Il “Fondo Desideri” donato alla Biblioteca Comunale di Massa Marittima. La presentazione sarà venerdì 23 novembre

Sono circa 1500 i volumi del prof. Antonio Desideri, docente e scrittore, ceduti per volontà della famiglia.“Un vero e proprio tesoro per la nostra istituzione bibliotecaria”, ha detto Marco Paperini assessore alla cultura.

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La Biblioteca “Gaetano Badii” di Massa Marittima (Gr) amplia in modo importante la sua proposta di libri grazie alla donazione dei libri di Antonio Desideri studioso della letteratura e indimenticato docente e preside delle scuole medie e del  ginnasio a Massa Marittima dal 1943 al 1956. Proprio per il grande attaccamento del professore alla città del Balestro che la famiglia ha deciso di donare circa 1.500 volumi alla biblioteca. Dopo l’approvazione della donazione da parte del Consiglio Comunale di Massa Marittima, all’inizio del 2018 i libri del professore sono stati portati nella Biblioteca e si è proceduto al lavoro di inventario e presa in carico.

La presentazione al pubblico del Fondo si svolgerà venerdì 23 novembre alle ore 17 nella sede della Biblioteca in Piazza XXIV Maggio, con un evento dal titolo: “La biblioteca di Antonio Desideri tra Massa Marittima e Firenze. La scuola, l’impegno civile, la storia”. Saranno presenti i figli dello studioso: Paolo, Alberto e Laura Desideri, quest’ultima direttore della Biblioteca del Gabinetto Viesseux di Firenze, l’assessore alla cultura Marco Paperini, il direttore della Biblioteca Comunale Roberta Pieraccioli e Aldo Simeone della Loescher Editore, la casa editrice che ha di recente ripubblicato un manuale di storia scritto da Desideri per i licei dal titolo “Storia e storiografia”. In occasione della presentazione del Fondo, sarà anche inaugurato lo scaffale con i libri scritti dal professore. Desideri ha lavorato come docente e preside a Massa Marittima in un periodo difficile giocando un ruolo importante nella riorganizzazione delle scuole della città nel periodo tra l’occupazione tedesca e il primo dopoguerra.

Desideri a Massa Marittima.jpgNato a Pitigliano nel 1915 e morto nel 2004 a Castiglione della Pescaia, laureato in Storia Romana a Firenze nel 1939, entra di ruolo nella Scuola Media inferiore e Ginnasio Superiore Statale di Massa Marittima il primo ottobre del 1943, ma vive sfollato con la moglie e i primi due figli a Gerfalco fino alla liberazione di Massa nell’estate del 1944. A Massa Marittima qui nasce la terza figlia. Nell’ottobre del 1956, dopo 13 anni, Desideri con tutta la famiglia si trasferisce a Firenze, dove insegna Latino e Storia all’Istituto Magistrale e inizia la sua attività di studioso e autore di testi e manuali scolastici per case editrici di rilievo come La Nuova Italia e D’Anna Editore. Pur vivendo a Firenze, Desideri resta sempre molto legato a Massa Marittima e al territorio tanto che la sua figura è ricordata ancora oggi da molti che lo hanno avuto come insegnante e collega. Tra i libri che sono stati donati alcuni sono testi scritti dallo stesso Desideri e una parte più cospicua costituita da libri di storia, di letteratura, saggi vari che il professore ha raccolto e utilizzato per la sua attività di saggista e docente tra cui 800 volumi circa di storia tra storia generale e storia di specifici periodi dall’antichità alle soglie dell’anno 2000, volumi di saggistica politica e sociale; 700 volumi circa di letteratura classica italiana e straniera, di musica, cinema, arte e opere di consultazione quali dizionari ed enciclopedie. “Si tratta di una donazione importante – ha detto l’assessore alla Cultura Marco Paperini – il professor Desideri ha costruito la sua biblioteca con una logica didattica in funzione dei suoi studi per redigere una serie di manuali di storia della letteratura: si tratta quindi di un valore culturale alto che arricchisce il nostro patrimonio bibliografico”.

Massa Marittima, 19 novembre 2018

La poetessa Lucia Bonanni svela il suo connubio intimo con la poesia

IL MIO MODO DI INTENDERE LA POESIA

A CURA DI LUCIA BONANNI 

“Quale virtù si ammira in un poeta? L’abilità di consigliare: noi li rendiamo migliori gli abitanti della Città.

Per il bambino c’è il maestro che spiega, per i giovani i poeti.”

Aristofane, “Le rane”

Carissimi amici poeti,

ho letto con tutta l’attenzione possibile, almeno così spero, il saggio “La mia poetica” di Emanuele Marcuccio. Come ho già avuto modo di dire, molti sono i punti del suo scrivere che trovo in sintonia e in armonia col mio modo di intendere il dettato poetico. In questa breve trattazione cercherò di evidenziare le uguaglianze e le differenze che sono a sostegno delle tesi su ciò che per me e Marcuccio è “ideale poetico”. Sento di poter affermare che pratico poesia fin da sempre, che devo tanto a mio padre che a mia nonna paterna, insegnante elementare per ben quarantacinque anni, l’amore per la lettura e per la scrittura. Ricordo che le prime conte, le prime filastrocche, le prime poesie ed anche le preghiere mandate a mente mi furono insegnate da mio padre nelle fredde sere invernali, trascorse nel tepore domestico. Da mia nonna, fervida lettrice e scrittrice, ho ereditato la passione per le lettere e quella per l’insegnamento. Devo anche ai mie insegnanti fin dai primi anni di scuola, lo sviluppo a questa attitudine, a questo dono che mi è stato offerto non solo come dilettevole nota, ma anche come forza evocativa per essere della vita e con la vita. Ricordo che i primi riconoscimenti giunsero fin dalle scuole elementari ed io stessa in veste di insegnante ho sempre cercato di avvicinare gli alunni al mondo magico della poesia. Non so neanche io quanti fogli accartocciati e gettati via e quanti quelli che sono ancora da rivedere e considerare come scritti degni di nota. Poi pian piano, anche attraverso corsi qualificati di scrittura creativa, ho iniziato a porre mente in maniera sistematica a questo tipo di scrittura fino a giungere alla partecipazione a vari concorsi letterari e alla pubblicazione delle mie raccolte poetiche. Anch’io come Marcuccio non amo scrivere in rima, mi piace leggerla in altri autori. Nei miei componimenti mi sembra quasi banale. Non la uso perché secondo me assoggetta la fluidità del pensiero a schemi già stabiliti in precedenza mentre il pensiero deve scorrere libero sulla pagina bianca in una cascata crescente di emozioni. Per dare musicalità al testo poetico preferisco usare quelle che vengono definite rime imperfette, cioè assonanze e consonanze, rima interna o rimalmezzo, allitterazioni, le disseminazioni di suono, la paronomasia e le onomatopee quali armonie imitative e qualche rima sparsa qua e là nel testo, ma sempre tutto sotto l’egida della scrittura spontanea. Qualche volta mi son provata a scrivere dei sonetti, anche caudati, ma poi son sempre tornata al verso libero e a quello sciolto. Assai divertente trovo la scrittura di acrostici e mesostichi, di versi alfabetici e di lipogrammi. Sono convinta che per scrivere poesia non occorrono grandi parole; occorrono, invece, buoni contenuti che sono sempre e comunque espressione perentoria del nostro mondo interiore che la percezione riesce a sublimare anche attraverso le figure di significato oltre che con quelle di suono, in componimento poetico. Come scrive Marcuccio, anch’io “nel fare poesia seguo una struttura su due fasi”: la prima è quella della stesura di getto, cioè quella da lui definita “il primo fuoco dell’ispirazione” proprio come quando la prima fiamma divampa nel camino, e che ci porta a scrivere su scontrini della spesa, sulla carta delle posate, addirittura in piedi su un autobus e su qualsiasi foglio che abbiamo a portata di mano. Tutto ciò mi ricorda tanto la fase dell’animismo infantile e quella degli scarabocchi in cui i bambini credono che tutto sia animato e disegnano su qualsiasi tipo di superficie che si apra davanti ai loro 

La cover del libro

La cover del libro “Il messaggio di un sogno” di Lucia Bonanni

occhietti furbi e le loro manine svelte. Certo è che Pascoli non sbagliava a parlare del fanciullino! La seconda parte della scrittura la dedico alla revisione del testo che può avvenire sin da subito o in fasi successive anche a distanza di tempo. In questo frangente tengo sempre vicino il  vocabolario di italiano e quello dei sinonimi e dei contrari perché dalla ricerca lessicale può sgorgare altra sorgente di idee. Questa sgrossatura e poi limatura, però, mantiene sempre la forza evocativa e allusiva dei primi pensieri, vera scintilla creativa ed è un lavoro che mi piace fare a mano proprio come un amanuense, solo a posteriori scrivo tutto al PC e salvo nelle relative cartelle, tenendo sempre una copia in cartaceo per poterla leggere a mio piacimento. Non penso che la poesia sia solo metrica. Sì, la metrica serve e va saputa usare, ma non è solo la metrica a fare la poesia. La poesia è fatta di emozioni, sensazioni e sentimenti e sono piuttosto i campi semantici e le strutture concettuali a grappolo o lineari che siano, a qualificare la stesura del testo. Delle figure di suono ho già detto; tra le figure di significato mi piace usare la metafora, la sinestesia, l’ossimoro,la personificazione e la similitudine; a seconda dei casi anche   la metonimia e la sineddoche, che insieme alla metafora sono dei traslati. Tra le figure dell’ordine prediligo l’anafora e l’anastrofe, qualche volta il chiasmo e l’iperbato. L’enjambement, detto anche  scavalcamento o inarcatura, serve a spezzare il verso e andare a capo e  durante la lettura la pausa è più breve se tale figura è presente a fine verso. Non dispongo le figure retoriche in modo razionale, ma lascio che siano le parole libere a dar loro una consistenza ben precisa. Nel rispetto della posizione e dell’ordine delle parole nella frase. Lo zeugma, di cui parla Marcuccio, è una delle figure tra le più difficili da usare e solo chi  ha alle spalle studi classici, possiede l’abilità di usarla in poesia mentre a me è dato solo di sapere che c’è. Penso che la mia poesia sia un tipo di poesia simbolista, ermetica, talvolta criptica e di difficile interpretazione, ma sempre derivata da un’osservazione attenta e da una scrittura spontanea. A differenza delle altre arti la poesia, il lavoro preparatorio della poesia consiste tutto nella ricezione e archiviazione dei messaggi che ci giungono dall’esterno e che una volta elaborati, danno origine ai primi pensieri che sono fatalmente carichi di energia creativa. Ecco perché è importante fermarli subito per non lasciarli svanire e non permettere che il revisore interno possa attuare tagli e censure, impedendo l’espressione scritta. Mi piace curare anche la forma grafica del testo perché è una pratica che configura il componimento come poesia visiva. Esistono vari modi per poter comporre una forma grafica appropriata e non mancano certo gli autori da seguire. Se pensiamo ai calligrammi, come ad esempio la poesia “Il pleut” di Apollinaire in cui il poeta scrive i versi in verticale per dare l’idea della pioggia che cade, oppure ai disegni dello specchio, della camera sentimentale, del palombaro nelle “Rarefazioni e parole in libertà” di Govoni, alle parole evidenziate in grassetto nei lavori di Marinetti, alla disposizione dei versi di “La fontana malata” e di “Lasciatemi divertire” con le onomatopee scritte a gruppi alterni, ed ancora la poesia di Majkovskij e quella dadaista di Hugo Ball senza escludere Ungaretti ed altri poeti, vediamo come la forma grafica si configura quale scrittura per immagini. Di rilievo in un componimento poetico sono anche gli spazi bianchi tra una strofa e l’altra, spazi che non frammentano la lettura, ma inducono una pausa di riflessione ed una maggiore acquisizione delle diverse possibilità di senso del testo, ricercando anche le parole chiave.  Mi capita spesso di passare da un frammento poetico ad un testo di cinquanta versi, oppure di passare dalla scrittura di uno haiku a quella di un componimento con solo frasi nominali. Forse non ho ancora trovato uno stile ben preciso o forse è questo lo stile che mi è proprio. Certo è che più scrivo e più mi accorgo, come succede anche a Marcuccio, che il mio non è un semplice esercizio di stile bensì un voler dar corpo alle tante turbolenze dell’animo. Mi riconosco nelle sue parole mentre scrive che “la prosa non è nelle mie corde” perché anche per me è così. Ci provo a scrivere qualche racconto, ma i risultati sono sempre esigui. Mi sto accorgendo che la pratica dell’analisi e della critica letteraria mi appassiona sempre più e può darsi che questo sia dovuto al fatto che la mia poesia è analisi e sintesi in forma discorsiva più che puro lirismo. Sono in linea col suo pensiero e mi sento di dire che “anche nella prosa possiamo trovare poesia” e che la poesia è in tutto ciò che ci circonda, dalla bellezza del creato ad ogni forma artistica per “intuire l’universo” mediante la più “profonda forma verbale che possa  esistere”, la poesia. La poesia che tanto amo leggere anche a voce alta per assaporare tutta la bellezza dei versi. Pensare poi alle note musicali, ad una rappresentazione di Puccini dal vivo a Torre del Lago, ascoltare Battisti, Chopin ed altri ancora e sentire musica tutto intorno, è estasi pura! Sono anch’io del parere che un poeta debba prima di tutto essere uno spirito libero e non debba mai soggiacere alle mode; il poeta deve ricercare libertà, la propria libertà interiore che diviene epifania di ispirazione  continua. E la poesia è libertà anche nella sintassi visto che ammette anche l’anacoluto, figura che altrimenti sarebbe soggetta al lapis blu. Ma la libertà si ottiene solo a caro prezzo, dedicando amore e passione alle sudate carte.

La poetessa abruzzese, naturalizzata fiorentina, Lucia Bonanni con alle spalle l'Arno.

La poetessa abruzzese, naturalizzata fiorentina, Lucia Bonanni con alle spalle l’Arno.

Ma chi è il poeta e in che cosa si configura la funzione del poeta? “In giro me ne vado come un cirro/silenzioso come ombra” scrive Daria Menicanti mentre Nicolai Kljev ci dice che “Amiamo solo che non ha nome,/che vago segno, tormenta il mistero” per cui il poeta è colui che crea, che trasforma la realtà, che gioca con le parole, che canta più il dolore della gioia, un ricercatore, un uomo né migliore né peggiore degli altri. La funzione del poeta è quella di parlare al cuore degli altri, esplorare il mistero delle cose, cogliere sensazioni, intuizioni ed emozioni, dare forma all’analogia, rappresentare  impegno sociale e civile, esprimere il disagio esistenziale e l’incomunicabilità, essere essenziale e sempre dedito alle parole e ai silenzi e a quel “rubare” logica, fantasia e creatività al canto delle Muse.

Lascio a tutti voi un caro saluto nella speranza, pur nella loro semplicità, di aver fatto cosa gradita nell’esprimere questi miei pensieri.

Con affetto, stima e sempre ammirazione.

Lucia Bonanni

San Piero a Sieve (FI), 9 settembre 2015

“Con la GLI di coniGLIO” di Anna Maria Boselli Santoni, recensione di Lorenzo Spurio

“Con la Gli di ConiGLio” di Anna Maria Boselli Santoni

Edizioni Pragmata, 2014

Pagine: 132 – Costo: 12 €

Isbn: 9788897792659

 

Recensione di Lorenzo Spurio

I nostri programmi di allora ci chiedevano di formare le teste degli scolari e non di riempirle fino all’orlo di nozioni slegate tra loro e perciò non riutilizzandoli in altri passaggi dell’apprendimento perché fini a se stesse, destinate probabilmente ad un veloce irreparabile oblio. (55)

1412756640_10495862_327186277462773_8694612666861528296_oIl nuovo libro di Anna Maria Boselli Santoni è una nuova folgorante scoperta su una donna dall’animo gentile che ha fatto un patto di sangue con la scrittura e con la rievocazione del ricordo. Ha alle spalle una nutrita carriera letteraria dove ha spaziato sapientemente tra i generi più disparati, soprattutto in campo narrativo, di cui ricordo con vivo piacere le letture fatte delle sue opere più recenti, lavori dai titoli che richiamano da subito l’interesse del lettore, interesse che non cala mai man mano che ci si prodiga nella lettura. Mi riferisco a Forse là, dove danzano i girasoli e Rosetta e le ciambelle, entrambi editi da Marco Serra Tarantola Editore di Brescia e il più recente La dolce Rua Sovera (Edizioni Pragmata, 2014) dove i luoghi si animano di personalità e l’universo del piccolo borgo costruisce una fitta rete di collegamenti tra la protagonista e tutto ciò che ne definisce l’essenza urbana.

Anna Maria Boselli Santoni si definisce maestra e teologo laica; in questa nuova pubblicazione dal titolo Con la Gli di Coniglio (Edizioni Pragmata, 2014) è contenuta propria una densa biografia della Anna donna di istruzione, impegnata quale maestra non solo nell’istruzione dei giovanissimi, ma anche nella loro educazione, comprensione e lettura delle personalità. La componente di teologia laica (espressione impiegata con parsimonia nel panorama letterario culturale in virtù forse di un timore che essa contenga una contraddizione di fondo) la si ravvisa in Anna Maria invece in ogni singola frase che compone i propri libri dove è un animo altamente sociale (pure con i suoi momenti di necessità della solitudine per una maggiore comprensione di sé stessa e di ciò che accade attorno a lei), di vicinanza empatica al prossimo non solo in termini di aiuto al bisognoso, ma di comprensione degli stati di disagio e di compartecipazione alla vita personale degli altri. Sono, queste, componenti peculiari di una caratterialità votata all’esigenza di espressione e di ricerca di convivialità, di spiccate doti d’estroversione, costruttività e interrelazione che descrivono in maniera al quanto limpida la caratterialità di una donna energica e solare proprio come Anna Maria.

Ma per attenerci al nuovo volume in particolare dirò che è un libro-ricordo sull’esperienza di insegnamento della scuola, ma anche un manifesto di quanto la scuola primaria sia importante e determinante nella formazione culturale dei futuri giovani e soprattutto nel modo di integrazione e di interagire con il mondo di fuori dalla scuola e dalla famiglia.

10711004_321565521358182_5765807423940646735_n (2)Anna Maria senza puntare il dito in maniera eclatante contro qualcuno, sottolinea quanto i modelli didattici spesso si configurino come troppo freddi e distaccati nell’atto del loro insegnamento, troppo tabulari e schematici, senza consentire la libera espressione del soggetto o incentivarne le sue particolari inclinazioni o preferenze a determinate tematiche. La scuola che fuoriesce da questo tipo di insegnamento è un sistema standardizzato di moduli didattici che vengono trasmessi in maniera troppo rigorosa senza permettere una viva compartecipazione della classe possibile con l’introduzione di una dimensione di tipo ludica, di laboratori artistici ed espressivi, quindi applicativi, di diversa forma. La Anna Maria insegnante è anche una attenta indagatrice della psicologia dei piccoli che ha intorno a sé e, da buonissima insegnante ma anche amica (tutti avremmo voluto una maestra come lei), non fa difficoltà a scorgere episodi di disagio, di isolamento o di incapacità ad esempio nella scrittura, individuando casi di dislessia che all’epoca venivano duramente repressi dagli insegnanti con obblighi di continui esercizi di ricopiatura.

Il volume traccia un po’ quello che è stato il diverso approccio dell’insegnante nei confronti degli allievi nelle prime fasi della istruzione e la Nostra cita numerosi autori e testi, sociologi, studiosi e pedagoghi che si sono occupati proprio della formazione del giovane; non è un caso che il metodo Montessori provvedesse a indirizzare i genitori dei piccoli verso l’adozione di scelte, se non le più ovvie e a un primo acchito le più logiche, di sicuro quelle che a lungo termine avrebbero avuto una funzione decisiva sul comportamento del giovane. Il seminario di Asiago in cui la protagonista Mira, felice proiezione della Nostra, partecipa è per lei ulteriore motivo di avvicinamento a quella materia di interesse sociale-pedagogico che lei metterà in atto nella sua classe riscotendo vivo entusiasmo da parte dei giovani.

Entusiasmo che si conserverà poi nel corso degli anni quando la maestra, per ragioni sue personali dovrà abbandonare l’universo della scuola, ma ancora a distanza di tanti anni durante i quali i suoi allievi sono diventati maturi, non potrà non sentirsi ancora molto legata ad essi percependoli un po’ come suoi figli. Ed è così che il ricordo della bocciatura di un giovane e del decesso in piscina di un altro ragazzino, sono memorie dolorosissime che salgono alla mente della maestra ormai in età pienamente matura mentre la vediamo passeggiare con il suo bastone in giro per la città.

Un amore indissolubile verso la scuola che si respira in ogni singola frase del presente volume, attorno al quale Anna Maria intreccia con sapienza e con originalità la storia del suo privato: del suo matrimonio, dell’attrazione quasi fatale verso un giovane incontrato alla scuola, del dramma di scoprire un figlio dislessico che, grazie alle sue conoscenze e profonda empatia con la materia, riuscirà di certo ad aiutare, contribuendo anche a far conoscere questo tipo di disturbo che ha un’alta incidenza nei giovanissimi ma che raramente viene diagnosticato con precisione e in tempo.

Il ricordo dei momenti vissuti e la vita rutinaria del presente si fondono in un unico magma incandescente dove la forza delle parole e le immagini dei ricordi sono estremamente potenti tanto da riportare la Nostra nel dolore più lancinante o anche farle rivivere splendidi momenti. Su un ogni vicenda dell’esistenza resta la percezione di una maestra-ascoltatrice rarissima, di una donna che più che insegnare, si è lasciata cullare e stupire dai ragazzini, un genio indomabile nella ricerca di forme di insegnamento alternative come il giocodramma e la capacità di saper interagire con il mondo, facendo ogni volta sue le varie sfaccettature di questo mondo come quando, ricorda: “Penso, sorridendo, a come ogni piccolo essere umano di auto percepisce” (75).

Questo è ciò che dovrebbe star a cuore ad una maestra, ancor più dei compiti del giorno prima proprio perché: “Non è il giudicare che […] interessa, ma il capire e il comprendere ciò che è giusto e necessario sapere, come insegnante” (94).

Il mio plauso ad Anna Maria per questa nuova ricca pubblicazione, capace di chiamare a una sana riflessione.

Lorenzo Spurio

Jesi, 11-12-2014

Lorenzo Spurio su “Liceali” di Francesca Luzzio

Liceali
Di Francesca Luzzio
Con prefazione di Sandro Gros-Pietro
Genesi Editrice, 2013
Pagine: 130
ISBN: 9788874144051
Costo: 13€
 
Recensione di Lorenzo Spurio

 

Neanche il mio malessere induce mia madre a starmi vicino. (83)

 

downloadDopo varie raccolte poetiche e un interessantissimo saggio sulla storia della poesia nella letteratura italiana, la scrittrice palermitana Francesca Luzzio torna con una nuova opera, una sorta di compendio artistico od opera omnia che si compone di una prima parte con vari racconti e poi una seconda parte dedicata alla poesia. Il tema o, meglio, il sottofondo delle varie vicende narrate, è quello della scuola e in particolare quello dei licei, riferimento biografico alla stessa Francesca Luzzio che per tanti anni ha insegnato in scuole di questo ordine e grado. Il libro si apre con una propedeutica e riflessiva analisi del critico Sandro Gros-Pietro che veicola già da subito quali sono le intenzioni che muovono l’intero progetto contenuto in Liceali.

La scuola, comunemente considerata come luogo di istruzione e di cultura, come condizione di crescita e sviluppo e motivo di apertura, riflessione è ciò di cui più sta a cuore alla Nostra che in queste pagine, nell’artifizio della narrazione, non può esimersi di celarsi dietro gli sguardi di vari insegnanti che descrive, alcuni nuovi, altri veterani, impegnati in lezioni o accompagnatori in visite d’istruzione. Ma ciò che Francesca Luzzio intende sottolineare con questo libro è probabilmente la poca attualizzazione di programmi di studio che finiscono per non interessare gli studenti come quando nel racconto conclusivo la ragazza, che sta leggendo con piacere Le Metamorfosi di Kafka, si stupisce che un simile libro sia parte del prossimo modulo di programma.

A fronte delle instabilità insite nella società contemporanea e della gravosità del mercato del lavoro sembra che anche la scuola in certi momenti perda la sua canonica funzione di “ente regolarizzatore” e performante delle coscienze dei giovani. Ed è così che la scuola, dove una serie di atteggiamenti una volta erano severamente banditi e puniti, che diviene lo scenario di sregolatezze, fenomeni di abuso, violenza o di ghettizzazione dei quali la Cronaca non è che portavoce. La scuola dunque sembra de-scolarizzarsi per assumere un aspetto molto più simile e paragonabile al ben più privato spazio domestico della casa dove la noncuranza dei genitori o la loro assenza possono in effetti consentire atteggiamenti che pure lì andrebbero monitorati e fatti osservare. Si nota una certa criticità o addirittura una delusione vera e propria della scrittrice che in quanto insegnante ha osservato con attenzione problemi, disagi e necessità dei giovani nel comprendere le loro azioni e questo non può che avvenire con un continuo riferimento alla precarietà o difficoltà delle condizioni familiari ai quali sono sottoposti. Si parla spessissimo di famiglie separate, divise, di madri insensibili agli stati emotivi dei giovani e interessate solo al loro possibile futuro da favola, genitori disinteressati, indifferenti o perché si sono costruiti una seconda famiglia, o perché gravati dalle dure condizioni lavorative o semplicemente perché non hanno mai eretto la famiglia a obbligo morale.

 Non ne posso più di essere spedito come un pacco postale, da una casa all’altra, tra l’indifferenza più netta di mio padre e mia madre, della compagna dell’uno e del compagno dell’altra. (54)

 Privati della loro naturale dimensione domestica dove di fatto vengono de-localizzati e de-privati, i giovani non hanno uno spazio, un nido, nel quale riconoscersi e sentirsi realmente protetti e “a casa loro”. La separazione dei genitori e il continuo trasferimento da una casa all’altra a seconda del tempo concesso per stare con un genitore o l’altro producono un effetto destabilizzante sulla necessaria tranquillità del giovane, infastidendolo e facendolo sempre vivere in uno stato di andirivieni, di esilio e spostamento continuo senza poter trovare la giusta pace interiore e calma con il suo spazio.

C’è denuncia in questo senso nei confronti della società: la mancanza di valori, le attestazioni di violenza, l’utilizzo del potere sugli altri, la sfrontatezza, il bullismo e l’offesa sono chiaramente delle manifestazioni degradate e degradanti di una mancata cura, presenza e “alimentazione” familiare che unite all’assenza di quelle figure che dovrebbero impartire il rigore, l’educazione e far intravedere i doveri vengono a dar man forte a quel sistema deviato e auto-impostosi come corretto nella mente di alcuni giovani.

Non mancano dunque episodi dolorosi in cui assistiamo a suicidi che avvengono nel silenzio e nella pura incomprensione della famiglia, violenze ed aggressioni per il bisogno di avere maggior denaro per comprare droghe, insensibilità e grettezza nei confronti del “diverso” che portano all’istaurazione di veri e propri modelli razzisti, l’omofobia nei confronti di un ragazzo omosessuale che tanto ricorda la vicenda passata alla cronaca come la storia “del ragazzo dai pantaloni rosa”.

L’adolescenza come periodo di crescita e di traghettamento da un prima e un dopo è sempre stata descritta come una fase difficile, esplosiva che va trattata con attenzione, rifuggendo sia morbosità che disinteresse da parte dei genitori. Ed è proprio quello il momento in cui il ragazzo farà le conoscenze più importanti della sua vita (siano esse amorose, che amicali) che in un certo senso decreteranno il suo essere uomo/donna nella società; ma è anche il momento delle “nuove autorizzazioni” genitoriali al raggiungimento della maggiore età che, se sommate a un indomito lasciar-fare possono avere un contraccolpo: l’abuso di droga e di alcool, l’acquisizione di atteggiamenti superiori e sprezzanti contro gli altri (si veda l’episodio in cui il ragazzo picchia un barbone, episodio che poi darà luogo a un suo tortuoso ripensamento su quanto l’uomo gli ha detto).

In molti casi assistiamo a giovani, a studenti, che pur essendo inseriti in un contesto sociale che è quello della classe, vivono la loro diversità auto-recludendosi e al contempo soffrendo una logica claustrofilica indotta: la solitudine che alcuni giovani sperimentano e vivano in classe e che li conducono a una sorta di “esilio” (si veda il ragazzo gay, o il ragazzo di colore) è una situazione dolorosa che deprime lo stato psicologico del soggetto e lo demotiva, ne svilisce l’esistenza e lo conduce spesso anche a pensieri autolesionistici nutriti dal suo senso di nullità e incomprensione per il mondo tutto.

Come si diceva, l’analisi è abbastanza amara. Gran parte dei racconti denunciano, affrescano delle realtà che sembrano sommerse e che invece non vanno taciute, manifestano attenzione verso casi di emarginazione che debbono necessariamente essere estirpati con la chiara consapevolezza che è di certo semplicistico attribuire alla famiglia di un certo ragazzo depravato colpe e cause, ma sicuri anche del fatto che il germe d’origine di una personalità depressa, chiusa o pericolosa per gli altri ha di certo un’origine primaria che va localizzata nello spazio delle mura domestiche. Le poesie che compongono la seconda parte del libro, invece, sembrano avere un tono più rilassato dove in effetti anche alla speranza è possibile co-esistere all’interno di una prospettiva di sdegno che ha animato le pagine dei racconti.

Su un libro come questo che affronta il disagio giovanile facendolo da dentro, ossia dallo spazio dove i giovani sono chiamati a dare (in termini di conoscenze), ma dove finiscono per chiedere (l’aiuto, una sorta di sostegno, anche se indirettamente) ci sarebbe molto da dire, ma ciò che è necessario osservare è che Francesca Luzzio fornisce al lettore dei racconti piuttosto brevi nei quali condensa con normalità e voglia di far riflettere delle storie di ineguaglianza, prevaricazione e smarrimento della propria personalità. Non è un caso che il tema dello specchio ritorni più e più volte nel corso del libro: prima quando la ragazzina bellissima prende a farsi delle foto in posizioni osé e poi deciderà di venderle praticamente ad amici e conoscenti per mezzo del telefono arrivando a vendersi lei stessa (lo specchio qui è l’elemento che dà sicurezza alla giovane della sua bellezza e dunque della sua superiorità, quasi un contemporaneo Narciso che come quest’ultimo finirà per soccombere al suo stesso desiderio) e poi nella storia del barbone picchiato e vilipeso dove il ragazzo, specchiandosi, si vedrà d’improvviso invecchiato e tramutato proprio nel senzatetto che ha battuto.

L’identità, la perdita di essa e del suo sdoppiamento, si localizza come uno dei vari temi che costituiscono la trama organizzativa dell’intero libro e non è un caso che si citi Pirandello e Kafka e lo specchio come oggetto che ci fa conoscere noi stessi, ma che al contempo ci destabilizza e ci inquieta (ricordiamo Vitangelo Moscarda che metterà a soqquadro la sua intera esistenza). Nel racconto conclusivo questo sdoppiamento del personaggio, questa impossibilità di potersi riconoscere in maniera identitaria viene sviscerato da una ragazza che si trova in visita d’istruzione e che ben si addice alla manifestazione della perdita di quell’autocoscienza che porta a una vera e propria forma di estraniamento dal sé:

Tutti vogliono che mi comporti in un modo o nell’altro e io cerco di contentare tutti, opprimendo e schiacciando quelli che sono i miei desideri, le mie passioni. […] Non so più chi sia. […] Il sabato poi,… la metamorfosi, nell’arco di un pomeriggio, è duplice: prima divento la nipotina rispettosa che ogni settimana va a visitare i nonni, la sera mi trasformo nella puttana di Vincenzo, il mio ragazzo. (88).

Con un linguaggio che fa completamente ricorso al gergo giovanile, assistiamo a fatti eclatanti che avvengono all’interno della dimensione scolastica, tra lezioni, pause, assemblee, occupazioni, consigli di classe, visite d’istruzione e pause tra un’ora e l’altra. Il tutto è scandito dal suono della campanella e dalla figura dell’insegnante che, forse, a volte non è neppure capace di gestire le varie problematiche dei giovani disagiati come avviene appunto all’insegnante nell’ultimo racconto:

Mi sento avvilita, confusa, né riesco a trovare le parole giuste per rincuorarla.  (89)

 Il fenomeno di ghettizzazione per motivi di carattere razziali contenuto nel racconto “Italiano non italiano” fa senz’altro riflettere, perché in questa circostanza il sentimento di estraniamento e di non-coesione nel gruppo è ulteriormente accentuato per motivazioni di colore della pelle. Il finale del racconto di certo non getta luce troppo positiva in quanto, se è vero che il giovane farà conoscenza con una ragazza, anch’essa di colore, e i due diventeranno vicini di banco e quindi nessuno dei due sperimenterà più da solo la sofferenza per l’emarginazione, va anche detto che questa è una felicità surrogata, o addirittura una felicità che non è tale in quanto spetterebbe all’insegnante facilitare l’inserzione dei due “diversi” nel tessuto della classe non permettendo un ulteriore caso di esclusione e separazione dalla stessa acconsentendo al fatto di tenerli vicini tra loro e separati dagli altri. Secondo la mia prospettiva questa è chiaramente una nuova forma di razzismo che, se motivata dalla volontà di facilitare i rapporti tra i due africani e abbattere il loro sentimento di solitudine, dall’altra li allontana doppiamente e in maniera ancor più grave dall’intero tessuto sociale della classe.

Il fenomeno di ghettizzazione per motivi di carattere razziali contenuto nel racconto “Italiano non italiano” fa senz’altro riflettere, perché in questa circostanza il sentimento di estraniamento e di non-coesione nel gruppo è ulteriormente accentuato per motivazioni di colore della pelle. Il finale del racconto di certo non getta luce troppo positiva in quanto, se è vero che il giovane farà conoscenza con una ragazza, anch’essa di colore, e i due diventeranno vicini di banco e quindi nessuno dei due sperimenterà più da solo la sofferenza per l’emarginazione, va anche detto che questa è una felicità surrogata, o addirittura una felicità che non è tale in quanto spetterebbe all’insegnante facilitare l’inserzione dei due “diversi” nel tessuto della classe non permettendo un ulteriore caso di esclusione e separazione dalla stessa acconsentendo al fatto di tenerli vicini tra loro e separati dagli altri. Secondo la mia prospettiva questa è chiaramente una nuova forma di razzismo che, se motivata dalla volontà di facilitare i rapporti tra i due africani e abbattere il loro sentimento di solitudine, dall’altra li allontana doppiamente e in maniera ancor più grave dall’intero tessuto sociale della classe.

Un libro forte, ma necessario, attuale e vero del quale la letteratura ha di certo bisogno per riflettere con attenzione su quelle che sembrano essere a-normalità e dunque manifestazioni da denigrare, annullare e violentare e che, invece, rappresentano semplici varianti al nostro concetto di normalità. Chiaramente la scuola e la figura dell’insegnante è centrale nel percorso di crescita del ragazzo e nella sua presa di coscienza nei confronti del suo ruolo sociale, ma l’autrice è attenta nel calcare la mano su quanto sia la famiglia la prima detentrice dell’educazione, del calore e del rispetto verso gli altri.

 

Lorenzo Spurio

 Jesi, 2 Febbraio 2014

E’ uscito “Liceali” di Francesca Luzzio

E’ uscito “Liceali” di Francesca Luzzio

Liceali

di Francesca Luzzio

Genesi Editrice, 2013

Pagine: 132

ISBN: 9788874144051

Costo: 13€

Link diretto alla vendita

COPERTINA LICEALI

Dalla prefazione di STEFANO GROS-PIETRO:

La scena del bel libro di Francesca Luzzio inizia, dunque, sulla zattera dei naufraghi. Fra di loro, improbabile comandante della scialuppa già destituito di autorità, c’è la giovane e bella professoressa Giulia Lo Cascio, sposa e madre felice, ma che si lascia rapire da un amore impossibile e finisce tra le braccia di un suo allievo, dalla corporatura aitante e dalla carne profumata di gioventù. E lì c’è anche Alice, che apre il suo cuore di adolescente all’amore, ma rimane incinta dal compagno di scuola Giovanni, il quale, come sa che la ragazza è in dolce attesa, si trasforma in un lupo mannaro e la insulta barbaramente, le rinfaccia il cedimento dei sensi che la ragazza ha avuto sia con lui sia con chissà quanti altri, per cui la giovane vacilla stordita in strada, viene travolta da un’auto, si risveglia in ospedale, e trova vicino a sé come unica ancora di salvataggio la mamma, che forse collaborerà a ricostruire la vita della figlia. C’è Mario, che è stato pestato a sangue dai suoi compagni nei gabinetti della scuola, e che in segno di spregio e di umiliazione è anche stato lordato di urina, perché i bulli non accettano la sua individualità improntata al riserbo e all’isolamento, lo ritengono supponente o addirittura antagonista, tale da meritarsi la violenta punizione. C’è la tragedia di un altro Mario, figlio di genitori abbienti, che si è iniziato alla droga, per noia e per desiderio di evasione, e che giungerà a scappare di casa, per poi farvi ritorno con l’unico scopo di rapinare e pestare selvaggiamente i genitori. C’è Andrea, amico di infanzia di Giuseppe, a cui il ragazzo si lega con l’aspettativa in cuore di realizzare un legame omosessuale, mentre Giuseppe si innamora di Rita e Andrea sprofonda in una spirale depressiva di umiliazione, in fondo alla quale c’è la tragedia di un atto non conservativo rivolto contro se stesso. C’è Luigi, figlio del custode del palazzo dove abita la bella Daniela, che invece è figlia di una famiglia più che agiata, e Luigi, grazie ai favori scolastici che egli offre ai compagni più ricchi, pensa di potere essere accettato in un ceto sociale molto al di sopra del suo e perciò andrà incontro a una cocente mortificazione. C’è il branco di Marco, Alessandro, Daniele, Giuseppe, Vincenzo, Caterina e Daniela che organizza serate in discoteca con ampio consumo di droga presa a prestito dallo spacciatore, con il progetto di sdebitarsi organizzando una rapina ai danni dei barboni che vivono all’addiaccio, ma le cose non andranno come previsto e Vincenzo ne subirà le tragiche conseguenze. C’è Giulio, soprannominato il “ragazzo fagotto” perché sballottato come una valigia nelle case dei genitori separati, entrambi infastiditi dalle esigenze di vita e di studio del ragazzo. C’è Mohamed, ragazzo che è ritenuto solo a metà italiano perché i genitori sono sudanesi e, quindi, il giovane ha la pelle di colore più che scuro, ed egli vorrebbe tentare in ogni modo di sbiancarla con l’uso degli acidi. Ci sono molti altri casi di disagio educazionale e di violenza familiare o di cattiva educazione instillata dai genitori ai loro ragazzi, a causa di un esasperato desiderio di promozione sociale, sviluppato fino ai limiti della presunzione o addirittura dell’arroganza.

E’ USCITO IL NUOVO NUMERO DELLA RIVISTA EUTERPE DAL TEMA “L’INTERCULTURA”

Rivista EuterpeE’ appena uscito il sesto numero della rivista Euterpe, rivista di letteratura diretta da Lorenzo Spurio, scrittore e critico-recensionista e gestita assieme agli scrittori e poeti Massimo Acciai e Monica Fantaci.

La rivista si apre con un editoriale che affronta il tema dell’intercultura e che è firmato da Monica Fantaci, poetessa palermitana e vice-direttrice della detta rivista.

Numerosi i testi a tema e quelli a tema libero che coprono tutti i generi: poesia, narrativa, saggistica, recensioni, interviste. Al termine si offre, inoltre, una serie di segnalazioni di concorsi ed eventi letterari appositamente scelti per la diffusione.

Il nuovo numero della rivista può essere letto e scaricato cliccando sul logo della rivista qui sopra.

Hanno collaborato al presente numero della rivista: Monica Fantaci, Fiorella Carcereri, Lorenzo Spurio, Cinzia Tianetti, Mauro Biancaniello, Emanuele Marcuccio, Anna Maria Folchini-Stabile, Michela Zanarella, Massimo Acciai, Luisa Bolleri, Fiorella Carcereri, Patrizia Chini, Federico Caruso, Alessandro Dantonio, Gennaro Tedesco, Monia Minnucci, Valeria Di Iasio, Iuri Lombardi, Elisabetta Polatti, Emanuela Di Caprio, Giuseppe Bonaccorso, Annamaria Pecoraro, Fiorella Fiorenzoni, Antonella Santoro, Martino Ciano, Miriana Di Paola, Anna Alessandrino, Giuseppe Giulio, Cristina Lania, Anna Santoni, Francesco Martillotto, Ivan Pozzoni e Maria Rosaria Di Domenico.

Si ricorda, inoltre, che il prossimo numero avrà come tema “La città” e che i materiali dovranno essere inviati entro e non oltre il 25 Febbraio 2013 alla mail della rivista:  rivistaeuterpe@virgilio.it

In Fb è presente l’evento per il prossimo numero della rivista, a questo link: https://www.facebook.com/#!/events/311224935664927/?notif_t=plan_user_invited

Grazie a tutti per la collaborazione e l’attenzione.

Lorenzo Spurio

Direttore Rivista Euterpe

“La setta dei giovani vecchi” di Luca Rachetta, recensione di Lorenzo Spurio

La setta dei giovani vecchi

di Luca Rachetta

con prefazione di  Gian Paolo Grattarola

Edizioni Creativa, 2011

ISBN: 987-88-96824-28-3

Costo: 11,00 Euro

Recensione a cura di Lorenzo Spurio

Con La setta dei giovani vecchi, Luca Rachetta propone una nuova attenta indagine della psicologia dell’uomo narrando di preoccupazioni, sogni, manie, perversioni e veri e propri comportamenti ossessivi che, pur avendo spesso una connotazione comica, non mancano di essere un vivido specchio della realtà quotidiana nella quale viviamo. Giovanni Eufemi, il personaggio principale, è un docente in una scuola secondaria, un tipo meticoloso, ponderato e riflessivo. Anche nel romanzo precedente, La guerra degli Scipioni, simpatico quadretto familiare inquadrato sull’analisi della vita di tre fratelli tanto diversi e al tempo stesso tanto strambi, Rachetta aveva consegnato a uno dei suoi personaggi principali la professione di educatore scolastico forse influenzato direttamente dalla sua attività lavorativa. Il mondo della scuola, dell’istruzione e della difficoltà d’inserimento nelle liste di insegnamento a tempo indeterminato è una realtà che Rachetta affronta con questo romanzo, mettendo in luce un chiaro riferimento alla crisi economica e lavorativa dei nostri tempi. Curioso l’episodio dello slittamento delle nomine dei nuovi professori che Rachetta narra nel romanzo, descritto come fosse un ammutinamento o, addirittura, una rivoluzione con tanto di incendio, quartier generale, contestazioni e forze dell’ordine che intervengono a sanare il conflitto (pagg. 29-30).

La narrazione si basa sull’utilizzo di un linguaggio preciso, a volte quasi ricercato tanto da far pensare che sia antiquato, quasi da romanzo storico o d’altri tempi; in realtà la narrazione è fruibile a chiunque, è fluida e ben organizzata e la divisione in capitoli che lo stesso autore ci fornisce ci consente di seguire un determinato percorso progressivo nella lettura.

Così come in La guerra degli Scipioni Rachetta tratteggiava tra i vari personaggi lo psicopatico, il tipo apparentemente sano capace, però, di gesti preoccupanti e folli, anche in La setta dei giovani vecchi ritroviamo personalità ambigue, tormentate, scisse che più che caratterizzarsi per il fare, si delineano attraverso la loro attività meditativa, onirica che, in quanto irrazionale, è incontrollabile; è il caso dell’ingegner Rovelli che ha costruito attorno a numeri, quantità, segnali di buon auspicio o di malaugurio un suo mondo che per il lettore, e per lo stesso Giovanni Eufemi, è strampalato e surreale. Rachetta, infatti, sembra sondare attraverso i suoi personaggi le psicologie, spiegare i comportamenti bizzarri in modo del tutto singolare, lo stesso paesino dove si svolgono i fatti, Castel Chimerico, individua nel toponimo un mondo sospeso tra reale e fantastico, tra qualcosa di materiale e fisico (il castello) e qualcosa di fumoso e fantastico (di chimerico, appunto).

Ma il punto di partenza dell’intera narrazione è facilmente individuabile nel titolo del romanzo. Chi è giovane e chi è vecchio? Dove termina la gioventù e dove inizia la vecchiaia? Un uomo di quarantacinque anni è vecchio o può considerarsi, eludendo l’età, ugualmente giovane? La questione, affrontata di continuo nel corso del romanzo, è posta da subito nell’incipit per veicolare, forse, il lettore da subito a intraprendere considerazioni di un certo tipo: «Giovanni Eufemi, residente nella cittadina di Castel Chimerico, era arrivato alla rispettabile età di quarantadue anni senza avere ben chiaro in testa un concetto basilare: la differenza tra gioventù e la vecchiaia» (pag. 7).

Nel romanzo è, inoltre, insita una silente lotta contro le gerarchie e i sistemi basati sull’autarchia generazionale, tanto in politica, quanto nell’istruzione e nella cultura che rendono di fatto difficile e osteggiato l’inserimento delle nuove generazioni in tali campi. E così Francesco Cinghialetti, amico di Giovanni Eufemi, cerca di introdursi nel ristrettissimo ambito dell’amministrazione comunale definito da Rachetta «oligarchia gerontocratica» (pag. 47) con l’idea di portare una ventata nuova e di mostrarsi garante di fette più giovani della popolazione ma il suo inserimento viene di continuo osteggiato dai vecchi “padroni” che, di fatto, tengono ben salda la propria poltrona sotto il loro sedere.

Una storia piacevole, ben costruita, senza grandi colpi di scena com’è nello stile di Rachetta che affronta, però, tematiche importanti e quanto mai attuali: la precarietà nel mondo della scuola, l’attaccamento ossessivo e prepotente delle vecchie generazioni nelle varie attività, la fama da quattro soldi di contro alla meritocrazia.

Lorenzo Spurio

 16-01-2012

 Qui troverete l’intervista a Luca Rachetta e sul suo romanzo precedente, La guerra degli Sciopioni, fatta da me il 10-07-2011: https://blogletteratura.wordpress.com/2011/07/16/la-guerra-degli-scipioni-intervista-a-luca-rachetta/

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