Quattro inediti di Matteo Piergigli, autore de “La densità del vuoto”

Segnalazione a cura di Lorenzo Spurio

FB_IMG_1559227848239Matteo Piergigli (Chiaravalle, AN, 1973) vive a Monte San Vito (AN). Si è diplomato nel 1992, ha fatto quattro anni di vita militare come ufficiale dell’Esercito e dal 1999 è impiegato tecnico presso un’azienda che gestisce il S.S.I. nella provincia di Ancona. Per la poesia ha pubblicato Ritagli (Kimerik, 2015), la raccolta Notos (Aletti, 2016, in un volume contenente le opere di cinque autori), Ritagli 2 (Arduino Sacco, 2016), La densità del vuoto (Samuele, 2019). Nel 2016 e 2017 ha partecipato a due ritiri poetici della Samuele Editore e a vari Laboratori di poesia. Sue opere sono presenti nell’antologia Laboratori di poesia (Samuele, 2017) e sono apparse su vari numeri della rivista di poesia e critica letteraria Euterpe (usciti da luglio 2016 a novembre 2017). Dal 2015 ha ricevuto numerosi riconoscimenti e apprezzamenti in diversi premi letterari.

 

Quattro inediti:

 

ho sognato freddo

tra le dita toccarsi

lo sguardo appeso

per non inciampare

un passo in più

 

*

 

fuori le foglie

cadono (troppo) presto

nello sforzo di mostrare

senza riuscire il debito

si aggrava

 

*

 

rileggerò il passato

gli episodi dei se

le date a cui resistere

per non sentire il confine

incerto delle nuvole

 

*

 

fisso nei quadretti

del foglio i visi

raccontati dai giorni

con te è vivere-morire

il buio la meta 

 

La riproduzione del presente testo e dei brani poetici riportati (dietro consenso dell’autore), sia in forma di stralcio che integrale, non è consentita in qualsiasi forma senza il consenso scritto da parte dei relativi autori.

 

Lorenzo Mele: inediti da “Casa mia non ha le ringhiere” e altre poesie

Segnalazione di Lorenzo Spurio 

 

POESIE DI LORENZO MELE

 

Hanno chiamato il mio nome,

mamma papà e io entriamo.

Siamo soli in questo branco di sedie,

il magistrato ho paura che mi porti via.

E piango sulle gambe di mia madre,

ho paura tra le braccia di mio padre,

me ne sto con la faccia mani nelle mani,

mi consolo in un pianto che non so dire.

Orfanotrofio – diceva –

L’istituto dei bimbi sperduti. 

Ma io non ero sperduto, 

avevo una madre e un padre:

due mani calde a carezzarmi la testa.

 
*

 

Un giorno ti sei presa cura di me

e non mi conoscevi nemmeno:

una chiamata nella notte, uno sbaglio

forse, che ti ha stravolto la vita.

Non sapevi l’amore di esser madre

nell’attimo in cui mi prendesti in braccio,

e io non mi sapevo figlio di qualcun altro 

 – se non tuo – proprio nell’attimo in cui,

per forza di cose, ho imparato il tuo nome. 

 

 (inediti, dalla raccolta Casa mia non ha le ringhiere)

 

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Lorenzo Mele

 

Anche il silenzio mi parla al posto tuo,

quel silenzio che ti è caduto giù dalla tasca.

Dice che ti sei persa come si perdono i folli,

tu, che folle non lo sei affatto.

Anche io come te

mi sento una gioia martoriata

che aspetta una parola sana

davanti al camino.

 

*

 
Io, nel ricordo

di una strada bucata

mano nella mano con un padre

che non è mai stato il mio.

 

Sul dito un moccolo verde

e nell’occhio un’immagine

di una bici senza freni

che mi aspetta impaziente

come un cane gioioso

pronto a farmi le feste

nel cortile di casa.

 

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Ma non abbiamo più paura,

noi figli appesi a un filo,

noi che la morte

l’abbiamo vista in faccia

e la chiamavamo Madre.

 

(da Dove non splendi, Controluna, 2019)

 

Lorenzo Mele (Burgwedel, Germania, 1997) è cresciuto a Lecce. Attualmente vive a Roma. Ha pubblicato Tu mi abbandoni (La gru, 2018) e Dove non splendi (Controluna, 2019). Suoi versi sono apparsi su Atelier, ClanDestino, Inverso e altre riviste. Dirige il blog di poesia “Il visionario”. 

 

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Alcune poesie del toscano Simone Magli – Segnalazione a cura di L. Spurio

Segnalazione a cura di Lorenzo Spurio  

Una mia fotoSimone Magli è nato a Pistoia nel 1984, città nella quale vive. Poeta e aforista, è anche autore di haiku. Durante la sua formazione si è sentito particolarmente attratto dalla poetica di Giuseppe Ungaretti per sentirsi legato poi alla stagione ermetica. Tra i suoi autori prediletti figura anche l’umbro Sandro Penna mentre, tra gli aforisti, riconosce una certa influenza da autori quali Stanislaw Jerzy Lec, in primis e, tra gli italiani, Flaiano, Longanesi, Caramagna, Ansaldi e Castronuovo. Ha pubblicato la silloge La solitudine di certi voli (I.S.R.Pt, 2012). Ha ottenuto vari riconoscimenti in concorsi letterari, soprattutto per la poesia, ma anche per gli aforismi. Nella rubrica Per Competenza diretta dal poeta toscano Roberto Carifi è stato più volte recensito. Note critiche sulla sua produzione sono state stilate anche dai poeti Gilberto Sacerdoti e dalla poetessa fiorentina Mariella Bettarini, fondatrice della nota rivista L’area di Broca. Da novembre 2019 collabora con il blog letterario Lib(e)ro-libro, oltre le parole.

 

A seguire una poesia estratta dalla sua raccolta poetica La solitudine di certi voli (2012) e tre inediti:

 

In questo circolo di creature impazzite

sono l’ombra di un albero ferito,

il leone che corre senza meta per la savana,

l’anima della fiera abbattuta.

Ma soprattutto l’eco del mondo

che subisce la sua perdizione.

 

*

 

Prima che scenda la sera,

dai folti prati, le lucciole

salgono al cielo,

per incidere le stelle.

 

*

 

Guardo uno spicchio di cielo

e un lampo di vita

nel mio cuore si staglia,

pizzicandomi d’immenso.

 

*

 

Che ogni cosa venga

come spunta un filo d’erba

sul campo baciato

dalla nuvola più bella.

 

 

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Vittorio Sartarelli su “Tra gli aranci e la menta. Recitativo per l’assenza di F.G. Lorca” di Lorenzo Spurio

Recensione di Vittorio Sartarelli 

 

 “La mia opera di riconoscenza all’intellettuale più grande che non è mai morto”. Così si espresso l’autore di questa splendida plaquette nella amichevole dedica a me diretta e che mi ha molto colpito sentimentalmente.

cover frontaleNon è facile né agevole scrivere qualcosa di perfettamente aderente e giustamente commensurata all’eccelsa qualità di quest’opera cercando di commentarla nella sua esatta dimensione. È chiaro, come ha scritto con competenza il professore Nazario Pardini nella sua dotta prefazione, che si tratta di una Elegia, un componimento letterario improntato a motivi di confessione autobiografica, di delicata mestizia e di forti sentimenti, indipendentemente dalla forma, la quale tuttavia si determina tradizionalmente nel così detto distico elegiaco.

Lorenzo Spurio in questa sua opera che, oltre ad essere un inno alla vita ed alla natura che ci circonda, esprime in una sorta di simbiosi catartica, la sua visione lirica della vita, della natura e della morte, molto simile e quasi identica a quella di Federico García Lorca, il poeta offre la netta visione di uno dei sentimenti più nobili e umani: l’attaccamento alla vita e alla propria terra, “a ogni luogo del campo”.

L’opera si dispiega in undici poesie che sono un autentico inno che racconta liricamente la vita e i sentimenti del suo amico del quale soffre l’assenza ed il triste destino che lo ha portato tragicamente alla sua morte per mano di maldestri assassini. Il nostro Spurio esprime nella sua lirica “Non lontano dal limoneto” un altro suo mesto cruccio, egli fa riferimento al fatto che dopo tutti questi anni dalla morte di Lorca non è mai stato localizzato con certezza il luogo preciso dell’inumazione, né sono stati trovati i resti del suo corpo.

La via crucis di García Lorca comincia quando lo arrestano e lo conducono nella roccia vescovile, il palazzo del vescovo Moscoso y Peralta e si conclude quando lo conducono, assieme ad altri tre condannati, presso la Fuente Grande, il luogo di una fonte, già stata cantata da grandi poeti granadini e da Lorca stesso. Lì avverrà l’esecuzione.

Tutta questa raccolta di liriche di Spurio evidenzia un accostamento profondo al testo del poeta spagnolo, egli è non solo amico, non solo ammiratore ma anche grande conoscitore della produzione di Federico García Lorca. Il nostro autore in queste undici elegie, i suoi versi, spesso, hanno il sapore dell’invettiva in canti di offerta e di ammirazione, ma anche di sdegno, di riscatto simbolico all’oltraggio di una morte ingiusta che pesa come un delitto incancellabile sul volto della Spagna.

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Un ritratto di Federico García Lorca eseguito dall’artista José Caballero.  Fonte

Il nostro Poeta, in questa splendida elegia, riesce anche ad introdurre la rappresentazione scenica e rituale della corrida e quindi della Tauromachia che è un concetto essenziale della tradizione ispanica. Del resto, il contesto storico e politico di questa nazione nel periodo della morte di García Lorca era stato già negativamente raccontato da altri eminenti artisti spagnoli come il pittore Picasso con la sua opera Guernica e Pablo Neruda fortemente amareggiato dalla uccisione di Lorca e il nostro Spurio si è sentito così vicino sentimentalmente al grande poeta spagnolo da quasi non accettare che egli fosse già morto infatti, in una sua lirica afferma: “Morto è solo chi si dimentica e scompare” e questa intima affezione è stata talmente forte e l’ha sentita talmente sua, da farne il punto focale della propria ispirazione lirica.

Un’altra sensazione che si ha, almeno questa è la mia percezione, anche perché credo che la poesia sia molto legata alla musica, nel leggere questa raccolta di versi dedicata a Lorca, sembra di ascoltare una bella canzone sulla vita, la natura, gli alberi, le piante e anche la morte ma, il nostro poeta sembra voler sorvolare su questo aspetto negativo della vita, quasi rifiutando di accettarlo, esprimendo sublimandole, una profonda cura e una dedica struggente al suo caro amico, per l’interpretazione e il modo di sentire ed apprezzare i sentimenti dell’amore, della libertà e della giustizia che costituiscono i presupposti essenziali per una vita umana serena e, soprattutto, libera da pregiudizi.  

VITTORIO SARTARELLI

 

NOTA: L’opera in oggetto è LORENZO SPURIO, Tra gli aranci e la menta. Recitativo per l’assenza di Federico Garcia Lorca, PoetiKanten Edizioni, Sesto Fiorentino, 2016. La prima edizione del volume è stata pubblicata dall’editore fiorentino PoetiKanten Edizioni, con prefazione del professor Nazario Pardini, nota critica di quarta di copertina di Corrado Calabrò, bandella con commento critico di Lucia Bonanni, illustrazioni a china del Maestro campano Franco Carrarelli e un saggio di Valentina Meloni dal titolo “Il passo della morte. Rappresentazione mitica e allegorica nel rituale della corrida tra teatro e poesia” a maggio 2016 (pp. 86, ISBN: 9788899325466, Costo: 12€). Una seconda edizione, privata del saggio della Meloni e con l’aggiunta di un apparato critico finale con brevi lettere e note di lettura di Dante Maffia, Giorgio Bàrberi Squarotti, Antonio Spagnuolo, Francesca Luzzio e Luciano Domenighini, è stato pubblicato, sempre da PoetiKanten Edizioni, nel febbraio 2020 (pp. 65, ISBN: 9788899325466, Costo: 10€).

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Premio “Ciampi” conferito al poeta e artista performativo Aldo Piromalli

Articolo di Lorenzo Spurio 

62036444_1608203175982192_40656821848899584_nSabato 18 gennaio alle ore 16 presso Villa Mimbelli a Livorno, nel contesto della XX edizione del noto Premio “Ciampi” indetto dall’omonima Associazione Culturale “Premio Ciampi”, verrà premiato il poeta e artista romano (da decenni ad Amsterdam) Aldo Piromalli – autore dell’irriverente e sdegnata “Affanculo” interpretata al Festival di Castelporziano nel 1979, il Woodstock italiano – segnalato alla commissione dall’artista Dora García.

A ricevere per lui il premio saranno alcuni esponenti del panorama culturale letterario, tra critici che negli ultimi anni hanno mantenuto contatti con Piromalli e approfondito la sua arte, dedicandogli anche volumi e studi. Ritireranno il premio conferito al poeta nato nella borgata operaia romana del Tufello nel 1946, Giulia Girardello, che ha pubblicato il volume Se io sono la lingua. Aldo Piromalli e la scrittura dell’esilio (2013), Alessandro Manca, che ha curato la fondamentale antologia generazionale italiana su un periodo poco trattato dalla critica canonica: I figli dello stupore. La Beat Generation italiana (2018) dove Piromalli risulta inserito e antologizzato e Mattia Pellegrini. A chiudere l’evento una performance musicale scritta da Piromalli eseguita da Marco Lenzi.

Recentemente il sottoscritto ha dedicato un ampio saggio sull’opera poetica e artistica del poliedrico Piromalli, noto come beat della scena romana nonché vicino ai provos olandesi, dal titolo “Tra la Contestazione degli anni ’60/’70 e l’esperienza della mail art: Aldo Piromalli” pubblicato sul n°29 della rivista di poesia e critica letteraria Euterpe a Luglio 2019. A compendio del saggio, oltre ad alcuni scatti giovanili in bianco e nero di Piromalli gentilmente concessi dal cognato Mattia Camellini, una scelta di sue poesie inedite.[1]

Il Premio “L’Altrarte”, meglio noto semplicemente come “Pietro Ciampi”, porta il nome del celebre artista livornese Pietro Ciampi, ricordato per aver “rotto” con una certa tradizione melodica italiana; annualmente viene attribuito a insigni esponenti del mondo cantautorale e non solo, fino a toccare varie sezioni artistiche del campo visivo come il teatro, il cinema, la letteratura, aspetti che contraddistinsero la passione dello stesso Ciampi.

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[1] In un precedente numero della stessa rivista il sottoscritto aveva riportato l’intervista concessa da Aldo Piromalli: “Intervista al poeta beat e poliedrico artista Aldo Piromalli”, Euterpe, n° 23, Giugno 2017.

“La Quinta Dimensione di Corrado Calabrò, il poeta che strizza l’occhio alla scienza”, a cura di Lorenzo Spurio

Saggio di Lorenzo Spurio 

 

Sono una barca spogliata di vela

che anela inutilmente al mare aperto (54)

Esprimersi in termini critici sull’opera poetica di Corrado Calabrò, per quanto si cerchi di adoperare quell’onestà di sabiana memoria e ci si appelli a un’umiltà di giudizio che ne descriva in maniera congrua gli stilemi cardine, è questione ardua. Un’impresa, si dovrebbe dire, dalle dimensioni titaniche. Lo è per ragioni di varia natura, alcune assai palesi e sotto gli occhi di tutti, altre di appartenenza alla schiera letteraria e a chi, con strenuo impegno e competenza, ha fatto suo il percorso di scavo, approfondimento esegetico e d’interpretariato concettuale. Tali ragioni hanno senz’altro a che vedere con l’influente portata di Corrado Calabrò intellettuale (che è ciò che deve prioritariamente interessare il critico, conscio, però, della sua notevole carriera nel campo della Magistratura), uno dei maggiori poeti della scena nazionale e non solo, se si tiene in considerazione che le sue opere sono state tradotte in decine di lingue (non solo europee) e che per la sua formidabile e riconosciuta attività letteraria gli sono stati attribuiti, tra i tanti premi ed encomi, riconoscimenti accademici quali la Laurea Honoris Causa rispettivamente dell’Università Mechnikov di Odessa (Ucraina) nel 1997, dell’Università Vest Din di Timişoara (Romania) nel 2000 e dell’Università Statale di Mariupol (Ucraina) nel 2015. Ricordo anche uno dei recenti successi in una lingua straniera ovvero il libro Janelas de silêncio (Vasco Rosa, Lisbona, 2017) in lingua portoghese, arricchito dalla prefazione della poetessa e scrittrice Fabia Baldi[1], presentato a Salone Nobile dell’Istituto Portoghese di Sant’Antonio a Roma il 29 novembre 2018. Sempre nel mondo lusofono va ricordato l’importante riconoscimento attribuitogli nel 2016 dall’Università di Lisbona ovvero la preziosa Medaglia “Damião de Góis”.

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Il poeta Corrado Calabrò

L’altra ragione che motiva una certa inibizione e sbandamento nell’approcciarsi alla sua ingentissima opera (decine e decine di opere pubblicate, per cui non faremo qui l’elenco) attiene all’elevata gamma di eminenti critici, accademici o meno, che nel tempo hanno scritto di lui e della sua opera. Si dovrebbero (solo per citarne alcuni) richiamare i nomi di Domenico Rea, Carlo Bo, Maria Grazia Lenisa, Luigi Reina, Mario Luzi e Maria Luisa Spaziani che, senza specificazioni di sorta, ben mettono in luce l’importanza, finanche la completezza e la profondità di Corrado Calabrò. Tra gli altri, un corposo volume monografico a cura del critico Carlo Di Lieto, docente di Letteratura Italiana presso l’Università degli Studi “Suor Orsola Benincasa” di Napoli, pubblicato da Vallardi Edizioni nel 2016 col titolo di La donna e il mare. Gli archetipi della scrittura di Corrado Calabrò. Testo che risulta avere una sua centralità e dal quale non si può prescindere se decidiamo di voler conoscere da più vicino e con un adeguato mezzo informativo, orientativo e di accompagnamento alcuni dei temi-simbolo della poesia di Calabrò.

978880470871HIG.jpgL’antologia Quinta dimensione (Mondadori, 2018)[2], che compendia un percorso selezionato[3] di poesie pubblicate nel sessantennio 1958-2018, è stata presentata a Roma, Milano e a Torino riscuotendo particolare successo. È, come ebbe a dire Pasolini nel caso dei Cantos di Ezra Pound, una poesia «enormemente vasta»[4]: per quantità, calibro, spessore e intensità. Ad aprire il volume una chiosa di Eraclito, poeta del divenire, che recita testualmente: «Noi scendiamo e non scendiamo nello stesso fiume, noi stessi siamo e non siamo». A questa fa seguito l’apertura con un incisivo poemetto dal titolo Roaming introdotto da Senofonte, testo nel quale, in esergo, Calabrò cita Thomas Stearn Eliot, il modernista allucinato, richiamando i Quattro quartetti.

Il lettore di questo libro e dell’intera opera di Calabrò, dovrebbe cautelarsi dinanzi alla materia che gli viene offerta e rendersi consapevole di questo arricchimento continuo. Le copiose citazioni, versi richiamati, echi, camei, rimandi intertestuali ad altrettante opere di letteratura, filosofia e scienza, sono preziosissime e vanno raccolte saggiamente. Esse ci consentono non solo di ricostruire fedelmente il prezioso mosaico che è la stessa campionatura di versi del poeta calabrese, ma anche d’iscrivere questa sua fiorente produzione all’interno del grande mare della letteratura di ogni tempo, dunque della nostra storia e del senso di abitare questo mondo.  Tra i suoi innumerevoli maestri, padri putativi e fonti, vanno senz’altro enucleati gli esponenti di spicco della cultura europea, greca, romana, della classicità letteraria nazionale (Dante, Ariosto, Leopardi), dei poeti melanconici (Rilke[5]), civili (Lorca, Neruda), simbolisti (Baudelaire) e metafisici (Eliot).

Roaming si presenta composito, con una sapiente intersecazione di spazi e cornici temporali, volutamente inteso a divagare e far confluire storie, significati, vicende di uomini d’allora e perplessità d’oggi. La ricchezza dei contenuti e la vistosità delle prese di posizione – soprattutto nei riguardi di alcuni costumi o tendenze diffuse nella nostra età – ci permette di concepirlo anche come sorta di Manifesto – non di una poetica – semmai del travaglio odierno, dove i sentimenti risultano ingabbiati dalle logiche e dalle azioni automatizzate.

L’autore, anche se vive nella Capitale[6] da vari decenni, è nato a Reggio Calabria nel 1935 ed è chiaro ed evidente il suo forte legame a quella terra, per mezzo di una serie di figure quali il mare e ogni riferimento a tale ecosistema, la madre (incuneata nel ricordo per mezzo della casa), finanche della storia di quelle terre soleggiate.

In Roaming, poemetto «sgorgato quasi in trance» (25)[7] come scrive nella nota che lo accompagna datata settembre 2018, si fa accenno ad una delle tragedie più indecorose della storia della nostra Penisola, vale a dire il terremoto che nel 1909 colpì Reggio e Messina decretando un numero di vittime che lo stesso poeta richiama nei suoi versi: «Trentamila morti solo a Reggio./ Io persi nel crollo della casa/ i nonni una zia e un cuginetto/ che quest’anno avrebbe centun anni. / […]/ Sono abitate dai pesci le case/ sott’acqua» (7).[8] Questo tema ritorna spesso in altre liriche a sottolineare, nel ceppo familiare di Calabrò e nella sua memoria, un incisivo segno di dolore per quegli accadimenti.

Da un tempo a noi lontano, Calabrò, forse l’unico poeta italiano a occuparsi di astrofisica (se non altro con tali felici esiti), anticipa uno dei suoi temi ricorrenti ovvero quello dell’interesse verso i mondi siderali, a-terrestri, della dimensione spaziale in parte sconosciuta e per questo ulteriormente ricca di suggestione e fautrice di idee: «Gli astronomi – alcuni – erano intenti/ a scrutare col nuovo telescopio/ gli spazi siderali per scoprire/ altri pianeti simili alla Terra» (7-8).

Tra questi due scenari si situa la lettura critica e distaccata di quell’oggi che è un misto di monotonia, insicurezza, imprecisione e indifferenza diffusa, dove anche il linguaggio è divenuto servo degli oggetti e degli interessi: «È vero che esiste solamente/ quello che appare in televisione;/ ma si può sempre cambiare programma» (10).[9] Versi lapidari che in qualche modo denunciano la passività dell’uomo odierno che non è più agente, ma ricevente e succube di tutto ciò a cui viene sottoposto. Uomo-automa, uomo-oggetto, uomo de-umanizzato: ciò fa anche pensare al realismo terminale di Guido Oldani che, nel relativo Manifesto programmatico, evidenziò questa fede e immolazione della realtà oggettuale a discapito dell’oltraggio e svuotamento della sensibilità umana.

In Roaming si procede a sobbalzi, per scansioni che rimestano di continuo, una possibile linea cronologica: è un procedere a random, appunto, dove la casualità però non è propriamente tale – non è un flusso disincantato e continuo di pensieri, disarticolati – ma le trame profonde della Calabria, dell’amore e del cambiamento, nutrono le fondamenta del poemetto dandone vigore e rendendolo tecnicamente perfetto e contenutisticamente variegato. Ecco, allora, riaffiorare la guerra: «M’è accaduto più volte da ragazzo/ di sentire il fischio delle bombe/ che scendevano dritte sul rifugio/ ed anche di venire mitragliato/ da un aereo in picchiata» (12) e poi far capolino pensieri di continuo divenire, quale la deriva dei continenti: «il pianeta/ sta per venire meno sotto i piedi» (12) fino a inquietudini d’interesse globale: «E se la terra fosse deragliata/ dalla sua orbita? C’è la deriva/ impercettibile dei continenti/ e c’è quella delle galassie» (15).

Proprio come i versi de La terra desolata sono un continuo campo di citazioni, la poetica di Calabrò è un mosaico di realtà, di mondi diversi e distanti, di età, di scenari e situazioni; essa è il luogo in cui, come in una agorà, si mescolano i saperi, le concezioni, i pensieri, in un interscambio continuo tra parola e arte, poesia e musica, scienza e tecnica e, ancora, erudizione di un pensiero che poggia su fondamenta del mondo greco-romano e gore esistenzialistiche. È senz’altro opportuno richiamare le considerazioni ermeneutiche di una studiosa come Julia Kristeva che tanto si è spesa, in termine d’indagine del testo, su valore e la potenza del mondo intertestuale. Così, tra i tanti “commensali” in questo ampia tavola (rotonda) dove si dibatte e ci s’interfaccia, si respira e si cerca se stessi, si contestualizza e si tenta una fuga in una dottrina che non è così accessibile come sembrerebbe, che troviamo il fisico Steven Weinberg, il poeta irlandese Oscar Wilde, la poetessa per antonomasia, Saffo, anima dei lirici greci e, – non appaia vizioso l’avvicinamento e si apprezzi, invece, la vastità delle fonti -, l’apostolo San Paolo (Prima Lettera ai Corinzi), Guido Cavalcanti, Dante, l’autore delle Bucoliche più volte citato dal Nostro in quelle che son divenute formule idiomatiche del mondo latino (Labentia signa), finanche i cantares populares (Machado, il già menzionato Lorca del quale, pure, il poeta si svela innamorato del celebre Llanto), l’avanguardista esasperato Sanguineti[10] e l’enigmatico Lewis Carroll proiettato verso un oltre invisibile che ammicca. Non è di certo una tavola fredda, semmai un banchetto ricco di portate, se si considerano i requisiti di rimando, le motivazioni per cui Calabrò si serve di tali fonti, a più livelli, per inserire i suoi versi. Si crea, così, una polifonia di suoni e d’interpretazioni, linguaggi apparentemente diversi che viaggiano su binari separati, come quello poetico e quello scientifico, che vengono resi, se non amici e sovrapponibili, per lo meno affini, inter-comunicanti, richiamanti l’un l’altro, decretando la fine di aporie binarie inconfutabili. Ci sono sistemi comunicativi di vario tipo che intervengono quali il codice segreto del linguaggio Morse, l’uso di terminologie in altre lingue, l’adozione di onomatopee che tentano di recuperare il suono di un evento che s’è prodotto e poi tutto l’universo dei richiami, dei bisbigli, dei fragori lenti o ritmati, dei movimenti che, colti nel loro tramestio, trasmettono indelebili movenze di un suono che si forma, s’increspa e scivola via.

L’esperienza-imprinting della fanciullezza a Reggio ritorna a galla, per frammenti, ricordi che luccicano, all’interno dell’intero corpus poetico del Nostro. Reggio sta a Calabrò come Macondo sta a Marquez e Recanati sta a Leopardi, è un luogo dell’anima, è spazio titanico e culla, emblema di legami familiari, contesto dove hanno preso forma i giochi, gli amori, i pensieri. Si riappropriano in maniera netta dei versi queste immagini nitide nel ricordo; il recupero delle immagini è asintomatico, quali pillole di un flusso che, di colpo, complici associazioni di immagini, rimandi pareidolitici e effluvi che si spargono, evidenziano la loro compresenza nel presente: sono già lì, non appartengono a una realtà passata, in quell’asfittico tentativo di scansione di un tempo che è tutto presente perché vivo. Ecco «Le strade a pelo d’acqua di Messina» (36) e «Le piazze dei paesi adagiati sullo Ionio» (40), sembra quasi di percepire il vento che fa ondeggiare le tamerici, lo iodio disperso nell’aria che si respira; così sono presenti anche le isole siciliane: «Da Lipari fino ad Alicudi/ piano piano si fredda/ il mare ch’è un immenso bacile d’olio grigio» (74) e poi Filicudi, Panarea. La Calabria, depositaria delle adorate immagini dei cari, è anche quella campestre: «Ulivi rocciosi di Calabria/ dalle arterie marmorizzate/ contorti sulle radici/ come totem viventi!» (112).

Dei genitori, che sono forme di quell’entità varia che è la terra natia, la Grande Madre, si assiepano memorie, nel tempo che separa alla loro corporeità ormai disillusa: «Solo ora sento che mio padre è morto!/ […]/ Con lui salivo su per le colline,/ […]/Andavo, armato della sua fiducia,/ […]/ Chiudo gli occhi: il tuo volto è un po’ smarrito/ ma il tuo cuore va al trotto sul sentiero/ della mia giovinezza e la precorre/ coi passi svelti di quand’ero piccolo» (195-196). E poi la casa delle origini che s’intravede, non vista nel reale, così presente nell’anima: «Quanto sono vicine le due sponde!/Si può scorgere forse la casa/ con tante stanze in cui mia madre è morta./ Quello ad angolo sembra un suo balcone» (202). La casa che fu embrione e che è testamento, baluardo e memoria: «Ma i luoghi dell´infanzia son soggetti/ anch’essi a un’occulta subsidenza./ Riuscii a dissimulare per un anno/ a me stesso che mia madre non c’era» (166); “È come una barca senza chiglia/ una casa in cui manca la mamma” (49).

La dimensione dell’oltre di cui si diceva, dell’alterità senza limiti o dell’illimite (termine spesso usato dal Nostro) può essere riscontrata nelle tematiche dell’amore (che è un sentimento che non conosce vincoli, ostacoli né dimensioni), come pure nell’immensità del mare, che ricorre ampiamente nelle liriche del Nostro al punto da osservare: «Ho comprato un potente cannocchiale/ con ingrandimento trenta volte.// Non per guardare Roma, io cerco il mare;/ è quello l’orizzonte che mi manca.// Qualche volta la notte guardo il cielo» (61). Mare come elemento ma anche come stato d’animo, con l’andamento ondivago delle sue acque, dei cambi di vento, tra traghettamenti, soste, abbordaggi. «Il mare è un rischio» (31)[11] recita Calabrò in una sua poesia e subito fa seguire quest’altro verso: «Il mare va preso come viene» (31). Immagine acquosa della vita, di un percorso fatalistico dove l’uomo è immerso: il mare è la vita stessa dell’uomo dove pericoli, bonacce, alte maree, riflussi e ancoraggi, ne descrivono il corso: «è religioso/ l’altalenante equilibrio del mare» (174). La sintassi poetica di Calabrò si piega a questo mondo acquatico, dell’universo salino, della navigazione e della pesca: tutto rimanda al mondo dei naviganti e dei marinai, in un sodalizio arcaico e archetipo al contempo uomo-mare: «Davanti agli occhi, a tutto campo, è il mare:/ pista d’acqua che ostenta il suo turgore/ come una mammella palpitante/ e livella il presente e il passato» (32); «La notte sia grande quanto il mare// io vorrei la tua lingua, come il mare/ salata» (98). Nel mare, nella profondità del suo temperamento, si perdono anche intrighi, segreti, silenzi e aneliti di un amore che si è consumato con passione e che alberga le reminiscenze più dolci: «Il senso del mare si ritrova/ in quello che chi l’ama non sa dire» (145). Ricchissimo di evocazioni, sguardi sensuali e connessioni intime, in un affascinante brano contemplativo che ha del metafisico, è il poemetto “Il vento di Myconos (Nostos)” nel quale l’indicibile figura del vento, nelle sue varie sembianze e accezioni, è di impareggiabile resa. Esso va letto con lo stesso andamento delle raffiche e delle sue pause, in un vortice che lambisce e rigenera in cui le parole accarezzano e imprimono in forma inarrivabile un simposio tra natura e meditazione, tra canto e investigazione dell’io. Così si legge: «Il vento, egemone dell’isola,/ il vento che scortica i declivi/ isterilendo le vacche scarnite,/ e manda i maschi a fare i marinai» (163).

Il soddisfacimento che si prova dinanzi a questa comunione con le acque – quasi il Nostro fosse un essere anfibio che le domina, sguazzando e risalendo a seconda del bisogno –, è una sorta di estasi panteistica, di amplesso amoroso dove pure l’acqua che sale all’altezza della gola (lontana da intenzioni di morte per acqua, di cui pure parla Eliot) ha il sapore di un godimento estremo, di una totalità inglobata all’estrema potenza, di energia che si protende, al punto tale da invocare un assopimento nelle acque, tra quelle coperte tumultuose che sono le onde: “Sarebbe bello addormentarsi in mare/ con l’acqua in gola che disseta e nutre/ e, volteggiando, planare sul fondo/ dove s’addensa l´ombra degli assenti” (167).

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Uno scatto della consegna della Targa Euterpe di Socio Onorario dell’Associazione Culturale Euterpe al poeta Corrado Calabrò durante la premiazione della VII edizione del Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi” a novembre 2018 a Jesi (AN). Das sx: i Consiglieri dell’Associazione Valtero Curzi, Marinella Cimarelli, Gioia Casale, Elvio Angeletti, Oscar Sartarelli, la Presidente di Giuria del Premio Michela Zanarella, il Presidente dell’Ass. Euterpe Lorenzo Spurio, Corrado Calabrò e la poetessa Fabia Baldi.

Come non far riferimento ai versi più vistosamente dichiarativi di un amore forte, pulsante: sono le poesie di Calabrò più effervescenti e aperte all’altro, dotate di un’energia senza pari dove l’io lirico è in una situazione d’infatuazione, coinvolgimento totale, assuefazione dei sensi. Pennellate che raggrumano sensualità, nella ricerca estenuata dell’alterità della coppia: «Seni così saldi,/ candidi picchi aureolati di rosa/ albeggianti nel buio/ al chiarore rossastro della stufa» (48). L’amore è connotato di mistero, ogni qual volta che il Nostro ne richiama il concetto esso è vincolato a immagini perturbanti, che imprimono foga e destabilizzano. Il poeta sembra dilaniato dal peso della lontananza dall’amata, da una solitudine che si auto-amplifica («L´amore è la presenza rimandata/ di un’assenza», 52; «Se esiste una ragione perch’io t’ami,/ ci sei nella misura in cui mi manchi», 143), dibattuto dinanzi alla non catalogabilità di quella relazione, alla sua levità e preponderanza al contempo che lo porta a domandarsi in cosa esso consista. La risposta al quesito non può che essere velata, per lo più insoddisfacente come sempre accade quando ci si approssima a parlare dell’infinito: «L’amore, d’altra parte, è come l’anima:/ nessuno, credi a me,/ nessuno mai l’ha visto». (76)

Attenzione va posta anche sui componimenti dal piglio più direttamente civile. Vale a dire quelle che poesie che fanno risalire a galla la forza della tensione morale, dell’impegno sociale che ogni cittadino dovrebbe sentire proprio e coltivare. Così, con un linguaggio chiaro al punto da fornire visuali d’istantanee, il Nostro ricorda delle sevizie e tribolazioni del conflitto in Cecenia (scenario geopolitico tutt’oggi indefinito, non riconosciuto completamente): «Nere, la luna spinge madri insonni/ tra mucchi di neve alla ricerca,/ ogni notte, in spazi troppo bianchi.// Cercano la loro via alla vita» (221). Ci sono poi testi atti a ricordare (non in chiave elegiaca, ma a ragione di uno sdegno insormontabile, che è quello dell’umanità civile) la paranoia e il senso d’imminente sciagura durante i bombardamenti del secondo conflitto mondiale («Gli americani coi B23/ […]/ binari luminosi intermittenti/ […]/ Centinaia di bengala illuminavano/ a giorno il cielo, il mare e la città/ […]/S’era ormai spento l’ultimo bengala/ quando si sentirono due raffiche/ droppete-droppete/ e il rombo strozzato d’un aereo.// Dopo sei giorni si scavava ancora/ dove il fetore indicava cadaveri/ ma noi andavamo in cerca di bengala/ e aspettavamo la prossima incursione.// …]/ Era tedesco l’aereo abbattuto», 200), la sciagurata disavventura dei nostri connazionali caduti a Nassiriya nel 2003 («ricordo – ad antenna ammainata -/ è una duna di sabbia nel vento/ cui passano accanto i cammelli/ a testa alta», 232), le problematiche e le animosità comuni e i drammi relativi al fenomeno senza controllo dell’immigrazione. Tema di un’attualità perenne e che ritorna, ponendo quesiti di varia natura, utilizzato come discrimine partitico nella questione della gestione del fenomeno. In “Canto senegalese a Lampedusa”, Calabrò presta la voce a uno sconosciuto uomo che si appresta a valicare il Continente: «fammi passare/ […]/ Il mare è aperto/ come il deserto/ quando è piatto/ ci puoi camminare/ […]/ la luna ci vuole accompagnare» (229).

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L’universo siderale rappresenta una sorta di condizione permanente nell’intera produzione del Nostro dove la luna, da satellite della nostra Terra, talvolta personificata nella donna, altre volte richiamata quale prolungamento di uno stato d’animo, segna le direttive di una poetica intrisa di quel fascino illuminato e sapiente di cui tutti i grandi, da Shakespeare a Lorca, passando per Baudelaire, Borges, Yeats sino a Merini (solo per citarne alcuni) hanno parlato. Della luna Calabrò ci parla di ogni forma di accadimento: dalla sospensione («luna ferma nel cielo/ come un dilemma», 76) all’assopimento («la sedazione della luna», 78) sino ad adoperare tale isotopia anche per descrivere una condizione, quella di «allunato» (96), fino a quando esso diviene un campo di possibile nutrimento per la futura vita: «Un fiore assurdo/ è attecchito sulla luna» (95). Descrivendoci le varie fasi: la luna piena (la «luna ecedentaria di giugno», 14), «la luna calante» (47) di quando «la faccia della luna è coperta» (95) con le sue «rivoluzion[i] a fas[i] alterne» (118) e l’accenno alle varie «lunazioni» (117) vale a dire il periodo che intercorre tra il compimento di fasi identiche e successive. La luna ha una proiezione indissolubile nell’universo femminile (il ciclo mestruale è un periodo che ha relazione proprio con le fasi lunari, proprio come gli intervalli di alte/basse maree) e il gioco di sguardi e di svelamento, in una nudità che è recupero dell’arcaico nella dimensione primigenia della Grande Madre, è palesato in versi densi di passione: «Ti svestirò di luna/ sulla grande terrazza» (100). Però è anche una luna filosofica, alla Leopardi, che permette la contemplazione, lo scavo interiore, la confessione con sé e l’interessamento verso questioni universali sulle quali tutti si son dibattuti: dal tempo e il suo scorrere, al senso della vita, alla dimensione del dolore, alla solitudine al punto che la luna è anche una proiezione, ciò che non è ma che rappresenta perché, in fondo, fiabescamente «La luna esiste solo se la guardi» (123).

La Quinta dimensione di Calabrò è transito incorporeo di un passaggio verso un oltre. Cadono categorie logiche di spazio e tempo e ci si sofferma sul senso dell’oltrepassare, di proiettarsi verso una realtà altra: «Bisogna oltrepassare, come Alice,/ la lastra riflettente di cristallo/ e senza aprirla varcare la porta/ per cui s’accede alla quinta dimensione.// Forse da dentro mi aspetti a quel varco:/ recessivi/ sugli estremi planari dell’inconscio,/ come la sorte s’aprono i tuoi occhi» (204). Ciò che compie Alice nel celebre romanzo di Lewis Carroll è, in effetti, una caduta nell’abisso, un risucchiamento in una voragine sconosciuta: un passaggio a un’altra dimensione. L’accadimento, quella della precipitazione nel cuore della terra, non è voluto né è spiegabile: ha la forma di qualcosa di assurdo e per questo motivo crea paura e da esso promana mistero. La giovanetta si troverà in un mondo dove non vige la logica comune, la morale, dove anche le normali consuetudini e conoscenze basilari sono sovvertite e annullate («Noi siamo le nostre abitudini/ se si stravolgono quelle, chi siamo?», 11). È l’introduzione in un mondo illogico, apparentemente pericoloso e ostile, in realtà la ragazzina scoprirà il meraviglioso, si divertirà, si sentirà – cosa che non le era mai accaduto in precedenza – parte attiva di una compagnia di esseri (siano pure strampalati). Il varco, prima rappresentato dal buco nel terreno, poi dalla porta che non subito riesce a valicare e nel secondo capitolo dallo specchio, il cui passaggio ha la forza del compimento di un rito di passaggio, è connotato positivamente (ma ciò potrà avvenire solo al termine della narrazione): Alice per crescere e diventare donna matura deve necessariamente compiere quel tragitto, far esperienza di quella realtà, introdursi nei gangli di una dimensione altra, che non appartiene a nessun altro del suo ambiente. Ed è, proprio per questo, privilegiata, sebbene di tutta prima lei si senta minacciata da quell’ambiente.

La Quinta dimensione di Corrado Calabrò condivide gli stilemi di questo ingresso misterioso ed esoterico in una alterità, un al di là non meglio definibile dove «vivere qualcosa oltre il vissuto» (40), in un passaggio ultra-terreno che rende afasici («Forse mi sono entrate nell’udito/ semplicemente le cose non dette», 84) e confusi («La notte non riesco a stare a letto;/ l’incertezza è l’unica certezza», 11), in parte ammorbati e appesantiti dal troppo presente che non permette, con levità il passaggio verso l’illimite riconducendo l’io agli ingranaggi della razionalità: «È questo il paradosso degli umani:/ solo al buio c’è concesso di vedere/ quel mondo cui il giorno ci fa ciechi./ Ma la notte è incognita a se stessa,/ dinanzi a Lei anche Zeus indietreggia» (21). Chiaramente non è sufficiente tutto questo per accennare alla Quinta dimensione di Calabrò e si deve richiamare la fisica degli universi paralleli. Tenuto conto che la poco richiamata “quarta dimensione” ha a che vedere più propriamente con la durata di qualcosa, ossia l’estensione che nel tempo può avere, che cosa s’intende con “quinta dimensione”? Si deve ricorrere alla Fisica quantistica, di cui ho scarso nutrimento, mi si perdonerà dunque le imprecisioni! Sembrerebbe che essa abbia a che vedere con i “futuri possibili” o i già citati “universi paralleli”, un campo indefinito di possibilità, di diramazioni, di eventualità futuribili non esperibili, una filiazione continua di circostanze che, cosa che più conta, ci vengono forniti in pensiero quale suggestione, in forma di possibile scelta, o per suggestione e influenza da altre persone. Nel blog “Il mondo della mia psiche” Alexia Meli sostiene che «nella quarta dimensione è possibile il paradosso, cioè che ciò che era vero un attimo fa può non essere vero ora. Anche ciò che era falso un momento fa potrebbe non essere vero ora. Non ci sono definizioni rigide per definire le esperienze, ma scegliamo la nostra vibrazione momento per momento»[12]. Questo sembra rispondere a ciò che accade ad Alice nel Paese delle Meraviglie, mentre la quinta dimensione «è il posto, lo spazio e l’energia che si basa sulla consapevolezza di una coscienza unica. […] nella quinta dimensione il tempo collassa. Il tempo è istantaneo, nel senso che tutto (tutte le possibilità) esistono nello stesso tempo nello stesso spazio. Non esistono polarità, condizioni, giudizi, patterns di pensiero».[13]

A completamento di questa bella antologia è uno scritto investigativo di Calabrò nel quale, con un metro critico e obiettivo, affronta varie questioni impellenti e cruciali relative alla poesia, al suo significato, ai suoi linguaggi e potenzialità nella società a noi contemporanea. Pagine di una vividezza disarmante dove Calabrò per un attimo prende la giusta distanza dalla materia poetica per osservare, con lenti potentissime, il fenomeno poetico tra ambiguità e reticenze diffuse, manipolazioni, codici destrutturati, condizioni di liminarità della poesia, ibridismi e antipoesia (è durissimo, per esempio, contro lo sperimentalismo accecante delle nuove avanguardie ma anche con la cosiddetta poesia asemantica) che dominano troppo pesantemente nello scenario d’oggi. La disanima, su questo aspetto e sull’intero universo della cultura d’oggi, è serrato e con una nutrita documentazione e riferimenti ad autori dei loro rispettivi campi d’azione; con un linguaggio chiaro e privo di omissioni di sorta, l’autore esplica assai distintamente le sue convinzioni, non esimendosi di evidenziare criticità, incomprensioni, improntare delusioni e avanzando denunce più o meno palesi, verso ciò che non gradisce, motivandone sempre le ragioni di fondo.

LORENZO SPURIO

 

La riproduzione del presente testo, in forma di stralcio o integrale, non è consentita in qualsiasi forma senza il consenso scritto da parte dell’autore.  

 

[1] La prefazione di Fabia Baldi è risultata primo vincitore assoluto nella sezione critica poetica all’interno della VII edizione del Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi” la cui cerimonia si è tenuta nella Sala Maggiore del Palazzo dei Convegni di Jesi (AN) il 10 novembre 2018. Essa è pubblicata, in qualità di opera vincitrice, nell’antologia del premio.

[2] Alcune poesie di Calabrò sono apparse in vari numeri della rivista di poesia e critica letteraria Euterpe nel corso degli anni, ovvero nel 2014 le poesie “La luna spenta” (n°12), “Southern Bug” (n°13), nel 2015 le poesie “Dormiveglia” (n°15), “Né ramo né radice” (n°17), nel 2016 le poesie “Alba di notte” (n°18), “Dov’è tuo fratello?” (n°19), “Ma più che mai…” (n°20), “La verità” (n°21), nel 2017 “Gemellaggio” (n°22), “L’esorcismo dell’Arcilussurgiu” (n°24), nel 2018 “Dov’è tuo fratello?” (n°26) e “Canti senegalesi a Lampedusa” (n°26). Non tutti queste opere figurano pubblicate in Quinta dimensione.

[3] Se si pensa che Calabrò scrive da sempre, dobbiamo concepire questa antologia quale il prodotto finale di un attento processo di selezione, vaglio e cernita che ha decretato l’inserzione di determinati testi, piuttosto che altri. Calabrò ha infatti osservato in precedenza: «Le prime poesie pubblicabili (e poi effettivamente pubblicate da Guanda) le ho scritte tra i quindici e i diciotto anni. Parlavano del mare: alcune figurano ancora nelle mie raccolte antologiche», in “Intervista a Corrado Calabrò” in Lorenzo Spurio, La parola di seta. Interviste ai poeti d’oggi, PoetiKanten, Sesto Fiorentino, 2015.

[4] Cit. in Francesco Kerbaker, Recensione ai Cantos di Ezra Pound (Mondadori, Milano, 2018), “Poesia”, anno XXXII, Aprile 2019, n°347, p. 76.

[5] Il poeta tedesco non è citato, ma viene proprio nominato, nella poesia “Non sei una dea” (93).

[6] Nell’intervista a me concessa da Calabrò nel 2015 il poeta ha rivelato: «Vivo da oltre cinquant’anni a Roma, ch’è una città meravigliosa. Ma ogni mattina, quando appena sveglio apro le imposte, avverto un senso di privazione. Ancora assonnato, ogni mattina non mi rendo conto sul momento di cosa mi manchi. Solo un attimo dopo realizzo: mi manca il mare, quel mare che vedevo da ogni finestra della mia casa nativa. È la mia vita non vissuta che s’affaccia».

[7] Tutte le citazioni, sia delle poesie che dei suoi scritti critici sulla poesia che vengono indicate per numero di pagina tra parentesi, sono tratte da Corrado Calabrò, Quinta dimensione Poesie 1958-2018, Mondadori, Milano, 2018.

[8] Alcuni versi dopo si riallacciano a quanto espresso e recitano: «La morte ci alita addosso e con essa/ si cancella tutto» (20).

[9] Oltre al televisore compaiono, quali strumenti-simbolo di quest’età in cui l’uomo è asservito alla macchina, il computer, il cellulare e l’iPod. Oggetti che sono entrati nella vita quotidiana dell’uomo senza più uscirne, contraddistinguendosi ormai come bisogni primari, proprio come il mangiare e il dormire. Ciò evidenzia il vizio della società e la condizione dell’uomo inabile nella sua primigenia natura, viziato e dipendente da altro, prodotto della sua stessa ricerca. Se tali oggetti sono frutto della scienza, pensati come elementi che consentano il miglioramento dello stile di vita (o permettano il diporto), d’altro canto finiscono per essere dei prolungamenti umanizzati, protesi tecnologiche, arti-cyborg. Il loro utilizzo è continuo, rituale (e maniacale al contempo), ormai fisiologico, come traspare anche da un verso di Calabrò: «di tanto in tanto/ riaccendo il cellulare» (89).

[10] «Privo di senso e saputo,/ come le nonpoesie di Sanguineti,/ è un calendario scaduto» (207).

[11] Proprio come la vita è una scommessa, dopo tutto.

In questo mare che è la vita, dunque tanto il passato, il presente che il futuro, il Nostro si trova spesso a ragionare: «Forse è un imbarco dal quale non torno» (33).

[12]  https://alexiameli.altervista.org/terza-quarta-quinta-dimensione-cosa/ L’articolo è stato pubblicato poi anche sulla rivista Apri la mente il 19/12/2017. http://aprilamente.info/terza-quarta-e-quinta-dimensione-cosa-sono/

[13] Nello stesso articolo si legge anche: «Nella quinta dimensione si è consci di essere consapevoli. Non esistono paura, bisogno di sicurezza, mancanza di fiducia. Le energie femminili e maschili sono fuse insieme in armonia. […] Si interagisce coscientemente con il Creatore e tutti gli Esseri di Luce».

Addio al teatino Vito Moretti, poeta “umano” e saggista di ampia caratura

Giunge dalla stampa online[1] e dalle tante attestazioni di stima e amicizia in Facebook l’annuncio del decesso del professore Vito Moretti (nato a San Vito Chietino nel 1949) di Chieti, docente universitario, poeta e scrittore, saggista e critico letterario che da poco aveva festeggiato i cinquanta anni della sua carriera di letterato. Recentissima, di pochi giorni fa, la notizia che la sua poesia inedita “Potessi raccontare i sogni” è risultata nella rosa dei finalisti del celebre Premio Letterario “Don Luigi Di Liegro”, X edizione, di Roma.

Ingente il suo contributo al mondo della poesia contemporanea, pubblicò (l’elenco dei titoli non è completo!)[2] le opere in dialetto N’andica degnetà de fije (1982), La vulundà e li jurne (1986) e Déndre a na storie (1987), Na raggio ne e li déhe (1989), La case che nen e chiude (2013) e per la poesia in lingua, dopo alcune plaquettes confluite in Una terra e l’altra. Ristampe e inediti (1995), ha dato alle stampe Temporalità e altre congetture (1988), Il finito presente (1989), Le prerogative anteriori (1992) e Da parola a parola (1994), Di ogni cosa detta (2007), L’altrove dei sensi (2007), Con le mani di ieri (2009), Luoghi (2011), Dal portico dell’angelo (2014). I suoi interventi teorici sono stati raccolti nel volume Le ragioni di una scrittura. Dialoghi sul dialetto e sulla poesia contemporanea (1989).

Il mio ricordo è legato ad alcuni brevi episodi che ci permisero di incontrarci in quella che era la terra che lui amava più di ogni altra cosa, ovvero il capoluogo teatino. Difatti nella prima edizione del Premio Letterario “Città di Chieti”, ideato nel 2017 dall’amica e poetessa Rosanna Di Iorio nel quale figuravo per sua volontà quale Presidente di Giuria, data il lungo corso della sua unanimamente riconosciuta attività poetica, la vastità dei suoi interessi letterari, lo spessore delle pubblicazioni e degli interventi critici in conferenze, dibattiti e convegni di varia natura, ci era sembrato opportuno premiarlo con un Premio Speciale definito, appunto, “Città di Chieti” (aveva partecipato in quell’occasione con la poesia “Così è questa la traccia”). Si trattava, com’è intuitivo da comprendere, uno dei tanti  numerosissimi premi, attestazioni di merito e di riconoscimento che da decenni il professore aveva ricevuto con orgoglio e merito in ogni parte del Paese.[3] Ricordo che in quella circostanza, pur dispiaciuto, non ebbi l’occasione di incontrarlo perché doveva trovarsi impegnato fuori città per altre iniziative letterarie e il premio gli venne in seguito consegnato dall’organizzazione.

Lo incontrai, invece, ad aprile 2018 presso il Teatro Marrucino di Chieti nell’occasione della presentazione al pubblico del libro di poesie La stanza segreta (Vitale, 2018) di Rosanna Di Iorio dove ero stato chiamato, assieme a Lucia Bonanni, a intervenire sul volume. Scambiai qualche veloce chiacchiera con lui ma questo non impedì che ne apprezzassi l’impeto nell’esternazione delle sue battute nonché l’acume delle considerazioni.

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Il professor Vito Moretti. Foto tratta da: http://www.ilcentro.it/cultura-e-spettacoli/quelle-ombre-adorne-di-vito-moretti-1.21839?utm_medium=migrazione

Rimasi così in contatto con lui, esclusivamente a mezzo internet, e apprezzai – ben prima che la sua produzione poetica (vastissima e di alto profilo) – la sua attività di critico e di esegeta di testi letterari della tradizione abruzzese con particolare attenzione a Gabriele D’Annunzio. Molto interessato ad alcune sue pubblicazini sull’argomento (ormai per lo più fuori catalogo e dunque introvabili) era stato così gentile da inviarmi estratti delle opere a mezzo e-mail ed altre me le avrebbe sicuramente inviate per posta – quale dono – come mi aveva promesso avendo avvertito nelle mie parole il grande interesse verso il suo lavoro ermeneutico. Purtroppo non ve ne fu tempo. Conservo, invece, con piacere una serie di testi (capitoli estratti) di volumi[4] o di suoi studi critici vertenti il fenomeno del “dramma rurale”, del teatro rustico d’argomento abruzzese con riferimento a La Figlia di Iorio di D’Annunzio. Gli comunicai, nei mesi scorsi, infatti, che ero molto interessato ad approfondire tali questioni per una lettura più ampia e comparativa per un mio studio improntato sul tema dell’onore e del dramma rurale nell’opera dello spagnolo Federico García Lorca. Sono testi importanti e ben calibrati, i suoi, che saranno di certo utili nello sviluppo del mio saggio e che lo saranno per tutti coloro che, interessati al fenomeno agreste in oggetto, faranno ricerche in tal senso.

Ma la produzione di critica letteraria di Moretti è vastissima e non esula interessi d’altro tipo. Vorrei, infatti, ricordare alcuni dei testi della sua intensa bibliografia: Occasioni abruzzesi. Letture e pagine critiche (Tracce, 2000), Il plurale delle voci. La letteratura abruzzese fra Sette e Novecento (Bulzoni, 1996), D’Annunzio pubblico e privato (Marsilio, 2001), Le forme dell’identità. Dall’Arcadia al decadentismo (Studium, 2001),  I labirinti del Vate. Gabriele D’Annunzio e le mediazioni della scrittura (Studium, 2006), Ariel e Melitta. Carteggio inedito D’Annunzio-De Felici (Carabba, 2007), Di carte e di parole. Note, proposte e ricerche sulla letteratura dell’Otto e Novecento (Bulzoni, 2009), Le forme recitate. Aspetti della letteratura tra Otto e Novecento (Studium, 2011).

L’ultima volta che lo sentii, circa un paio di settimane fa, era per informarlo della decisione della redazione della rivista di poesia e critica letteraria “Euterpe” di pubblicare una delle sue poesie,  giunte per la selezione dei testi, ovvero la poesia “Nel nostro campo”, che figura all’interno delle pagine del n°28 di Febbraio 2019.

Alcuni versi estratti da un’altra sua bella poesia, “Dubita, se ogni punto”, così recitano: “Nulla ha più della perfezione/ che ti impegna al perdono, alla linea che declina/ e che pure sale, e che si moltiplica, tu sai,/ dove tutto è infinito”.

 

Lorenzo Spurio

09-02-2019

 

[1] La testata “Chieti Today” così titola la notizia: “La cultura abruzzese piange il professor Vito Moretti, docente universitario e scrittore”: http://www.chietitoday.it/cronaca/scomparso-professor-vito-moretti-chieti-san-vito-chietino.html mentre l’emittente locale “Rete 8” così titola: “Chieti piange la scomparsa del professor Vito Moretti”, http://www.rete8.it/cronaca/234chieti-piange-la-scomparsa-del-professor-vito-moretti/

[2] Notizie biobibliografiche più esaustive possono essere consultate sui siti della casa editrice Tabula Fati: http://www.edizionitabulafati.it/vitomoretti.htm e “Poesie del nostro tempo”: http://poetidelparco.it/9_228_Vito-Moretti.html Numerosi suoi testi poetici sono presenti sul siti, riviste online e antologie poetiche.

[3] Solo per citarne alcuni: il “Versilia-Marina di Carrara”, il “Premio Alghero”, il “Pisa-Calamaio di Neri”. Il professore, inoltre, era presidente e membro di giuria in numerosi premi letterari nazionali sia abruzzesi che di altre regioni.

[4] Principalmente estratti di VITO MORETTI,  I labirinti del Vate. Gabriele d’Annunzio e le mediazioni della scrittura, Roma, Edizioni Studium, 2006.

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“Le orme dei giorni” di Antonio Damiano. Recensione di Lorenzo Spurio

Recensione di Lorenzo Spurio

Antonio Damiano è nato nel comune di Montesarchio, nel Beneventano, ma da anni vive e Latina. Si è laureato in Lettere e Filosofia e, in quanto alla sua passione poetica, ha pubblicato sinora quattro libri: Come farfalle(Montedit, Melegnano, 2013),Come le foglie(Ass. I due colli, Torre Orsina, 2015), Versi d’autunno(Genesi, Torino, 2016) e il recente Le orme dei giorni (Stravagario, Minturno, 2018). Ampiamente apprezzato dalla critica e dall’ambiente letterario ha all’attivo circa trecento premi tra podi e premi speciali conseguiti in altrettanti concorsi letterari nazionali. Nell’aprile 2018 gli è stato attribuito il “Premio alla Carriera” da parte dell’Associazione GueCi di Rende (CS)presieduta dalla poetessa Anna Laura Cittadino.

48371642_314313059179175_4729821035229085696_n.jpgParticolarmente attento alle dinamiche socio-civiliche interessano il nostro oggi (ma non solo, come vedremo a seguire), Damiano nel corso degli ultimi anni si è imposto nello scenario ampio e variegato dell’universo delle competizioni letterarie quale anima sensibile verso ciò che accade non solo nella realtà di Provincia e nel Belpaese, ma nel mondo tutto, dimostrando capacità di analisi non indifferenti e un sentimento umanitario che lo rende vero cittadino di questo scapestrato mondo. I versi di Damiano non sono mai tesi a denunciare in maniera reproba i mandanti, gli esecutori diretti e chi ordisce il Male e alimenta le violenze, semmai a leggerle con occhio compassionevole e attento, a sottolinearne la gravità, a indagarne le ragioni e, ancora una volta, a solidarizzare con il represso, colui che viene battuto o cacciato. […]  Per parlare di questo nuovo libro di Damiano non si può prescindere dai ricchi ed esaustivi apparati critici in apertura e chiusura di cui esso è dotato, brani esegetici che arricchiscono di per sé la caratura del volume e del Poeta di Latina permettendocene una lettura e un approfondimento radicali e persuasivi che ci consentono di avvicinarci all’opera e di gustarla in maniera ancor più saporosa. La poetessa Patrizia Stefanelli dedica pagine particolarmente apprezzabili sottolineando il forte realismo e pregnanza della lirica di Damiano parlando, al contempo, di una “odeporica essenza” (4) che si realizza in quell’intendimento spontaneo atto a esperire la poesia, e la scrittura tutta, come un viaggio.  […] Il critico Cinzia Baldazzi, con una gamma variegata di riferimenti a intellettuali a lei amati nei quali ravvisa “consonanze” con alcuni versi di Damiano, si focalizza su un altro aspetto dominante del volume da lei definito nei termini di “cosalità dei significati quotidiani” (108) a intendere quel legame forte e spontaneo, sentito e immanente, che l’uomo ha con l’universo oggettuale che lo circonda, il contesto abitativo e sociale, finanche le pratiche rituali e celebrative che appartengono a quel dato “essere” nell’ hic et nunc

 

L’intera recensione è stata pubblicata in data 20/12/2018 su “Telescopio News” e può essere raggiunta cliccando qui.

Concetto e venature di “vita” in poesia. Note su poeti anconetani. Da Scataglini a Curzi e Ausili. Articolo di Stefano Bardi

Articolo di Stefano Bardi

Il poeta anconetano Franco Scataglini (1930-1994) nel 1977 diede alle stampe la raccolta So’ rimaso la spina, opera dal titolo fortemente simbolico; qui la Vita è intesa come una creatura che ci spolpa, proprio come l’irruenza delle onde del mare. Un primo tema è quello della Vita, che ci priva di qualsiasi cosa per noi importante, ci cancella, ci azzera e ci immerge in un oceano colmo di solitudine e di emarginazione. Un’esistenza, quella terrena, che è paragonata alla scrittura, poiché come essa è un cancellare gli errori dopo gli sbagli e un canto disperso, nel dolore quotidiano[1]. Vita che ha la sua parte oscura ch’è la dipartita, concepita dal poeta anconetano come una Vita senza energie, sogni, passioni e in particolar modo senza profumi.[2] Un Vita che è paragonata agli invernali moli, luoghi dove non c’è vita, solo malinconia e vite in decomposizione. In tale cornice, gli uomini di Scataglini finiscono per apparire come una sorta di pupazzi di neve, ovvero come delle creature dal cuore glaciale e dalle mortifere parole[3]. A dominare, negli spiragli della silloge, è forse il tema dell’amore, inteso come un qualcosa che ci “cucina” la carne e lo spirito fino all’osso[4], ma anche come il principale motore delle azioni e nella nostra vita[5].

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Il poeta anconetano Franco Scataglini. Foto tratta da: https://tinyurl.com/ycrwr2hc

Vorrei allargare il mio pensiero critico e la mia riflessione riferendomi a due poeti contemporanei: Valtero Curzi e Marco Ausili. Il filosofo, poeta e scrittore Valtero Curzi (1957) nel 2017 ha dato alle stampe la raccolta Il tempo del vivere è mutevole. Varie sono le chiavi di lettura, una prima è quella con la quale il poeta paragona la dolcezza esistenziale alla dolcezza del ciliegio che, anche se  muore al primo vento, rimane per sempre dentro di noi.[6] La vita è concepita come una dolce melodia che culla la nostra mente e ci conquista con i suoi sensuali arieggi.[7] Per una lettura accessoria credo che bisogni chiamare in causa la canzone Come le onde del mare di Gianmaria Testa. Le onde di  Curzi e di Testa strappano i nostri sogni e i nostri affetti per farci immergere in mondi animati da una pacata oscurità.[8] Centrale è la tematica dell’amore che ritorna nella lirica “Ti vengo a cercare”. Testi dove l’Amore, con le sembianze di una donna, è visto come una creatura da amare, lodare, glorificare e contemplare nelle sue brume, nei suoi viaggi psichici e nei sui labirinti spirituali.[9] Accanto al tema della Vita, c’è posto anche per il tema dell’Uomo e del cammino esistenziale. Uno Uomo che non è fatto di carne e di ossa per il poeta senigalliese, ma è un’ombra che vaga all’interno di un mondo annebbiato, alla ricerca di una Terra Promessa sulla quale approdare.[10] Nella poesia “Stazione Centrale” è rappresentato un effimero viaggio in treno, dove non ci sono fermate ma solo partenze.

L’opera di Curzi ha toni pascoliani, dannunziani e ungarettiani al contempo. Per quanto riguarda la reminiscenza pascoliana, dobbiamo parlare della poesia “La notte di San Lorenzo” dove le stelle cadenti rappresentano la morte delle gioie; per quella dannunziana della poesia “Piove, a Maggio” in cui è simboleggiata la tristezza in grado di calmare ogni cosa, concepita come un acqua magica.[11] Un riferimento ungarettiano lo possiamo trovare in “Una foglia”: una foglia caduta dal ramo e adagiata sulla fredda terra, che simboleggia tutta la fragilità degli esseri umani nel loro ultimo istante di vita.[12].

Concludo questa breve dissertazione ritornando nella città dalla quale sono partito, Ancona, parlando del poeta Marco Ausili (1988) che nel 2017 ha pubblicato l’opera Global carmina e altre poesie. Qui il tema è riscontrabile in tre precise sezioni, che sono: Lo spazio di un’estate, La paura della vita e Sentieri ininterrotti. Nella prima, la Vita è paragonata al mare che è visto come una fonte battesimale dalla quale far risorgere le nostre carni purificate[13] e come un baule in cui sono conservate le nostre reminiscenze, i nostri patimenti, i nostri amori e infine, i nostri defunti.[14] Nella seconda, la Vita altro non è che la Morte. Dipartita che è concepita dal giovane poeta come una sorella che ci prenderà per mano e ci condurrà alla vita eterna[15] e come la sovrana dei camposanti, intesi da Ausili come i luoghi che conservano per l’eternità le nostre gioie e le nostre melodie esistenziali. Nell’ultima sezione la vita è concepita come conoscenza e diffusione del passato[16].   

STEFANO BARDI                

 

 

Bibliografia di Riferimento:

SCATAGLINI F., So’ rimaso la spina, Edizioni L’Astrogallo, Ancona, 1977.

CURZI V., Il tempo del vivere è mutevole, TraccePerLaMeta Edizioni, Sesto Calende, 2017.

AUSILI M., Global carmina e altre poesie, Italic, Ancona, 2017.

[1] F. Scataglini, So’ rimaso la spina, Ancona, Edizioni L’Astrogallo, 1977, p. 23 (“[…] tuta scancelatura / dopo dulor de sbai. […]-[…] el biatolà d’un dindo / spèrsose ‘nte la piova.”)  

[2] F. Scataglini, So’ rimaso la spina, Ancona, Edizioni L’Astrogallo, 1977, p. 26 (“[…] Pei morti ai quatro venti / ‘st’asenza de perfumo.”)

[3] F. Scataglini, So’ rimaso la spina, Ancona, Edizioni L’Astrogallo, 1977, p. 76 (“Né tera né cielo / è i omini, fiola, / ma pupi de gelo / co’ morta parola. […]”)

[4] F. Scataglini, So’ rimaso la spina, Ancona, Edizioni L’Astrogallo, 1977, p. 67 (“[…] Spolpato sopra e soto / so’ rimaso la spina.”)

[5] F. Scataglini, So’ rimaso la spina, Ancona, Edizioni L’Astrogallo, 1977, p. 120 (“[…] Tuto è corpo d’amore / mischiato al bene e ‘l male, / tuto è ‘l fenomenale / èssece: serpe o fiore / ortiga o albaspina / infedeltà, costanza / fortuna, malandanza / sesso d’omo o vagina / e te, dialeto caro / che da l’infanzia sorti / t’ha cinguetato i morti / su l’alto colombaro […]”)

[6] V. Curzi, Il tempo di vivere è mutevole, TraccePerLaMeta Edizioni, Sesto Calende, 2017, p. 21 (“[…] Terrò l’ultimo fiore / nel mio sguardo.”)

[7] V. Curzi, Il tempo di vivere è mutevole, TraccePerLaMeta Edizioni, Sesto Calende, 2017, p. 23 (“[…] M’ascolto sereno / senza mutar nulla nel mio pensare / lasciando l’armonia conquistarmi.”)

[8] V. Curzi, Il tempo di vivere è mutevole, TraccePerLaMeta Edizioni, Sesto Calende, 2017, p. 27 (“[…] E io sento in quel morir placido / il viver che ci contiene / mi perdo / nei miei pensieri / ed è già subito sera.”)

[9] V. Curzi, Il tempo di vivere è mutevole, TraccePerLaMeta Edizioni, Sesto Calende, 2017, p. 80 (“Ti vengo a cercare / nella tua incertezza / che ti percorre / e ti inseguo / nei meandri dei pensieri / che t’avvitano. […]”)

[10] V. Curzi, Il tempo di vivere è mutevole, TraccePerLaMeta Edizioni, Sesto Calende, 2017, p. 75 (“Cerco il mio tempo / dove posarmi / come alla sera / nel guardar le stelle disperse / nell’universo scuro di chiaro offuscato. […]”)

[11] V. Curzi, Il tempo di vivere è mutevole, TraccePerLaMeta Edizioni, Sesto Calende, 2017, p. 66 (“[…] Piove lieve e fermo / come dolce malinconia / che tutto quieta. / Piove come il meditare / nella matura esistenza percorsa / in ogni pensiero nato e appena sbocciato.[…]”)

[12] V. Curzi, Il tempo di vivere è mutevole, TraccePerLaMeta Edizioni, Sesto Calende, 2017, p. 64 (“[…] Mi serra il cuore / quel tuo stato sottile / d’immensa fragilità / che ci coglie. / Sento doloroso / l’adagiarti ormai morta / sull’arida terra. / Ti guardo… / e fuggo dai miei pensieri.”)

[13] M. Ausili, Global carmina e altre poesie, Italic, Ancona, 2017,  p. 19 (“[…] Risalivano. La meraviglia / del respiro, come ora usciti / dall’amnio. Tra le dita / il trofeo immacolato.”)

[14] M. Ausili, Global carmina e altre poesie, Italic, Ancona, 2017,  p. 22 (“[…] Ancora nell’orecchio chiuso / il rumore del mare / come fatto si fosse conchiglia / pescata dall’acque. / La mente festante di ricordi / infine piegandosi tacque.”)   

[15] M. Ausili, Global carmina e altre poesie, Italic, Ancona, 2017, p. 29 (“[…] Lo sento, sta arrivando. / E presto i suoi passi passeranno / dove passi ogni tanto, / senza avvertire il mio passaggio / il passato, perduto mio transito.”)

[16] M. Ausili, Global carmina e altre poesie, Italic, Ancona, 2017, p. 62 (“[…] Non siamo mai chiusi / dentro una stanza, / siamo comunque nel mondo, / della sua medesima sostanza.”); M. Ausili, Global carmina e altre poesie, Italic, Ancona, 2017, p. 63 (“[…] Passerà l’intera mattina / a ricostruire sereno tutto / il figlio contento di creare, / con calma, senza lutto.”)

 

L’autore del presente testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere a seguito di riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.

 

L’ombra, il silenzio e la musica dei fiori: “Rifrazioni” di Elio Pecora. Recensione di Marco Camerini

Recensione di Marco Camerini

 

La pazienza maggiore l’ha dovuta a se stesso:

ha patito le paure nuove del bambino,

i fantasmi esagitati dell’adolescente,

le saracinesche arrugginite dell’ansia,

il tramutare scomposto delle carni

i cumuli delle ombre, gli intoppi della memoria.[1]

Negli splendidi versi si trasfigura ellitticamente in III persona, con intensa e disarmante sincerità, il soggetto poetante di Rifrazioni (Mondadori, 2018), ungarettiano “uomo dai piedi lenti” che si reinventa ogni istante e ogni ora, non ha fiato bastante/per rincorrere tutto/quel che gli corre davanti/e che dietro s’inombra e pure – disincantato e disilluso, acceso di ansia e di sogni, senza più un altare né un dio da pregare – di continuo si adopera a procacciarsi piacere, a medicare il dolore. Infinitesima “fibra” di una galassia/universo, baudelairianamente condannato – fra i detriti di un assordante, tumultuoso presente in rovina – ad annaspare nel fango, occhieggiando le stelle, alimenta tenace e mai disperato la fame e la sete dell’Anima, intende “il linguaggio delle cose mute”, contempla estatico il profilo della luna vestito del suo poco, rinchiuso/nei suoi sonni che sognano mentre il tempo precipita vorticoso senza prospettive di edeniche stasi.

978880468746HIG-310x480.jpgAlla dimensione di una contemporaneità che opprime ed assedia l’io lirico (mai l’autore ne rinnega la voce), funestata da ruberie e delitti, eccidi ed eccessi, guerre che servono a scherani del raggiro seduti a legiferare sulle immondizie[2] e piazze che chiedono un altro presente, sussulti sismici e naufragi etici – nessuno sbarco stanotte a Lampedusa/nessun morto per mareil futuro?Una marea fangosa che avanza mentre nei giovani vacilla la speranza – si contrappone la memoria di un passato che assume le fattezze di ombre (di dove vengono a lui che non le ha chiamate? Ma chi si cerca è trovato a sua volta da un’ombra), inconsciamente evocate da un Oltre che non è Ade ma Paese dei Cimmeri se possono sostare in limine fra la vita e la morte, ferme alle porte di una città senza nome, vaganti ancora nel recinto brulicante dei vivi. Sono tante, presenza irrequieta e leggera nel rumore dei giorni, folla silente in mezzo a noi che ci chiama e muta risponde alle domande mute senza nulla chiedere se non permanere dopo l’addio, nel breve saluto di un incontro inusuale e possibile solo che Elio/Orfeo lo desideri quanto loro.[3] E se è vero che moriamo alla morte dell’ultimo che ci ha conosciuti e non è perdita l’addio se lascia tracce nelle stanze aperte del cuore, il dialogo con loro – in una delle sezioni più suggestive  della silloge dall’ossimorico-sinestetico titolo “Lo spessore dell’ombra” – è struggente e vivissimo. Hanno mani, piedi, gesti queste anime assiepate nel sogno della mente e celate dietro pudiche sigle: si chiamano Arsenio, padre con cinquant’anni di mare alle spalle, Elena – dantesca figlia di suo figlio dal volto fermo e quieto, sublime ritratto di madre che rinvia a quelli di Montale e Ungaretti – Luciano, Dario, Sandro, sodali voci liriche di un cammino letterario condiviso, l’aspra, manichea Elsa dagli occhi di agata – amica e nemica insieme, scrittrice come le infelici Amelia ed un’altra Elsa ingiustamente esiliata dalla fama – mentre accanto ai fantasmi mai ingombranti nella loro autorevolezza di Alberto e Aldo si profilano quelli modesti e umanissimi di Aduccia e Rosella, rimpiante testimoni della giovinezza santarsenese. Sono tanti e tutti i loro nomi

… s’annidano nei nomi, non è la memoria

a chiamarli, si compitano su un’oscura lavagna,

intanto che vanno chiarendosi le facce,

muovendosi le figure nei fruscii delle foglie.

Ciascuno va a porsi in un suo spazio appartato,

chiede una sua misura, un suo incerto restare.[4]

 Troppo risoluta, comunque, in Elio Pecora la volontà di risillabare la speranza e, pure a tentoni, aprirsi un montaliano varco cercandosi dentro più alto e ampio il respiro per concedere ai morti l’egoistico mandato di (tornare a) vivere accanto sé, seduzione alla fine perdente di paralizzanti “nidi”. Ferma e pronta la risposta al loro accorato richiamo e imperitura la promessa di perpetuarne il ricordo, ma la sua è poesia “della” e “per” la vita, Eros vince Thanatos, i piedi devono riprendere ad andare e nel presente, pure abitacolo in rovina, deve inevitabilmente giocarsi la personale scommessa esistenziale, anche quando il pianto punge gli occhi/e in petto s’annoda o un grido chiude la gola. Così, mentre tutto sembra perduto e si cammina per arrivare a fine giornata, trasfigurate nei topoi dialettici luce/ombra (quel che chiamiamo sublime/sta nell’ombra…luce è solo verità iniziale) e rumore/silenzio (succede alle Furie del primo, incontaminato attende chi sa di portarselo dentro), la tensione dell’attesa che non smette di origliare e l’irriducibile fiducia in una felicità che non transige e non si pronuncia, ma cui pure il poeta non intende rinunciare, si sciolgono nel recupero di un tenace rapporto con il vissuto e di un mai domo sentimento dell’amore. Presenze/emblemi stavolta vive, discrete e nemmeno chiamate del quotidiano, il violinista sulla metro, il barbone che regala i suoi versi sconnessi, il vecchio che blatera, la badante moldava, umanità varia, dolente e nemica a se stessa, si stringono intorno a lui che – capace di emozionarsi per la corolla di un fiore, il profilo minuto di un adolescente nell’autobus affollato, una voce al telefono – attraversa solidale, sebbene non vi scorga il posto appartato in cui riconoscersi, un mondo miracolosamente popolato di storie[5] le quali

 …riempiono una strada,

un incrocio, una stanza, e in ciascuna

un intrico, un subisso di domande,

di risposte accennate, di pretese.

“C’era una volta un principe infelice”

poi fu felice, e questa era la fiaba.[6]

 L’amore, dal canto suo, si “rifrange” più di quanto non appaia ad una prima lettura lungo tutta la raccolta, illuminandola anche quando si connota come inganno, disfatta, promessa bugiarda, appassionato segno non corrisposto, aspettativa che si teme vana e rimanda a Saffo e alla Cvetaeva. In ogni caso, nella consapevolezza che il dio frecciuto ignora età e tattiche, nessuna concessione a rassicuranti proiezioni ideali, solo (solo?) la risoluta persistenza del desiderio che rende divini, è stordimento fresco e lieve, basta a se stesso e, caparbio bagliore dentro l’addio, brilla inesausto ed irrinunciabile.

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Elio Pecora 

Alla fine il tumulto da 100.000 watt di una città infernale con i suoi dannati che vanno/avvoltolati d’ansia/per ignoti traguardi non impedisce di auscoltare a chi sa/può/vuole le vibrazioni di viole, timpani, flauti, pascoliani sistri o di un oboe dall’invidiabile fortuna letteraria e al viluppo di inganni, scandali, miserie si oppone, non-luogo fuori del tempo, un miracoloso orto di verdi che svariano ove si declina una flora odorosa e rassicurante, umile e rara a un tempo: dalie, ibiscus, ulivi, gigli, ortensie, il loto e il gigantesco agrifoglio, la zinnia e la catalpa bignonia, foscoliani tigli, (ancora pascoliani) pioppi, il salice con la sua canzone e lo screzio sorpreso di Desdemona, il croco e l’acacia (recisa da uno schianto del fulmine, non dal “freddo” di una forbice)[7] cari all’autore di Ossi. In questo giardino ai piedi di una collina, Pecora rinviene i termini esatti e svelati atti a rendere, contro il fragore di un tempo che contiamo a minuti, la spasmodica tensione interiore e a “sciogliere il canto” del niente nel niente: se da un lato la sua cifra stilistica, esclusiva ed evocativa nella trasparente intelligibilità (echi di Saba, Penna, Pasolini e Montale convivono in un tessuto unico ed originale), garantisce una convinta adesione al reale, senza mai cedere al rispecchiamento – a volte trasandato – di certa lirica contemporanea, dall’altro le parole che gli si chiedono non possono risultare tanto scarne e sommesse/da evaporare come fuochi di foglie secche[8] né intessute di sonorità leziose: esprimono invece – spesso attraverso il ricorso ad anastrofi ed iperbati – lo strappo, l’incaglio, la discordanza infeltrita di una vigile e sofferta resa formale. Lessicalmente in magistrale equilibrio fra classicismo e crepuscolare “grado zero”, vengono meticolosamente scelte come un tubero o un seme da interrare[9] che produrrà, forse, senza illusori ottimismi, un frutto, un fiore/una foglia minuscola…non più di un cenno, un avvio/per un altrove nemmeno ancora intravisto

 MARCO CAMERINI

NOTE:

[1] E. PECORA, Rifrazioni, Mondadori, Milano 2018, p.52. Verranno citati i riferimenti alle pagine dei soli versi riportati in modo più ampio, non di quelli (in corsivo) che costituiscono una sorta di corpo unico con il testo e vi sono strettamente integrati.

[2] Per il termine scherani cfr. “La primavera hitleriana”, E. MONTALE, Tutte le poesie, Mondadori, Milano 2013 [1984], p.256.

[3] Nella evidente diversità delle opere, questo espediente sospensivo fra l’immanente ed il trascendente è il motivo ispiratore di un intrigante romanzo di G. Saunders, Lincoln nel bardo, Feltrinelli 2017 (vincitore del Man Booker Prize) che prende spunto dall’episodio – storicamente accertato –  del Presidente americano il quale visitò più volte la bara del figlio prematuramente scomparso imponendo che non venisse chiusa.

[4] E. PECORA, Rifrazioni, cit., p.110.

[5] Proprio la lirica “”Nell’immenso ordito…” (p. 31) – cui si riferiscono le figure citate –  ci sembra presenti significative affinità con “Città vecchia” di Saba (cfr., in particolare, il vecchio che blatera con il vecchio che bestemmia), autore non estraneo a Pecora per i comuni richiami minimalisti ad una quotidianità “senza storia”.

[6] E. PECORA, ivi, p.144.

[7] Cfr. “Non recidere, forbice, quel volto”, E. MONTALE, Tutte le poesie, cit., p.156.

[8] Cfr. la storta sillaba e secca come un ramo di “Non chiederci la parola”, ivi, p.29.

[9] Il verbo ci pare richiami, nell’urgenza di una resa poetica definitiva e radicata nel profondo, la parola scavata dell’ungarettiano “Commiato”, cfr. G. UNGARETTI, Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1972, p.58.

 

L’autore del presente testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere a seguito di riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.

 

“Paragrafi per ricordare il poeta romano Dario Bellezza: polemico e irruento, icona contestata degli anni ’80” – Di Stefano Bardi

Articolo di STEFANO BARDI  

Il 1968 fu un anno importante per l’Italia: tanti giovani si riversarono sulle strade con le parole e con i bastoni, per cambiare il loro futuro. Cambiamenti che riguardarono pure la nostra letteratura, portando alla “morte” della Neoavanguardia e alla nascita della cosiddetta letteratura postmoderna, dove non è più possibile intravedere le linee letterarie di rilievo, le precise muse ispiratrici, né le poetiche letterarie del passato, bensì un linguaggio e una grammatica, che non hanno nessuno scopo investigativo o psico-sociale. Anche la poesia ebbe i suoi cambiamenti, che durarono, però, fino agli anni Ottanta, poiché molti poeti di quel tempo trattarono tematiche troppo legate alle proteste giovanili sessantottine e al boom economico italiano, senza riuscire ad andare fuori da questi due binari. Tematiche che per l’appunto videro molti poeti essere dimenticati e “schiacciati” negli anni Ottanta, dalla resurrezione della novella e, in particolar modo, dalla resurrezione del cosiddetto romanzo commerciale.

Eppure non tutti i poeti si adeguarono a quella poesia e alla trattazione di quelle tematiche, creando così una nuova lirica denominata neo-orfica o neoermetica che dir si voglia, proiettata verso l’esaltazione magica della poesia, verso la forza della parola immaginaria ancora in grado di scoprire legami e messaggi oceanici della realtà e verso la divulgazione di poesie “eterne” attraverso lessemi sublimi, “divini”, e vigorosi. Una poesia, questa, che ebbe la sua massima espressione attraverso il poeta, scrittore e drammaturgo Dario Bellezza (Roma, 5 settembre 1944-Roma, 31 marzo 1996). Uno scrittore che purtroppo è per lo più dimenticato ai giorni nostri, sembrerebbe non per motivi letterario-ideologici, bensì per motivi di carattere privato: la sua omosessualità e la sua morte per AIDS. Elementi, questi, che fecero vedere quest’autore a molti critici del suo tempo come uno scrittore osceno e scandaloso.

La poesia di Dario Bellezza può definirsi coma una lirica senza lustrini e brillanti, una poesia realistica in cui sono liricizzati i ragazzi amati velocemente dal poeta, che non appartenevano al mondo dell’amore sentimentale, ma a quello della prostituzione e del sesso mercenario. Amori veloci e puramente sessuali che erano volutamente ricercati dal poeta romano, poiché lui medesimo, per tutta la sua esistenza, ebbe uno legame ambiguo con il suo corpo, concepito come un universo colmo di rabbia, ansia, animosità ed esecrazione. La sua poesia può essere vista come un’infinita rampogna composta da lessemi inaciditi, amari, arroganti, eccitanti, come un sistema composto da stonati “frammenti” musicali.

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Dario Bellezza

Il 1971 fu l’anno della raccolta poetica Invettive e licenze, dove possiamo vedere i temi che caratterizzeranno la sua intera opera, ovvero l’ambiguità sessuale e la dipartita, temi vissuti dal poeta romano con straziante rimorso e mancanza di coraggio. Più nel dettaglio sembra giusto osservare che il sesso sia da lui concepito come un mondo composto di peccati e dissolutezze, che fanno nascere nello spirito del poeta un sentimento di vergogna, per gli amori incoerenti da lui vissuti e sperimentati. La dipartita, invece, simboleggia una notte colma di oscurità, paure e consapevolezze etico-esistenziali. Opera dai toni biografici, poiché nei testi qui raccolti, Bellezza ci mostra se stesso nella sua vicenda umana, nella sua angoscia e nei suoi calorosi amori all’interno di una quotidianità che vorrebbe distanziare, ma in cui dimora senza soluzione e senza trovare una nuova strada esistenziale. Opera nella quale si può toccare con mano la viscida autenticità intima del poeta, liricizzata attraverso due vie: quella di una lacerante e nobile compassione e quella di una eccitata narrazione lanciata verso il tragico, per mezzo dell’uso di una densa enfasi. Quest’opera può definirsi come una raccolta dell’estrema disubbidienza, rappresentata dal poeta attraverso una sintassi e una grammatica giornaliera, con tematiche che proiettano nella mente del lettore immagini feroci ed estreme, attraverso liriche corporali che si trasformano in poesie maniacalmente ansiose.

Nel 1982 venne pubblicato Libro d’amore in cui ritorna il tema del sesso, del voyeurismo cadaverico e della dipartita. Temi che sono affiancati mediante le immagini dei castighi corporali del poeta, che si fondono con la sua gentile e orgogliosa voce che fortemente declama lo spregevole e il divino fino a creare delle vere e proprie scene poetiche teatrali. Anche la giovinezza perduta e consumata è presente in questa raccolta. Una giovinezza che è rimembrata dal poeta come un’età dolce e luminosa, della quale purtroppo rimane ai suoi giorni una folle notte e la dipartita. Temi che sono espressi dal Nostro, attraverso un linguaggio esplicito.

Il 1990 fu l’anno della raccolta Libro di poesia, opera dal perfetto equilibro melodico conquistato grazie all’utilizzo di registri medio-elevati che ben si fondono con le tematiche dell’ardente fuoco passionale, della sconfitta sociale, dell’emarginazione etico-spirituale, della falsità umana e del rimorso della gioventù perduta. Anche in questa raccolta ritorna il tema dell’erotismo, non più visto come qualcosa di perverso, ma come qualcosa di puro, aulico, dolce. Una scrittura, questa, che può definirsi come una scrittura corporale e che evidenzierà gli aspetti più trasgressivi e barocchi della sua vita autolesionista.

Nel 1996 venne data alle stampe la raccolta Proclama sul fascino che può essere vita come l’opera della maturità del poeta romano, poiché le poesie presenti in questa raccolta sono colme di consapevolezza e sapienza, essendo il frutto della probità poetica e dell’ansia morale vissute in prima persona. Liriche che trattano temi intimi e privati del Bellezza come per esempio lo strazio esistenziale, la vitalità, la puerilità e la consumata fanciullezza, infine la dipartita, che dalla prima alla sua ultima raccolta è sempre presente. 

STEFANO BARDI

Bibliografia di Riferimento:

Della Bella, Sacro e diverso. Percorsi genettiani nell’opera di Dario Bellezza, Bologna, Il Lavoro Editoriale, 1990.

Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1992, 2 vol., Tomo II.

Niglio, Dario Bellezza, Roma, Altrimedia Edizioni, 1999.

Lorenzini, La poesia italiana del Novecento, Bologna, Il Mulino, 1999.

Asor Rosa, Letteratura italiana del Novecento. Bilancio di un secolo, Torino, Einaudi, 2000.

Lorenzini, Poesia italiana del Novecento, Roma, Carocci, 2002, 2 vol., Tomo II – Dal secondo dopoguerra a oggi.

Cucchi – S. Giovanardi, Poeti Italiani del Secondo Novecento, Milano, Mondadori, 2002, 2 vol., Tomo II.

Raffaeli – F. Scarabicchi, Dario Bellezza: album, Ancona, Centro Studi Franco Scataglini, 2002.

 

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“Ingólf Arnarson” di Emanuele Marcuccio. Note e approfondimenti critici di L. Spurio, L. Bonanni e N. Pardini

A continuazione, dietro proposta e col consenso dell’autore del dramma epico Ingólf Arnarson (Le Mezzelane, 2018), il poeta Emanuele Marcuccio, si dà pubblicazione ad alcuni interventi critici sulla sua opera, rispettivamente i testi presenti nel volume a corredo e ampliamento circa lo studio dell’opera: la prefazione del sottoscritto e la postfazione a cura di Lucia Bonanni. A chiusura si pubblica anche una breve nota d’apprezzamento da parte del poeta e critico letterario prof. Nazario Pardini.

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PREFAZIONE – a cura di Lorenzo Spurio

Conosco Emanuele Marcuccio da almeno quattro o cinque anni e nel tempo abbiamo organizzato o collaborato a una serie di attività letterarie. Ho avuto il piacere e l’onore di leggere le sue opere e di dedicarmi alla scrittura critica di recensioni e saggi sulla sua produzione.[1] Il più recente in ordine di tempo è uno studio sui tre volumi di un progetto antologico innovativo di dittici poetici che ha calamitato l’attenzione di un gran numero di intellettuali e la partecipazione di poeti da ogni parte d’Italia.[2]

Tempo fa – per l’esattezza nel 2011 – Marcuccio mi inviò la prima parte di un dramma epico ambientato in Islanda. Conoscendo la sua propensione per una poetica di impronta prettamente classica (con vivi richiami a Leopardi, Pascoli e Carducci) che poi negli anni avrebbe evoluto in un minimalismo asciutto (si veda la silloge Anima di Poesia del 2014), mi stupii non poco dell’opera che aveva prodotto. Andai a casa sua nel 2013, a Palermo, e non mancò di farmi leggere altri pezzi che nel frattempo aveva scritto portando avanti il suo lavoro. Un’opera maestosa, di tutto riguardo.

Già nel 2011, sebbene l’opera non fosse ancora completa, Emanuele Marcuccio mi aveva chiesto di dedicarmi a una nota critica che servisse come prefazione alla sua opera e, data l’amicizia e la stima che nutro per lui, non potei di certo rifiutare. Lessi così con grande attenzione la sua opera. Subito mi tornò in mente il poema epico anglosassone Beowulf (per altro oggetto della mia prima tesi di laurea) ma anche le saghe nordiche, i carmi norreni e, comunque, tutte quelle narrazioni o gesta di matrice epico-cavalleresca tipiche della tradizione germanica pagana.

Già allora scrissi qualcosa sulla sua opera, perché mi sentii particolarmente attratto da quel tipo di versi, sulle reminiscenze di conoscenze maturate nel campo, appunto, della tradizione germanica in letteratura.

Oggi mi sono ritrovato a rileggere l’opera con vivo entusiasmo e curiosità.

Non solo ho potuto completare la lettura delle vicende che hanno tanto impegnato Emanuele, ma ho ritrovato una serie di dettagli fondamentali ai quali precedentemente non avevo dato gran peso. Questo per sottolineare quanto la cesellatura dei versi liberi operata dall’autore, lo studio attento dei caratteri, la descrizione circostanziata e puntuale delle scene, l’esatta orchestrazione degli avvenimenti siano ingredienti tutti concatenati tra loro che dimostrano in maniera assai stupefacente il grande lavoro prodotto da Emanuele. Non solo fine poeta, ma anche studioso della forma, ricercatore del bello, costruttore di una trama frastagliata e avvincente, creatore di un’epopea cavalleresca anacronistica alla nostra letteratura kitsch e improntata al consumo. Marcuccio, sulla spinta di una suggestione profonda verso l’Islanda – terra mai visitata, ma a dir suo vissuta emotivamente tramite apparati storici e documentari – è riuscito a entrare nell’anima di un popolo, a fornircene la trama, a vivificare un periodo storico molto distante dalla nostra contemporaneità. Lo ha fatto senza alcun intento prettamente storico-educativo. Marcuccio si è semplicemente servito di alcuni elementi codificati dalla storia (l’esistenza dell’eroe epico e la sua tradizione, l’avvenimento della cristianizzazione dell’Islanda) per creare una cornice plausibile e congrua nella quale dar compimento alle gesta dei propri personaggi.

Nell’autore c’era anche la volontà di poter ascrivere il suo lavoro a un dato filone o categoria letteraria a partire dalle forme e dalle strutture che lo caratterizzassero. Se inizialmente l’autore definì l’opera poema drammatico, con una maggiore riflessione, e portando esempi concreti di questo genere di opera con le necessarie divergenze dal suo manoscritto, ha pensato che forse la definizione più consona e pregnante – sebbene abbastanza verbosa – fosse quella di dramma epico in versi liberi. L’intenzione era stata quella di privilegiare nella catalogazione in un genere non solo il contenuto (l’epica) ma anche la forma (quella teatrale, appunto, di un dramma). Il problema della definizione in un genere, comunque, è ben poca cosa, dato che sappiamo quanto sia difficile e spesso limitativo ingabbiare un’opera in un’unica categoria. Procedimento che poteva essere fatto nel passato dove l’intelligentia si contraddistingueva per scuole, tendenze, periodi letterari etc., che oggi non risponde più alla consuetudine soprattutto per il fatto che il testo non è quello che l’autore vuole esprimere con esso, ma rappresenta la polifonia di interpretazioni e letture che può ricevere. In questa camaleontica realtà dove è il lettore attento e arguto a “costruire” assieme all’autore, l’artefice della storia, il significato del libro, va da sé che più letture e analisi esso potrà fornire, più sarà valido, universale e ben recepito. Per questo non è errato dire che l’opera di Marcuccio sia anche l’epopea romanzata dell’Islanda o un carme epico, nonché un dramma sociale, un racconto cavalleresco, un romance, una saga e, ancora, una cronaca.

La materia utilizzata da Marcuccio è in parte storica e in parte fantastica, tanto che potremmo dire leggendaria. Sono presenti riferimenti diretti alla cultura popolare norrena come il personaggio del dramma, Ingólf Arnarson[3], condottiero norvegese che appartiene alla leggenda; descrizioni meticolose dell’ecosistema dell’Islanda, il racconto di scene di guerra. Lo scenario di tutto il dramma è l’Islanda della fine del IX sec. d.C. abitata da popolazioni indigene di stirpe germanica, di credenza pagana e prossime alla conversione al cristianesimo, alle quali Marcuccio contrappone i normanni (o vichinghi) ossia gli uomini del nord, i norvegesi che furono grandi colonizzatori del nord Europa, di fede pagana. L’autore inserisce nell’opera anche importanti riferimenti alla colonizzazione e alla conversione dell’Islanda. La studiosa Maria Vittoria Molinari, per spiegare l’affluenza delle rotte dei vichinghi verso l’Islanda, ha osservato: “Quando il re norvegese Haraldr Hárfágr (875 – 945 ca.) cercò di unificare sotto la sua sovranità tutta la Norvegia e di organizzare uno stato autoritario di tipo feudale, sul modello dei regni dell’Europa centro-meridionale, molti norvegesi non accettarono questo sovvertimento e preferirono emigrare in Islanda dove trasferirono le antiche istituzioni e abitudini di vita”[4]. Così, numerose navi presero la rotta dell’Islanda e colonizzarono l’isola. Importante anche l’opera di conversione degli islandesi, popolazione di stirpe germanica da sempre legata a culti di tipo pagano, alla religione cristiana e ai modelli di società di tipo medievale sino ad allora estranei all’area scandinava. La conversione in Islanda si ebbe attorno all’anno 1000 grazie alla decisione dell’assemblea generale, l’Althing. Con la conversione, s’introdusse la lingua latina che, oltre a essere impiegata nei testi liturgici, divenne lingua letteraria. L’opera di Marcuccio non ha nessuna pretesa di carattere storico, archeologico né documentaristico, ma si serve della storia in maniera personale per creare una trama che è e resta fantastica.

La storia che Marcuccio narra è una storia di combattimenti, vendette, condanne a morte. Le spade vengono sguainate molte volte: sia per giurare che per incitare alla lotta. E cosi Sigurdh (che non ha niente a che vedere con Sigurdhr o Sigfrido, eroe della Saga dei Nibelunghi e della Saga dei Volsunghi) anima i vari servitori di Ingólf e riesce a coalizzarli. Assieme sono motivati dalla volontà di privare Ingólf, loro signore, del suo ingente tesoro. Assistiamo cosi a un clamoroso ammutinamento contro il padrone, singolare in un’opera di questo tipo, ma quanto mai avvincente per lo svolgimento della storia.

Il tema del tesoro, si sa, e un topos molto presente nella letteratura epica: si pensi al tesoro sorvegliato dal drago sputa-fiamme nella seconda parte del Beowulf, o al tesoro dei Nibelunghi o, ancora, al tesoro che nell’epica tedesca e custodito da Fáfnir[5]. Nel corso della storia, però, si presentano alcuni imprevisti: Hákon, servitore di Ingólf, consapevole della gravita delle idee di Sigurdh, non tarda a informare il suo padrone. Assistiamo a una prima lotta tra i seguaci di Sigurdh e quelli di Ingólf. Tutto avviene su quella che l’anonimo compositore del Beowulf avrebbe definito “il legno del mare”, ossia su una barca, diretta verso l’Islanda. Raggiunta l’isola di Thule, però, le cose non vanno come Ingólf aveva previsto e seguiranno una serie di peripezie: Sigurdh si innamorerà di una donna indigena promessa però in sposa a uno del posto e Ingólf farà di tutto per ostacolarlo. La vicenda si chiude con un ultimo duello e, come nella migliore tradizione della chanson de geste, il lieto fine è garantito.

Il dramma di Marcuccio tratta con originalità e chiarezza di linguaggio molti topos dell’epica germanica: i riferimenti ai combattimenti, al cozzar di spade, all’importanza della fama e della gloria[6]; l’impiego di prove per testare la valorosità dell’eroe[7]; la credenza e l’invocazione del fato, spesso personificato, il tema del tesoro e il motivo del viaggio in terra straniera. Essendomi occupato di fatalismo germanico[8], devo riconoscere che nell’opera di Marcuccio il destino non è un semplice concetto, un’idea, ma viene caricato di un significato proprio facendo di esso quasi un personaggio. Fato, destino, sorte, fortuna sono concetti che derivano dall’antico inglese wyrd, spesso personificato dalle Norne, che si riferisce a una cultura precristiana, pagana. A tutto ciò Marcuccio aggiunge elementi che rimandano alla conversione dell’Islanda al cristianesimo: la presenza di un monastero e di monaci, l’influenza celtica, la presenza di croci che viene, quindi, a rappresentare una fase successiva di sviluppo politico-sociale-economico della vita dell’Islanda di epoca norrena.

Tuttavia ciò che Marcuccio narra non è solo un racconto epico, è molto di più. È evidente, infatti, la potenza del lirismo, soprattutto in alcuni momenti, come nella scena d’amore tra Sigurdh e Halldóra e, allo stesso tempo, di una certa vicinanza alla cultura popolare con riscontrabili cadenze e dialettismi che rendono particolarmente significativo e vivo il testo, sottolineando quanto sia importante la componente orale nella trasmissione della cultura. L’opera va anche letta, però, come una probabile e ben elaborata cronaca di conversione dal paganesimo al cristianesimo, non forzata, ma fondata, invece, sul libero arbitrio e sulla consapevolezza della validità del nuovo credo.

 

 

NOTE

[1] Lorenzo Spurio, Un infaticabile poeta palermitano d’oggi: Emanuele Marcuccio, Photocity, Pozzuoli, 2013.

[2] Lorenzo Spurio, Risonanze empatiche: l’esperienza del “dittico poetico” di Emanuele Marcuccio in AA.VV., Dipthycha 3. Affinità elettive in poesia, su quel foglio di vetro impazzito…, a cura di Emanuele Marcuccio, PoetiKanten, Sesto Fiorentino, 2016, pp. 137-146.

[3] Ingólf Arnarson (moderno “Ingólfur”) è considerato il primo colonizzatore a stabilirsi in Islanda secondo quanto riporta il Landnámabók.

[4] Maria Vittoria Molinari, La filologia germanica, Zanichelli, Bologna, 1987, p. 154.

[5] Fáfnir è un personaggio importante della mitologia norrena, solitamente raffigurato come drago, ma a volte come un serpente. Le sue vicende sono narrate nella Saga dei Volsunghi dove il drago è custode di un vasto tesoro e viene sconfitto da Sigfrido per mezzo della gloriosa spada Gram. L’eroe mangia il cuore del drago ottenendo la sapienza delle lingue degli animali e poi s’immerge nel suo sangue ottenendo l’invulnerabilità su tutto il corpo tranne in un punto della spalla dove, durante l’immersione, gli si è posata una foglia.

[6] Nel Beowulf e negli altri poemi epici citati la fama dell’eroe è un aspetto estremamente importante che viene richiamato molto spesso. L’idea è che il coraggio, la fama e il valore sono ancor più importanti della morte e, a differenza del corpo dell’eroe, la fama non muore quando lui perisce. Nella Hávamal, composizione di carmi eddici in poesia, a un certo punto viene infatti detto: «Muoiono le mandrie, muoiono i parenti, morirai tu stesso allo stesso modo. Ma la fama non muore per chi se ne è fatta una buona» (in Hávamál, in L’Edda-Carmi Norreni, Introduzione, Traduzione e Commento di Carlo Alberto Mastrelli, Prefazione di Raffaele Pettazzoni, Sansoni, Firenze, 1951, vv. 305-08, pag. 21). Nei primi versi del dramma di Marcuccio, Sigurdh incita Ari a unirsi a lui nell’impresa di sottrarre il tesoro a Ingólf e dice: «Pensa alla gloria, alla fama/ che avremo, partecipa con noi» (vv. 161-162, atto I, sc. I).

[7] Nella Saga dei Nibelunghi viene raccontato che Gunther, fratello di Crimilde, s’innamora di Brunilde, regina d’Islanda e che per poterla sposare deve superare tre prove alle quali viene sottoposto. Per mezzo del cappuccio magico Sigfrido aiuta l’amico a superare le prove con l’inganno e cosi Gunther riesce a sposare Brunilde. Le prove, le gare, intese come prova di coraggio e di resistenza, sono spesso impiegate nell’epica come attestazione del valore dell’eroe.

[8] Lorenzo Spurio, Il concetto di “wyrd” nel poema Beowulf, Universita di Urbino “Carlo Bo”, Facolta di Lingue e Letterature Straniere, Tesi di Laurea, Relatore: Alessandra Molinari, Correlatore: Michael Dallapiazza, a.a. 2007/2008.

 

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POSTFAZIONE – a cura di Lucia Bonanni

Un’introduzione[1] alla drammaturgia dell’Ingólf Arnarson

La linea metodologica, seguita da Fancesco De Sanctis (1817 – 1883) nella propria attività critica, è il concetto di “forma”.

Essa non è intesa come idea astratta, bensì come identità ed essenza dell’opera d’arte. Nel momento in cui l’intuizione lirica investe il poeta, egli ha dinanzi a sé il gene della fantasia creatrice, che in poesia diviene epifania di vita immortale. È in questa fase che nella mente del poeta “nasce un mondo ideale, riconciliato e concorde, ove si acquietano le dissonanze del reale e i dolori della terra”[2].

Ma cosa si deve intendere per espressione drammatica? Con tale accezione lessicale si esprime la passionale attitudine a vedere lo sviluppo delle vicende nei loro urti, nei loro dissidi “e la poesia non è poesia di quelle dissonanze, ma poesia del dolore che quelle dissonanze seminano intorno a sé”[3] mentre l’ispirazione si genera nella pietà per la sfinitezza di chi è vittima delle passioni. Come ben sappiamo, la natura umana è soggetta alla crescita e al cambiamento e nel proprio sviluppo attraversa fasi e conflitti, e i suoi cambiamenti seguono le medesime leggi che regolano l’intero universo. Secondo Lajos Egri (1888 – 1967), scrittore, regista teatrale e didatta di grande fama, in letteratura è il conflitto a rivelare la natura interiore del personaggio, trovando inizio in una decisione che si mostra come logica conseguenza della premessa. La decisione presa dal personaggio principale porta alla decisione del suo antagonista e tali decisioni conducono verso la dimostrazione della premessa.

“Nell’intera drammaturgia moderna forse non esiste un personaggio che “si evolva” in modo più sorprendente della Nora di Ibsen”[4].

Nell’opera letteraria ogni personaggio oscilla tra diversi stati d’animo ed è costretto a modificare il proprio modo di vivere, ad evolversi, a catapultarsi nella maturità e nella ribellione; questo perché i veri personaggi sono delegati a dimostrare la premessa del drammaturgo. Nessun tipo d’azione è il risultato del binomio causa ed effetto in quanto nell’azione in circolarità temporale sono racchiusi movimento ed energia.

Sempre secondo Egri il conflitto può essere suddiviso in quattro categorie: “statico”, “discontinuo”, “crescente”, “adombrato” e si può far risalire sia all’ambiente che alle reali condizioni socio-culturali del soggetto. Allorché l’individuo ha forza interiore per passare all’azione, allora è anche in grado di prendere una decisione. La conseguenza che ne deriva è la pratica del contrattacco che darà il via ad una lunga teoria di eventi. Attraverso le transizioni, o conflitti minori, il personaggio costruisce la propria emancipazione in modo lento, ma sempre costante. E dato che il conflitto diviene inevitabile, quando due opposti si incontrano e si fronteggiano, le caratteristiche principali che costituiscono l’humus comportamentale sono da ricercarsi in: affetto, rozzezza, arroganza, avarizia, precisione, astuzia, abilità, destrezza, onestà, lealtà, misticismo, calma, moralismo, sottomissione, sarcasmo, ferocia, riservatezza, tradimento, vendetta, sensibilità.

Con la locuzione “personaggio cardine” Egri intende il protagonista che è “la persona alla guida di un movimento o di una causa”[5] per cui l’antagonista o avversario è chi si oppone al protagonista. Il personaggio cardine, però, non è soltanto il protagonista, ma è anche il soggetto che dà origine al conflitto e favorisce lo sviluppo del dramma. “Un personaggio cardine è una forza-guida, ma non perché abbia deciso di esserlo. Egli diventa ciò che è per il semplice motivo che qualche forza interiore o esteriore lo costringe ad agire”[6]. Il motore di tale agire è sempre l’onore, il denaro, la vendetta, la salute, la protezione, la passione per cui sia i personaggi “positivi” che quelli “negativi” provocano un tipo di reazione che determina la responsabilità del conflitto e la conseguente necessità della transizione. Come già enunciato, l’antagonista è colui che si oppone al protagonista, lo frena, lo ostacola e cerca di esercitare dominio e razionalità contro la forza e l’astuzia usate dal protagonista. Di primaria importanza nella stesura di un dramma è la corretta orchestrazione dei personaggi in quanto essa è uno dei fattori che genera il conflitto crescente. Pertanto è necessario che i personaggi non siano dello stesso tipo altrimenti “sarà come avere un’orchestra composta solo di tamburi”[7]. Quindi è necessario che l’orchestrazione sia determinata da personaggi opposti e ben delineati, in grado di passare da un estremo all’altro mediante il conflitto e non scendere a compromessi. Le forze che il drammaturgo schiera in campo, possono essere individuali o di gruppo, ma il movimento deve sempre creare dei contrasti nella dinamica del dramma. Inoltre dalla vera unità degli opposti non scaturisce la possibilità di un compromesso in quanto gli opposti sono legati in maniera da annullarsi a vicenda per poter sopravvivere. Infatti “[l]’unità tra gli opposti dev’essere così forte da far sì che si possa arrivare a una risoluzione solo se uno o entrambi gli avversari sono esausti, sconfitti o completamente annientati”[8].

Ritornando alla premessa, parte che racchiude personaggio, conflitto e risoluzione, bisogna dire che per scrivere un’opera letteraria è sempre necessario un “obiettivo” a cui attenersi e che può essere anche detto: tema, idea centrale, tesi, soggetto, piano, intreccio mentre la premessa si configura come “un’affermazione postulata o provata precedentemente; la base di una discussione. Un’affermazione enunciata o assunta, in quanto in grado di condurre a una conclusione”[9]. In un dramma dalla struttura ben organizzata occorre che il limite tra la fine della premessa e l’inizio della storia debba essere sottile e mai svelato in modo da catturare la curiosità e l’attenzione dei lettori/spettatori. “«[N]essuna parte è più importante del tutto!»”[10] gridò Rodin agli studenti atterriti, quando con un netto e preciso colpo di scure tagliò le mani della statua di Balzac che aveva appena terminato. Da questo aneddoto si evince che nessuna parte di un’opera d’arte vive di vita propria, ma tutto vive in costruzione armonica. C’è da aggiungere che per uno sviluppo corretto del dramma è necessario avere ben chiaro in cosa consiste la tridimensionalità di ciascun personaggio: fisiologia, sociologia, psicologia e cioè aspetto fisico, ambiente, ereditarietà e persona. Quindi per meglio comprendere le leggi che governano le manifestazioni comportamentali di ciascun individuo, si rende necessario porre la giusta attenzione alle motivazioni profonde che lo inducono ad agire e che il drammaturgo deve saper prendere in esame per poter comporre quella che è la struttura di base di ciascun personaggio tridimensionale.

Secondo gli antichi Greci la dialettica, conversazione o dialogo, era scandita in tre passaggi principali: tesi, antitesi, sintesi, che ancora determinano la universalità delle leggi su cui si basa la dialettica. Come scrive Hegel, “[u]na cosa si muove, acquista impulso e attività solo perché contiene in sé una contraddizione. È questo il processo del movimento e dello sviluppo”[11].

Ma in un’opera teatrale quando è il momento giusto per alzare il sipario? A quale scena affidare il punto d’attacco?

«[I]n ogni opera che si possa definire dramma, il sipario si alza quando almeno uno dei personaggi ha raggiunto un punto di svolta nella propria vita»[12].

Quello che delinea Marcuccio nel suo dramma in versi, è un valido e imponente punto d’attacco che fin dall’inizio lascia intendere che la tensione sviluppata dai personaggi è in grado di adombrare il conflitto, dato che la posta in gioco che si annuncia è un qualcosa di non confutabile, vero e vitale. Egri afferma che “[i]l dialogo deve far luce sui personaggi. Ogni discorso dovrebbe essere il prodotto delle tre dimensioni di chi lo pronuncia e dovrebbe rivelarci chi è, suggerendo come diventerà”[13].

I personaggi scelti e descritti da Marcuccio, sono orchestrati nel loro profilo tridimensionale, commisurati al movimento e forti nell’agire, calati nella categoria di appartenenza e capaci di evolversi fino alla giusta conclusione; il protagonista possiede la medesima forza dell’antagonista e le varie personalità in conflitto giungono sempre allo scontro. Nel dramma del Nostro è Sigurdh il personaggio cardine da cui dipende tutta la vicenda, è lui che si oppone a Ingólf e, se non ci sarebbe stata la figura del nostromo, non sarebbe neppure esistito lo sviluppo del dramma. Come scrive nell’indice dei nomi, l’autore immagina Ingólf come “un uomo maturo, sulla quarantina, [v]ersato nelle lettere, sa leggere e scrivere”, descrive Sigurdh come un “giovane guerriero normanno e marinaio, di appena trent’anni”. Ed è sempre il dialogo ad incidere sulla dimostrazione della premessa perché, nascendo dalle parole dei personaggi, ne mostra il sentire, l’estrazione sociale, la religiosità e i cambiamenti necessari anche in funzione del conflitto. Pertanto i dialoghi stilati dal Nostro sono sempre “di buona qualità, perché [essi sono] la parte del dramma più accessibile al pubblico”[14]. Nella genesi del dramma l’esposizione, anche con l’uso della voce fuori scena, non è elemento avulso dall’intera impalcatura drammatica, ma è parte del tutto, una progressione costante, ininterrotta e continua fino alla conclusione del dramma.

Veleggia sul vasto mare/ il gran drakàr,/ frange i flutti,/ a prua si apre una via;/ tranquillo avanza verso Thule” (vv. 1-5, prologo).

È il monologo della voce fuori scena ad introdurre il lettore/spettatore verso l’inizio dell’azione scenica e, volendo risalire ai classici greci e latini, si può affermare che la voce fuori scena, presente in più scene del dramma, possa essere identificata con l’autore. Nel Prologo, rivolgendosi ai lettori/spettatori esordisce per svelare l’antefatto, o prequel, ed anticipare il seguito, o sequel, corrispondente all’ordine logico e cronologico del contenuto dell’opera letteraria. Giusto come succedeva nelle arti visive in cui l’artista amava celarsi in uno dei personaggi da lui creati.

Per il ponte passeggia un uomo/ […]/ un turbamento strano lo assale” (vv. 12, 15).

Bastano già i primi cinque versi e questi ultimi due a far vibrare le corde dell’interiorità per quel contrapporsi tra la quieta armonia regnante nell’ambiente naturale e le collisioni che amareggiano l’uomo dalla “attempata e giovanile età”. Ma il caso, come ben si sa, è sempre in agguato, sparge intorno “aria maligna”, porta tormento e “repentina agitazione”, perseguita e non fa andare avanti.

Verrà un giorno, sì verrà:/ alla gran materia preziosa/ mi avvicinerò” (vv. 36-38, I, sc. I), “[r]insavisci, disperdi/ l’impresa funesta” (vv. 152-153).

Già si delinea il conflitto, il contrasto, l’alterco, la lotta che il nostromo è pronto ad ingaggiare col colonizzatore per il possesso di un forziere traboccante d’oro e gemme preziose, “un groviglio rovinoso e inestricabile” che tormenta e percuote la mente per brama di potere.

Pazzo! cosa pensavi di fare?/ Impadronirti del mio oro, /tu, nel tuo agire/ sempre dubbioso e incerto,/ gettarti in un’impresa!” (vv. 513-517, I, sc. IV)

Come appare evidente, le pupille annebbiate dall’ira portano Ingólf a sottovalutare la destrezza di Sigurdh, a non presagire cosa potrà scaturire dalla sua ribellione. Il nostromo, incatenato e controllato a vista dalle guardie, siede al centro di una sala abbellita da un tappeto con figure della mitologia norrena ed un arazzo di pregevole fattura. Il colonizzatore, ormai padrone della scena, lo insulta, lo minaccia, gli prospetta strazio e torture, gli dice che lo impiccherà alla forca più alta non prima di avergli mozzato la testa di netto. A Sigurdh non è dato di reagire col vigore fisico, ma l’odio e la rabbia nel suo animo sono focolaio di rivolta, i suoi occhi simili a braci roventi, sembrano sprizzare scintille mentre le sue parole lanciano fiele al cospetto del suo antagonista.

Bestia vile, cane maledetto!/ […]/ malnato empio assassino!” (vv. 557, 563)

Da questo momento non esisterà tregua tra i due uomini che saranno avvolti da luce e tenebre, libertà e morte. Incatenato e rinchiuso tra le botti della squallida stiva, nel ricordo pungente Sigurdh rammenta il gesto eroico del proprio padre che per salvarlo dal barbaro vichingo, quando era ancora bambino, gli fece scudo col proprio corpo. Fisiologia, sociologia, e psicologia denotano chi sono i due protagonisti e lasciano presagire cosa e come diventeranno.

Nella scena prima del secondo atto, che si apre dopo l’approdo alla terra del ghiaccio, il personaggio che attua la transizione, è Halldóra, la giovane figlia di Ragnar, capovillaggio di indigeni islandesi. La ragazza, nascosta tra i cespugli, è attratta dalla bellezza del volto di Sigurdh che è subito rapito dal suo candore e mentre “[…] si rincorrono con gli sguardi” (v. 114, II, sc. I), la vasta amenità del paesaggio fa da sfondo al nascente idillio amoroso. Halldóra, oltre che rappresentare annuncio di transizione evolutiva per Sigurdh, e, se vogliamo, anche per lo stesso Ingólf, è anche personaggio cardine nel momento in cui per amore del guerriero normanno si ribella al padre che la vuole sposa di Steinar, giovane guerriero del loro villaggio. E si rivela personaggio cardine anche quando si risolve ad appiccare il fuoco alla casa dove è stata rinchiusa da Björn, capovillaggio e nemico dichiarato di Ragnar, dopo averla rapita con l’aiuto del fedele Vigfús al comando di Ingólf e di un manipolo di uomini assai rozzi e scellerati. Riservatezza, sensibilità, affetto, onestà, e misticismo sono elementi fondanti del carattere della giovane, caratteristiche peculiari che le conferiscono fermezza nel perseguire i propri ideali di donna. È Halldóra ad innescare, se pure un conflitto minore, le ostilità tra sé stessa e il promesso sposo e di conseguenza tra Sigurdh e Steinar.

Però nel fitto della boscaglia, ben consapevole del pericolo, Sigurdh, animato da forte senso di lealtà, salva la vita al suo rivale in amore. L’uomo è stato attaccato da un orso rabbioso ed è ferito alla spalla sinistra e Sigurdh, sorreggendolo, lo conduce al villaggio. “Sei salvo…/ non si ha fortuna/ a insultar/ così la natura” (vv. 127-130, IV, sc. III), “[a]mico… ti ringrazio,/ hai salvato i miei giorni” (vv. 135-136), “[m]a sei ferito… vieni, appoggiati” (v. 142).

E sarà ancora il nostromo a non voler abbandonare Steinar una volta giunti in soccorso della giovane indigena. Quello che si genera tra i due contendenti, è un conflitto statico, mitigato da sentimenti positivi quali altruismo e lealtà che avvalorano e confermano la premessa, la quale possiamo affermare che sia sintetizzata dalla frase: “L’aspra lotta dell’amore per vincere l’odio”.

Aspro e impietoso è il duello a cui giungono Sigurdh e Ingólf, lotta presto interrotta dal colpo a tradimento assestato dal nocchiero, preoccupato per l’incolumità della sua amata. Per il colonizzatore è l’inizio di un lungo e tormentato, ma risolutivo, periodo di transizione; evento annunciato dal suono pacato di una Voce e da un prorompente fascio di luce che lo porteranno ad un radicale cambiamento interiore.

Perdonami, se puoi…/ perdonatemi…/ mio Dio…” (vv 74-76, V, sc. unica)

Ingólf, ormai monaco, spira nel cortile del monastero, trafitto dalla furia di Sigurdh. L’acredine del conflitto, adombrato e crescente, non somma l’odio e muta la vendetta in profonda pietà. Determinante è il cambiamento interiore che sorprende anche Sigurdh, caduto in ginocchio davanti a quell’emblema di fede e redenzione che ancora non conosce. La calma, il moralismo e la paziente sottomissione del monaco si rivelano agenti sublimanti per l’ira incontrollata di Sigurdh; è la forza-guida del suo avversario ad attuare il dissolvimento delle negatività che incrostano l’animo del nocchiero. Il percorso evolutivo dei due antagonisti vira verso la maturità, passando da un estremo all’altro senza scendere a compromessi, se non con la loro interiorità e la forza necessaria per dare seguito a pensiero e azione. Il ragionare di Halldóra abbracciata a Sigurdh, annuncia la fine di Steinar e quella di Björn, e dichiara il consenso di Ragnar alle nozze.

I personaggi orchestrati dal Nostro, agiscono secondo la necessaria tridimensionalità, sono ben collegati all’ambiente naturale ed al contesto sociale e confluiscono in quella che è detta da Egri “scena obbligatoria”. Nel dramma di Marcuccio tale scena è da rintracciare nella voce fuori scena del quinto atto mentre la struttura drammatica si sviluppa in maniera costante fino a raggiungere il proprio culmine senza, però, togliere intensità alle altre scene dei precedenti atti, interessando al significato intrinseco del dramma.

D’un tratto/ un varco di cielo/ scolora/ il giorno,/ e si colora di rosso,/ e scie di nuvole/ luminose/ scendono/ come sangue/ sulla terra…” (vv. 99-108)

Da notare che il nostro intento nel redigere questa introduzione alla drammaturgia dell’Ingólf Arnarson di Marcuccio, non è dimostrare l’applicazione delle tecniche che il Nostro ha letto nel citato libro di drammaturgia di Egri. Più che una applicazione, per l’autore è stata una conferma di quello che aveva già applicato, in quanto la sua lettura del testo di Egri risale all’anno 2012. A quell’epoca, come ha dichiarato l’autore, i giochi erano fatti, la trama c’era tutta, fino alla fine (mancava soltanto quel prodigio finale nel cielo, che farà cadere tutti in ginocchio) e c’era solo da aggiustare l’aspetto formale dei versi e completare il quinto atto. Possiamo immaginare invece che Marcuccio sia stato istruito alla drammaturgia attraverso la lettura dei classici del teatro, consacrandosi con la scrittura dell’Ingólf Arnarson anche abile drammaturgo.

 

NOTE:

[1] Il presente testo, inserito come postfazione al dramma epico di Emanuele Marcuccio, costituisce il penultimo capitolo del saggio monografico inedito di mia stesura sullo stesso dramma, che sarà pubblicato prossimamente.

[2] Mario Olivieri, La letteratura italiana nelle pagine della critica, cit. da Francesco De Sanctis, Saggi critici, Paravia, 1967, p. 642.

[3] Ivi, cit. da Mario Sansone, L’opera poetica di Alessandro Manzoni,  p. 651.

[4] Lajos Egri, L’arte della scrittura drammaturgica, trad. Olimpia Medici e Roberto Gagnor, cit. da Archer, Dino Audino, 2010, p. 51.

[5] Lajos Egri, Op. cit., cit., p. 79.

[6] Ivi, p. 80.

[7] Ivi, p. 83.

[8] Ivi, p. 88.

[9] Ivi, cit., p. 14.

[10] Ivi, p. 31.

[11] Ivi, cit., p. 45.

[12] Ivi, p. 129.

[13] Ivi, p. 167.

[14] Lajos Egri, Op. cit., cit. p. 166.

 

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Nota di lettura – a cura di Nazario Pardini

Già abbiamo letto, introdotto o commentato opere e sillogi di Emanuele Marcuccio, mettendone in evidenza la sana scrittura, la puntualità lessicale, la inventività creativa, e la documentazione culturale. In questa nuova avventura letteraria il Nostro si confronta con il genere drammatico: un dramma in poesia. Storia, epicità, fluidità del dettato lirico, habitus, confluenza del pathos dell’autore nella costruzione della psiche e dell’azione dei personaggi. Una vera metamorfosi cristallina che la dice lunga sulle capacità analitico-introspettive dello scrittore. Il panorama islandese, ambientazione della vicenda, ci mette del suo, tramite quadri misteriosi e sfumature di verdi brumosi, nel concretizzare l’azione e l’autonomia dei protagonisti in questione. Un’opera che invita a riflettere sull’uomo, sulle sue debolezze, la sua storia; un messaggio di vita e di libertà che scaturisce da una versificazione sciolta, suadente e convincente, dove la trama si dipana in un climax di forza e visività. Gli stessi cori del dramma, di ispirazione greca, rinunciano in gran parte alla loro storica aulicità per acquisire un linguaggio volutamente semplice, popolare, attuale a vantaggio dell’economia estetica ed etica dell’opera. Ingólf Arnarson. Dramma epico in versi liberi, il titolo della tragedia che si sviluppa su un tracciato di un Prologo e cinque atti.

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