Scarafaggi come me. Il critico Marco Camerini su “Lo scarafaggio” di Ian McEwan

Recensione di Marco Camerini 

 

downloadDopo il colto, perspicace, ironico feto di Nel guscio e il dolente, umanissimo androide di Macchine come me, ancora una voce narrante anomala e spiazzante nell’opera narrativa di Ian McEwan, quella dal retroterra più blasonato: Lo scarafaggio (Einaudi 2020) condivide con il protagonista della Metamorfosi il nome tronco (Jim/Gregor) e un cognome graficamente identico eccettuata la “a” finale (Sams/Samsa), ma l’incipit del libro, sino a pag. 18 – a parte, evidentemente, l’aspetto inverso della trasformazione insetto-uomo che nell’autore praghese assume valenza meramente allusiva – è una ripresa fedele del racconto kafkiano che non trova, vedremo, coerente sviluppo quando l’artropode acquisirà (troppo naturalmente, pur nel contesto surreale del plot) fattezze e atteggiamenti del Primo Ministro inglese. Entrambi si svegliano da “sogni inquieti” (in McEwan compare paradossalmente la connotazione psicologica “tipo perspicace, ma niente affatto profondo”, attribuibile comunque anche a Gregor che tale appare quantomeno sul lavoro), verificano la spropositata grandezza del proprio nuovo corpo (lo scrittore inglese sceglie, sul solco della tradizione, l’aggettivo “immane”, sinonimo dell’enorme/gigantesco con il quale quasi tutti i traduttori hanno reso ungeheueren preferendolo a “mostruoso”, che è tuttavia l’accezione di natura morale del sostantivo tedesco da cui l’attributo deriva),[1] osservano costernati e distesi sul dorso rispettivamente “le numerose zampe miserevolmente sottili” e “appena quattro arti pressoché inamovibili”. In due stanze egualmente piccole – ma della tana kafkiana, in una giornata piovosa, è descritta semplicemente una fotografia (la madre?) laddove, in un “mattino di sole”, sul luogo dello scarafaggio Jim sono presenti un tavolo, delle bottiglie, un telefono…proprio l’assenza della cornice rompe la simmetria descrittiva – mentre Samsa inizia tragicamente presto la riflessione sul suo gravoso impiego di commesso viaggiatore culminante nel “farò tardi”, omettendo di fatto quella assai più logica su di una metamorfosi assurdamente accettata, Sams continua il meticoloso scandaglio del proprio involucro (“lingua ripugnante, denti infiniti, colorito azzurrino/smorto della pelle, ridotto campo visivo”) prima di giungere, con puntuale parallelismo, al “farò tardi”, ovviamente ad una ben più gratificante riunione del Parlamento di Sua Maestà. Con la verifica complementare di ambedue circa la difficoltà nel movimento e l’impossibilità a fidarsi della propria voce – nel rispondere l’uno alla madre e al procuratore, l’altro alla premurosa assistente identico è l’elemento del “pigolio” e del lamento/dolore nella faticosa emissione – si conclude la quasi testuale, intrigante parafrasi della prima parte della Metamorfosi e il modello de Lo scarfaggio diviene quello della letteratura distopica e della satira politica di J. Swift. La blatta, i cui gusti non sono certo quelli del raffinato feto citato ma “rimasugli di pizza margherita consumata vicino a sani scarichi” (con olive, possibilmente), canaline di scolo e tracce assai poco nobili dei blasonati cavalli della Guardi Reale, vittima del timore congenito per il trapestio di piedi provocato da “masse di incivili per strada a far baccano” (non contano le finalità ideali delle rivendicazioni di massa) ma anche di temibili tacchi a spillo over 10 e micidiali aspirapolveri da moquette, affezionata frequentatrice di boiserie cariate e battiscopa in legno un po’ consumati (meglio se in ambienti a luci soffuse) si ritrova, “in piedi ad un’altezza vertiginosa” e messa di buon umore dalla toilette mattutina, nelle vesti dell’affabile, esitante, bipartisan primo uomo dell’attuale scena politica britannica: il riferimento non è affatto casuale in questo velenoso, schieratissimo pamphlet anti-Brexit per il quale, alla fine, non era forse nemmeno necessario scomodare l’autore del Processo, visto che i due piani si saldano a fatica, se si eccettua la scelta del ripugnante animale come esemplificazione simbolica del disgusto dello scrittore per la linea politica di Boris Johnson. Rimane l’attrazione per  il caffé (meglio i fondi), lo zucchero, i mosconi appena morti ma immediata risulta la destrezza dell’ex-parassita nell’adattarsi alla visione “multicolore, binoculare, non composita” di una vita pubblica deformata e avvelenata da liberatorie menzogne, intrighi, bassezze, “arsenale simbolico di trappole, frecce avvelenate, mine antiuomo” e trasformare il conciliante inquilino di 10 Dawning Street in un “moderno Pericle”, scaltro e spietato leader degli Inversionisti. Orwellianamente contrapposti ai Cronologisti filoeuropeisti, da “individui eccentrici e lupi solitari” questi ultimi sono assurti, cavalcando la stanchezza diffusa e la strisciante paura dell’ignoto di chi ha affidato loro il proprio voto, a epigoni dell’idea “semplice, bella” e patriottica che orientare il flusso monetario non in direzione dell’accumulo ma di un reimpiego frenetico dei capitali affranchi il popolo inglese da una detestabile schiavitù, lo corrobori con “il dono sacro di una esaltante autostima”, elimini le disuguaglianze, il divario Nord/Sud, la stagnazione dei salari: i backbenchers (promotori dell’Inversionismo estremo) si troveranno, alla fine, d’accordo con frange significative della “vecchia” Sinistra e questo costituisce l’ultimo, peggiore tranello. La mistificazione che la vittoria autarchica risponda al grido collettivo forte e sincero di emancipazione culturale prima che economica (quanto inquietante la somiglianza degli scarafaggi con gli esseri umani “che celano dietro le varie tonalità di grigio, verde, marrone degli occhi l’essenza cangiante della loro natura blattoidea”) è la “polvere magica” del populismo, temibile composto di irrazionalità, xenofobia, cinismo mascherato da nostalgia per certe forme di purezza nazionale[2] che il protagonista, a capo di un Gabinetto improvvisamente decisionista, sparge a piene mani chiudendo i negozi il 25 dicembre per rilanciare il PIL, favorendo il quantitative easing (aumento forzoso della moneta a debito in circolazione), incrementando assunzioni nel pubblico impiego, progetti pubblici e importazioni (favorite dal presumibile crollo della sterlina post-Brexit), sancendo addirittura la perseguibilità penale per i malcapitati risparmiatori rei di non immettere denaro nell’incessante, vorticoso flusso del circuito produttivo. E mentre vengono messi in riga gli (ex)alleati francesi e tedeschi, con l’eccezione del Presidente americano (se non altro perché “uomo tutto d’un pezzo e di solide certezze morali” ricorre spesso a Twitter, “versione primitiva dell’inconscio feromonale”: strepitoso il ritratto-macchietta di Tupper/Trump), viene scelto anche l’inno – Wolking back to happiness di Helen Shapiro (?) – per una scommessa che, entro il 2050, garantirà all’Inghilterra tutta un futuro pulito, verde, fiorente, libero dagli asfissianti cavilli anti-impresa del moloch statale e transnazionale.

Scritto in punta di penna e “tanta rabbia”, per ammissione dello stesso McEwan, durante le presentazioni di Macchine come me, Lo scarafaggio è un divertissement in bilico tra fantapolitica e caustica, a tratti godibile, disamina di un presente politicamente inaccettabile per un convinto progressista di rango che, fra le brillanti, riconosciute qualità narrative, conferma la sua non comune abilità nella costruzione dei finali: svanito rapidamente, l’ingombrante riferimento alla Metamorfosi ritorna in un epilogo prevedibile ma spettacolare, sul quale non anticipiamo veramente nulla.

MARCO CAMERINI

 

[1]    Ci riferiamo alla traduzioni storiche della Metamorfosi di E. Pocar, G. Zampa, F. Fortini e Andreina Lavagetto (Mondadori, 1991), cui facciamo riferimento per questa analisi comparata. Peraltro proprio la dimensione dell’insetto, coincidente all’apparenza inizialmente con l’intero corpo, viene costantemente smentita da Kafka nel corso della narrazione, a conferma che la mutazione è del tutto metaforica e non reale. Ma il discorso sarebbe ampio e non pertiene alla presente recensione.

[2]    Cfr. pag. 106 dell’illuminante postfazione.

 

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