dividere i pezzi, de-costruire il già fatto, rimodellare, ristrutturare e dar vita a nuove forme. L’autore interagisce a livello profondo con il nominalismo (il nome e il concetto) e con la semiotica del linguaggio (il significato e il significante) mettendo in luce che il procedimento che attua nel momento in cui scrive è complesso, non lineare, basato sul ragionamento, la ricerca, lo studio e la coordinazione di tutti questi elementi: “Che parola è parola/ e cosa è cosa,/ e che è molto pericoloso/ scambiare una per l’altra” (27). Considerazioni portate alle estreme conseguenze nella poesia “Palingenesi fasulla”, un misto di filastrocca stonata e un manifesto avanguardistico, dove per ogni strofa, come fosse una voce fuori scena, ci si stupisce delle parole utilizzate e dei loro accostamenti per assonanze o consonanze: “Dimmi un po’,/ quanto ti piacciono/ le parole?” (29) che mi fa pensare alla giocosità del linguaggio di un romanziere spagnolo, Juan José Millás, grande affabulatore e architetto nella gestione e comunicazione dello sterminato universo del lessico. Ciò che pensa il Nostro sull’utilizzo di questo linguaggio fatto di doppi, di ossimori, antitesi, contrasti e polarità è, in fondo, l’anima propulsiva del suo intendere la poesia: un processo di scrittura che dà voce all’intimo e al pubblico, che scandaglia e de-costruisce, dove anche la cosa all’apparenza più luminosa e preziosa, nella sua essenza non è che un qualcosa di comune e basilare, travisato e imbellettato a qualcos’altro:

 

I sostantivi canaglie
del secolo cortocircuito
sono sassi imprevisti,
sono puro fango mentale
mascherato
di diamanti retorici. (73)

 

 LORENZO SPURIO

 

Jesi, 20 Gennaio 2014

 

 

Link alla mia intervista all’autore

“Era farsi” di Margherita Rimi, recensione di Lorenzo Spurio

Era farsi – Autoantologia poetica 1974-2011
di Margherita Rimi
prefazione di Daniela Marcheschi
Marsilio, Venezia, 2012
Pagine: 192                            
ISBN: 9788831712330
Costo: 22
 
Recensione di Lorenzo Spurio
 
 
Parlami così.
Come risulta il mondo alle domande
Quando alla fine non diventano parole. (p. 43)
 

untitledHo conosciuto Margherita Rimi lo scorso giugno a Palermo durante un reading poetico da me organizzato all’interno delle attività della rivista “Euterpe” che dirigo dal tema “Disagio psichico e sociale” e solo in un secondo momento, grazie al dono del suo libro, ho potuto leggere e conoscere di più sulla sua scrittura.

Il volume antologico della poetessa, intitolato Era farsi, contiene una raccolta di poesie scritte in un periodo di tempo abbastanza esteso che va dal 1974 al 2011 e si apre con una pertinente nota critica a cura di Daniela Marcheschi. Essendo un’opera antologica, sono qui presenti liriche estratte da vari sillogi precedenti, tra cui alcune – quelle contenute nella sezione dal titolo “Carta nivura”- in dialetto siciliano.

La prima domanda che mi sono posto prima di iniziare la lettura di questo libro è stata: “ma cosa significa il titolo?”. Ho intuito nel “farsi” un processo di crescita e cambiamento, di costruzione del sé e di maturazione intellettuale, quale lenta metamorfosi dell’io giorno dopo giorno. La nota critica iniziale, che si centralizza sul tema dell’infanzia nel libro, tematica cara alla poetessa, mi ha in parte dato ragione. Mi ha incuriosito poi notare tra i vari riferimenti e citazioni in esergo o no che la poetessa utilizza, un riferimento a Davide Dettore, psicologo presso l’Istituto Meyer di Genova e docente del Dipartimento di Scienze della Salute presso l’università di Firenze che ha dedicato una intensa attività saggistica sulla sessualità deviata e aull’abuso sessuale in età infantile. La cosa mi ha incuriosito poiché nei mesi scorsi, quando ancora non avevo ricevuto il libro di Margherita Rimi, ho contattato il professor Dettore per chiedergli se era interessato e disponibile a intervenire alla presentazione del mio nuovo libro, La cucina arancione (TraccePerLaMeta Edizioni, 2013 – con prefazione di Marzia Carocci), che tratta di disagio psichico e sociale e di atteggiamenti sessualmente devianti. Una casualità, mi sono detto.

Ritornano al libro in oggetto, ciò che mi sento di dire è che la poetica di Margherita Rimi, che si contraddistingue spesso per un verso breve e un ritmo incalzante, è fortemente intimista e profondamente vissuta (questo lo denota anche una serie di dediche a cui le poesie sono direttamente, ispirate e dedicate). Il linguaggio evita l’utilizzo di una sintassi particolareggiata ed ostica per prediligere, invece, un vocabolario semplice ed evocativo; le costruzioni che la poetessa elabora con i versi sono prevalentemente singolari ed anomale e richiedono una seria ed approfondita interpretazione, quasi come se la Nostra iniziasse un discorso, ci desse una traccia, e poi dovessimo noi continuarlo. Questo a livello esegetico è di certo un esercizio molto allettante e curioso che raramente si presenta al lettore quando si approssima alla lettura di poesie.

Come già detto, il tema dell’infanzia predomina indiscusso su questa ampia antologia ed esso è affrontato secondo vari paradigmi: l’abusato, il solo (“io sono il bambino trasparente”; “i grandi hanno grandissimo da fare”, p. 20), chi necessita di aiuto, chi anela affetto e tanto altro. Ne fuoriescono delle immagini abbozzate in maniera indistinta che, però, fanno riflettere su una problematica tanto estesa e seria. Ed è proprio la poetessa che con la lirica che si trova nella posizione iniziale, “Era farsi”, svela –in maniera mai troppo clamorosa- la realtà di quel “farsi” da me inteso come ‘costruire’, ‘crescere’, ‘evolvere’ e ‘maturare’. La poetessa, infatti, in questa lirica dedicata al fratello gemello scrive:

 

Ai piedi del letto il tempo non passava

Era farsi grande raccontare una storia

E la storia non era più una storia

era farsi padre (p. 15)

 

Quel “farsi”, dunque risiede nella crescita dell’uomo, tanto fisica quanto emotiva e morale, e la si ritrova anche nell’allarmante “Quando l’albero era l’albero”: “Non so perché l’hanno fatto. Non si doveva./ Distratta la nostra infanzia/ nel farsi grandi” (p. 27). L’attenzione all’emarginato, nei confronti di colui che è ritenuto diverso dal resto della società solo perché sfortunato nell’aver sperimentato un doloroso trauma psicologico o perché porta sulla sua pelle i segni del deforme è di particolare interesse della Nostra; in “Su due rotelle” leggiamo: “Ancora penso a quanti anni hai/ se mai faremo in tempo/ […]/ -Se puoi guarire-/ Dicono che puoi guarire” (p. 34).

L’antologia è arricchita da numerose citazioni tratte da testi di grandi autori della letteratura europea che intessono il pregevole ordito della trama che la Rimi ha previsto assieme a liriche dedicate ad esponenti del mondo culturale siciliano quale Leonardo Sciascia, Lucio Zinna e le liriche “Palermo” e “Da intitolare” dedicata alla cara Trinacria.

 Lorenzo Spurio

-scrittore, critico letterario-

 Jesi, 18 Agosto 2013

“Arrivederci ragazzi”, film e libro di Louis Malle, recensione di Lorenzo Spurio

Arrivederci ragazzi (1987)
Titolo originale: Au revoir les enfants
Regia di Louis Malle
Paese: Francia
 
Recensione a cura di LORENZO SPURIO 

 

Il film Au revoir les enfants (Arrivederci ragazzi, 1987) è un film del regista francese Louis Malle, dal quale venne tratto l’omonimo romanzo nel 1993[1].

Il film è ambientato in Francia[2] durante gli ultimi anni della seconda guerra mondiale,ma prima della liberazione anglo-americana e si focalizza sulla vita di una serie di ragazzi di diversa età che vivono in un collegio cattolico.  Tratta il tema della guerra, la dominazione dei nazisti e l’odio contro gli ebrei in una maniera addolcita, attraverso l’amicizia che si instaura tra uno dei bambini del collegio, Julien Quentin e un altro ragazzo, Jean Bonnet, falso nome di un bambino ebreo. In realtà non si instaura una vera e propria amicizia tra i due ragazzi ma c’è un progressivo e continuo interessamento di Julien Quentin verso Bonnet e, una volta scoperto che è ebreo, il film trasmette una sorta di comprensione e di vicinanza nel dolore di Bonnet. I due ragazzi non si scambiano mai frasi d’affetto ne stringono patti d’amicizia e solamente in pochi rari frangenti li vediamo ridere spensierati assieme. La relazione tra Julien Quentin e Jean Bonnet non è dunque quella di un’amicizia, ma piuttosto di una solidale vicinanza di Quentin verso Bonnet, compassione e impotenza. Andiamo per gradi.

Il film si apre alla stazione ferroviaria di Parigi e una donna sta salutando i suoi due figli diretti in un convento religioso maschile, dopo le vacanze natalizie trascorse a casa, con la famiglia. I due ragazzi sono Julien Quentin, ragazzo molto attaccato alla madre e che non vorrebbe lasciarla e suo fratello François, più grande di lui.

Tutta la storia si sviluppa al Collegio dei Carmelitani Scalzi di Fontainebleau[3] nel gennaio del 1994,  un collegio religioso maschile guidato da padre Jean. Dopo qualche tempo al collegio arriva un nuovo ragazzo, Jean Bonnet. Da subito viene preso in giro dai compagni per il suo cognome Bonnet che in francese significa ‘berretto’. Già dall’arrivo di Bonnet il ragazzo viene percepito dagli altri come diverso, come estraneo e spesso viene canzonato, deriso o non considerato.

Il primo approccio di Bonnet con Quentin è tutt’altro che l’inizio di una buona amicizia: quando Bonnet chiede a Quentin come si chiama, lui risponde: «Julien Quentin e chi cerca rogna mi trova»[4]

Inizialmente il comportamento di Quentin nei confronti di Bonnet è lo stesso degli altri compagni: tiene il nuovo arrivato a distanza anche utilizzando parole non molto gradevoli, cercando di isolarlo e tentando di capire in cosa risiede la sua diversità: «Il nuovo compagno aveva un atteggiamento diverso da tutti noi. Non avevo ancora deciso se valeva la pena di diventare suo amico o se non lo potevo soffrire. […] Mi convinsi che mi nascondeva qualche segreto e presi a osservarlo con maggiore attenzione». (23)

Nel corso della storia ci sono una serie di riferimenti a libri della letteratura che vengono letti: Quentin legge Le avventure di Sherlock Holmes di Arthur Conan Doyle, I tre moschettieri di Alexander Dumas e Le mille e una notte (questo libro, carico di scene di sesso, glie l’ha dato il fratello più grande di lui).

Nel collegio vigono regole ferree stabilite da padre Jean e le giornate sono scandite da una serie di rituali: la toletta mattutina, la messa, la colazione, le ore di lezione, i momenti di ricreazione, le ore di ginnastica, le preghiere prima di andare a dormire. Una delle regole del collegio è che i ragazzi non possono tenere e nascondere cibarie per uso personali: sono costretti a condividerli con gli altri e se vengono scoperti vengono puniti.

Nel corso della storia vengono presentati altri personaggi: l’aiutante di padre Jean, padre Moreau, padre Ippolyte, Monsieur Tinchant (insegnante di francese), Mademoiselle Davenne (l’insegnante di pianoforte), Monsieur Guibourg (l’insegnate di matematica), Madame Perrin (la cuoca) che è aiutata da Joseph e altri ragazzi tra i quali Sagard, Babinot, Ciron, Boulanger, Laviron, Negus, Lafarge, Dupré, Navarre, Duvallier e D’Arsonval.

Da subito Bonnet si dimostra molto bravo nelle varie materie: matematica, musica e francese e Quentin quasi ne è invidioso: «Anche nelle altre materie Bonnet riusciva molto bene. Era il tipico primo della classe! Che razza insopportabile! Il suo forte era la matematica, che io odiavo». (25)

La guerra si manifesta per la prima volta nel corso del film per mezzo dell’allarme del coprifuoco che corrisponde alla fuga dei ragazzi negli scantinati del collegio dove vanno a rifugiarsi. Con il passare dei giorni Quentin nota che l’amico Bonnet non prega come gli altri ragazzi durante le orazioni e che prega di notte, quando tutti dormono e non possono vederlo, alla presenza di due candele accese:  «Sul comodino di Bonnet ardevano due candele, e lui stava in piedi a lato del letto, recitando qualcosa a voce bassissima, profondamente assorto. […] Ma cosa stava recitando? Forse preghiere?.. Però non teneva le mani giunte, e aveva lo sguardo fisso a terra…Girai lievemente il capo, cercando di cogliere qualche parola: quelle litanie confuse avevano i suoni sconosciuti d’una lingua diversa dalla nostra…» (43)

Inoltre Bonnet non partecipa alle lezioni di catechismo e non studia greco, diversamente dagli altri ragazzi e quando qualcuno gli chiede perché non faccia catechismo lui risponde che è protestante. Questa serie di comportamenti che differenziano Bonnet dagli altri ragazzi contribuiscono a distanziarlo dagli stessi.

Intanto la milizia tedesca comincia a fare delle perquisizioni nel collegio e Bonnet, assieme ad altri ragazzi, viene nascosto da padre Jean. Nella lettera che la madre di Quentin scrive al figlio sappiamo che Parigi viene bombardata incessantemente dai tedeschi: “A Parigi la vita è difficile, di questi tempi; ci bombardano quasi ogni notte! Ieri una bomba è caduta a Boulogne-Billancourt su una casa civile: otto morti, pensa!” (46)

Bonnet non riceve nessuna corrispondenza ed è vago quando Quentin gli domanda della sua famiglia. Tutti questi elementi alimentano Quentin a ricercare il mistero che nasconde Bonnet. Un giorno Quentin apre l’armadietto di Bonnet, trova un libro e lo apre. Nella prima pagina è tracciata una dedica nella quale invece del nome di Bonnet, c’è il nome di un certo Jean Kippelstein. Quentin capisce che non esiste nessun Jean Bonnet e che dietro quel nome si nasconde in realtà un’altra identità che viene da tutti celata.

Un’ampia scena del film mostra la giornata organizzata per la caccia al tesoro. Quentin si allontana per troppo tempo dall’area attorno al collegio per cercare il tesoro. Alla fine lo trova e, persosi nel bosco mentre si sta facendo buio, trova Bonnet e i due si riassicurano insieme, cercando di indovinare la strada per il collegio. Lungo la strada vengono fermati da una macchina della milizia, Bonnet tenta di scappare ma i due ragazzi vengono fermati e portati al collegio dai nazisti.

Ad un certo punto della storia Quentin confida a Bonnet di aver scoperto la sua vera identità e tra i due c’è una sorta di lotta poiché Bonnet, oltre a sentirsi offeso per il fatto che la sua privacy è stata violata, teme che ora la notizia diventerà nota al collegio e i nazisti lo faranno fuori. Arriva il giorno delle visite. Durante la messa Bonnet si mette in coda per fare la comunione ma quando padre Jean è in procinto di dargli l’ostia e vede che si tratta di lui, non glie la consegna: «Padre Jean avanzava lentamente, in profondo raccoglimento, reggendo il calice. Era ormai davanti a li e recitava assorto la formula della benedizione. Poi alzò gli occhi e lo vide[a Bonnet].Trasalì lievemente, rimase un attimo immobile, l’ostia consacrata tra le dita, gli occhi severi fissi in quelli di Jean, rivolti a lui, quasi candidi o disperati. Fu solo un istante: padre Jean avanzò verso di me, e tese l’ostia verso le mie labbra. Prima di chinare il capo sulle mani giunte, volsi attorno una rapida occhiata. Mi parve che nessuno, lì attorno, avesse notato quello che era accaduto.» (70)

Quentin e il fratello vanno a pranzo con la madre al ristorante il Cervo d’oro e Quentin chiede alla madre di portare con loro anche Bonnet. Durante il pranzo nel ristorante fanno irruzione dei nazisti che chiedono i documenti a tutti gli astanti. Trovato un ebreo i nazisti si accaniscono contro di lui e contro il gestore dicendo che i ristoranti sono vietati agli ebrei. Il ristoratore risponde che si tratta di un cliente di vecchia data e non intende mandarlo via. Bonnet e Quentin temono il peggio ma alcuni militari francesi, seduti a pranzo, mandano via i nazisti. Intanto tacitamente Bonnet e Quentin sono diventati due amici e Quentin osserva: «C’era questo di singolare, con Jean: ci si capiva senza bisogno delle parole. Era la prima volta che mi succedeva nella vita.» (81)

E, poco dopo, aggiunge: «Da quel giorno Jean ed io diventammo inseparabili. Avevo scoperto che con lui potevo essere sempre me stesso. Non dovevo fingere, non avevo bisogno di nascondere le mie debolezze.» (84)

Ad un certo punto padre Jean trova una serie di marmellate e bene alimentari di alcuni ragazzi e nascosti da Josef, il ragazzo della cucina. Padre Jean licenzia Josef e proibisce l’uscita per le vacanze pasquali a Quentin e al fratello e ad altri cinque ragazzi.

Un’altra scena che potrebbe far pensare alla nascente amicizia tra Quentin e Bonnet oltre a quella del bosco è quella in cui leggono assieme un libro di notte, sfidando le regole del collegio. Più che di una vera amicizia si tratta di una mutua cooperazione nelle loro attività, un interessamento nei rispettivi confronti. Se di amicizia si può parlare è un’amicizia che sta solo nascendo.

Al collegio arrivano dei nazisti che passano in rassegna le varie classi chiedendo chi è ebreo. Bonnet viene individuato dai nazisti e costretto a prendere le sue robe per lasciare il collegio. Lo stesso accade ad altri due ragazzi appartenenti ad altre classi. Padre Jean viene arrestato dai nazisti per aver coperto nel suo collegio degli ebrei e il collegio viene dichiarato chiuso. Ogni ragazzo deve preparare le sue robe per far ritorno a casa.

Prima di andarsene Bonnet regala i suoi libri a Quentin, sicuro che non avrà più occasione e voglia di leggerli nella vita futura che gli si prospetta. Alla fine veniamo a sapere che a fare la spia ai nazisti è stato Josef, l’aiutante della cucina, che ha fatto la spia come ripicca per essere stato licenziato da padre Jean. L’ultima scena che il film propone avviene fuori dal collegio, ormai dichiarato chiuso. I tedeschi fanno l’appello di tutti i ragazzi del collegio e portano via Bonnet, Negus e Dupré, i tre bambini ebrei e padre Jean per aver commesso il crimine d’occultamento degli ebrei nell’istituto. La voce narrante, quella di Quentin, ci dice che sono ormai passati più di quaranta anni da quel momento ma che mai dimenticherà la scena in cui i tre bambini e padre Jean abbandonavano il collegio seguiti dai militari armati. I tre ragazzi vennero deportati e morirono al campo di concentramento di Auschwitz mentre padre Jean nel lager di Mathausen.

Nel film i ragazzi salutano in coro padre Jean seguito dai militari che lo portano via, incuranti che non lo rivedranno più e il parroco, per fargli credere che è tutto apposto, risponde loro «Arrivederci ragazzi!». Ecco svelato il significato del titolo del film e del romanzo.

LORENZO SPURIO

05-03-2011

 

 

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[1] Si tratta di uno dei pochi casi in cui un libro venga tratto dall’opera cinematografica dato che solitamente avviene il processo contrario.

[2] Nel 1940 i nazisti erano entrati in Parigi mettendo la loro bandiera sull’Arco di Trionfo. Il governo presieduto da Paul Reynaud (1878-1966) venne destituito e il nuovo capo dell’esecutivo, il maresciallo Philippe Pétain (1856-1951) firma un accordo con i nazisti. La Francia viene divisa in due zone: la parte settentrionale è direttamente sotto il controllo dei nazisti mentre la parte centro-meridionale, con capitale Vichy, è affidata al governo dittatoriale e filo-nazista del maresciallo Pétain.

[3] Nel film viene inquadrata una targa con su scritto: Couvent des Carmes – Petit College – St. Jean de la Croix

[4] Louis Malle, Arrivederci ragazzi, Grugliasco (To), Archimede Edizioni, 1993, p. 14. Tutte le successive citazioni verranno fatte a questo testo e verrà indicata a termine della citazione e tra parentesi la pagina dove si trova la citazione.