Scarafaggi come me. Il critico Marco Camerini su “Lo scarafaggio” di Ian McEwan

Recensione di Marco Camerini 

 

downloadDopo il colto, perspicace, ironico feto di Nel guscio e il dolente, umanissimo androide di Macchine come me, ancora una voce narrante anomala e spiazzante nell’opera narrativa di Ian McEwan, quella dal retroterra più blasonato: Lo scarafaggio (Einaudi 2020) condivide con il protagonista della Metamorfosi il nome tronco (Jim/Gregor) e un cognome graficamente identico eccettuata la “a” finale (Sams/Samsa), ma l’incipit del libro, sino a pag. 18 – a parte, evidentemente, l’aspetto inverso della trasformazione insetto-uomo che nell’autore praghese assume valenza meramente allusiva – è una ripresa fedele del racconto kafkiano che non trova, vedremo, coerente sviluppo quando l’artropode acquisirà (troppo naturalmente, pur nel contesto surreale del plot) fattezze e atteggiamenti del Primo Ministro inglese. Entrambi si svegliano da “sogni inquieti” (in McEwan compare paradossalmente la connotazione psicologica “tipo perspicace, ma niente affatto profondo”, attribuibile comunque anche a Gregor che tale appare quantomeno sul lavoro), verificano la spropositata grandezza del proprio nuovo corpo (lo scrittore inglese sceglie, sul solco della tradizione, l’aggettivo “immane”, sinonimo dell’enorme/gigantesco con il quale quasi tutti i traduttori hanno reso ungeheueren preferendolo a “mostruoso”, che è tuttavia l’accezione di natura morale del sostantivo tedesco da cui l’attributo deriva),[1] osservano costernati e distesi sul dorso rispettivamente “le numerose zampe miserevolmente sottili” e “appena quattro arti pressoché inamovibili”. In due stanze egualmente piccole – ma della tana kafkiana, in una giornata piovosa, è descritta semplicemente una fotografia (la madre?) laddove, in un “mattino di sole”, sul luogo dello scarafaggio Jim sono presenti un tavolo, delle bottiglie, un telefono…proprio l’assenza della cornice rompe la simmetria descrittiva – mentre Samsa inizia tragicamente presto la riflessione sul suo gravoso impiego di commesso viaggiatore culminante nel “farò tardi”, omettendo di fatto quella assai più logica su di una metamorfosi assurdamente accettata, Sams continua il meticoloso scandaglio del proprio involucro (“lingua ripugnante, denti infiniti, colorito azzurrino/smorto della pelle, ridotto campo visivo”) prima di giungere, con puntuale parallelismo, al “farò tardi”, ovviamente ad una ben più gratificante riunione del Parlamento di Sua Maestà. Con la verifica complementare di ambedue circa la difficoltà nel movimento e l’impossibilità a fidarsi della propria voce – nel rispondere l’uno alla madre e al procuratore, l’altro alla premurosa assistente identico è l’elemento del “pigolio” e del lamento/dolore nella faticosa emissione – si conclude la quasi testuale, intrigante parafrasi della prima parte della Metamorfosi e il modello de Lo scarfaggio diviene quello della letteratura distopica e della satira politica di J. Swift. La blatta, i cui gusti non sono certo quelli del raffinato feto citato ma “rimasugli di pizza margherita consumata vicino a sani scarichi” (con olive, possibilmente), canaline di scolo e tracce assai poco nobili dei blasonati cavalli della Guardi Reale, vittima del timore congenito per il trapestio di piedi provocato da “masse di incivili per strada a far baccano” (non contano le finalità ideali delle rivendicazioni di massa) ma anche di temibili tacchi a spillo over 10 e micidiali aspirapolveri da moquette, affezionata frequentatrice di boiserie cariate e battiscopa in legno un po’ consumati (meglio se in ambienti a luci soffuse) si ritrova, “in piedi ad un’altezza vertiginosa” e messa di buon umore dalla toilette mattutina, nelle vesti dell’affabile, esitante, bipartisan primo uomo dell’attuale scena politica britannica: il riferimento non è affatto casuale in questo velenoso, schieratissimo pamphlet anti-Brexit per il quale, alla fine, non era forse nemmeno necessario scomodare l’autore del Processo, visto che i due piani si saldano a fatica, se si eccettua la scelta del ripugnante animale come esemplificazione simbolica del disgusto dello scrittore per la linea politica di Boris Johnson. Rimane l’attrazione per  il caffé (meglio i fondi), lo zucchero, i mosconi appena morti ma immediata risulta la destrezza dell’ex-parassita nell’adattarsi alla visione “multicolore, binoculare, non composita” di una vita pubblica deformata e avvelenata da liberatorie menzogne, intrighi, bassezze, “arsenale simbolico di trappole, frecce avvelenate, mine antiuomo” e trasformare il conciliante inquilino di 10 Dawning Street in un “moderno Pericle”, scaltro e spietato leader degli Inversionisti. Orwellianamente contrapposti ai Cronologisti filoeuropeisti, da “individui eccentrici e lupi solitari” questi ultimi sono assurti, cavalcando la stanchezza diffusa e la strisciante paura dell’ignoto di chi ha affidato loro il proprio voto, a epigoni dell’idea “semplice, bella” e patriottica che orientare il flusso monetario non in direzione dell’accumulo ma di un reimpiego frenetico dei capitali affranchi il popolo inglese da una detestabile schiavitù, lo corrobori con “il dono sacro di una esaltante autostima”, elimini le disuguaglianze, il divario Nord/Sud, la stagnazione dei salari: i backbenchers (promotori dell’Inversionismo estremo) si troveranno, alla fine, d’accordo con frange significative della “vecchia” Sinistra e questo costituisce l’ultimo, peggiore tranello. La mistificazione che la vittoria autarchica risponda al grido collettivo forte e sincero di emancipazione culturale prima che economica (quanto inquietante la somiglianza degli scarafaggi con gli esseri umani “che celano dietro le varie tonalità di grigio, verde, marrone degli occhi l’essenza cangiante della loro natura blattoidea”) è la “polvere magica” del populismo, temibile composto di irrazionalità, xenofobia, cinismo mascherato da nostalgia per certe forme di purezza nazionale[2] che il protagonista, a capo di un Gabinetto improvvisamente decisionista, sparge a piene mani chiudendo i negozi il 25 dicembre per rilanciare il PIL, favorendo il quantitative easing (aumento forzoso della moneta a debito in circolazione), incrementando assunzioni nel pubblico impiego, progetti pubblici e importazioni (favorite dal presumibile crollo della sterlina post-Brexit), sancendo addirittura la perseguibilità penale per i malcapitati risparmiatori rei di non immettere denaro nell’incessante, vorticoso flusso del circuito produttivo. E mentre vengono messi in riga gli (ex)alleati francesi e tedeschi, con l’eccezione del Presidente americano (se non altro perché “uomo tutto d’un pezzo e di solide certezze morali” ricorre spesso a Twitter, “versione primitiva dell’inconscio feromonale”: strepitoso il ritratto-macchietta di Tupper/Trump), viene scelto anche l’inno – Wolking back to happiness di Helen Shapiro (?) – per una scommessa che, entro il 2050, garantirà all’Inghilterra tutta un futuro pulito, verde, fiorente, libero dagli asfissianti cavilli anti-impresa del moloch statale e transnazionale.

Scritto in punta di penna e “tanta rabbia”, per ammissione dello stesso McEwan, durante le presentazioni di Macchine come me, Lo scarafaggio è un divertissement in bilico tra fantapolitica e caustica, a tratti godibile, disamina di un presente politicamente inaccettabile per un convinto progressista di rango che, fra le brillanti, riconosciute qualità narrative, conferma la sua non comune abilità nella costruzione dei finali: svanito rapidamente, l’ingombrante riferimento alla Metamorfosi ritorna in un epilogo prevedibile ma spettacolare, sul quale non anticipiamo veramente nulla.

MARCO CAMERINI

 

[1]    Ci riferiamo alla traduzioni storiche della Metamorfosi di E. Pocar, G. Zampa, F. Fortini e Andreina Lavagetto (Mondadori, 1991), cui facciamo riferimento per questa analisi comparata. Peraltro proprio la dimensione dell’insetto, coincidente all’apparenza inizialmente con l’intero corpo, viene costantemente smentita da Kafka nel corso della narrazione, a conferma che la mutazione è del tutto metaforica e non reale. Ma il discorso sarebbe ampio e non pertiene alla presente recensione.

[2]    Cfr. pag. 106 dell’illuminante postfazione.

 

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“L’estate prima della Guerra” di Helen Simonson, recensione di Vittorio Sartarelli

Recensione di Vittorio Sartarelli

9788865595367_0_0_626_75.jpgRecensire un libro di una scrittrice britannica è, per me, una nuova esperienza letteraria anche perché questa autrice non appartiene al novero, per altro numeroso, di scrittori inglesi di una certa rilevanza. Questo, infatti, è per lei il secondo romanzo ad essere pubblicato. Lo scenario nel quale si svolge L´Estate prima della Guerra (2016) di Helen Simonson è il Sussex, dove Rye, una piccola cittadina pedemontana del territorio britannico è un promontorio allocato nella zona costiera prossima alla Francia. Accingendomi a questo mio compito, non certo facile, il fatto di trovarmi di fronte ad un volume di circa 500 pagine certo non costituisce un incentivo favorevole che mi spinga con eccessivo interesse a intraprendere il mio lavoro ma, tant’è, questo è il mio obbligo assunto e cercherò di adempierlo nel modo migliore.

La prima impressione che si ha, cominciando e seguitando a leggere questo libro, anche se non si sapesse chi è l’autore dello scritto, apparirebbe evidente che si tratta di una donna e di una donna inglese. Il suo periodare ed il suo fraseggio, pur essendo corretti e in bella forma, sono morbidi, delicati e di natura domestica e familiare oltre che, letterariamente, irreprensibili.

Il suo fervente amore per l’ambiente naturale che la circonda, descritto amabilmente, si identifica con le sue origini britanniche e la descrizione attenta e precisa del tessuto sociale nel quale la vicenda si svolge, non è altro che la connotazione di una società classista e stratificata in concetti umanitari che appaiono come pervasi da un retaggio ancora medievale e discriminatorio che contraddistingue, appunto, il tessuto socio economico britannico del tempo descritto all’inizio del ´900.

I personaggi principali del romanzo sono la signorina Beatrice Nash un’insegnante di Latino, giunta da poco a Rye, che dovrà prendere servizio nell’istituto scolastico del paese, raccomandata da una sua zia appartenente ad una famiglia nobile del circondario regionale, la Signora Agatha Kent e suo marito John esponente di spicco del Servizio Diplomatico britannico, anch’essi appartenenti alla classe abbiente del luogo, il giovane chirurgo Hugh e il giovane poeta Daniel entrambi nipoti dei coniugi Kent, l’adolescente Richard Sidley detto Snout di origine zingaresca. Poi ci sono altri personaggi secondari che interverranno saltuariamente nel corso della narrazione come lo scrittore famoso americano Tillingam, che si è stabilito a Rye, il Sindaco e la moglie di Rye, un amico di Daniel, Crhigmore e suo padre Lord North. Mentre l’insegnante Beatrice incontra una certa ostilità ambientale da parte del Sindaco e della moglie, la famiglia Kent ne assume la tutela ambientale e fra il giovane chirurgo Hugh e Beatrice sorge, in forma quasi segreta, un sottile sentimento amoroso che costituisce una sorta di siparietto sentimentale che si inserisce con favore nell’ordito narrativo.

La narrazione si snoda stancamente per buona parte del romanzo con scene familiari, descrizioni paesistiche, fitti e banali colloqui amichevoli sempre informali, senza molta importanza che hanno configurato la caratteristica interlocutoria del romanzo senza che avvenga niente di nuovo. A questa lunga pausa di eventi fa eccezione l’arrivo in paese, assieme ad altri profughi belgi, di un professore e della figlia giovanissima Celeste.

Siamo nell’estate avanzata del 1914, la Germania ha invaso il Belgio compiendo razzie, stupri e nefandezze varie sulla popolazione, è iniziata la I Guerra Mondiale e il piccolo centro di Rye comincia, unitamente a tutta la Gran Bretagna, a partecipare al fatto bellico che li coinvolge. Inizia tutta una serie di iniziative di solidarietà popolare e nazionale di preparazione alla guerra, centri di reclutamento e associazioni di cittadini che preparano il paese alla guerra con parate, cortei e feste inneggianti alla partecipazione belligerante. Una caratteristica, abbastanza nota, dell’Inghilterra è sempre stata, infatti, la sua partecipazione a tutte le guerre avvenute in Europa e nel Mondo e dalle quali essa ha sempre ottenuto dei vantaggi e delle posizioni di potere nei confronti di altri stati meno potenti e meno capaci di interessi politici preminenti. Tutti i giovani maschi in età maggiorenne si arruolano nelle forze armate britanniche e vengono convogliati nella parte settentrionale della Francia dove si svolge il fronte bellico. Anche i cugini Hugh e Daniel si arruolano, entrambi con il grado militare di tenente, il primo farà parte dell’ospedale da campo mentre Daniel, al quale è morto l’amico Crhigmore in un incidente aereo, farà parte dell’esercito inglese in prima linea. Anche il giovane adolescente Snout, anche se non ancora maggiorenne, con il permesso dei genitori, sarà arruolato come soldato semplice e inviato al fronte. 

A questo punto bisogna fare delle considerazioni che appaiono importanti e giuste nella valutazione critica di questo romanzo. Le prime trecento pagine hanno avuto il compito di illustrare principalmente il bellissimo paesaggio bucolico che circonda e ingloba il piccolo centro di Rye e poi, come ho avuto modo di dire, la descrizione particolareggiata della vita e degli aspetti sociali di questo ridente borgo britannico del Sussex. Soprattutto la scrittrice si è soffermata, alquanto lungamente, nell’illustrare i comportamenti degli abitanti del luogo, evidenziando per quelli più rappresentativi e importanti dal punto di vista sociale, in un ambito classista e rigidamente organizzato in strati sociali con competenze valutazioni e capacità diverse.  Una piramide sociale alla base della quale c’erano i contadini e i proletari mentre al vertice, illuminati e dispositivi, emergevano i nobili e i benestanti con notevoli proprietà immobiliari ed ampie disponibilità finanziarie.

La Simonson ha evidenziato il carattere, i rapporti e le prerogative soprattutto delle donne più importanti della società, soffermandosi spesso in un chiacchierio banale e fine a se stesso tra di loro, rischiando di annoiare il lettore. Per fortuna, l’autrice, nelle ultime cento pagine di questo libro, si riscatta ampiamente e, finalmente, sorprende il lettore con le sue ampie capacità espressive, mettendo in mostra il suo innegabile talento di narratrice di rango. Ci troviamo, quasi improvvisamente di fronte ad eventi e situazioni particolari spesso drammatiche, come la scoperta, purtroppo negativa e socialmente emarginante è il fatto che la giovane Celeste, durante l’invasione bellica del suo Paese, poiché ha subìto delle violenze a causa di uno stupro, si trova in stato interessante. Questo evento la fa diventare per la comunità che l’ha ospitata, una specie di appestata con la quale nessuno vuole più avere a che fare, rischiando l’espulsione dal suo attuale contesto sociale. La minacciata e crudele emarginazione di questa innocente fanciulla ci dà il senso e l’immagine rappresentativa della società gretta e classista esistente in quel borgo britannico, in tutta la sua cruda realtà. Il problema verrà affrontato e risolto brillantemente con un’azione generosa e di forte umanità ed affetto dal tenente Daniel che chiederà a Celeste di diventare sua moglie salvandola dal linciaggio sociale del paese. Immediatamente dopo a questo felice e risolutivo evento l’autrice ci porta, quasi a spron battuto, verso la guerra, in prima linea, dove piovono granate e colpi di cannone che quotidianamente compiono un’impietosa strage di soldati inglesi.

L’arte narrativa poi trova il modo di impressionare e far vivere al lettore quello che succede in un campo di battaglia e successivamente in un ospedale da campo, dove giornalmente e spesso anche di notte i medici in servizio permanente effettivo e soprattutto i chirurghi come il tenente Hugh operano continuamente i feriti, molti dei quali, purtroppo, non riusciranno a salvarsi per l’estrema gravità delle ferite riportate. Il racconto prosegue con l’affannosa ricerca da parte di Hugh del cugino Daniel anch’egli in prima linea e quando finalmente, in un breve periodo di riposo dal suo estenuante lavoro, riesce a ritrovarlo congiuntamente anche al giovanissimo Snout, è molto felice. In seguito ad eventi che quasi si sovrappongono, si assisterà all’acme della drammaticità e della denuncia sociale dell’autrice di alcune ipocrisie belliche di taluni personaggi in alta uniforme, come il Generale Lord North. Costui è un personaggio tronfio e pettoruto, senza principi morali ed umani che, trincerandosi ipocritamente dietro uno sciovinismo di maniera tutto britannico e accampando diritti di vita e di morte sui suoi sottoposti militarmente, farà la misera figura di un dispotico comandante che abusava del suo potere in modo infame e vergognoso per un generale dell’esercito britannico. La storia narrata nel libro avrà poi un epilogo felice e pacifico, tuttavia Helen Simonson con questa sua opera mi ha conquistato anche perché, dietro le magnifiche descrizioni e le artistiche ricostruzioni di un ambiente e di persone a lei molto vicine con le quali ella ha vissuto, si può notare ed apprezzare una sottile ma severa critica alla società britannica dell’epoca con tutti gli annessi e connessi, compresi il classico the delle cinque completato da discutibili tramezzini.

VITTORIO SARTARELLI

 

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“John Milton: Meglio regnare in Inferno che servire in Paradiso” di Giuseppina Vinci

“John Milton: Meglio regnare  in Inferno che servire in Paradiso”

a cura di Giuseppina Vinci 

 

Chiunque abbia letto versi di John Milton, non può non ricordare questi versi. Forti, toccanti, coinvolgenti…. J. Milton, poeta inglese vissuto nel 17° secolo, ci lascia un’opera indimenticabile dal titolo Paradise Lost, quel Paradiso perduto da tutti gli esseri umani dopo quell’atto, quel gesto, quella disubbidienza a Dio ricordato come ”the original sin” di Adamo ed Eva. Un gesto che ha condannato l’essere umano alla schiavitù del peccato secondo la teologia cristiano-cattolica. Gli angeli ribelli, the fallen angels, guidati dall’angelo più bello, Lucifer, cacciati dal Paradiso  per sempre.  Non più speranza, non più riscatto, non più salvezza.

downloadIl capo degli angeli ribelli domina nel suo regno, governa il luogo dove insieme ai suoi seguaci dimora.  Adesso è capo, non più dipendente, capo di una schiera di angeli decaduti. L’atto del servire lo degrada, non può accettare ordini, comandi,  lui deve disporre, governare, altri devono sottostare a lui.

La legge del più forte, del più audace, del condottiero per una causa ”giusta” solo per lui. Nessuno deve essere più forte di lui.  Nessuno più ”illimitato” di lui. Nessuno può o deve dire Cosa deve, può, e in che modo fare. Soltanto lui deve stabilire cosa e come si può fare o è lecito fare. Nessuna sottomissione ad alcuno, nessuna reverenza, niente che possa costringerlo a genuflettersi. Soltanto a lui i comandi, soltanto lui può stabilire e decidere a cosa ci si deve attenere.

Pur avendo ottenuto tutto ciò, pur seguito da  ”angeli ribelli”, avuto una dimora, un ”regno” tutto per lui, non è e non può essere appagato. Non accetta la nuova dimora, non sente di essere  ”re” nel suo nuovo regno,  perché tutto detesta anche il regno dove sarebbe l’unico  capo incontrastato.

”Meglio regnare in inferno che servire in paradiso” potenzia il suo stato, nonostante la nuova inospitale dimora, nonostante gli odori del nuovo ambiente, nonostante la grande rabbia che sovrasta tutto e tutti intorno, lui ”regna” non serve, servire non gli appartiene, non può essere il suo stato. Non lo sarà mai. Perché dal suo stato non si torna indietro. Non può più tornare alla celestiale dimora. Non vuole, non può, il cielo è distante, chiuse le porte, se porte esistono, ormai  è Fuori per sempre. Una lotta infinita è iniziata, non cessa, sarà la lotta eterna tra due Forze e spera di vincere.

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Il poeta fa parlare il più ribelle degli angeli, a tratti sembra condividerne gli umori, lo stato d’animo di chi non ha più voluto  accettare la DIPENDENZA,  di chi non ha voluto sottomettersi a una Volontà Superiore. L’essere servi lo avvilisce, lo umilia, lo annienta.

Le condizioni storico-sociali dell’Inghilterra del 17° secolo, il conflitto e la conseguente guerra civile tra la casa reale inglese e i Roundheads, con la vittoria dei Puritani guidati da Cromwell  ha senza dubbio condizionato e determinato le convinzioni del Poeta, la sua avversione verso la casa reale che rappresentava il potere, il rigore, che aveva soffocato la democrazia a cui il popolo inglese era oramai con e dopo i Tudors legato, Milton si sentiva suo malgrado costretto ad accettare la guida degli Stuarts, diremmo oggi anacronisti, governare secondo il cosiddetto Diritto Divino suonava agli inglesi una forzatura, un ribaltamento della loro civiltà e la fine della democrazia.

E allora la forza, la ribellione contro il potere temporale, contro gli Stuarts appariva come l’unica soluzione. Starà dalla parte di Cromwell e per 20 anni, tanti sono gli anni del Protettorato, appoggerà the Commonwealth.

Milton non giustifica la ribellione di Lucifero verso Dio, ma potremmo dire trova ”legittimo” quel gesto, quell’atto, quella sorta di coraggio, di impeto, di volontà forte a non sottomettersi a quella che ai suoi occhi, purtroppo, è ritenuta tirannia. La volontà di sapere, di conoscere gli appare negata, e non potendo giungere alla piena conoscenza, al sapere assoluto e universale, cerca e vi riesce, di convincere gli  altri a ribellarsi, con il risultato di essere cacciati anche loro dalla dimora a loro concessa. Da qui il pianto, la sofferenza di essere diseredati, l’eredità assegnata tolta, non più paradiso ma inferno, non più condivisione ma separazione da Dio.

L’eredità, gratuitamente data, ora bisogna riottenerla e i  modi e le vie sono tante e sconosciuti.

L’Albero della Conoscenza del Bene e del Male è inavvicinabile, lontano dalla loro vista, una vista divenuta miope, distante dalla Verità. Non resta che la sofferenza, quello stato di sofferenza comune a chi ha scelto la separazione e il distacco in nome della libertà.

La libertà, la facoltà di sentirsi non sottoposti, non sottomessi è lo stato e del primo RIBELLE  della storia umana e di tutti gli esseri che consapevolmente e/o no hanno seguito e seguono le sue tracce, le sue orme. In nome della libertà, dell’autonomia, della gestione del proprio io, si innalza una barriera, un muro, si esce da una ”porta” per entrare verso un’altra non definibile, sconosciuta, dalla quale non sai ove precipiti. Storia di esseri umani, di esseri alla conquista della libertà, della indipendenza, percorsi mai conosciuti ma allettanti, l’uomo che scopre, che distingue, che scruta o si allontana dalle origini o si avvicina alle origini,  un mistero tutto da svelare.

Giuseppina Vinci

L’autrice di questo saggio acconsente alla pubblicazione online su questo spazio senza nulla chiedere né all’atto della pubblicazione né in futuro e attesta, sotto la propria responsabilità, di essere un testo personale, frutto del suo ingegno. 

In Her Own Hand: Volume the First, Volume the Second, and Volume the Third, by Jane Austen, introduction by Kathryn Sutherland – A Review

Austenprose

In Her Own Hand 2014 x 200From the desk of Tracy Hickman:

The first time I read a collection of Jane Austen’s juvenilia, I remember relishing the sheer fun and silliness of the stories and plays. It was a slender paperback that included transcriptions of selected works from the original notebooks written from 1787 to 1793. These handwritten notebooks had circulated within Austen’s family during her lifetime and were later given to family members by her sister Cassandra, but the stories were not published until the twentieth-century. Because none of Austen’s six completed and published novels exist in manuscript form, these early notebooks are rare examples of her fiction that have survived intact “in her own hand” and reside in the collections of the Bodleian Library, Oxford (Volume the First) and the British Library (Volume the Second and Volume the Third).

The three-volume set, In Her Own Hand, gives Austen fans the…

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Anna Maria Balzano su “Chesil Beach” di Ian McEwan

Chesil Beach 

di  Ian McEwan

Einaudi, Torino, 2007

Recensione di ANNA MARIA BALZANO

9788806197681Una prosa limpida, bellissima. Non sempre leggendo opere di grandi scrittori stranieri consideriamo con il giusto e dovuto rispetto in che misura il traduttore  contribuisca al loro successo nel mondo. La traduzione di Chesil Beach di Susanna Basso nell’edizione Einaudi è davvero eccellente. Conoscere a fondo una lingua non vuole sempre dire sapere interpretare e rendere il pensiero d’un autore, i sentimenti dei suoi personaggi. Tradurre è un’arte che non s’impone con prepotenza e arroganza, è un’arte discreta, che tuttavia può essere determinante per l’affermazione e la diffusione di un’opera.

In questo romanzo McEwan affronta un tema che fu importante negli anni sessanta immediatamente precedenti la rivoluzione sessuale. Florence è una ragazza bella e delicata, studia  musica e ha un avvenire come concertista, Edward è un ragazzo onesto e studioso, anche lui con tanti sogni da realizzare. Sullo sfondo le loro famiglie, ciascuna con i suoi limiti e i suoi pregi. Tutto appare essere nella normalità più assoluta. Florence e Edward si amano, ma i pregiudizi e le inibizioni che hanno condizionato l’educazione dei giovani di quell’epoca, portano i due al matrimonio senza aver avuto precedenti esperienze. In realtà nessuno dei due conosce a fondo se stesso, non ha mai sperimentato le proprie reazioni di fronte a un rapporto sessuale completo: la loro prima notte di nozze diventa dunque il terreno su cui si realizzerà lo scontro più lacerante.

Come sempre nelle opere di McEwan la lettura viene proposta su due livelli.

A un primo livello, è chiara la critica a quella generazione di educatori che costringevano i figli, più specificamente le figlie, a rispettare il preteso valore della verginità, molto spesso con il fine tanto pratico quanto ipocrita di evitare fastidiose e ingombranti conseguenze. In questi casi ci si poteva trovare di fronte a vere e proprie patologie del tutto sconosciute, tanto difficili da affrontare nel momento in cui la coppia aveva  già iniziato una vita insieme. Il sesso è da sempre stato il  punto di incontro o di scontro, una carta da giocare nella riconciliazione o nella separazione. Il problema fondamentale si rivela quando l’amore che dovrebbe accompagnare il sesso non è abbastanza forte  da superare eventuali ostacoli.  Con la rivoluzione sessuale e la conseguente liberalizzazione dei rapporti uomo-donna, si è giunti a una conoscenza più approfondita di se stessi, del proprio corpo, e del corpo dell’altro, delle reazioni che esso manifesta in casi specifici. La conoscenza non è mai un fatto negativo, essa anzi aiuta a crescere: in questa prospettiva l’emancipazione dei costumi, quando non degeneri in inutile eccesso, è sempre auspicabile.

A un secondo, non meno interessante livello, McEwan crea, come già ho notato in modo particolare in “Espiazione”, un personaggio che si proponga come metafora dell’arte: la purezza di Florence  è la purezza dell’arte che non ammette contaminazioni. L’arte in tutte le sue forme, che sia musica, letteratura o arte figurativa deve mantenere la sua integrità, non può accettare di diventare funzionale a un fine che non sia se stessa. Ma è qui il vero quesito che, io credo, McEwan pone ancora una volta: è davvero giusto perseguire questo concetto decadente di un’arte fine a se stessa, o non è più giusto e attinente ai tempi moderni adeguare anche il concetto dell’arte alle esigenze del mondo moderno? Perché per esempio non un’arte con un fine sociale?  Chi è più funzionale oggi, un Wilde con la sua indiscutibile magia descrittiva o un Guttuso con la capacità di esprimere il dramma della società moderna? In realtà credo non sia neanche giusto dare una risposta, anche se personalmente tendo più verso Guttuso che verso Wilde. Non è giusto, perché l’arte è sempre arte, come la vuole l’artista, e se è in grado di esprimere concetti universali, il suo valore è sempre indiscutibile.

ANNA MARIA BALZANO

 

QUESTA RECENSIONE VIENE QUI PUBBLICATA PER GENTILE CONCESSIONE DELL’AUTRICE.

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Il simbolismo nella poesia di William Blake, un commento di Pina Vinci

A CURA DI GIUSEPPINA VINCI

 

220px-William_Blake_by_Thomas_PhillipsLa produzione poetica di Blake si caratterizza di simboli. The Lamb e The tiger, sono simboli mondi reali, aspetti contrapposti, sentimenti contrastanti.

Il Cristianesimo si avvale di simboli. Per fare un esempio Il pesce per i primi cristiani rappresenta la nuova fede nel figlio di Dio fatto uomo. Il testo sacro è fonte di ispirazione per la produzione artistica narrativa e poetica del nostro Poeta. Il Bene e il Male sempre presenti, si intrecciano, coinvolgono, e  l’Essere umano teso, dilaniato perennemente in conflitto, alla Ricerca di un equilibrio emerge orgoglioso, non sconfitto.

Nella  scelta continua a cui è chiamato, gli ‘’opposti complementari’’ non annullano l’individuo, lo obbligano a intraprendere un cammino,”senza contrari non vi è progresso’’, sviluppo dinamico della Persona. Personalità complessa, affascinante, singolare, geniale, Blake, sempre Attuale

I temi della sua Poetica non circoscritti, non chiusi, non delimitati ma eterni, senza tempo, appartengono all’uomo di tutti i tempi, di tutte le epoche, l’uomo colto o non, è costretto a darsi una risposta e anche a rimettere in discussione ogni eventuale risposta.

Le origini dell’Universo, Dio creatore, Dio che plasma, forgia, modella, sia l’Agnello sia la Tigre, l’Innocenza e l’esperienza, la mitezza e mansuetudine e la violenza, il Bene e il Male, l’amore e l’odio, la bontà e l’aggressività…. ‘’Opposti complementari’’, l’uno necessita dell’altro, dualismo necessario, aspetti della stessa Realtà razionale e non. The Marriage of heaven and hell, paradiso e inferno, eden e ade, contrari coesistono, si attraggono, si completano.

Significati antichi e nuovi, messaggi apparentemente banali e scontati, significanti, simboli, segni per rappresentare la sfera del razionale e del Sentimento, della Percezione e Intuizione.

 

Giuseppina Vinci

Docente di Lingua e civiltà inglese al Liceo Classico Gorgia di Lentini

The King’s Speech (Il discorso del re)

 

Il film The King’s Speech (Il discorso del re), recentemente uscito nelle sale italiane (regia di Tom Hooper, paese: Regno Unito/Australia) pone al centro della sua trama un aspetto poco conosciuto o che la storiografia tende a tralasciare. Ci narra la vita di re Giorgio VI d’Inghilterra non in termini cronachistici e biografici, nel senso che non ci descrive le diverse fasi della sua vita (infanzia, adolescenza, maturità, vecchiaia) ma si focalizza su un suo difetto di pronuncia, le balbuzie, che, una volta diventato re, lo mise di fronte a problemi molto importanti: l’impossibilità di comunicare degnamente alla nazione e la conseguente cattiva immagine del regnante agli occhi del suo popolo come “re debole” o addirittura “re silente”.

Le immagini che seguono si riferiscono a scene tratte dal film.

1. Re Giorgio VI

Il principe Albert (1895-1952) era il secondogenito di Re Giorgio V d’Inghilterra (1865-1936) e della Regina Mary di Teck (1867-1953). Come secondogenito del sovrano a Giorgio (soprannominato Bertie in famiglia[1]), venne affidato il titolo di Duca di York. Suo fratello maggiore, invece, il principe Edoardo (1894-1972) in qualità di principe ereditario ottenne il titolo di Principe di Galles.

Alla morte di Re Giorgio V, nel 1936, il regno passò al suo primogenito, il principe Edoardo, che venne incoronato come Re Edoardo VIII. Tuttavia la personalità del monarca fu molto discussa: non aveva ancora una moglie e questo non era una buona garanzia per il futuro della monarchia. Oltretutto era accompagnato con una signora americana, Wallis Simpson (1895-1986)[2], la quale aveva alle spalle due divorzi. La relazione era malvista dalla corte e addirittura dal popolo inglese. Alla fine re Edoardo VII dovette fare una scelta tra amore e trono e scelse di abdicare a favore di suo fratello. Nello stesso anno, al trono salì il principe Albert che, per dare una certa linea di continuità con il padre, assunse il nome di Re Giorgio VI.

Non ci interessa far riferimento alla vita familiare del re e alle sue azioni diplomatiche, basterà ricordare che il re prese direttamente voce all’interno dello scenario della seconda guerra mondiale, dichiarando, con il discorso del 1936, l’entrata in guerra degli inglesi contro il nazifascismo. Va inoltre ricordato che Re Giorgio VI si sposò con la contessa Elizabeth Bowes-Lyon (1900-2002) che con la sua unione divenne la Regina Elisabetta. Siamo soliti ricordarla come la Queen Mum, la Regina Madre, scomparsa nel 2002 alla veneranda età di 102 anni. L’attuale regina Elisabetta II non è che la figlia di Re Giorgio VI e della Regina Madre.[3]

2. Il film

Il film si apre nel 1925 con un discorso scritto dal re padre che il principe Albert sta leggendo per la chiusura dell’Empire Exhibition al Wembley Stadium di Londra. Il principe è impacciato, affaticato e soffre di balbuzie. Non riesce a leggere in maniera sciolta il discorso, che risulta essere asfittico e intermittente. La nazione apprende della deficienza del figlio del re.

L’intero film affronta i vari tentativi del logopedista Lionel Logue[4] nel cercare di migliorare le balbuzie del principe, facendogli fare ogni sorta di esercizi linguistici e fisici. Inizialmente queste prove non sembrano dare gli esiti sperati e il principe è deluso dall’ennesima terapia. Con un lavoro molto rigoroso e continuo il dottor Logue riuscirà a far forza sui problemi del principe e, pur non riuscendo a risolverne completamente le sue balbuzie, riesce a migliorare il suo disturbo. Il film non sembra darci risposte precise alle origini del disturbo del principe ma allude a varie cause: l’atteggiamento severo del re padre e la predilezione della tata per suo fratello.

Il film si basa dunque su una serie di sedute a cui il principe si sottopone ma non manca di rappresentare anche i momenti più cari alla nazione inglese: la morte di Re Giorgio V, l’intronizzazione del fratello, il Re Edoardo VIII e la sua abdicazione, fino all’intronizzazione del principe che diviene Re Giorgio VI.

Il film si conclude con il discorso che il re fa alla nazione in occasione dell’entrata in guerra dell’Inghilterra contro la Germania hitleriana. Dopo un’iniziale titubanza verbale il nuovo re riesce a leggere il suo discorso senza intoppi. E’ il segno che il lavoro del dottore Logue è andato a buon fine.

A conclusione del film, alcune frasi esplicative ricordano che da quel momento il dottor Logue fu sempre presente con il Re nei momenti dei discorsi alla nazione, che i due divennero grandi amici e che il Re lo nominò cavaliere del regno.

3. I discorsi del re

Sebbene il titolo del film faccia riferimento al “discorso del re” in realtà nel corso della storia i discorsi del re sono molti. Il titolo sottolinea ed enfatizza l’ultimo discorso del re, quello felice, quello in cui le balbuzie sembrano averlo abbandonato, che viene fatto nel 1939, in occasione dell’entrata in guerra dell’Inghilterra. Se decidiamo di leggere il film sulla base dei vari speeches ne possiamo analizzare molteplici: il discorso iniziale del principe Albert per celebrare la chiusura dell’ Empire Exhibition, i vari discorsi (o meglio, conversazioni) che il principe, inizialmente riluttante, scambia con il dottore, i discorsi con la sua famiglia (con l’anziano re padre, con il fratello libertino e con l’amorevole moglie), il discorso della cerimonia dell’intronizzazione nella cattedrale di Westminster (che tuttavia non viene riportato nel film) sino all’ultimo discorso, quello dell’entrata in guerra dell’Inghilterra. La vita di re Giorgio VI viene mostrata in questo film attraverso una serie di discorsi, attraverso un processo di riacquisto dell’indipendenza linguistica. La riabilitazione linguistica sotto questo punto di vista viene a significare che il re ha completamente accettato e si è impossessato del ruolo che deve ricoprire.

Un film interessante, che investiga un aspetto curioso e di debolezza di un grande della storia inglese. La morale che ne possiamo trarre è che, chiaramente, anche un re può soffrire di disturbi e avere deficienze. Non gli è tollerato però mostrarle in pubblico e deve necessariamente combatterle. La concezione dei due corpi del re di Ernst Kantorowicz[5] (il corpo fisico, mortale, deperibile e comune a tutti i mortali e il corpo regale, unto dal balsamo di Dio) ci suggerisce proprio che il re è un mortale come tutti noi, che soffre debolezze e mancanze anche se l’aurea di regalità ce lo fa immaginare divino, prescelto da Dio e superiore ai comuni mortali.

 

LORENZO SPURIO

10-02-2011

 


[1] Era diffusa al tempo l’attitudine di impiegare soprannomi per i membri della famiglia reale che però venivano utilizzati solo all’interno dell’ambito familiare. La principessa Elisabetta, attuale regina, era Lillibet, mentre sua sorella, la principessa Margaret era Margot.

[2] Wallis Simpson fu un personaggio chiaramente in rotta contro la casa reale: non aristocratica, con due divorzi alle spalle, dalla condotta eccentrica e dispendiosa e addirittura vicina ai regimi nazisti.

[3] Nel film la moglie del re è una presenza costante. E’ continuamente al fianco del marito, condivide con lui il suo problema e la sua sofferenza e gioisce al termine della storia quando capisce che suo marito ha vinto la battaglia. Nel film ci sono varie scene che riguardano anche le due figlie della coppia, le principesse Elisabetta e Margaret.

[4] Il logopedista Lionel Logue (1880-1953) fu un medico di origini australiane che visse a Londra. Sebbene nel film la terapia del dottor Logue inizi in un periodo prossimo al 1936 ossia alla morte di Re Giorgio V, nella realtà, il principe Albert fu in cura da lui dal 1926. Per quanto concerne le conversazioni tra il dottore e il principe Albert, la descrizione delle loro sedute e gli esercizi che Logue faceva fare al principe, il film si basa su fonti storiche molto attendibili: il libro che Mark, nipote di Logue, scrisse assieme a Peter Conradi sul rapporto tra suo nonno e il monarca: The King’s Speech: How One Man Saved the British Monarchy.

[5] Ernest Kantorowicz, The King’s Two Bodies. A Study in Mediaeval Political Theology, Princeton, Princeton University Press, 1957.