Esce “Il buio della ragione. Poesie e testimonianze contro la tortura”, opera antologica a cura di Vito Davoli e Marco Cinque

A cura di Lorenzo Spurio

In questo ricco volume – frutto di un lungo e meticoloso lavoro dei curatori che hanno lanciato il progetto e curato l’intero percorso editoriale – figurano raccolte numerose testimonianze reali, frutto di ricerche e rapporti personali del giornalista e attivista Marco Cinque («Il Manifesto», «Le monde Diplomatique») con chi ha vissuto sulla propria pelle varie forme di tortura.

A compendio vi è un nutrito corpus di testi poetici, tra storici e moderni, affiancati da componimenti di autori contemporanei che hanno aderito al tema sperimentandolo, nei propri versi, in forma personale, finanche con la rievocazione di tristi episodi della storia e della cronaca odierna.

Poeti italiani e internazionali dei nostri giorni hanno aderito a questo progetto corale che ha anche un’importante finalità benefica, strettamente voluta dai curatori, il già citato Marco Cinque e Vito Davoli, noto poeta, critico e organizzatore culturale pugliese, ovvero quella di devolvere i proventi a Gazzella Onlus, un’associazione che si occupa di cure e di riabilitazione per bambini palestinesi, vittime innocenti delle brutture e delle crudeltà di una delle varie guerre ora in corso.

Sono raccolti testi a tema “la tortura” (realtà alla quale è dedicata un’apposita giornata di ricordo e sensibilizzazione, il 26 Giugno) provenienti, oltre che dall’Italia, dalla Spagna, dall’Albania, dall’America, dal Nicaragua, dall’Uruguay, dalla Palestina, dalla Costa Rica, dall’India, dal Perù, dalla Grecia, dal Messico, da El Salvador, dal Venezuela, dalla Giordania, dall’Ecuador, da Cuba, dalla Bolivia.

Il volume, che riporta in copertina uno scatto fotografico dello stesso Cinque che assomma fascino e inquietudine con lo scorcio della statua di Giordano Bruno (arso sul rogo nell’anno 1600 su decisione del Sant’Uffizio) di Campo de’ Fiori nella Capitale, si apre con la preziosa prefazione di Riccardo Noury, Responsabile per la Comunicazione di Amnesty International Italia dal titolo “Universalmente proibita, praticata ovunque: la tortura nel mondo” nella quale accenna a varie forme di tortura nel mondo orientale e ricorda anche le aberrazioni avvenute in territorio cubano nel carcere americano di Guantanamo e sul territorio iracheno nel tristemente noto Abu Ghraib, alcuni anni fa. Noury passa poi a riflettere sui nuovi metodi di tortura attuali, forse più infidi e sicuramente meno patenti, che si sviluppano nel clima omertoso e nella condizione di ostaggio ideologico o politico, che sfrutta e brutalizza ben più il pensiero che il corpo. Drammi di violenze psicologiche reiterate e abusi comportamentali, vessazioni verbali imperniate sull’accusa e la degradazione dell’io. Il prefatore non a caso parla di un nefando «approccio manageriale, in cui viene studiato ogni “punto debole del nemico” e curato ogni minimo dettaglio della conduzione degli interrogatori e del trattamento riservato a un prigioniero».

L’ampio compendio delle “testimonianze” sulle torture che fa seguito ai testi critici di apertura vede i racconti drammatici e raccapriccianti di Lynda Lyon, Scotty Moore, Robert Wallace West, Dominique Green El, Nanon Williams, Michael Sharp, Ahmed Rabbani, Enrique Mario Fukman, Shi Dong-Hyuk, Agnés Callamard, Vahit Gunes, Zhura, Italia Méndez, Loretta Rosales, Lelia Pérez, Antonin Artaud, Vittorio Bologresi, Roberto Settembre, Fernando Eros Caro, Meena Keshwar Kamal, Karl Louis Guillen, Ray “Orso-che-corre” Allen, Jumah Al-Dossari, Liubka Sevstova, Alexandro Panagulis, Simona Foconi, Silvia Giacomelli, Carlos Mauricio, Alda Merini, Maria Mercedesa Carranza, Igiaba Scego, Louis Aragon, Salvatore Quasimodo, Tommaso Campanella, John Berger, Pietro Valpreda, Bobby Sands, Roque Dalton, Ghiannis Ritsos, Ada De Judicibus Lisena, Wislawa Szymborska. Ogni nome è una storia amara, dolorosa da leggere e da accettare come reale. I curatori hanno raccolto una grande quantità di materiali e testimonianze in grado di dare una mappatura – sicuramente non completa – ma assai elaborata e rappresentativa dei vari deliri della ragione nel tempo e nello spazio. Arricchiscono queste testimonianze degli orrori, racconti inenarrabili e indelebili, quelli delle torture operate in Cile e quelle italiane in Somalia e a Nassiriya nonché quelle tristemente più diffuse nelle carceri minorili; un’intera sezione è dedicata alle “Voci dai lager libici”. Vi è anche la vicenda forse meno nota ma non per questo non meno degna di attenzione delle Residential Schools in Canada.

La sezione dei poeti contemporanei del Belpaese è ben nutrita di componimenti, tra cui quelli di (citiamo, per motivi di scarsità di spazio, solo alcuni dei poeti e delle poetesse inserite): Nicola Accettura, Marco Cinque, Vittorino Curci, Vito Davoli, Tania Di Malta, Barbara Gortan, Rita Greco, Alfonso Guida, Giuseppe Langella, Annachiara Marangoni, Giampaolo G. Mastropasqua, Guido Oldani, Rita Pacilio, Gianni Antonio Palumbo, Giulia Poli Disanto, Paolo Polvani, Anna Santoliquido, Lorenzo Spurio, Mara Venuto e Pasquale Vitagliano. Seguono le opere dei poeti stranieri e in appendice i componimenti di tre grandi letterati della nostra età: il greco Sotirios Pastakas, l’indiano Sudhakar Gaidhani e il palestinese Ali Al Ameri.

Il giornalista Angelo Selletti ha parlato in un articolo di questa crestomanzia tematica nei termini di «una sorta di olimpo della poesia, italiana e internazionale, considerando i nomi che hanno aderito al progetto poetico e solidale» richiamando le considerazioni di Davoli che ha scritto: «poeti straordinari con storie di vita e carriere formidabili. Avere avuto il privilegio di leggerli e di organizzare questa antologia godendoli tutti insieme, è stata una fatica che ha ripagato verso dopo verso, pagina dopo pagina». L’altro curatore, Marco Cinque, nel suo testo ha ricordato anche la nefanda pratica regolarizzata da un vetusto e infame sistema legislativo che, in Italia come in altri Paesi del Vecchio Continente, riconosceva il delitto d’onore: tutelando la rispettabilità dell’uomo (marito o padre) acconsentiva tacitamente all’utilizzo di forme di potere e violenza sulla donna. Cinque definisce l’operazione editoriale in maniera convinta e sentita nei termini di una «forma di resistenza partecipata e interattiva che possa fare argine alla disumanità che incombe, ormai in ogni parte del mondo».

La pubblicazione ha avuto il sostegno dell’Accademia delle Culture e dei Pensieri del Mediterraneo, dell’Associazione Verso Levante APS, del magazine letterario «Pubblicazioni Letterariæ» e della rivista di letteratura «La calce e il dado».

La prima presentazione ufficiale è prevista a Roma per lunedì, 11 novembre. Ulteriori dettagli e aggiornamenti sulla pagina Facebook ufficiale de Il buio della ragione.

Ricordando la finalità benefica dell’iniziativa editoriale, si riporta in formato grafico il codice QR la cui scansione permette di accedere alla pagina che dà notizia delle possibilità di acquisto con relativa scontistica. A continuazione si riportano i dati per coloro che vorranno sostenere le attività della Gazzella Onlus:

CC bancario nr. 1052792

IBAN: IT 54 D 05018 03200 0000 110 52792

Intestazione: GAZZELLA ONLUS – c/o BANCA ETICA di Roma

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Lorenzo Spurio

Matera, 27/08/2024

Intervista a Cristina Canovi, autrice di “Favole crudeli”, a cura di Lorenzo Spurio

 Intervista a CRISTINA CANOVI

Autrice di FAVOLE CRUDELI,

Limina Mentis Editore, Villasanta (MB), 2008

Isbn: 978-88-95881-03-04

 

 

a cura di Lorenzo Spurio

Blog Letteratura e Cultura

 

 

LS: Come dobbiamo interpretare il titolo che hai scelto per la tua ultima opera pubblicata?

CC: Sono sempre stata affascinata dalla crudeltà implicita nelle favole. Sono cresciuta nella terra della Cianciulli, la saponificatrice di Correggio, e un implacabile senso del magico, coniugato con dettagli macabri e con prepotenti minacce, hanno costituito il tessuto sul quale si è basata la mia educazione. Le fiabe dei fratelli Grimm, le favole di Fedro ed Esopo e una cronaca nera immaginaria, più che reale, mi hanno fatto buona (o forse cattiva) compagnia per molti anni. Ancora oggi continuo a stupirmi per certi metodi educativi non proprio “montessoriani” e per la spietata crudeltà presente in certa letteratura per ragazzi. Con i miei racconti, vorrei invitare a una riflessione sulla paura, lacerandone miti e contorni, per trasformare uno scomodo disagio in piacere: il piacere di avere paura. Io ci sono riuscita e vorrei condividere questa conquista e questo regalo con i miei lettori.

LS: Un autore negherà quasi sempre che quanto ha riportato nel suo testo ha un riferimento diretto alla sua esistenza ma, in realtà, la verità è l’opposto. C’è sempre molto di autobiografico in un testo ma, al di la di ciò, il recensionista non deve soffermarsi troppo su un’analisi di questo tipo perché risulterebbe per finire fuorviante e semplicistica. Quanto c’è di autobiografico nel tuo libro? Sei dell’idea che la letteratura sia un modo semplice ed efficace per raccontare storie degli altri e storie di sé stessi?

CC: Molte delle storie contenute in “Favole crudeli” sono assolutamente inventate. Altre, invece, come “Colloqui di lavoro”, sono grottescamente vere. Direi che il libro è autobiografico al 50%. Anche in quelli che possono sembrare meri esercizi di stile, come i viaggi allucinatori di “Conservo la tua memoria come un’ovvia polvere di mummia” e “Mesmerismo”, traspare qualcosa di me: una traccia delle letture che mi hanno influenzata, un’eco della mia identità. Sono profondamente affascinata dalla capacità curativa della letteratura. Pur avendo più che una simpatia per la prospettiva emergentista di Eric Kandel, credo nel potere della parola, nelle “Storie che curano”, facendo riferimento al testo di James Hillman (ma qui il discorso diventerebbe estremamente lungo, fino ad arrivare ai racconti terapeutici di Milton Erickson, che hanno rappresentato per me un’importante fonte di crescita). Sono d’accordo con te quando affermi che la letteratura è un modo semplice ed efficace per raccontare storie degli altri e storie di se stessi. Penso che scrivere sia un modo costruttivo e appagante per contattare la propria natura più profonda, per mettersi in gioco e donarsi agli altri, possibilmente regalando loro qualche momento di svago e di riflessione. Quando leggo un libro che mi piace, istintivamente mi affeziono all’autore, sento per lui un grande affetto. Sarei davvero felice se qualcuno, leggendo i miei libri, ne fosse divertito (oltre che destabilizzato: non dimentichiamo che i miei testi sono molto “neri”) e mi volesse bene”.

LS: Quali sono i tuoi autori preferiti? Quali sono le tendenze, le correnti italiane e straniere e i generi letterari che più ti affascinano? Perché?

CC: Premesso che leggo un po’ di tutto (anche se in questi ultimi anni mi sono dedicata prevalentemente a testi di psicologia, ambito nel quale ho di recente conseguito la seconda laurea), in questi ultimi mesi sono stata piacevolmente “catturata” da Chuck Palahniuk. Lo trovo divertente, profondo, sconvolgente, appassionante. Non sono riuscita a smettere di leggere questo autore fino a quando non sono arrivata all’ultima pagina del suo ultimo libro. Adoro il suo stile: pulp, incalzante, irriverente, imprevedibile. Un altro autore che amo profondamente è Oscar Wilde: un innamoramento che ha radici nella mia adolescenza. E, tornando al pulp, mi piace moltissimo Lansdale, che propone un plot horror sempre molto sopra le righe. L’horror è il genere letterario che frequento con maggiore piacere, anche se è difficile trovare autori veramente meritevoli di essere letti. Ovviamente, la mia preferenza va a Stephen King che, nonostante le critiche feroci che lo rincorrono, ha un ritmo narrativo perfetto e una scrittura particolarmente originale (mi riferisco, nello specifico, alla saga western-fantasy della “Torre nera”, ma penso anche a “It” o “Duma Key”). Mi piacciono molto anche autori più “di nicchia”, come il Pennac “nerissimo” della saga dei Malaussène o come il Ray Bradbury della poetica e strana famiglia di “Ritornati dalla polvere”. Non seguo una vera e propria tendenza nelle mie letture. Preferisco accostarmi ad un autore e leggerne l’opera omnia. Posso dirti che non amo il fantasy, ma adoro ugualmente scrittori fantasy come Terry Pratchett e Neil Gaiman. Insomma: sono una lettrice vorace e un po’ atipica. Tra gli italiani, oltre ad autori ormai ritenuti classici, come Calvino e Buzzati, leggo con grande piacere i contemporanei Lucarelli, Ammaniti e Baldini. In tutti questi scrittori trovo sempre un brivido di fondo, una sfumatura noir che passa dal galante allo sfacciato. E adoro Stefano Benni, perché mi diverte in modo intelligente: è irresistibile!

LS: So che rispondere a questa domanda sarà molto difficile. Qual è il libro che di più ami in assoluto? Perché? Quali sono gli aspetti che ti affascinano?

CC: Questa è davvero una domanda difficilissima! C’è un libro, in effetti, che rileggo ogni anno: è la raccolta di racconti di Roal Dahl “Storie impreviste e storie ancora più impreviste”. Di questo libro amo moltissimo lo stile: perfetto, dosato con perizia quasi chirurgica. La stesura di ogni racconto ha richiesto oltre otto mesi di lavoro. Sono storie davvero imprevedibili, caratterizzate da un umorismo nero assolutamente geniale. Dahl è un autore avvincente anche nella sua produzione per ragazzi: crudele, politicamente scorretto e, in fondo in fondo, anche moralista, come piace a me. A pari merito metterei (anche se, vista la mole, non è frequente oggetto di riletture) un libro completamente diverso: “La vita, istruzioni per l’uso”, di Georges Perec. Mi piace per la sua complessità, per gli spunti di riflessione che offre, per l’umorismo, per l’originalità dello stile e perché, ogni volta che lo prendo tra le mani, mi ci perdo. Per fortuna c’è una pianta della struttura proprio all’inizio del volume!

LS: Quali autori hanno contribuito maggiormente a formare il tuo stile? Quali autori ami di più?

CC: Per lo stile mi piace molto Dahl, con i suoi finali a sorpresa, “cattivissimi”, che lasciano spazio all’immaginazione: i racconti di “Favole crudeli” hanno tutti finali inconsueti. Devo ammettere che c’è anche un pizzico di Queneau, dal quale mi sento molto influenzata. Questi maestri mi sono rimasti nel cuore, oltre che nella penna, o meglio, nella tastiera del pc. Sono loro gli autori che amo di più. Insieme a Stephen King eccetera (dei quali ti ho già parlato) e insieme ad altri che non ho ancora ricordato, come Kundera e Poe.

LS: Quali libri hai pubblicato? Puoi parlarcene brevemente?

CC: Per quanto riguarda la saggistica, ho pubblicato un testo, da tempo fuori commercio, sul teatro del Grand Guignol (l’horror continua ad essere la mia più grande passione) e, di recente, un saggio sull’intuizione, uscito nel volume collettivo “Intuito e intuizione”, a cura di Giacomo Gatti, edito da Limina Mentis. I titoli si commentano da soli… Per la stessa casa editrice ho pubblicato un romanzo intitolato “Sangue, sapone e camicie di forza”. E’ ambientato nel manicomio di Reggio Emilia, il San Lazzaro, e parla della sofferenza e della follia di una donna di nome Ardilia, che ebbe la sfortuna di incrociare la vita di Leonarda Cianciulli, la saponificatrice di Correggio, una delle non infrequenti donne serial killer della storia. Mentre la cornice si attiene a fatti di cronaca realmente accaduti, ogni fatto attribuito alla protagonista è frutto della mia fantasia. Questo libro nasce da anni di ricerca e da lunghe e dolorose letture: oltre agli scritti di Alda Merini e ai volumi di medicina, ho consultato anche tanti altri testi realizzati da pazienti manicomiali. Il volume, al di là del titolo inelegante che ho voluto dargli, contiene, nelle mie intenzioni, una scrittura della sofferenza e un invito ruvido e maleducato a guardare dentro il dolore degli altri, a non dimenticarli. Anche qui ci sono spunti horror, che compaiono negli incubi e nei deliri della protagonista, ma c’è soprattutto un’introspezione profonda, anche volutamente fastidiosa a tratti, che intende mettere in luce la disperazione della follia, il dolore tremendo di un’identità che si sgretola. Nel libro ho incluso anche un’introduzione dedicata alla storia della pazzia: è molto breve e molto semplice, si tratta di una tesina che ho realizzato per l’esame di Psichiatria e che, pur essendo estremamente sintetica, contiene i punti chiave dell’argomento, senza annoiare il lettore (spero). Ovviamente, una trattazione estesa richiederebbe qualche migliaio di pagine, ma  esistono già molti testi di questo tipo. Nella post-fazione ho invece ricostruito le vicende giudiziarie della Cianciulli.

LS: Collabori o hai collaborato con qualche persona nel processo di scrittura? Che cosa ne pensi delle scritture a quattro mani?

CC: Purtroppo non ho mai avuto modo di lavorare insieme ad altri scrittori, anche se mi piacerebbe moltissimo. Credo che sarebbe un’esperienza di scambio e di condivisione insostituibile. Mi è piaciuto tantissimo collaborare al volume di Giacomo Gatti “Intuito e intuizione”: il confronto con Giacomo è stato preziosissimo e molto divertente, anche se non si è trattato, purtroppo, di una scrittura a quattro mani. Trovo che questo tipo di produzione letteraria, quando abbina menti fertili, sia straordinaria. Penso, in particolare, alla coppia Preston-Child: mi piacciono molto i loro thriller! Sono davvero originali e avvincenti.

LS: A che tipo di lettori credi sia principalmente adatta la tua opera?

CC: Innanzitutto ad un pubblico di adulti. Forse il titolo “Favole crudeli” può trarre in inganno, ma il libro contiene testi difficili da “metabolizzare” per un pubblico di bambini. Credo, inoltre, che il mio lettore-tipo debba amare il noir, il brivido, l’inconsueto. Dovrebbe essere disposto ad aprire la mente, a pensare, lasciandosi coccolare e strapazzare, senza trattenere i sorrisi e le lacrime.

LS: Cosa pensi dell’odierno universo dell’editoria italiana?

CC: Penso che sia un mondo eccessivamente soggetto alla moda. Quando viene pubblicato un libro che mi piace lo acquisto subito, anche se non ho tempo per leggerlo al momento, perché so che può uscire presto dalla produzione e diventare irreperibile. Infatti, se per qualche motivo il successo dell’autore si esaurisce, i suoi libri divengono introvabili. Penso ai libri di Borges, prima che Adelphi li ristampasse: per anni non è stato proprio possibile reperirli. Ritengo, inoltre, che i libri in Italia siano eccessivamente costosi. Come lettrice-feticista, difficilmente prendo i libri in prestito in biblioteca, e acquistare un volume mi impegna un po’ troppo economicamente.

LS: Pensi che i premi, concorsi letterari e corsi di scrittura creativa siano importanti per la formazione dello scrittore contemporaneo?

CC: Sì, penso che i corsi di scrittura creativa possano essere preziosi per perfezionare la tecnica e che offrano ottimi spunti anche per inventare una trama e trovare uno stile personale. Per quanto riguarda premi e concorsi letterari, trovo che siano molto stimolanti e che siano un’eccellente vetrina per gli autori esordienti.

LS: Quanto è importante il rapporto e il confronto con gli altri autori?

CC: Il confronto con gli altri autori per me è molto importante e anche molto impegnativo, visto che i miei modelli di riferimento sono scrittori affermati, autentici geni della letteratura. Per farti un esempio, per quanto mi dedichi con passione alla scrittura, so che non diventerò mai “brava” come Carlo Lucarelli: la sua tecnica, il suo ritmo sono assolutamente inarrivabili. E’ proprio leggendo che ho provato il desiderio di scrivere. Purtroppo, al momento, non ho rapporti con scrittori in carne e ossa, quindi devo accontentarmi di amici cartacei con i quali confrontarmi.

LS: Il processo di scrittura, oltre a inglobare, quasi inconsciamente, motivi autobiografici, si configura come la ripresa di temi e tecniche già utilizzate precedentemente da altri scrittori. C’è spesso, dietro certe scene o certe immagini che vengono evocate, riferimenti alla letteratura colta quasi da far pensare che l’autore abbia impiegato il pastiche riprendendo una materia nota e celebre, rivisitandola, adattandola e riscrivendola secondo la propria prospettiva e i propri intendimenti. Che cosa ne pensi di questa componente intertestuale caratteristica del testo letterario?

CC: Credo che sia inevitabile portare l’impronta di altri scrittori, essere influenzati dagli autori che abbiamo amato: entrano nella nostra memoria e nella nostra storia personale, riscrivono la nostra identità. Quando la citazione non scade nel plagio, risulta lusinghiera per il lettore più attento (pensa a Dylan Dog…). Soprattutto in certi generi letterari molto rigidi e stereotipati, come l’horror o come la fiaba, è impossibile evitare di riscrivere una trama già nota. L’originalità del testo è costituita dallo stile, dall’intreccio e dalla ricombinazione di moduli fissi. Penso anche alla chick lit, che si muove seguendo volutamente i sentieri tracciati da Jane Austen: l’esperienza della lettura può risultare piacevole proprio per l’abbinamento di un intreccio classico con temi della quotidianità, che sfociano in situazioni tragicomiche, con la promessa di un lieto fine, implicito nel genere stesso.

 

 

Lorenzo Spurio

scrittore, critico-recensionista

Blog Letteratura e Cultura

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Intervista a Martino Ciano, autore di “Le danze del tempo”, a cura di Lorenzo Spurio

Intervista a Martino Ciano

Autore di Le Danze del tempo

Roma, Arduino Sacco Editore, 2011

 

a cura di Lorenzo Spurio

 

LS: Come dobbiamo interpretare il titolo che hai scelto per la tua opera?

MC: Distruzione del tempo esterno. Dissolvimento del rapporto causa/effetto. Ritorno al tempo interno. Una sorta di inner space, un tempo che nell’anima diventa fisico, palpabile, rappresentabile solo attraverso un collage di ricordi. Un ready-made dadista, insomma, in cui simboli, esperienze, emozioni, si uniscono in un rapporto che solo concettualmente può essere compreso.

LS: Un autore negherà quasi sempre che quanto ha riportato nel suo testo ha un riferimento diretto alla sua esistenza ma, in realtà, la verità è l’opposto. C’è sempre molto di autobiografico in un testo ma, al di la di ciò, il recensionista non deve soffermarsi troppo su un’analisi di questo tipo perché risulterebbe per finire fuorviante e semplicistica. Quanto c’è di autobiografico nel tuo libro? Sei dell’idea che la letteratura sia un modo semplice ed efficace per raccontare storie degli altri e storie di sé stessi?

MC: Tutto. L’arte vera nasce dalla sofferenza, da come noi interpretiamo i nostri traumi. “Le danze del tempo” è pieno di riferimenti autobiografici. L’inquietudine che guida questo libro è del tutto personale. L’inconsapevole viaggio verso l’espiazione dell’ex tenente Karl Von Kliest, è anche la mia. Nel libro c’è una ricerca profonda che tende alla fede, come tu hai sottolineato anche nella tua recensione, ma soprattutto c’è il tentativo di scoprirsi e di risolvere i propri traumi. La scrittura, quindi, diventa uno sfogo. Le parole contenute ne “Le danze del tempo” sono state scelte con cura, come macchie di colore, che devono riempire un quadro, certamente personale ma al contempo assimilabile da tutti. Almeno, questo è stato il mio intento, spero di averlo raggiunto.

LS: Quali sono i tuoi autori preferiti? Quali sono le tendenze, le correnti italiane e straniere e i generi letterari che più ti affascinano? Perché?

MC: Philip Dick, Huxley, Orwell, Borges, Pasolini, Bukowski, D’Annunzio, Campana, Ballard, Sartre, Bernard. Sono solo alcuni degli autori che leggo. Non ho un genere preferito, ma cerco nuove letture in base alle mie esigenze. In questo periodo mi sto appassionando a Landolfi e a Burroughs. Un paio di anni fa mi sono incaponito con i futuristi, Marinetti in primis. Certo se dovessi indicare un genere e un autore, beh, senza indugio direi che il mio preferito è Thomas Bernhard e il suo stile è stato per me sempre un’ispirazione.

LS: So che rispondere a questa domanda sarà molto difficile. Qual è il libro che di più ami in assoluto? Perché? Quali sono gli aspetti che ti affascinano?

MC: Ripeto. Estinzione di Thomas Bernhard. Legge nel profondo dell’anima, caratterizza i personaggi attraverso un’analisi introspettiva che mai avevo trovato in altri libri. Cinico e aulico allo stesso momento. Tratta l’estinzione come momento di profonda polverizzazione di noi stessi. Estinguersi per rinascere, rinascere per ri – estinguersi, togliendo di volta in volta ciò che non ci appartiene più da tempo. Insomma, un capolavoro della letteratura.

LS: Quali autori hanno contribuito maggiormente a formare il tuo stile? Quali autori ami di più?

MC: Posso farti un altro nome a cui sono molto affezionato: Celine. “La morte a credito” ha ispirato molto le allucinazioni del mio Von Kliest. Ma ripeto, non saprei indicarti quali autori o generi mi hanno formato, perché io leggo tutto. Posso però dirti cosa non leggerei: i thriller scandinavi, veri massacri allo stile.

LS: Collabori o hai collaborato con qualche persona nel processo di scrittura? Che cosa ne pensi delle scritture a quattro mani?

MC: Purtroppo no, ma mi piacerebbe parecchio. Credo che la scrittura a quattro mani possa solo migliorare un’opera. E poi la collaborazione fa sempre bene. L’arte è armonia e questa può aversi solo con la concordia di più elementi. Anche nel caos c’è un’armonia, un filo conduttore, Borges ne è maestro (un’altra mia ispirazione). Insomma, lancio un messaggio, se qualcuno vuole collaborare con me, io non ho problemi.

LS: A che tipo di lettori credi sia principalmente adatta la tua opera?

MC: Non voglio essere presuntuoso ma credo che tutti possano leggere questo libro. Le danze del tempo è scritto in maniera elementare e semplice. Nasconde tanto, parla di molte cose, ma non stanca il lettore. Ho sempre pensato a questo libro come una favola nera sul tempo e sul rimorso. La favola contiene in se una morale, logicamente non voglio insegnare nulla a nessuno, voglio solo tirare le somme. Chi vuole avvicinarsi a questo libro deve solo liberarsi di una cosa, del pregiudizio. Prima di approdare alla Arduino Sacco editore, ricordo che il rappresentante di una casa editrice ha rifiutato questo libro, perché a suo avviso, c’era il sospetto di apologia al nazismo. Non aggiungo altro.

LS: Cosa pensi dell’odierno universo dell’editoria italiana? Come ti sei trovato/a con la casa editrice che ha pubblicato il tuo lavoro?

MC: La Arduino Sacco editore si è comportata benissimo. E’ una casa editrice competente e soprattutto chi vi lavora è un appassionato che sa far bene il proprio lavoro. Per quanto riguarda l’editoria italiana, beh, la situazione è terribile. Non c’è spazio per un esordiente a meno che non ci siano poteri forti che lo supportano. Per me poi il lavoro è doppio. Vivo in Calabria, cioè nel deserto. È difficile promuovere il libro, è difficile parlare di letteratura, è difficile concepire la scrittura.

LS: Pensi che i premi, concorsi letterari e corsi di scrittura creativa siano importanti per la formazione dello scrittore contemporaneo?

MC: No. Leggere, leggere, leggere. Queste sono le cose che possono aiutare lo scrittore contemporaneo, così come hanno aiutato lo scrittore del passato. Leggere con curiosità, guardare al mondo con ambizione. Tutto è stato scritto, poco però rimane nel cuore e nella mente. Perché? E posso aggiungere, perché sappiamo ma non reagiamo al fatto che i grandi concorsi sono guidati dai grandi gruppi editoriali? Perché non ridiamo di quegli scrittori che hanno fatto del libro una merce? Ben rilegato, ben impacchettato, ma con poca sostanza? La gente legge thriller, noir, gialli e crede di aver letto. Questo avviene perché la letteratura è vista come un passatempo e non come una materia che può aprire la mente. Fammelo dire senza censure, a me tutti questi assassini seriali e psico – non so cosa, hanno rotto le scatole. E proprio questi spadroneggiano in alcuni blasonati concorsi letterari, e dai quali lo scrittore contemporaneo dovrebbe trarre ispirazione.

LS: Quanto è importante il rapporto e il confronto con gli altri autori?

MC: Tanto. Sono sempre alla ricerca del confronto e grazie a “Le danze del tempo” mi sto avvicinando a nuove esperienze.

LS: Il processo di scrittura, oltre a inglobare, quasi inconsciamente, motivi autobiografici, si configura come la ripresa di temi e tecniche già utilizzate precedentemente da altri scrittori. C’è spesso, dietro certe scene o certe immagini che vengono evocate, riferimenti alla letteratura colta quasi da far pensare che l’autore abbia impiegato il pastiche riprendendo una materia nota e celebre, rivisitandola, adattandola e riscrivendola secondo la propria prospettiva e i propri intendimenti. Che cosa ne pensi di questa componente intertestuale caratteristica del testo letterario?

MC: Verissimo e aggiungo, non potrebbe essere altrimenti. Anzi, in me è ancora più palese visto che leggo tantissimo. Se guardo al mio primo libro Il canto della cecità, aveva un linguaggio simile a quello di D’Annunzio, Tolstoj e Dostoievskij perché amavo quegli scrittori. Ho cominciato a scrivere Le danze del tempo nel 2006, cioè, quando da D’Annunzio passo a Borges e poi a Marinetti e poi a Pasolini e Bernard. Il risultato? Molti si sono accorti che i primi due capitoli del libro sono scritti in un modo, dal terzo alla fine, lo stile cambia completamente.

LS: Hai in cantiere nuovi lavori e progetti per il futuro? Puoi anticiparci qualcosa?

MC: Sì. Sto scrivendo una terza opera. Dovrebbe chiamarsi Iride o Nell’ora della morte. Sarà un libro sul delirio, sul non senso, ma soprattutto svilupperà una tematica a me cara: l’immanenza. Sarà sempre una fiaba, scritta in maniera semplice e diretta. Non si spaventi chi legge queste parole, sfrutto la filosofia solo come tramite, l’argomento da me trattato viene sempre nascosto dietro la trama. Nel caso de Le danze del tempo, il filo conduttore è l’entropia. Ed in fondo credo che questo sia il compito della letteratura, rendere fruibile a tutti, anche a chi ignora certe cose, eventi che ci sembrano lontani. In poche parole: la vita nella sua molteplicità.

 

A CURA DI Lorenzo Spurio

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“Le danze del tempo” di Martino Ciano, recensione a cura di Lorenzo Spurio

Le danze del tempo

di Martino Ciano

con prefazione di Tania Paolino

Roma, Arduino Sacco Editore, 2011

ISBN: 978-88-6354-372-8

Pagg. 143

 

Recensione a cura di Lorenzo Spurio

  

“La sua droga perfetta era il passato” (pag. 51).

 

Confesso senza remore che i romanzi di guerra o che comunque fanno riferimento a particolari momenti storici di conflitto o di ribellioni non sono il mio forte ma ho accettato con piacere di leggere il romanzo di Martino Ciano, scrittore esordiente calabrese, grande studioso di storia. Dopo un’interessantissima nota di prefazione curata da Tania Paolino, nella quale si sottolinea soprattutto il valore del tempo nel romanzo, la lettura si snoda attraverso una serie di capitoli che in esergo riportano citazioni tratte dalla Bibbia. La storia contenuta nel romanzo è triste e inumana, come lo sono tutte le storie di guerra. Martino Ciano mette in scena non tanto il dolore e la devastazione degli oppressi ma il cinismo e la spregiudicatezza di coloro che si credono superiori, invincibili, potenti sopra ogni cosa. Di coloro che credono di poter decidere le sorti degli altri quando invece questo è un compito che appartiene solo a Dio.

Il setting iniziale con il quale si apre la storia è Auschwitz, luogo che non necessita di presentazioni. E’ il 1944 e al lager arrivano deportati dalle varie zone della Germania. Siamo, però, come narra la storia, alle ultime battute del regime hitleriano. Il tenente Karl Von Kliest, “l’immagine del perfetto ariano” (pag. 21), si rende colpevole di una serie di violenze e crudeltà tra cui l’uccisione dell’ebreo Jacob e di suo figlio Ismael, nomi che ricordano importanti personaggi biblici. Von Kliest rappresenta la Germania nazista, è un prepotente convinto degli ideali della purezza della razza; decide e manda a morte chi vuole arrogandosi un compito che non gli appartiene. E’ un piccolo Hitler, anzi forse addirittura più potente di Hitler che, come si è detto, ormai si trova nella sua fase calante. Ciano scrive, infatti, “Hitler ormai è finito. Ha paura anche di se stesso” (pag. 26).

Ma come narra la storia, lentamente le cose volgono male per i nazisti e le armate russe fanno il loro ingresso in Germania minacciando Berlino che poi riescono ad assediare. Il tenente viene mandato a Berlino dove, assieme ad altri gerarchi valorosi, è tenuto a organizzare la difesa della città. Non ci riusciranno e tra tanta morte e distruzione il tenente riuscirà a salvarsi e mettersi in fuga. L’impressione che ho avuto è che Ciano sottolinei di continuo l’impossibilità di salvezza per i deboli, i poveri, gli emarginati e sfruttati e di contro l’invincibilità, la salvezza dei cattivi, dei criminali quasi come se Dio osservasse tutto di nascosto e neppure lui riuscisse a regolare gli eventi.

Ma quando la Germania è ufficialmente caduta e con essa lo spregiudicato regime, allora le cose cambiano e non c’è più posto per i crudeli nazisti che prima hanno dominato la scena. Chi fugge, chi si salva, chi si converte, chi si pente, chi si autoelimina, chi nascosto rimane convinto delle proprie idee. Von Kliest decide di farsi fuori. Non riesce a sopportare di vivere in una società che non risponde più ai suoi ideali, ai progetti della sua gente. Non accetta la sconfitta. Non vuole lasciarsi uccidere dai rossi e lasciare che il proiettile delle loro pistole macchi quel corpo ariano e ne sconsacri l’essenza. Si punta la pistola alle tempie ma solo in quel momento, similmente a una pistola scarica nel celebre Gli Indifferenti di Moravia, scopre che i colpi sono finiti. E’ un caso? E’ una vendetta del destino? Non lo sappiamo fino a che non continuiamo nella lettura. La mia idea è che il non poter morire del tenente sia una sorta di pena divina silente come avviene al vecchio marinaio dell’omonima ballata di S.T. Coleridge. Ma come sempre la vita è fatta di un prima e un dopo, un passato e un presente. Ci troviamo ora a Colonia, città natale del tenente, nel 1962. La guerra è finita da tempo, sono trascorsi anni difficili e la ricostruzione del paese è stata lenta e dolorosa. La guerra non solo ha cambiato i luoghi, distrutto le case e annientato intere famiglie, ma ha contribuito a incrinare le psicologie dei sopravvissuti, rendendoli deboli, incurabili in virtù dei traumi subiti. Il tenente, seppur anziano, mantiene in un certo senso la sua integrità di sempre; “La sua anima ancora ricordava il passato, lo desiderava” (pag. 50), scrive Ciano. Sappiamo bene che chi vive del passato è un uomo che non è in pace con se stesso, nostalgico, solo, inattuale e pericoloso. E ancora una volta Karl si identifica con il marchio della dissolutezza, della perversione e dell’immoralità: è nazista nell’anima, alcolista, misogino, violento, tradisce la moglie e ancora a distanza di anni non riesce ad accettare (e forse a comprendere) che la sua Germania gloriosa non c’è più e che gloriosa non lo è mai stata: “ma io ci credo ancora” (pag. 56), confida a un suo vecchio amico.

La costruzione antitetica dei personaggi che popolano il romanzo esemplifica questa struttura manichea del mondo: i nazisti contro gli ebrei, i tedeschi contro i bolscevichi, il Bene e il Male, l’umano e l’animalesco, Dio e Satana, l’amore verso l’altro e l’amore verso se stesso, la ragione e la forza, l’io e l’altro. Ma in fondo non sono rilevanti nomi, luoghi, anni e altre caratterizzazioni che ci consentono di inserire la storia in un particolare momento perché una storia di guerra è metafora di ciascuna guerra, sia essa europea o a noi lontana.

Il tenente Von Kliest vive in una dimensione che è fatta di ricordi del passato, di memorie, di progetti e idee che nel passato non hanno preso corpo e il suo presente non è che un passato onnipresente che non annuncia mai a dar la staffetta a quel presente liquido, attuale, al momento. E’ un uomo che mentalmente è già morto e sepolto da decenni, come la sua ideologia, ma che vive in un corpo regredito e involuto. E’ espressione più chiara dell’imbarbarimento della società, dell’illusorietà della superiorità dei potenti sui deboli, del ritorno forzato a un sistema tirannico, prepotente, insano, chiaramente impopolare e inattuale per il suo tempo. E’ un ritorno allo stato di natura, a quella selvaggia e primordiale. Ma anche per lui arriva il momento della resa dei conti: la presa di coscienza, il pentimento, il rimorso, la paura del suo passato. Guardando sua figlia Martha, infatti, non può far a meno di ricordare gli innocui occhi di Ismaele, un bambino ucciso anni prima solo perché ebreo e perché aveva inveito contro di lui per difendere suo padre. E così Karl finisce per “[essere] stuprato da quei ricordi seppelliti” (pag. 59). Ciano impiega un linguaggio freddo, diretto, tagliente e crudo che, però, ben lontano da avere l’intenzione di scioccare, è perfettamente in linea e adeguato a quando va narrando: violenze, nefandezze, stupri, desolazione, rotture, abbandoni, sia fisici che metaforici.

E poi segue il sogno-incubo in cui Karl si vede di fronte a Jacob e Ismael, prova paura e rimorso e l’avvenimento onirico è di sicuro espressione inconscia del fatto che Karl non ha ancora fatto pace con se stesso, con il suo passato che, invece, ritorna a ossessionarlo, minacciarlo, indebolirlo e ad accusarlo per ciò che in assenza di un minimo di raziocinio tanti anni prima ha fatto per asservire un’ideologia assassina. Verso il finale dell’opera tanto egoismo e sicurezza di sé lasciano, però, il posto all’insicurezza, alla debolezza e alla dannazione del personaggio che anni prima si è macchiato di ignominiosi crimini; il suo passato crudele si mischierà al suo presente, alle vicende quotidiane della sua famiglia e proprio all’interno di questo universo si compirà una sorta di vendetta che, troppo pesante da sostenere, lo condurrà a un suicidio (ipotizziamo), questa volta con esito. Ciano condensa il tutto in una frase: “Solo vivendo si comprende la morte, solo peccando si comprende l’espiazione” (pag. 138). C’è una sorta di comprensione e di animo cristiano in questo: il perdono e l’espiazione alle colpe sono sempre disponibili e alla portata di tutti, efficaci solo se l’individuo è capace di crederci veramente.

Ciano ci accompagna in un viaggio doloroso, inserendo le intere vicende narrate in una precisa cornice storica che evidenziano la sua passione e competenza in tale ambito e ci consegna una parabola sulla cattiveria, sulla condizione del cuore umano macchiato dalla colpa. Karl Von Kliest è fratello di Kurtz di Heart of Darkness, e pertanto non è altro che l’espressione più pregnante di quel cuore di tenebra che attanaglia l’umanità.

 a cura di Lorenzo Spurio

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