“La Grande Madre e gli dèi del cielo”, saggio antropologico di Cinzia Baldazzi

Saggio di Cinzia Baldazzi[1]

 

     Nel 1938 Carl Gustav Jung, nello studio Gli aspetti psicologici dell’archetipo della Madre, così la definiva:

La magica autorità del femminile, la saggezza e l’elevatezza spirituale che trascende i limiti dell’intelletto; ciò che è benevolo, protettivo, tollerante; ciò che favorisce la crescita, la fecondità, la nutrizione; i luoghi della magica trasformazione, della rinascita; l’istinto o l’impulso soccorrevole.

     Nelle rappresentazioni di epoca antichissima troviamo l’immagine, sotto forma di piccole statue, di un ente supremo definito Grande Madre da archeologi, etnologi, storici della religione. Racconta Umberto Galimberti:

Nell’area mediterranea ne sono state reperite cinquantacinque contro le cinque maschili, atipiche e malfatte, che rappresentano giovanetti in tenera età. Ciò lascia supporre che la divinità maschile subentri solo in un secondo momento e che il rango della divinità-figlio sia stato conferito solo successivamente dalla divinità madre.

     Si tratta di una deità femminile primordiale, còlta in molteplici forme e ospitata in un’ampia gamma di popoli, civiltà e culture sparsi nel mondo, dalle comunità di cacciatori-raccoglitori del Paleolitico ai clan dedicati all’agricoltura e alla pastorizia del Neolitico. La Grande Madre è alla fonte di un circuito ininterrotto di nascita-sviluppo-maturità-declino-morte-rigenerazione, tipico della vita umana quanto di cicli naturali e cosmici. Il carattere femmineo appare quindi necessario elemento mediatore fra il terreno e il trascendentale. L’uomo, il principio maschile, sembra essere completamente escluso dall’immaginario primitivo, probabilmente in quanto il meccanismo della fecondazione non era ancora chiaro alla coscienza.

    1 Le sembianze – visibili nella celebre Venere steatopigia di Willendorf – pongono in rilievo il simbolismo corrispondente a un “vaso pieno”, ottenuto enfatizzando gli attributi peculiari dell’icona muliebre e penalizzandone altri: mammelle e ventre spesso composte in un grappolo unitario, bacino dilatato, testa senza viso, femore e cosce sottili e sproporzionate, piedi esili del tutto insufficienti a reggere il corpo enorme, infine braccia e piedi appena accennati.

     Riguardo l’asse temporale, la prevalenza di un simile personaggio occupa un periodo esteso che, almeno in Europa, copre gli anni dal 35.000 a.C. al 3.000 a.C. circa; in talune aree del Mediterraneo (tra cui Creta) permane sino al II millennio a.C. inoltrato. La celebrazione della Grande Madre attesterebbe quindi l’esistenza di tribù matrifocali nel Paleolitico e nel Neolitico. Prosegue Galimberti:

     La mancanza di agilità e di forma fa assumere alla Grande Madre una postura sedentaria in stretta aderenza alla terra in cui spesso è incorporata. Anche quando sta in piedi, il suo centro di gravità la spinge verso il basso, verso la terra che, nella sua immobilità, è la sede del genere umano. Seduta, poi, la grande Madre è la dèa troneggiante, quindi la forma originaria del trono stesso.

     Grazie all’esplosione demografica causata dall’introduzione dell’agricoltura e alla relativa crescita di culture ramificate, le “competenze” proprie della gloriosa antenata si scindono e si diversificano in svariate icone muliebri. La Somma Divinità, pertanto, pur seguitando ad esistere accompagnata da liturgie specifiche, si moltiplica in personificazioni distinte per sovrintendere all’amore sensuale (Ishtar-Astarte-Afrodite-Venere), alla fecondità delle donne (Ecate triforme), alla fertilità dei campi (Demetra-Cerere-Persefone-Proserpina), alla caccia (Kubaba-Cibele-Artemide-Diana). Poiché il ciclo naturale delle messi implica le tappe di morte e rinascita del seme, la Grande Madre si connette anche a cerimonie legate alla Luna: tra i riti arcaici riservati alle donne, i più remoti sono quelli di Mater Matuta e della Bona Dea.

     L’origine matrifocale dei clan rurali è stata approfondita dalla studiosa lituana Marija Gimbutas, ponendo enfasi sul ruolo femminile sociale della donna in epoca Neolitica.  Ciò sarà evidente, in seguito, nell’appellativo di “figlio della dèa” attribuito a talune divinità (come Διόνυσος-Diònisos) vincolate alla terra. Un nesso determinante nello sviluppo delle religioni ancestrali è infatti il legame autoritario, il rapporto iniziatico, tra la madre archetipica e il suo compagno, caratterizzato dall’essere minore di lei – per età e poteri – e dal ricoprire spesso il ruolo di giovane amante, assai simile a un figliolo (si veda in proposito la coppia Cibele-Attis).

     Nelle feste e nei misteri per evocare la prosperità, onorare la Madre indica il procedere delle stagioni, insieme alla domanda universale dell’essere umano di poter rivivere al pari dei semi dal terreno. Il processo di rigenerazione la rappresenta con fattezze di rana, pesce, porcospino o clessidra, con doppi triangoli e pietre a spigolo adeguati a evocare una stilizzazione combinata con rami e germogli.

     Accanto al vaso primigenio – in analogo al grembo materno – e alla forza ctonia (da khtòn, Terra), la mitologia le conferisce anche la veste di albero della vita: la genitrice trae alimento da salde radici piantate nel suolo, innalza fronde e foglie per delineare un’ombra protettiva nella quale il nucleo vivente trova rifugio. Significativa la parentela con il vocabolo spagnolo madera (“legname”), affine a «madre», «materia», a cui pure risale l’aggettivo greco madaròs (“umido”, “inzuppato”), il latino madidus (“bagnato”). Spiega ancora Galimberti:

In Egitto il pilastro Ded, conficcato nel monte, è il «legno della vita da cui nascono gli dèi», fino alla più recente simbologia giudaico-cristiana dove il figlio della Vergine nasce nella mangiatoia di legno e muore sulla croce «albero della vita e della morte». La materia lignea, infatti, oltre che madre della vita è anche madre della morte, è il sarcofago divoratore di carne, la cassa che racchiude nella forma dell’albero-pilastro Osiride nel suo legno.

     Ciò vuol dire che tutti i simboli collegati alla Grande Madre, o comunque vicini alle proprietà “materne”, sono di fatto contraddistinti da una forte ambivalenza, da una duplice natura, positiva e negativa: la “madre amorosa” e la “madre terribile”.

     Secondo Carl Gustav Jung, il creatore della “psicologia del profondo”, tutti siamo collegati con numerosi archetipi, ovvero con contenuti primordiali e universali presenti nell’inconscio collettivo: la Grande Madre è sicuramente una delle “immagini” con cui forse più spesso e profondamente entriamo in relazione. Rimane attuale l’interrogativo posto da Jung, vale a dire se tale figura, potenza dell’Inconscio, sia piuttosto salvatrice e nutrice, che non deleteria e distruttiva. Sono quindi altrettanto importanti le istanze negative di cui è portatrice:

Ciò che è segreto, occulto, tenebroso; l’abisso, il mondo dei morti; ciò che divora, seduce, intossica; ciò che genera angoscia, l’ineluttabile.

     La psicologa Anna Maria Cebrelli ha così dettagliato questo aspetto:

In quanto espressione di vita è connessa ai cicli di nascita e morte: ogni nascita, infatti, presuppone la “morte” di uno stato precedente. In questa apparente ambivalenza, la Grande Madre può diventare anche terribile, vorace, predatoria. È il suo “lato ombra”: è la caverna fredda e oscura e anaffettiva; è il vaso che non lascia più uscire il suo prezioso contenuto (che quindi non può crescere, svilupparsi, emanciparsi e diventare autonome; rimane invischiato in una relazione opprimente e vincolante o comunque mantiene tratti infantili, filiali), è la Madre Matrigna che non nutre, non si prende cura ma può uccidere, maltrattare. Non ama più, pensa solo a se stessa.

     Ecco una prima inversione di rotta nel percorso mitico, religioso e antropologico. Nel ragionamento di Galimberti scaturisce una svolta storicamente indiscussa, poiché egli riporta le celebri parole di Platone nel Timeo:

Noi uomini non siamo come le piante della terra, perché la nostra patria è il cielo, dove fu la prima origine dell’anima e dove Iddio, tenendo sospesa la nostra testa, ossia la nostra radice, tiene sospeso l’intero nostro corpo che perciò è eretto.

     Dall’adorazione della fertilità femminile, dalle simbologie del vaso e dell’albero, l’umanità si va separando per volgere lo sguardo verso il cielo. L’itinerario dell’uomo, lungo un tracciato millenario e irreversibile, progredisce dalla sfera terrestre al firmamento, dalle divinità ctonie a quelle uraniche, dalla terra-madre al cielo-padre: è l’allontanarsi dalla visione sensibile di tracce cariche di sostanza verso l’intelletto della loro essenza depurata dall’immaterialità. Il mito narra le tappe di tale sentiero, il graduale avanzamento dai culti della Grande Madre alla venerazione degli dèi dell’Olimpo; la filosofia è pronta a cogliere il messaggio profondo del cambiamento. Ma, alla luce dei millenni trascorsi, un simile genere di passaggio non è stato incontrovertibile, non ha annullato le origini, in quanto, da tempo, la materia ha ripreso importanza e la Terra continua a catturare attenzione con il surriscaldamento, i terremoti, le alluvioni, le attività dei vulcani.

     In certa misura, la filosofia avrebbe ancora un compito maieutico, materno: rappresenta un’unione non riscontrabile in un immediato scenario di applicazioni pratiche, piuttosto nella qualità di plasmare la ψυχή (psiuké) umana, agevolando la nascita del prezioso, famoso “senso critico”, oggi fondamentale se inserito nel contesto di un sistema teso, al contrario, a coltivare concetti espressi acriticamente da nozioni considerate già appurate.

     Dalle viscere dell’anima e della cultura, la filosofia rende possibile l’affiorare di un raziocinio operativo dove la ricerca è ogni volta condotta alla scoperta del mondo stesso da cui ha tratto origine, accogliendo l’individuo in un’apertura totale dal χάος preesistente (khàos, “disordine” o “lacuna”) alla struttura di ordine denominata κόσμος (kòsmos). In un tale status d’idee, nel κόσμος si imporrebbe la sua parola e, nel cammino quotidiano verso l’ignoto, da quasi tre millenni avanza la filosofia. Di certo, nell’orizzonte di un pensiero speculativo proiettato verso l’alto e rivolto al futuro, l’ambiente circostante e l’immanenza terrena sono garantiti dalle fattive radici della ragione, facoltà appartenenti all’uomo materiale.

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     Ma il pensiero non può essere giudicato solo figlio dei dati sensoriali, cioè qualcosa pertinente in esclusiva ai cinque sensi: dovremmo in tal caso supporre che le conoscenze effettive siano valide a patto di venir acquisite nell’arco sensibile, ritenendo di conseguenza vaghi i costrutti ideali frutto del meditare. Per fortuna, la storia ha dimostrato quanto il meccanismo logico-filosofico sia sostanziale anch’esso, coincidendo con processi generativi dell’apprendere gestiti fin dalle origini. Cosa resterebbe, altrimenti, dell’intero insieme della conoscenza, rielaborata riflettendo su dati concreti?

     Torniamo così all’antinomia indicata da Galimberti:

Dalla terra al cielo è dunque l’itinerario compiuto dall’uomo, nel suo lento passare dalla visione sensibile delle cose cariche di materia a quella intelligibile della loro essenza depurata dalla materia. Il mito racconta le cose come sono veramente andate: il lento passaggio dai culti della grande Madre ai culti degli dèi uranici; la filosofia coglie il senso di questo passaggio che è nella natura dell’uomo originariamente aperta alla visione.

     Nelle consuetudini primordiali – in specie nelle aree europee, mediorientali, indiane – incontriamo mitologie, leggende, ritualità rappresentative di un legame fra il regno della madre (terra) e il dominio del padre (cielo). Nella prospettiva storica, il tutto è dovuto a una serie plurimillenaria di contatti e conflitti capaci di avvicinare e mettere in relazione i gruppi agricoli e stanziali del bacino del Mediterraneo con i popoli delle steppe, ovvero i nomadi dediti all’allevamento nelle coste del Mar Nero, nell’Asia Centrale, nelle regioni dell’Arabia. Fra stratificazioni etniche tanto diverse talora prevale il contrasto, talvolta la coesione: questa gamma di discordie e di simbiosi si rivelerà all’altezza di modellare lo spirito delle grandi civiltà classiche – romana, ellenica, iranica, indiana – profondamente sincretiste e al contempo provviste al loro interno di robuste tensioni simboliche.

     Nel complesso sintetizzato dalla mitologia matura, le connessioni fra dèe terrestri e dèi celesti esprimono una cosmologia “dinergica” (emblema di dualismo), dotata di armonia e integrazione, in cui ognuno dei poli rimanda all’altro. La dinergia immanente è, ad esempio, iscritta nell’immagine dell’uovo (indice latente del progredire, del mistero antecedente all’essere), e nell’intreccio di uomo-donna, trascendenza-immanenza, arricchita dall’intreccio di tratti androgini ed ermafroditi, in alcune iconografie di dèi maschili, ad esempio Κρόνος/Saturno ed Ἑρμῆς/Mercurio.

     La simbologia degli dèi del cielo finisce per sovrapporsi alla galleria dei numi femminili della terra, comunque senza annullarla: quest’ultima, pure emarginata, continuerà ad informare di sé in maniera decisiva l’estro individuale, la tecnica artistica, le nuove istanze di fede.

     E sarà forte, allora, la nostalgia per quel periodo, ormai avvolto nella notte dei tempi, in cui il cielo fa la sua comparsa ma è ancora dipendente dalla terra, quando insomma la ridefinizione dell’uomo, la reinterpretazione del proprio posto nell’universo, transita ancora nella feconda contaminazione tra gli agricoltori residenziali, con le radici nella divina madre terra, e i popoli migranti degli allevatori, i quali alzano lo sguardo al cielo affinché le stelle indichino loro il cammino.

CINZIA BALDAZZI

 

 

Ringrazio Adriano Camerini per la collaborazione alla stesura del testo.

 

L’autore del presente testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere in relazione ai contenuti del testo e a eventuali riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE DI RIFERIMENTO

Carl Gustav Jung, Gli aspetti psicologici dell’archetipo della Madre, in “Gli archetipi e l’inconscio collettivo”, Opere, vol. IX, tomo 1, Torino, Bollati Boringhieri 1997, p.83

Marija Gimbutas, Il linguaggio della dèa, trad. Nicola Crocetti, Milano, Longanesi 1990

Marija Gimbutas, Le dèe viventi, trad. M. Doni, Milano, Medusa Edizioni 2005

Umberto Galimberti, Le origini del pensiero filosofico greco, in Emanuele Severino (a cura di), Storia del pensiero occidentale, vol. 1, Milano, Mondadori 2019, pp. 24-26

Anna Maria Cebrelli, Grande Madre: l’archetipo dell’origine femminile di ogni cosa, 12 maggio 2017, https://www.greenme.it/vivere/mente-emozioni/grande-madre-archetipo/

Massimo Donà, “Nomos” e singolarità, in “Quaderni di inSchibboleth”, vol. 1/2018, n.9, “Invisibile ed esperienza”, Roma, 2018

 

 

[1] Cinzia Baldazzi, romana, classe 1955, si è laureata in Lettere Moderne a “La Sapienza” in Storia della Critica Letteraria. È stata cronista teatrale negli anni ’70 e ’80 su quotidiani e periodici, quindi sulle testate online “Scenario” e “News Arte Cultura”. Collabora ai blog “On Literature” e “Alla volta di Léucade”, nonché alla rivista digitale “Euterpe”. Tra le pubblicazioni, Passi nel tempo (2011), commenti a quindici poesie di Maurizio Minniti; EraTre (2016), con il poeta Concezio Salvi e il pittore Gianpaolo Berto; Orme poetiche (2016), antologia di poeti curata da Pasquale Rea Martino; Duecento anni d’Infinito (2019), con Maurizio Pochesci, antologia poetica per il bicentenario dell’idillio leopardiano. Tra i riconoscimenti alla carriera, il “Labore Civitatis” all’interno dell’evento “Tra le parole e l’infinito” (2018). Svolge da tempo un’intensa e riconosciuta opera di diffusione della poesia attraverso divulgazione di nuovi autori, presentazione di libri, organizzazione di incontri tra poeti, coordinamento di reading, interventi critici in caffè letterari. Il suo blog http://lamemoriadiadriano.blogspot.com/ è dedicato a letteratura, arte e musica.

“Quando le macchine “vedono cose che noi umani….” Il retro-futuro di Ian McEwan nel nuovo romanzo “Macchine come me”, recensione di Marco Camerini

Recensione di Marco Camerini 

317Dk9l3noL.jpgLa “letteratura ucronica” (suggestiva variante del filone fantascientifico), nella quale si prospetta un passato avveniristico alternativo al presente della realtà storica, vanta una ricca tradizione novecentesca – da La svastica sul sole di Ph. Dick al Complotto contro l’America di Roth, da IQ84 di Murakami allo splendido, dimenticato Ada di Nabokov – e ancor più consolidato è il topos dell’umanoide/cyborg[1] che annovera illustri precedenti ottocenteschi quali il Frankenstein di M. Shelley (McEwan riprende in chiave parodistica il momento dell’attivazione/risveglio della Creatura, sostituendo ad “Allora funzioni!” un significativo “Come stai?”), L’uomo della sabbia di Hoffmann e, al femminile, Eva futura di A. de L’Isle-Adam, attraversando l’intero “secolo breve” con Meyrink (Golem), Wells e ancora il Ph. Dick de Il cacciatore di androidi, spunto per il capolavoro filmico Blade runner. Senza timori reverenziali lo scrittore inglese, nel suo ultimo libro Macchine come me (Einaudi 2019) tenta – riuscendovi – di rileggere in chiave colta, attualissima, struggente ed ironica insieme il genere e la tematica, non facendo certo rimpiangere il precedente Nel guscio: in entrambi, comunque, due “entità” che paiono saperla assai più lunga dei comuni mortali.

Anni ’80: in un’Inghilterra bipolare che registra alti tassi di disoccupazione, inflazione, scioperi, diffusione della xenofobia, vertiginosa crescita di suicidi ma anche incremento dell’istruzione universitaria, quote rosa in Parlamento e casi clinici risolti con l’innesto di cellule staminali, mentre sei premi Nobel in due anni vengono assegnati a cittadini britannici, si moltiplicano speranza e disperazione, frustrazione e buone occasioni (“C’era di più in ogni cosa”). Intanto viene proclamato il lutto nazionale per i 2920 soldati morti nella guerra, perduta, delle Isole Falkland (dimissioni per la Thatcher? Le chiedono anche i “centristi non pavidi”, inaccettabile la sconfitta dell’Invincibile Armata), i giovani rappresentanti del “baby boom” votano il laburista Tony Benn, che finisce ucciso in un attentato dell’IRA, Kennedy non è morto a Dallas, gli attempati Beatles, ricostituitisi dopo dodici anni, interpretano brani dal “sentimentalismo robusto” (incisi con orchestre sinfoniche!) e Sir Alan Turing – “espressione del volto nervosa, famelica, feroce in un volto aperto e infantile” – scoppia di salute. In un retro-futuro che ha declassato a residui di modernariato interfaccia cervello-macchina, caschi di potenziamento cognitivo e frigoriferi parlanti dotati di olfatto, proprio il glorioso inventore del Codice Enigma, codificatore dell’intuito artificiale conseguente al deep learning di software complessi in possesso di reti neuronali superiori, potenzialità decisionali di tipo probabilistico e consapevolezza emotiva, acquista uno dei primi umanoidi in circolazione (12 Adam e 13 Eve) grazie ai quali “non si poteva escludere la tragedia” susseguente al loro ramificato impiego nel tessuto lavorativo (diritti tutelati?), ma certamente la noia. Un esemplare (lo sceicco di turno se ne è regalate tre per ampliare l’harem) può permetterselo, in seguito ad una eredità, anche Charlie Friend, cinico narcisista confesso, “adolescenza senza favole della buona notte, poesia, mitologia, curiosità” e “personalità in stand by”: “né appagato né mesto, pochi rimpianti, ancor meno inquietudini sul futuro, semplicemente vivo” in un presente di fallimenti professionali, interessi ondivaghi (elettronica, antropologia), atonia umorale, schizofrenia lavorativa, esercizio sistematico – questo sì riuscito – della sperpero di quanto fortunosamente guadagnato con rocambolesche transazioni on line. Per sé, certo, ma anche per conquistare definitivamente (grave errore, il lettore avrà già capito…”curiosità, frutto proibito da Dio, M.Aurelio e S.Agostino”) la misteriosa, razionale, pensosa e seducente  Miranda, amica dal nome shakespeariano, “occhi che parevano stringersi nello sforzo di mascherare l’allegria […] teorema, ipotesi, magnifico gioco di luce sull’acqua” e vittima (vittima? non per l’androide) di torbidi eventi intorno ai quali l’autore – maestro in tale meccanismo narratologico – costruisce una magnifica “storia nella storia” della quale non sveleremo nulla. Dunque, “con” e “fra” i due protagonisti, Adam, figlio/amico/ domestico-robot/altro? di ultima generazione, uno dei caratteri (a pieno titolo) più felici dell’autore di Espiazione, dopo il feto “pensante e parlante” del citato Nel guscio. Esemplare artificiale assolutamente realistico nell’aspetto fisico (ampia gamma di etnie, modello arabo poco distinguibile dall’ebreo, caratteri turchi quello di Charlie), alimentato con spina da 13 ampere, pelle morbida e tiepida al tatto, suoni prodotti da fiato, lingua, denti e palato non microfonici, corporatura solida, cedevole compattezza dei muscoli, viso affilato capace di 40 espressioni facciali, occhi celesti “pensosamente socchiusi” dotati di battito palpebrale calibrato per reagire a umori/gesti anche altrui (avrebbe superato l’infallibile test oculare di H. Ford in Blade runner, del resto vive 15 anni in più dell’evoluto modello NEXIUS 6) e riflesso cigliare per proteggersi da corpuscoli in volo (!), non ha sangue, (ma “una pulsazione regolare e placida nella parte sinistra del petto simula il ritmo giambico del cuore”) e parla con accento da inglese middle class “appena colorito di cadenze vocaliche del sud-ovest” ricorrendo – c’era da aspettarselo – ad un lessico variegato e alto. Alla fine – inseriti taluni parametri comportamentali attraverso opzioni/combinazioni suggerite dal monumentale manuale di istruzioni (livello di socialità, estroversione, apertura mentale…il rischio è creare un doppio ideale) e grazie all’elaboratissima capacità di apprendimento dati (nessuna fonte gli è preclusa) – Adam evolve, per la gioia di Turing, in sistema operativo caratterialmente autonomo e, ben presto, riflette sul concetto di trascendenza, cita Schopenauer, compone Haiku, applica la reticenza e il sarcasmo, simula emozioni (la fascinosa replicante Rachel/Sean Young ne era priva, purtroppo), scopre la riservatezza e l’autocontrollo, ha nozione della bellezza disinteressata dell’arte – il Barocco, Artemisia Gentileschi, i 37 drammi del Bardo e i relativi debiti con Montaigne non hanno segreti per lui – medita, a tempo perso, su questioni di dinamica quantistica e sui limiti della letteratura contemporanea che “sembra descrivere solo varianti di fallimenti umani a livello di buon senso  e solidarietà”. Non rinuncia ai sentimenti più intimi, a chiudere gli occhi sulle ingiustizie e gli orrori cui il genere umano pare essersi assuefatto – convertendosi nella sua scomoda coscienza – tantomeno ad innamorarsi (di Miranda, letterariamente inevitabile…corrisposto, questo è il problema: ha impostato lei, di nascosto, un amante ideale?) trasformando Charlie “nell’ultimissimo modello di cornuto”, capace com’è, fra l’altro, di trasferire nel rapporto intimo la sua infaticabilità di automa. Clamorosamente infranta la Iª legge della robotica di Asimov[2] diviene, da intrigante, esclusivo gadget, “individuo” che, con responsabile libero arbitrio, non accetta di essere “spento” (accessibile il pulsante dietro la nuca), sogna la palingenesi di un mondo rigenerato dall’altruismo e dalla solidarietà, percepisce – non programmato com’è a cogliere le contraddizioni planetarie – la sofferenza, soprattutto la sua inaccettabilità quando è causata dall’egoismo di una collettività assai poco solidale, ottusa e violenta. Al punto di…

Macchine come me, con toni anche di raffinato umorismo (memorabili la scena del tradimento, i consigli eno-gastronomici di Adam e amaramente sarcastico suona il titolo), affronta originalmente problematiche oggi nodali: la prospettiva regressiva di una società schiava dell’inazione per l’impiego su larga scala di dispositivi meccanizzati, le conseguenze etiche legate alla messa a punto di congegni sorretti/guidati da principi morali e imperativi categorici afferenti la possibilità di scelte immediate sottratte alla labilità psichica dell’uomo, i rapporti fra deontologia e personalità, i limiti del pensiero e le modalità del pensare. Una curiosità: il film di R. Scott, cui abbiamo più volte accennato, risale al 1982, anno nel quale è ambientato l’intreccio narrativo…quello dell’azione filmica era l’allora futuribile 2019. Non una coincidenza, forse, e ha ragione Antonio D’Orrico: “Accademici svedesi, che tanto avete bisogno di riscattarvi, cosa aspettate a premiare McEwan? Non creiamo un altro caso Philip Roth”.[3]

Marco Camerini

L’autore della recensione acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere a seguito di riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.

 

[1] I termini non sono sinonimi perfetti e l’argomento meriterebbe ben più ampia analisi. Rimandiamo in proposito all’esaustiva, preziosa Guida alla letteratura fantascientifica di C. Bordoni, Odoya 2013.

[2] “Un robot non può recar danno a un essere umano né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, un essere umano riceva danni”…inclusi quelli morali? N.d.A

[3] A. D’Orrico, Il male di vivere sbaraglia l’algoritmo, “La lettura”, 6 ottobre 2019.

Esce “I dintorni della solitudine” di Nazario Pardini, con prefazione di Michele Miano

AAA COPERTINA I DINTORNI CDELLA SOLITUDINE.pngE’ uscito il nuovo libro di poesie del poeta e critico letterario toscano Nazario Pardini dal titolo “I dintorni della solitudine” per i tipi di Miano Editore di Milano. Il testo si apre con una ricca prefazione del critico Michele Miano che così annota: “Nazario Pardini ha al suo attivo molte raccolte di poesia. È un personaggio, noto, da decenni nel campo della scrittura. Sulla sua produzione hanno scritto  i più qualificati critici letterari. Alla sua poesia sono state applicate varie chiavi interpretative, dalla motivazione esistenzialistica a quella psicanalitica alla religiosa a quella naturalistica. Ad essa egli perviene in maniera quasi inconscia, o meglio, sulla scorta di un cammino empirico, di sofferenze vissute e ben radicate nel quotidiano. Sarebbe fuorviante definire Pardini mistico dell’essenza, perché si verrebbe  inevitabilmente ad intaccare quella razionalità di pensiero e quella misura che caratterizzano il suo fare poesia. Eppure non gli sfugge il senso della sproporzione essenziale dell’uomo […] Il suo non è un canto illusorio, poiché sogno, realtà ed illusione si fondono con la sua identità presente e pienamente raggiunta con il pensiero e con l’azione. Si legga la lirica La poesia si scrive: “… non pensare / alla miseria umana, al suo degrado, / fingi che quel momento sia per sempre. / È l’unico sistema per fregare / lo scettro imperituro della sorte.”

Per poter leggere la prefazione integrale con il testo poetico “Verso la luce” di Nazario Pardini si rimanda all’articolo pubblicato su “Alla volta di Leucade” il 21/02/2019.

“Luogo di silenzio” di Lucia Bonanni, con un commento critico di Lorenzo Spurio

LUOGO DI SILENZIO 

di LUCIA BONANNI

Luogo aspro di silenzio

è questo ansito di vita!

Un tòpos sensoriale

che negli occhi mi guarda

e le ossa mi stringe

in una morsa di pena.

Con passi tardi

             mi viene incontro

al mattino,

con respiro grave

            nell’ora del vespro

si accosta nel letto

               e al posto di rose

propina notti spinose.

Intorno mi gira

come matador nell’arena;

con picas chiassose

mi dileggia e mi offende

e con banderillas dannose

mi lascia

in una pozza di sangue

poi nella taverna vicino alla plaza

si ubriaca di gloria e consuma

la cena.

Senza volontà,

incorporea e smarrita

vago                nel mondo

a cercare un approdo sonoro

a cui gettare la cima; fluttuate

e vestita di sinestesia percettiva

alla mente richiamo voci e rumori

e alla sera prego

                      per un sonno

dove il linguaggio dei segni

                        non abbia mai fine.

Commento di Lorenzo Spurio

La nuova poesia di Lucia Bonanni, “Luogo di silenzio”, è multidirezionale e prismatica nel senso che non si focalizza solamente su una suggestione unica della quale fornisce, verso dopo verso, maggiori elementi, piuttosto preferisce “spaziare” tra vari reconditi angoli del pensiero. La parte iniziale, infatti, è dominata da una pressante condizione di atonia (“luogo aspro di silenzio”) che demoralizza e strugge profondamente l’io lirico tanto che l’asprezza della mancanza di suoni o rumori si fa acre e pungente. Ma proprio lì, in quello spazio desonorizzato, depresso e privo di vita vocale, è possibile rintracciare un pur minimo “ansito di vita”. La poetessa mi ha rivelato di aver a mente nel momento in cui scriveva la lirica il prof. Renato Pigliacampo recentemente scomparso. Pigliacampo, poeta marchigiano e docente universitario, dall’età di dodici anni è stato sordo sviluppando una poetica di profonda indagine multisensoriale a difesa del visuomanuale, impegnandosi strenuamente per una serie di battaglie per la tutela dell’ipoacustico e di altre realtà in seria difficoltà. Del “Guerriero del Silenzio”, come lui stesso si autodefinì in una sua poesia e come viene ricordato oggi dai più, la Nostra tratteggia un retaggio d’in-appartenenza al mondo che è quello della sordità, considerandolo con “una morsa di pena”. Ciò che va osservato è che la Bonanni non usa un moto di commozione per lagnarsi o per costruire uno spicciolo pietismo, ma respira a pieni polmoni una situazione che sente vicina che, con solidarietà e animo geneticamente improntato al bene, si sente in dovere di affrontare con l’arte della parola.

La seconda parte del componimento ha una caratterizzazione più ampia, costruita sulle immagini del tempo (“tardi”, “mattino”, “vespro”, “notti”) e del colore: il rosso incandescente del vespro, quello della rosa e del sangue che può stillare dal contatto con le “notti spinose”. Se la spina della rosa al contatto punge, provoca dolore e una leggera perdita di sangue, le “notti spinose” sono momenti di reclusione emotiva, di contemplazione personale e di tormento che possono gravare e tormentare l’uomo, ma anche aiutarlo a credere maggiormente in sé stesso.

La terza parte della poesia ha una matrice chiaramente ispano-folklorica nell’immagine della plaza de toros, tempio della tradizione più viva e rispettata di Spagna nella quale vediamo il toro dar vueltas en la arena. La metafora del toro qui impiegata dalla Nostra non è quella di un animale forte e pesante che, sottoposto al ludibrio ludico e alle vessazioni dell’uomo finisce per morire dissanguato sotto il clamore della folla, ma un’altra, più evocativa e che va ricercata con attenzione.

Il banderillero nell'atto di infilzare le banderillas.

Il banderillero nell’atto di infilzare le banderillas.

Si ritrova, piuttosto, nei versi della Nostra che descrivono il toro “in gabbia” la tormentosità e la labirinticità del pensiero umano, spesso cripticamente incomprensibile, nel suo tumulto espressivo nel cercar vie di uscita che sono mondi di significazione. Nell’aporia indistinta della vita che ci conduce a continui bivi e spesso a strade che sviano ramificandosi possiamo vedere la corsa feroce del toro che, indistintamente, si avventa su tutto, fiero della sua stazza e imperturbabile nel suo percorso a random.  L’io lirico si veste di luci: “come [il] matador nell’arena” veste l’indumento più bello, ricco e luccicante sotto il sole di un pomeriggio qualsiasi ed è protagonista della lotta con la bestia che prima fiacca con delle “picas chiassose” (bellissimo l’aggettivo ‘chiassoso’ in questa posizione dove intuiamo gli olé urlati della folla) svilendone il corpo e oltraggiandolo con armi impari (“mi dileggia e mi offende”) sfoderando banderillas  che sono la vigilia della morte per dissanguamento. Se le picas erano “chiassose” le banderillas sono “dannose” perché contribuiscono ancor più a martoriare il corpo dell’animale che, perdendo grandi quantità di sangue, è sempre più debole e impaurito.

Lucia Bonanni, autrice della poesia

Lucia Bonanni, autrice della poesia

Lo scenario finale a una corrida de novillos (o di toros bravos) è sempre per lo più identica e si contraddistingue da “una pozza di sangue” sull’arena assolata. A perpetuare l’impronta narci-egoista dell’uomo dove tutto deve avere un prezzo di vendita (il biglietto per assistere all’euforica mattanza) ci si ritrova non distante dalla plaza in qualche taberna con teste di toro imbalsamate quali trofei ambiti in corride particolarmente celebri appesi alla pareti per quella che la Nostra chiama “la cena” che non è altro che l’atto finale di un procedimento commerciale, alimentare e gastronomico apertosi con la dissacrazione e il macello delle scure carni.

La sazietà che potrebbe derivare da un piatto tanto ricco e profumato contrasta con l’apatia forzatamente indicata dall’io lirico in quel manifesto “senza volontà” tanto da perpetuare un senso di vuotezza e desolazione interiore (“incorporea e smarrita”). Ed è questo il punto più alto della lirica in cui, dopo il rabdomante percorso taurino che spersonalizza l’anima, la Nostra si riconnette all’immagine silenziosa d’apertura creando uno stridore di toni: dall’effervescenza riottosa della calca nell’arena al mondo di grigi silenzi dominati dall’incomunicabilità verbale. In tanto divario la Nostra è in grado di giungere a “un approdo sonoro” che non è quello dell’oralità ma della rappresentazione iconico-gestuale dell’espressione (“il linguaggio dei segni”).

Ai modelli e alla simbologia costitutiva della rumorosa arte taurina,  fa da contro canto una soave rappresentazione di immagini in atti manuali che accarezzano l’aria.

Lorenzo Spurio

Jesi, 11-08-2015

L’antologia di poesia civile “Risvegli: Il pensiero e la coscienza”: i selezionati per la pubblicazione

RISVEGLI – IL PENSIERO E LA COSCIENZA

Tracciati lirici di impegno civile (antologia di poesia civile)

a cura di Marzia Carocci, Lorenzo Spurio e Iuri Lombardi

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A continuazione si trova la lista degli autori disposti in ordine alfabetico che sono stati selezionati per l’antologia in oggetto e vicino i testi che i curatori hanno deciso di pubblicare nella antologia che sarà pubblicata da Poetikanten Edizione dopo il periodo estivo.

Si richiede a tutti coloro che sono stati selezionati di far pervenire alla mail eventipoetici@gmail.com entro e non oltre il 31 Luglio 2015 il modulo di liberatoria compilato e firmato. Gli stessi riceveranno il modulo di liberatoria in una mail.

AUTORI/POESIE SELEZIONATI/E PER LA PUBBLICAZIONE

 

BRUNO AGOSTI: Raccontami (A Yara Gambirasio); Rosanna

CARLA ABBONDI: Migrante; Dimore assolute

RINA ACCARDO: Reclusione; Lontano

VELIA AIELLO: Calabria

FRANCO ANDREONE: L’intolleranza; Il lavoro…avercelo;

ELVIO ANGELETTI: Sbarre; Vecchio

LUCIA BONANNI: Memorandum; Terra nera; Umanità

MIMÌ BURZO: La stagione del vento

VINCENZO CALÒ: Per reagire

SILVIA CALZOLARI: Da ferro-a-oro; Nel tuo occhio futuro

GRAZIELLA CAPPELLI: Vivere nuoce alla salute; Nell’aiuola del nostro tempo; Tasi-Tares

SANDRA CARRESI: A Loris (29 novembre 2014); Viaggi…; Chiodi, vetri e veleno…

FRANCESCO PAOLO CATANZARO: La lacrima della prostituta; Societas civile, nova gens; Un mondo nuovo

LAURA CECCHETTI MANAO: Mediterraneo; Sullo schermo della tv

MARIA CHIARELLO: Vite spezzate

GIOVANNI ROSARIO CONTE: Ho imparato a…; Mio crudele amore

FLORIANA COPPOLA: Basta che io non ci sia che non veda

MARIO DE ROSA: Lontananza;  Oscuri eroi

MARIA ROSARIA DI DOMENICO: Violenza (Per tutte quelle infanzie negate); Donne

GIANNI DI GIORGIO: Quando l’occhio si fa attento

ROSANNA DI IORIO: Canto accorato per gli esclusi; Impazzite le rondini nel cielo (A Melania Rea); Fiori di Bucarest

ANTONIO DI LENA: Il colore della notte; Noir

FRANCESCO DI RUGGIERO: Volo d’amore

ALBERTO DIAMANTI: Il bambino nato dal cuore

FRANCA DONÀ: Storia o utopia; Sguardo al futuro

ALFREDO FAETTI: La gabbia; Profilo d’ebano

SARA FAVOTTO: Il nuovo anno che verrà (In ricordo di Letizia e di tutte le donne vittime di violenza); Quale pietà

ELISABETTA FREDDI: L’eclissi (A tutte le donne eclissate); Ombre nella notte (Alle giovani donne emigrate con inganno); Lembi di luna (A tutti i bambini nei campi profughi)

GIUSEPPE GAMBINI: Violenza ad una donna; Stamani sul metro

VALENTINA GIUA: Un fischietto ed un pallone; Il risveglio di Demos

ROSSANA GUERRA: Un volto, una voce; Apparenza

SEBASTIANO IMPALÀ: Striscia di Gaza; Lampedusa (A tutti i profughi)

CHRISTIAN MICHELE LOCATELLI: Lacerazioni…

FRANCESCA LUZZIO: Mare innocente;  Indietro (Alle donne offese e violentate); E tu mi chiedi

CLAUDIA MAGNASCO: Ogni notte è un rogo nuovo; Nelle fogne del mondo

MICHELA MANENTE: Il poeta della capra (Alla comunità ebraica), Il solco (Storia del Passante di Mestre)

MARIA TERESA MANTA: L’orco; Finalmente liberi!

DONATELLA MARCHESE: Colori che salvano; Metafora nel fango; Histoia magistra vitae

EMANUELE MARCUCCIO: La scuola è in alto mare; Albania; Omaggio a García Lorca

EMIDIO MONTINI: Italia terra indifferente; Il tempo; Oh, la storia

GIULIANA MONTORSI: Arrivi con il sole; Che il nostro canto…

ANDREINA MORETTI: Il nero respiro della fine; Non getterò la spugna

DANIELA NAZZARO: La lotta (A Vittorio Arrigoni); La parola (Ad Erri De Luca); La resistenza (A mio nonno)

MARIA RITA ORLANDO: Bersagli; Lacrime amaranto

GIANNI PALAZZESI: Aspettando tempi migliori; Donna libera

LUIGI PATERNOSTER: Le foibe; Erano due bimbe – Pakistan 2014; L’Isis è arrivata anche in Italia?

ANTONINO PEDONE: L’ali di la spiranza; Li vicchiareddi

STEFANIA PELLEGRINI: La ragazza dai capelli rasta; Oltre le pagine sporche

CLAUDIA PICCINI: Esseri umani

PATRIZIA PIERANDREI: Il collaboratore ecologico; Dottori senza frontiere

MARIA TERESA PIERI: Un groppo in gola

PAOLO PIETRINI: Nei versi la pace; Razza umana

LORENZO POGGI: Endecasillabi sporchi; La prima guerra mondiale:dettagli; Mare nostrum

VINCENZA POSTIGLIONE: Eroe nazionale

ANTONELLA PROIETTI: Camminiamo in fila indiana; Il regalo della povertà

ELFO ARTICO (MASSIMILIANO RENDINA): Millenovecentosessantotto; Dodici dicembre

NICOLINA ROS: Dove sei pietas?; Pace:utopia

MADDALENA ROTOLO: Migranti; Naufragio; A Phia, clochard gentiluomo

IRENE SABETTA:  Homemade war; Kosovo 999

RITA SALAMON: Fermata; Onore

ANNA SCARPETTA: I grattacieli di New York; Nepal

TANIA SCAVOLINI: Donna dal volto spento; Destini immutabili

CARLA SPINELLA: Cimitero dei poveri; Ragazzo speciale

MARCO SQUARCIA: Immagine

CRISTINA TONELLI: La perfetta imperfezione

PAOLO TULELLI: Mare nostrum (Ai profughi naufraghi nel nostro mare); Nella terra dei fuochi

VINCENZO TURBA: L’avvenire; Il tempo

CRISTINA VASCON: Scavi d’anime e colli; Stonetown in bianco e nero; Neppure

Info:  eventipoetici@gmail.com 

“Orchidea”, racconto di Rita Barbieri

ORCHIDEA

Racconto di RITA BARBIERI

“Quel tatuaggio era per gli assenti, i fuggitivi, i lontani, gli indecisi.”

tattoo-parlor1Il giorno in cui decisi di tatuarmi un’orchidea pioveva forte. Grossi lacrimoni densi  si sbattevano sull’asfalto del marciapiede formando pozze acquitrinose nelle crepe.

Mi strinsi ancora di più nel mio impermeabile beige e attraversai la strada correndo sotto la pioggia battente. Avevo preso l’appuntamento per telefono e la persona che mi aveva risposto era un uomo dalla voce arrochita dal fumo. Non mi aspettavo niente di diverso.

Lo studio dove entrai era un buco buio, seminascosto in uno scantinato. Sentivo provenire un sottofondo di musica rock. Aveva lo stesso ritmo che, in quel momento, mi batteva dentro.

Non tirai neanche il fiato prima di aprire la porta: non volevo fermare nemmeno per un attimo il carico di adrenalina che mi scorreva, misto al sangue, nelle vene.

Lui alzò gli occhi e mi guardò fissa:

-Bianca?-

-Si-

Ovviamente non si aspettava una come me nel suo studio.

-Sei sicura?-

-Sicurissima.- dissi, estraendo dalla borsetta il disegno concordato e una busta che, in modo discreto, conteneva il suo compenso. Questo sembrò convincerlo.

-Accomodati  e togliti la giacca-

Mi girai e, lentamente, cominciai a togliermi l’impermeabile umido di pioggia. Non sapevo dove appoggiarlo per cui indugiai un po’ dandogli le spalle. Mi sentivo osservata. Indossavo un abito semplice, lineare, di maglia nera che assecondava i movimenti del corpo. Era uno dei miei preferiti e lo avevo scelto apposta.

-Appoggialo pure qui- disse lui alla fine. Mi girai e questa volta fui io a osservarlo. Era alto e grosso. Aveva braccia forti e muscolose, interamente ricoperte di tatuaggi variopinti che formavano reticoli e labirinti. Non li guardai nemmeno per un momento ma mi concentrai sui suoi occhi. Erano grandi e scuri e, in quel momento, rivelavano curiosità.

-Puoi sederti.-

Lo feci e tirai su la manica del vestito. Osservai per l’ultima volta il mio polso così com’era e poi chiusi gli occhi.

Quando avevo deciso di tatuarmi, non avevo nemmeno dubitato per un secondo su dove farlo. Il polso sinistro, nel punto dove si sente il cuore. Quando gli avevo parlato per la prima volta, lui aveva precisato:

-Farà un po’ male, lo sai vero?-

-Non importa. È anche per questo che voglio farlo-

Il tatuatore mi prese il polso e lo studiò:

-Forse sentirai male, come ti avevo detto è un punto delicato..i tendini e i nervi sono in evidenza…-

-Non importa. Lì va bene-

Nel momento in cui l’ago mi entrò nella pelle piansi. Il tatuatore mi chiese se dovesse fermarsi, se sentissi troppo dolore e io, per tutta risposta, scossi la testa e mi morsi le labbra con forza. Non potevo spiegare che il dolore che sentivo non aveva niente di fisico.

Lui sembrò capire e andò avanti. In silenzio, continuavo a piangere. Era più facile farlo lì in uno studio buio, davanti a uno sconosciuto che pagavo per procurarmi un piccolo dolore e una cicatrice inchiostrata che sarebbe durata per sempre. Era più semplice mostrarmi fragile e debole davanti a qualcuno che non conoscevo e che non avrei più rivisto. Probabilmente pensava fossi pazza ma non me ne importava. Ogni puntura toccava nodi e gorghi sepolti dentro di me e li portava a galla, esplosi in lacrime pulite e liberatorie. Non mi ero truccata quel giorno, sapevo che non avrebbe avuto senso.

Non so esattamente quanto fosse durata l’operazione, so solo che a un certo punto il tatuatore mi disse “Fatto!”  e mi portò il braccio vicino agli occhi perché osservassi il risultato.

Eccolo lì, il mio piccolo bocciolo d’orchidea. Sembrava osservarmi. Era fragile e delicato, come avevo chiesto.

 –Ti piace? Va bene?-

-Si. Benissimo. È quello che volevo-

Lui allora lo coprì con una garza sterile e cominciò a farmi raccomandazioni. Io non lo ascoltavo. Continuavo a pensare che adesso finalmente avrei avuto su di me qualcosa che sarebbe durato per sempre. Che non se ne sarebbe andato via al primo lavaggio, che non avrebbe subito gli attacchi corrosivi del tempo, qualcosa che mi avrebbe fatto compagnia per sempre. Finalmente qualcosa di fisso e incancellabile. Qualcosa che non sarebbe scivolato via facilmente,che non avrei potuto perdere, smarrire, dimenticare e non trovare mai più. Avevo fatto quel tatuaggio per ricordare tutte le assenze della mia vita che, ormai, come quel tatuaggio, mi appartenevano e mi segnavano. Facevano parte di me e me le vedevo davanti tutte le volte che mi guardavo dentro.

Quel tatuaggio era per gli assenti, i fuggitivi, i lontani, gli indecisi.

Era per coloro che erano durati quanto il tempo di una bellissima orchidea in un vaso: troppo poco.

Fuori la pioggia batteva ancora furente. Non mi importava. Infilai un paio di grandi occhiali scuri per nascondere i segni del pianto e mi infilai l’impermeabile ancora umido. Il tatuatore mi guardava pensieroso, sembrava chiedermi se stessi bene.

Mi aggiustai perbene gli occhiali  e gli sorrisi. Lo ringraziai. Presi l’ombrello e uscii: avevo una lunga giornata davanti.