“Le assaggiatrici” di Rosella Pastorino, recensione di Gabriella Maggio

Recensione di Gabriella Maggio

9788807032691_quarta.jpg.444x698_q100_upscale.jpgLe assaggiatrici è il titolo del romanzo storico di Rosella Postorino, edito da Feltrinelli nel 2018. Sullo sfondo del nazismo s’inserisce la ancora poco nota vicenda delle donne che fanno da cavie a Hitler, assaggiando il cibo preparato per lui, da queste il titolo. La scrittrice si è ispirata alla storia di Margot Wölk, una delle assaggiatrici, morta poco prima di essere da lei intervistata.

Nella finzione narrativa la Postorino ricostruisce la storia di queste donne attraverso l’occhio della protagonista, Rosa Sauer berlinese, trasferitasi nel villaggio dei suoceri per sfuggire ai bombardamenti, e dove, invece di una relativa sicurezza e un recupero d’umanità, l’attende l’incredibile e scoraggiante ruolo di assaggiatrice. Sono le SS a reclutarle.

Il villaggio di Gross-Partsch si trova nella Prussia orientale, vicino alla Wolfsschanze, la Tana del Lupo, l’insieme di bunker seminascosto dalla foresta e dai Laghi Masuri, dove Hitler ha piazzato il comando del fronte orientale.

Rosa racconta la sua esperienza di assaggiatrice mescolandola con quella delle altre donne del gruppo con cui cerca con difficoltà di stabilire un qualche legame nell’ora che segue i pasti, in cui ciascuna aspetta di avvertire i sintomi dell’eventuale avvelenamento. Al presente si confondono ricordi del passato, della madre sarta, del padre ferroviere, del fratello minore a cui senza motivo ha morso una mano, dell’incontro e del breve matrimonio con Gregor, soldato sul fronte orientale, dichiarato disperso. Il tempo della narrazione frammentato dall’incastro tra passato e presente dà la misura dell’intermittenza della vita durante la guerra, tra bombe e veleni, tra assenza e speranza, tra annientamento e umiliazione e istinto vitale.

Si snoda prepotente il tema del senso di colpa della protagonista per il male compiuto direttamente ed indirettamente attraverso l’acquiescenza alla dittatura. Quella che l’aveva accomunato al suo popolo: Quella nazione gli si consegnava e lo dichiarava senza indugio …era il senso di appartenenza che rovesciava la solitudine nella quale chiunque nasca è confinato… Abbiamo vissuto dodici anni sotto una dittatura, e non ce ne siamo quasi accorti…Non c’era alternativa, questo è il nostro alibi…. Non sei immune da nessuna colpa politica, Rosa, le diceva il padre. Lavorare per Hitler, sacrificare la vita per lui: non era quello che facevano tutti i tedeschi?… Una morte da topi, non da eroi. Le donne non muoiono da eroi. Rosa non ha scelta nel diventare un tubo digerente per Hitler, ma l’ha nell’iniziare la relazione con l’ufficiale delle SS Albert Ziegler: Invece avevo camminato verso di lui perché ero una persona che poteva spingersi fino a lì, fino a quella vergogna…. niente alibi né giustificazioni, il sollievo di una certezza….Ogni eroismo mi sembrava assurdo, da anni.  

Le assaggiatrici, insignito del Premio Campiello e del Premio Rapallo per la donna, è coinvolgente, il ritmo serrato della scrittura essenziale e scarna, duttile nell’alternare narrazione, introspezione e dialogo, sollecita il lettore di pagina in pagina fino all’ultima intrigandolo emotivamente con la riflessione sulla responsabilità di ognuno di noi in ogni tempo e nella ricerca di quello che cementa il legame tra gli uomini.

Altrettanto interessanti i temi del cibo che da minaccioso pericolo diventa cemento di amicizia alla fine del libro e del canto consolatore, che Rosa intona in alcune occasioni.

GABRIELLA MAGGIO

 

L’autrice della recensione acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere a seguito di riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.

“Le danze del tempo” di Martino Ciano, recensione a cura di Lorenzo Spurio

Le danze del tempo

di Martino Ciano

con prefazione di Tania Paolino

Roma, Arduino Sacco Editore, 2011

ISBN: 978-88-6354-372-8

Pagg. 143

 

Recensione a cura di Lorenzo Spurio

  

“La sua droga perfetta era il passato” (pag. 51).

 

Confesso senza remore che i romanzi di guerra o che comunque fanno riferimento a particolari momenti storici di conflitto o di ribellioni non sono il mio forte ma ho accettato con piacere di leggere il romanzo di Martino Ciano, scrittore esordiente calabrese, grande studioso di storia. Dopo un’interessantissima nota di prefazione curata da Tania Paolino, nella quale si sottolinea soprattutto il valore del tempo nel romanzo, la lettura si snoda attraverso una serie di capitoli che in esergo riportano citazioni tratte dalla Bibbia. La storia contenuta nel romanzo è triste e inumana, come lo sono tutte le storie di guerra. Martino Ciano mette in scena non tanto il dolore e la devastazione degli oppressi ma il cinismo e la spregiudicatezza di coloro che si credono superiori, invincibili, potenti sopra ogni cosa. Di coloro che credono di poter decidere le sorti degli altri quando invece questo è un compito che appartiene solo a Dio.

Il setting iniziale con il quale si apre la storia è Auschwitz, luogo che non necessita di presentazioni. E’ il 1944 e al lager arrivano deportati dalle varie zone della Germania. Siamo, però, come narra la storia, alle ultime battute del regime hitleriano. Il tenente Karl Von Kliest, “l’immagine del perfetto ariano” (pag. 21), si rende colpevole di una serie di violenze e crudeltà tra cui l’uccisione dell’ebreo Jacob e di suo figlio Ismael, nomi che ricordano importanti personaggi biblici. Von Kliest rappresenta la Germania nazista, è un prepotente convinto degli ideali della purezza della razza; decide e manda a morte chi vuole arrogandosi un compito che non gli appartiene. E’ un piccolo Hitler, anzi forse addirittura più potente di Hitler che, come si è detto, ormai si trova nella sua fase calante. Ciano scrive, infatti, “Hitler ormai è finito. Ha paura anche di se stesso” (pag. 26).

Ma come narra la storia, lentamente le cose volgono male per i nazisti e le armate russe fanno il loro ingresso in Germania minacciando Berlino che poi riescono ad assediare. Il tenente viene mandato a Berlino dove, assieme ad altri gerarchi valorosi, è tenuto a organizzare la difesa della città. Non ci riusciranno e tra tanta morte e distruzione il tenente riuscirà a salvarsi e mettersi in fuga. L’impressione che ho avuto è che Ciano sottolinei di continuo l’impossibilità di salvezza per i deboli, i poveri, gli emarginati e sfruttati e di contro l’invincibilità, la salvezza dei cattivi, dei criminali quasi come se Dio osservasse tutto di nascosto e neppure lui riuscisse a regolare gli eventi.

Ma quando la Germania è ufficialmente caduta e con essa lo spregiudicato regime, allora le cose cambiano e non c’è più posto per i crudeli nazisti che prima hanno dominato la scena. Chi fugge, chi si salva, chi si converte, chi si pente, chi si autoelimina, chi nascosto rimane convinto delle proprie idee. Von Kliest decide di farsi fuori. Non riesce a sopportare di vivere in una società che non risponde più ai suoi ideali, ai progetti della sua gente. Non accetta la sconfitta. Non vuole lasciarsi uccidere dai rossi e lasciare che il proiettile delle loro pistole macchi quel corpo ariano e ne sconsacri l’essenza. Si punta la pistola alle tempie ma solo in quel momento, similmente a una pistola scarica nel celebre Gli Indifferenti di Moravia, scopre che i colpi sono finiti. E’ un caso? E’ una vendetta del destino? Non lo sappiamo fino a che non continuiamo nella lettura. La mia idea è che il non poter morire del tenente sia una sorta di pena divina silente come avviene al vecchio marinaio dell’omonima ballata di S.T. Coleridge. Ma come sempre la vita è fatta di un prima e un dopo, un passato e un presente. Ci troviamo ora a Colonia, città natale del tenente, nel 1962. La guerra è finita da tempo, sono trascorsi anni difficili e la ricostruzione del paese è stata lenta e dolorosa. La guerra non solo ha cambiato i luoghi, distrutto le case e annientato intere famiglie, ma ha contribuito a incrinare le psicologie dei sopravvissuti, rendendoli deboli, incurabili in virtù dei traumi subiti. Il tenente, seppur anziano, mantiene in un certo senso la sua integrità di sempre; “La sua anima ancora ricordava il passato, lo desiderava” (pag. 50), scrive Ciano. Sappiamo bene che chi vive del passato è un uomo che non è in pace con se stesso, nostalgico, solo, inattuale e pericoloso. E ancora una volta Karl si identifica con il marchio della dissolutezza, della perversione e dell’immoralità: è nazista nell’anima, alcolista, misogino, violento, tradisce la moglie e ancora a distanza di anni non riesce ad accettare (e forse a comprendere) che la sua Germania gloriosa non c’è più e che gloriosa non lo è mai stata: “ma io ci credo ancora” (pag. 56), confida a un suo vecchio amico.

La costruzione antitetica dei personaggi che popolano il romanzo esemplifica questa struttura manichea del mondo: i nazisti contro gli ebrei, i tedeschi contro i bolscevichi, il Bene e il Male, l’umano e l’animalesco, Dio e Satana, l’amore verso l’altro e l’amore verso se stesso, la ragione e la forza, l’io e l’altro. Ma in fondo non sono rilevanti nomi, luoghi, anni e altre caratterizzazioni che ci consentono di inserire la storia in un particolare momento perché una storia di guerra è metafora di ciascuna guerra, sia essa europea o a noi lontana.

Il tenente Von Kliest vive in una dimensione che è fatta di ricordi del passato, di memorie, di progetti e idee che nel passato non hanno preso corpo e il suo presente non è che un passato onnipresente che non annuncia mai a dar la staffetta a quel presente liquido, attuale, al momento. E’ un uomo che mentalmente è già morto e sepolto da decenni, come la sua ideologia, ma che vive in un corpo regredito e involuto. E’ espressione più chiara dell’imbarbarimento della società, dell’illusorietà della superiorità dei potenti sui deboli, del ritorno forzato a un sistema tirannico, prepotente, insano, chiaramente impopolare e inattuale per il suo tempo. E’ un ritorno allo stato di natura, a quella selvaggia e primordiale. Ma anche per lui arriva il momento della resa dei conti: la presa di coscienza, il pentimento, il rimorso, la paura del suo passato. Guardando sua figlia Martha, infatti, non può far a meno di ricordare gli innocui occhi di Ismaele, un bambino ucciso anni prima solo perché ebreo e perché aveva inveito contro di lui per difendere suo padre. E così Karl finisce per “[essere] stuprato da quei ricordi seppelliti” (pag. 59). Ciano impiega un linguaggio freddo, diretto, tagliente e crudo che, però, ben lontano da avere l’intenzione di scioccare, è perfettamente in linea e adeguato a quando va narrando: violenze, nefandezze, stupri, desolazione, rotture, abbandoni, sia fisici che metaforici.

E poi segue il sogno-incubo in cui Karl si vede di fronte a Jacob e Ismael, prova paura e rimorso e l’avvenimento onirico è di sicuro espressione inconscia del fatto che Karl non ha ancora fatto pace con se stesso, con il suo passato che, invece, ritorna a ossessionarlo, minacciarlo, indebolirlo e ad accusarlo per ciò che in assenza di un minimo di raziocinio tanti anni prima ha fatto per asservire un’ideologia assassina. Verso il finale dell’opera tanto egoismo e sicurezza di sé lasciano, però, il posto all’insicurezza, alla debolezza e alla dannazione del personaggio che anni prima si è macchiato di ignominiosi crimini; il suo passato crudele si mischierà al suo presente, alle vicende quotidiane della sua famiglia e proprio all’interno di questo universo si compirà una sorta di vendetta che, troppo pesante da sostenere, lo condurrà a un suicidio (ipotizziamo), questa volta con esito. Ciano condensa il tutto in una frase: “Solo vivendo si comprende la morte, solo peccando si comprende l’espiazione” (pag. 138). C’è una sorta di comprensione e di animo cristiano in questo: il perdono e l’espiazione alle colpe sono sempre disponibili e alla portata di tutti, efficaci solo se l’individuo è capace di crederci veramente.

Ciano ci accompagna in un viaggio doloroso, inserendo le intere vicende narrate in una precisa cornice storica che evidenziano la sua passione e competenza in tale ambito e ci consegna una parabola sulla cattiveria, sulla condizione del cuore umano macchiato dalla colpa. Karl Von Kliest è fratello di Kurtz di Heart of Darkness, e pertanto non è altro che l’espressione più pregnante di quel cuore di tenebra che attanaglia l’umanità.

 a cura di Lorenzo Spurio

E’ SEVERAMENTE VIETATA LA RIPRODUZIONE E LA DIFFUSIONE DI STRALCI O DELL’INTERA RECENSIONE SENZA IL PERMESSO DA PARTE DELL’AUTORE.

La caduta, gli ultimi giorni di Hitler (2004)

La Caduta. Gli ultimi giorni di Hitler (2004)

Titolo originale: Der Untergang

Regia di Oliver Hirschbiegel

Paese: Germania

Il film affronta l’assedio dei russi a Berlino e gli ultimi momenti della vita di Hitler, prima di suicidarsi assieme a Eva Braun nel suo bunker berlinese. Le vicende messe in scena sono basate sul testo Inside Hitler’s Bunker: The Last Days of the Third Reich scritto dallo storiografo Joachim Fest (1926-2006).

Siamo nel 1945. Il film inizia con il racconto di una donna anziana, Traudl Junge, che fu la segretaria di Hitler, benché non fosse fervente nazionalsocialista.  Traudl ripercorre a ritroso il suo arrivo a Berlino, la sua assunzione come collaboratrice di Hitler e il suo lavoro da segretaria nel bunker berlinese.

Berlino è attaccata dai russi che utilizzano l’artiglieria e bersagliano la porta di Brandeburgo e il Reichstag; i russi sono a soli dodici km di distanza dalla capitale.

Il Führer è malato, viene spesso inquadrata la sua mano che trema, forse per il morbo di Parkinson o più probabilmente per la sua schizofrenia e follia senile.

Alcuni gerarchi nazisti consigliano al Führer di lasciare Berlino, solo così potrebbe salvarsi ma Hitler si rifiuta. La caduta di Berlino è un episodio d’imminente accadimento. Anche Traudl glie lo consiglia. Il Führer è deciso: o rovescerà la scena o soccomberà, ma rigorosamente a Berlino.

Tra i vari gerarchi nazisti ci sono posizioni diverse, c’è chi vorrebbe che il Führer riparasse in un’altra città, chi ormai è certo che la guerra la Germania l’abbia persa, chi, al pari di Hitler, vuole portare avanti le azioni militari per la difesa di Berlino e per vincere la guerra.

Eva Braun, la compagna del Führer, è presentata sempre con il sorriso stampato in bocca, con i capelli ben sistemati e vestita in maniera raffinata.

Nel film organizza una serata di ballo nel bunker. La musica, la danza e l’aria di festa contrastano in maniera stridente con il clima di morte e di guerra diffuso in Germania e in tutta Europa. La compresenza di felicità e tristezza, di vita e morte è ben tratteggiata nel film: la musica e l’elettricità sono brevemente interrotte a causa dei bombardamenti e gli scoppi d’artiglieria.

Le complicazioni, gli insuccessi militari, l’assedio dei russi si sommano alle farneticazioni e alla malattia degenerante del Führer. Il Führer spera nell’operazione Steiner, ma i gerarchi gli fanno capire che Steiner non ha un contingente sufficiente per condurre un’azione militare di successo.  A questo punto anche Hitler ha capito che la guerra è perduta ma non intende lasciare Berlino.

Hitler ha predisposto un aereo per mettere in salvo Traudl e altre donne che lo hanno servito nel bunker ma queste rifiutano di andarsene, vogliono continuare a rimare con il Führer.

La situazione degenera in poco tempo e Berlino è sottoposta a bombardamenti e scoppi; gli ospedali abbondano di feriti gravi ai quali vengono amputati arti, mentre fuori la battaglia infuoca le strade.

Hitler comincia a pensare all’idea di suicidarsi con delle pasticche. Eva scrive una lettera alla sorella prima di suicidarsi nella quale le dice che alla morte lei erediterà i suoi beni.  In una delle ultime scene Hitler si fa scrivere dalla segretaria il suo testamento politico, che è un messaggio di profondo odio nei confronti della comunità giudaica.

Il Führer ed Eva Braun prima di suicidarsi decidono di sposarsi nel bunker. Intanto i russi stanno accerchiando Berlino e restringendo la loro presa. Il Führer rifiuta la capitolazione. Hitler chiede che una volta morto il suo corpo venga bruciato e scompaia dalla circolazione, non vuole che sia esposto al pubblico ludibrio ne imbalsamato per un museo.

E’ curiosa la scena in cui Eva si mette il rossetto allo specchio prima di andarsi a suicidare assieme a suo marito. Il Führer prende commiato dalla segretaria e dalle altre donne che lo avevano sempre servito poi assieme a Eva si chiude in una delle stanze del bunker, entrambi prendono delle pasticche (anche se questa scena non viene mostrata nel film) e il Führer si spara alle tempie (sul film si sente solo il suono dello sparo). Il Führer muore. I corpi del Führer e di sua moglie vengono bruciati, così come lui aveva richiesto.

Alcuni gerarchi vorrebbero firmare la capitolazione ma Joseph Goebbels, ministro e nuovo cancelliere del partito (a partire dalla morte del Führer) si rifiuta. Ormai la sorte di tutti è segnata. I vari gerarchi si suicidano, avvelenandosi o sparandosi. La signora Goebbels fa preparare una soluzione che fa bere a tutti i suoi figli dicendo che è una medicina, si tratta di una sostanza soporifera. Una volta addormentati inserisce a ciascuno una pasticca velenosa in bocca e muoiono all’istante. Il cancelliere fa dettare il suo testamento spirituale alla segretaria del Führer.

Il cancelliere Goebbels spara a sua moglie e poi si toglie la vita. I corpi vengono bruciati. Gli alti vertici del nazismo si sono autoeliminati.

I russi accerchiano il quartier generale dei nazisti. L’ex segretaria Traudl tenta di fuggire nelle file russe. I nazisti le consigliano di provare, magari i russi salveranno una povera donna.

Quando i russi accettano la resa, altri gerarchi nazisti si suicidano. Non possono sopportare di essere sopravvissuti al Führer e non intendono consegnarsi nelle mani dei russi.

L’ex segretaria del Führer riesce a salvarsi e sarà proprio lei, una volta anziana, a raccontare la storia.  Verso la fine del film il regista ci fornisce una breve scheda dei gerarchi nazisti: il loro suicidio o la loro pena al processo di Norimberga. Alla fine Traudl, anziana, racconta di aver scoperto solo dopo che il regime aveva ucciso più di sei milioni di persone ma il suo ruolo di segretaria del Führer non c’entrava in nessun modo con quelle morti. Non venne condannata in quanto per il suo ruolo di “collaboratore giovanile” non le venivano riconosciute colpe.

LORENZO SPURIO

23-02-2011

E’ VIETATA LA RIPRODUZIONE DI PARTI O DELLA COMPLETA RECENSIONE SENZA IL PERMESSO DELL’AUTORE.

Chinaski il nazista

Charles Bukowski con le sue storie di vita sregolata e maledetta ci ha abituato ad atteggiamenti licenziosi o sessualmente deviati, degrado, emarginazione, isolamento, alcolismo e comportamenti maniacali. Il suo principale beniamino, Henry Chinaski, è spesso ritratto mentre si sta ubriacando con della birra scadente o con degli scoli di whisky di bottiglie che sono disseminate in casa sua o mentre fa sesso con le sue donne descrivendoci la componente più animalesca e tralasciando quella passionale. In ogni caso, in ciascuna storia si sottolinea il temperamento qualunquista del personaggio, il suo menefreghismo verso gli altri e il suo comportamento sfrontato e irriverente nei confronti degli altri. E di se stesso.

La critica si spacca sostanzialmente in due circa l’analisi di Chinaski e del suo creatore, tra coloro che lo bollano come ossessionato al sesso, manesco, insofferente agli obblighi lavorativi, immagine di una vita degradata e allucinata e che lo pongono in una condizione di reietto e coloro che invece ne analizzano il personaggio più a fondo, sviscerandolo dalla sua etichetta di barbone manesco e sottolineandone le carenze, la complessa strutturazione del personaggio e l’origine delle condizioni d’indigenza. A Chinaski sono state date le più varie caratterizzazioni (tutte abbastanza negative). E’ stato detto che è un maniaco, un barbone, un mitomane, un reietto, un sex-addicted, un emarginato, una sorta di diavolo, un criminale, un violento, un alcolizzato, un maschilista, un animale e tanto altro. Alcuni hanno aggiunto che è un nazista.
Va sottolineato il fatto che né Chinaski né Bukowski hanno mai espresso pubblicamente, al contrario di molti altri autori, una chiara posizione politica. Chinaski si scaglia sia contro gli hippy ultrasinistroidi che contro i borghesi, sia contro i suoi capi di lavoro che contro persone che conducono esistenze economicamente disagiate. Non critica particolari strati della società ma critica la società nel suo complesso. Non esprime un’idea politica né evoca un modello di stato che secondo lui potrebbe essere migliore rispetto ad un altro. Alcuni hanno visto nel temperamento violento, maschilista e insensato di Chinaski alcuni elementi comuni al comportamento dei fedeli del nazismo. Va ricordato che Bukowski nacque in Germania, paese che lasciò nei primi anni della sua infanzia per stabilirsi a Los Angeles. Nel romanzo autobiografico Ham on Rye (1982) Chinaski ripercorre i momenti cruciali della sua infanzia: il difficile rapporto con i genitori, l’isolamento nel contesto periferico, l’emarginazione a scuola e l’amicizia con pochi ragazzi tra cui Crapa Pelata, la scoperta del corpo e l’interessamento all’universo femminile. Traccia in un certo senso la biografia stessa di Bukowski ed è una narrazione atipica all’interno della sua produzione perché, contrariamente al suo stile, mancano le scopate e le alcolizzate tanto frequenti nelle altre opere. Il capitolo cinquantadue del romanzo appena citato ci parla di Chinaski e del nazismo. Può pertanto essere considerato un primo punto di contatto tra i due universi. In questo capitolo si dice che la guerra in Europa era favorevole a Hitler e che alla scuola gli insegnanti erano tutti nemici alla Germania e sinistroidi. Chinaski non è nazista, considera il nazismo come un’eventuale possibilità di scelta non per motivazioni politiche ma per motivazioni tutte personali:

«Forse, con Hitler al governo, mi sarebbe toccata un po’ di fica ogni tanto, e magari qualcosa di più del dollaro alla settimana che mi passavano i miei genitori. Non avevo niente da perdere. E poi, essendo nato in Germania, non me la sentivo di tradire il mio paese d’origine, e non mi andava di vedere l’intera nazione tedesca, l’intero popolo tedesco, demonizzati e dipinti nelle tinte più fosche» *.

Se decidiamo di definire Chinaski nazista dobbiamo anche dire che non è nazista politicamente parlando ma per motivazioni astruse: per la sua comune origine tedesca e per il fatto che immaginando di poter essere devoto al Fuhrer potrebbe ottenerne dei vantaggi: soldi e fica. Il suo essere nazista è motivato dal suo desiderio di sentire e mostrarsi diverso dagli altri (gli insegnanti sinistroidi), è semplicemente un modo per differenziarsi da persone che non ama. («Per pura alienazione, e naturale spirito di contraddizione, mi trovai schierato contro il loro punto di vista» ).
E nello stesso capitolo rende ancora più chiaro che in realtà non ha niente di nazista:

«Evitavo accuratamente ogni riferimento diretto a negri ed ebrei, che, poveretti, non mi avevano mai dato rogne. Tutte le rogne che avevo avuto me le avevano date i bianchi ariani. Quindi, non ero nazista per carattere o per scelta; erano gli insegnanti, ad appiccicarmi addosso quell’etichetta, con il loro atteggiamento conformista, le loro idee conformiste e i loro pregiudizi antitedeschi» .

C’è da concludere che se possiamo definire Chinaski un nazista, non è un nazista con mitra in pugno o pronto ad urlare o a deportare gente in campi di concentramento. E’ un nazista strano, che cerca di difendere la sua ideologia in maniera strumentale e per nulla politica.

Lo studioso Raffaele Gramegna**  in un testo ha evidenziato il fatto che il racconto Svastika incluso nella raccolta Tales of Ordinary Madness (1983), nella sua versione italiana Storie di ordinaria follia non è stato incluso nella raccolta. Ha tentato di analizzarne il motivo contattando direttamente le case editrici italiane che avevano stampato l’opera nella versione tradotta e tutte hanno risposto tergiversando ed eludendo la domanda del critico. L’interpretazione più ovvia è quella di considerare il fatto che un titolo così scomodo e un racconto nel quale si parlasse di Hitler collegandolo alla politica americana non poteva essere stampato e divulgato. La mancanza del racconto nella raccolta è dunque non il segno di una svista grossolana ma quello dell’imposizione di una censura. Raffaele Gramegna dopo un’interessante introduzione al racconto in questione ha riportato il racconto nella sua lingua originale e poi tradotto da lui in italiano.

Si tratta di un racconto profondamente diverso dallo stile tipicamente buwoskiano: manca un’ambientazione periferica degradata, mancano riferimenti al bere e alla voglia di ubriacarsi, mancano le tanto amate corse dei cavalli e addirittura il sesso. Se a vari lettori amanti dell’autore venisse proposto di leggere questo racconto senza rivelare chi l’ha scritto probabilmente nessuno indovinerebbe che si tratta proprio di Bukowski.

Il racconto è breve, diretto e incisivo e utilizza ampiamente il discorso diretto. Il personaggio principale non è Chinaski ma in questo caso il protagonista è il presidente degli Stati Uniti che all’apertura del racconto viene sequestrato da agenti della polizia. Viene condotto in un appartamento dove si trova dinanzi il Fuhrer sebbene sia molto invecchiato. Per mezzo di due medici chirurghi tedeschi, il presidente viene sottoposto a una operazione di scomposizione e congiunzione di parti di corpi diversi che ci fa pensare a Frankenstein. E’ un operazione senza dolore, che non lascia cicatrici e che consente il cambio di personalità tra il presidente americano e il Fuhrer.
Il racconto andrebbe analizzato più approfonditamente a più livelli. Sembra stupido a questo punto considerare come la censura abbia potuto tagliare un racconto di Bukowski per la presenza di elementi fastidiosi (la svastica del titolo, la presenza del Fuhrer) quando nella contemporaneità abbondano testi che utilizzano la storia o particolari momenti di essa in chiave revisionista o negazionista. Bukowski è uno scrittore e le storie che racconta sono frutto del suo ingegno.
E’ sempre difficile affibbiare a una persona una determinata ideologia politica, un pensiero sulla società basandosi sui suoi atteggiamenti e le sue parole che possono rivelarsi in questo contesto anche contrastanti. La questione si fa ulteriormente più difficile nel caso di Bukowski che è sempre stato lontano dai temi politici e un acre criticatore di ogni ambito e rango del sistema sociale.
Il suo anticonformismo, il suo temperamento che lo porta continuamente a rompere schemi e commettere crimini e reati, la sua sfrontatezza nei confronti della vita, il suo marcato individualismo non ci consentono di individuare nella sua persona un’ideologia reazionaria né tantomeno nazista come è stato a volte sostenuto dalla critica. La sua critica contro tutto e tutti, compreso se stesso, potrebbe paradossalmente avvicinarlo ad un’ideologia confusa come quella anarchica. Si tratta ovviamente di interpretazioni vaghe e paradossali che sottolineano ancora una volta quanto la sua persona e quella di Chinaski siano variegate e complesse e prive di una chiara dimensione politica.

* Le citazioni sono tratte da Charles Bukowski, Panino al prosciutto, Milano, Tea, 2010, pp. 272-273.

**  Charles Bukowski, Svastica (a cura di Raffaello Gramegna), Viterbo, Millelire Stampa Alternativa, 1994. Questo testo può essere letto on-line o scaricato collegandosi al sito: http://www.stampalternativa.it/liberacultura/books/buk.pdf


25-03-2011
LORENZO SPURIO

Mafalda di Savoia. Il coraggio di una principessa (2006)

Il film Mafalda di Savoia. Il coraggio di una principessa (regia di Maurizio Zaccaro, paese: Italia, anno: 2006) narra la storia della principessa di casa Savoia, figlia di re Vittorio Emanuele III e della regina Elena che, considerata nemica del regime nazista, venne internata in un campo di concentramento dove trovò la morte. Il film non trasmette scene che riguardano la nascita della principessa, la sua infanzia e la sua adolescenza. Al contrario, si apre con il suo matrimonio assieme al Principe Filippo d’Assia che avvenne al castello di Racconigi il 23 Settembre 1925.

Velocemente scorrono le immagini della vacanza di nozze della coppia principesca e la nascita dei prime due bambini dopo di che l’azione si sposta dieci anni più tardi nel 1935.

Questa volta ci troviamo a Berlino dove il partito nazionalsocialista di Hitler si è giù costituito cosi come un’imponente milizia nazista. Il marito della principessa, il principe Filippo d’Assia è un membro dell’esercito tedesco, nazista convinto. Intanto in Germania e nelle varie città europee inizia la lotta contro gli ebrei: vengono distrutti i negozi ebraici e i tedeschi si accaniscono contro di loro. La principessa Mafalda si schiererà apertamente a favore degli ebrei che vengono vessati in una circostanza in cui i nazisti irrompono nei negozi degli ebrei. Questo episodio costituirà la sua condanna a morte dato che a partire da quel momento la principessa viene considerata cospirazionista contro il regime nazista.

Tra lei e il marito iniziano gli screzi: secondo il marito, in qualità di moglie di un ufficiale tedesco, deve condividere le sue idee e non mostrarsi in pubblico a favore dei nemici.

Il film fa un ulteriore balzo temporale e si sposta al 1942. Mafalda sta parlando con suo cugino, l’erede de re del Montenegro[1] che è stato deposto dai nazisti. Il regno del Montenegro non potrà essere restaurato perché i nazisti sono alle calcagna.

Allo stesso tempo la principessa viene continuamente tenuta sott’occhio dai nazisti che la considerano una traditrice nei confronti del regime. Per lo stesso motivo al principe Filippo viene revocato il suo incarico di governatore dell’Assia-Nassau e viene mandato a Francoforte sull’Oder dove sostanzialmente viene destituito dei vari incarichi militari.

Il 26 Agosto 1943 la principessa Mafalda torna in Italia dove il re suo padre gli comunica che teme per la sorte di un’altra sua figlia, Giovanna[2] perché suo marito, Re Boris III di Bulgaria (1894-1943) è stato avvelenato probabilmente dai nazisti. Mafalda non ci pensa due volte e decide di andare in Bulgaria a sostenere la sorella per la perdita del marito, sebbene la madre, la regina Elena glie lo scongiuri. La situazione in Europa è molto pericolosa.

La principessa Mafalda arriva a Sofia dove conforta la sorella Giovanna e partecipa assieme a lei al funerale di Re Boris III di Bulgaria. Terminata la sua visita alla sorella riparte in treno alla volta di Roma. Intanto l’8 Settembre 1943 re Vittorio Emanuele III firma l’armistizio con gli angloamericani, destituendo Mussolini; l’Italia passa a combattere a fianco di inglesi ed americani contro la Germania. Questo evento segnerà a morte il destino di Mafalda che, inconsapevole del cambio di strategie del re suo padre cadrà in mani nemiche. La regina Elena nel film è particolarmente critica nei confronti del marito al quale fa capire che con la firma dell’armistizio senza avvertire Mafalda l’ha praticamente esposta ad un grave pericolo. Il re e la regina abbandonano la capitale e si rifugiano a Brindisi.

Durante il viaggio in treno il convoglio viene fermato alla stazione di Sinaia per volere della regina Elena di Romania (1896-1982) la quale le scongiura di non andare in Italia perché la situazione è molto pericolosa. Mafalda continuerà il suo viaggio e riesce a giungere a Roma e a incontrare i quattro figli che stanno sotto la protezione del Vaticano.

Intanto i nazisti hanno interrotto i contatti tra la principessa Mafalda e suo marito che si trova in Germania e le dicono che se vuole comunicare con suo marito deve recarsi all’ambasciata. Con questo stratagemma i nazisti immobilizzano la principessa che viene condotta nel campo di concentramento di Bunchenwald. La principale accusa che le viene mossa è quella di essere una traditrice nei confronti del regime nazista e di essere stata a conoscenza dell’armistizio firmato da suo padre.

Al campo di concentramento fa conoscenza con alcune persone ma è estremamente afflitta e trascorre i primi giorni rifiutandosi di mangiare. Anche molti degli internati manifestano un atteggiamento astioso nei suoi confronti riconoscendo in lei la figlia dell’uomo che ha condotto gli italiani in guerra. Mafalda si scusa con loro per cose che lei non ha fatto facendo comprendere alla gente che le colpe dei padri non possono ricadere sui figli.

All’interno del lager si mostra particolarmente coraggiosa come quando riesce a salvare una bambina strappata da una madre che i nazisti avevano appena assassinato. I deportati cominciano ad apprezzare la sua umanità, come il dottor Maggi il quale assieme ad altri uomini si sta occupando di scavare un tunnel per provare a fuggire dal campo.

Il principe Filippo d’Assia, destituito dei suoi incarichi e ormai considerato un traditore dai nazisti non può operarsi direttamente per mettere in salvo sua moglie. Nel film non viene mostrata la preoccupazione del re, della regina e dei membri della famiglia Savoia all’annuncio dell’internamento della figlia nel lager tedesco. I Savoia vengono mostrati come cinici, traditori nei confronti dell’ex alleato tedesco, pavidi e fuggitivi dal loro popolo. Nel film non fanno niente per cercare di salvare la principessa Mafalda.

Intanto iniziano i bombardamenti aerei e le esplosioni nel lager e un gran numero di deportati muoiono. I colori che più abbondano a partire da questo momento sono il rosso del sangue, il giallo degli scoppi e delle fiamme e il grigio del fango che ricopre tutta la superficie di terreno del campo.  Durante uno di questi scoppi la principessa viene colpita da uno scoppio di una granata ed è profondamente ferita. Il dottor Maggi cerca di salvarla operandole l’amputazione del braccio ma dopo poche ore la principessa muore.

Una lettera struggente e drammatica che ripercuote la permanenza di Mafalda al lager viene scritta da una donna rinchiusa nel lager e inviata ai figli di Mafalda. Nella missiva si sottolinea la bontà, la generosità della principessa e il suo pensiero fisso e costante verso la sua famiglia.

Il film si chiude con una scena che trasmette un senso di incompletezza e di dolore, l’immagine del marito il principe Filippo d’Assia assieme ai quattro figli seduti a tavola durante il pranzo e una sedia vuota che sottolinea la pesante assenza di Mafalda.

Prima dei titoli di coda, una frase riassume l’intera esistenza della principessa Mafalda:

Ricordatemi non come una principessa, ma come una vostra sorella italiana.

(Mafalda di Savoia 19/11/1902 – 28/08/1944).

Il film evidenzia come l’origine regale di Mafalda non serva a evitarle la stessa fine che fecero milioni di ebrei, omosessuali ed oppositori al regime nazista. Come la morte di molti italiani anche la sua fu dovuta alle tremende decisioni politiche prese dal re suo padre (l’affido del governo a Mussolini, la firma delle leggi razziali, l’alleanza con Hitler).

Tutta l’azione verte sul personaggio della principessa Mafalda e, a mio avviso, il contesto familiare attorno viene un po’ tralasciato. Non vengono mostrati i Savoia che fuggono da Roma, ne il malcontento che si crea in Italia a seguito della firma dell’Armistizio. Il re e la regina nel film non fanno niente per salvare la loro figlia e anzi, il re con le sue decisioni la pone continuamente in pericolo e in mano dei nazisti. L’immagine dei Savoia che ne esce da questo film non è per nulla positiva, come pure non lo è in quello che la storia ci racconta. C’è dalla loro parte un senso di cinismo e menefreghismo che non si esplica solo nei confronti del loro popolo (fuga da Roma) ma anche nei confronti di una loro familiare.

Per completare l’idea che con questo film ci facciamo di re Vittorio Emanuele III e della sua famiglia nei confronti della guerra, dell’armistizio, della fuga da Roma e della perdita di consenso della monarchia può essere utile vedere un altro film: Maria Josè, l’ultima regina (regia di: Carlo Lizzani, paese: Italia anno: 2001), dove viene narrata la storia della regina Maria Josè d’Italia che fu moglie di Re Umberto II di Savoia, fratello della principessa Mafalda.

LORENZO SPURIO

14-03-2011


[1] Va ricordato che la madre della principessa Mafalda, la regina Elena era una principessa appartenente alla famiglia Njegosh-Petrovic, alla famiglia reale del Montenegro. Il cugino erede del trono di Montenegro di cui si parla nel film è dunque un cugini per via materna.

[2] La principessa Giovanna nel film è interpretata dall’attrice francese Clotilde Coreau, moglie del principe Emanuele Filiberto di Savoia, nipote di Re Umberto II di Savoia che fu fratello delle principesse Giovanna, Mafalda, Jolanda e Maria.

Un sito WordPress.com.

Su ↑