Ricordo di Novella Torregiani, la poetessa portorecanatese il cui premio in memoria è giunto alla quarta edizione

Articolo di Lorenzo Spurio ed Emanuela Antonini

Sabato 16 maggio 2020 avremmo dovuto tenere, nella cornice della Pinacoteca Civica “A. Moroni” di Porto Recanati (MC) la premiazione del IV Premio Nazionale “Novella Torregiani”, il cui verbale, con i nomi di tutti i premiati, è stato pubblicato lo scorso 10 aprile. Il Premio, autorizzato dalla famiglia della poetessa marchigiana, è stato ideato ed è presieduto dalla biologa e poetessa Emanuela Antonini ed è organizzato dall’Associazione Culturale Euterpe di Jesi presieduta dal poeta e critico letterario Lorenzo Spurio. Esso è nato con l’intento di far emergere le potenzialità creative degli artisti e segnarle all’attenzione della comunità in ambito culturale, a ricordo della poliedrica poetessa nel rappresentare l’umanità nelle molteplici espressioni artistiche. Nel corso degli anni ha visto, tra i numerosi premi conferiti, la consegna di Premi Speciali “Alla Carriera” a insigni artisti del panorama nazionale e non solo: il prof. Armando Ginesi (ex docente e critico d’arte), la poetessa e scrittrice Loretta Emiri (indigenista e antropologa), il pittore e artista visivo Ottorino Pierleoni e, quest’anno, il senigalliese Riccardo Gambelli (fotografo).

La Commissioni di Giuria di quest’anno erano presiedute da Loretta Marcon (sezioni letterarie); Silvia Cuppini (pittura) e Lorenzo Cicconi Massi (fotografia) con il poeta e scrittore Sergio Camellini quale Presidente Onorario del Premio.

downloadNovella Torregiani (1935-2015)[3] è stata un’insegnante elementare; durante la sua vita si è dedicata a coltivare l’arte sotto vari aspetti: poesia, fotografia e musica. Per la poesia pubblicò Così per caso (1991), Oltre orizzonti (2009); in dialetto portulano Èccheme cchi (1998), Magm’artis (2006) e Stelle de maru (2012). Tra gli altri libri, anche Filastrocche dell’arcobaleno (2006) e Novellina e la guerra (2013). È presente in numerose antologie marchigiane e nazionali tra cui Censimento di poeti e scrittori contemporanei (1990). Per vari anni ha presieduto l’Associazione “Coro a più voci” di Porto Recanati con la quale ha organizzato recital di poesia, concorsi letterari e presentazioni di libri. È stata membro di giuria nei premi letterari “Città di Porto Recanati” e “Poesia Estate”. […] Nel 2015 la commissione di giuria del IV Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi” le ha assegnato il Premio alla Memoria.Nell’impossibilità dettata dall’emergenza relativa al Covid-19, che non ci consente di celebrare la cerimonia di premiazione e di poterci felicitare con i vari premiati delle diverse sezioni oltre a ricordare Novella, percorrendone il suo importante percorso letterario e artistico, ci è sembrata una buona cosa dedicare un articolo per evitare che il premio non rimanga sotto tono e per rimarcare, ancor più, l’importanza della creazione artistica e della produzione letteraria in questo momento di seria crisi e di ansia generalizzata .

Ci è sembrata buona cosa contattare alcune delle persone, tra poeti e artisti, che conobbero Novella e ne apprezzarono il suo talento, le doti umani e solidali, al punto tale da spingere tante persone a esternare i propri sentimenti, a riunirsi attorno a reading, mostre e tante altre attività da lei egregiamente condotte e realizzate con ampio successo di pubblico, interesse della stampa e soddisfazione generale. Riportiamo, dunque, di seguito, le testimonianze di alcuni poeti che sono utili a tracciare ancor meglio il profilo di Novella Torregiani: i ricordi di Daniela Gregorini (poetessa in lingua e in dialetto residente nella frazione di Ponte Sasso di Fano), Evaristo Seghetta Andreoli (poeta residente a Montegabbione, nel Ternano), Annamaria Ragni (poetessa e pittrice osimana), Angela Catolfi (poetessa in lingua e in dialetto originaria di Treia, nel Maceratese) e Onorina Lorenzetti (poetessa e fotografa di Recanati).

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“Tu, io e Montale a cena”: la silloge di Gabriella Sica dedicata al poeta romano Valentino Zeichen – recensione di Lorenzo Spurio

Recensione di Lorenzo Spurio

 

“Corre con il fiume scorre

[…] il suo essere si estenderà ancora” (25)

 

Tu io e Montale metà copertinaUn libro agile e intenso in versi, quasi un canzoniere, che rievoca un amico poeta nel momento della sua scomparsa e nei mesi successivi al lutto.

La poetessa Gabriella Sica[1] ha da poco dedicato a Zeichen, “un neoclassico beffardo”[2], un volume di quarantaquattro poesie con due prose in chiusura che muovono interamente da una volontà di commemorazione del poeta amico. Non un pianto né un elogio, che sarebbero forse ben poca cosa nel mare magnum della poesia indifferenziata e tumultuosa d’oggi – soprattutto quella dal contenuto annebbiato da un sentimento di pura malinconia – ma un vero compendio atto a ripercorrerne alcuni tratti della sua esistenza, gli aspetti distintivi del carattere fiero e sicuro, le convenzioni della sua vita underground, la ricchezza dei contenuti del suo dettato lirico.

Scrive il poeta Guido Zavanone, recentemente scomparso, in una delle sue ultime poesie “Piace ai poeti/ divagando fantasticare/ liberi come sono/ da ogni vincolo/ di contenuto o formale”[3] e tale verità può ben desumersi dalla poesia argomentativa e icastica di Valentino Zeichen, una delle voci poetiche più curiose della scena romana degli ultimi decenni, saltato alle cronache per le sue frequentazioni mondane al tempo della giovinezza.

Sono poesie che ci parlano di incontri, di dialoghi, di idee e contenuti esposti da Zeichen nel corso di tante occasioni, spesso di cene con amici, che evidenziano la complessità del poeta, la versatilità dei suoi codici e, sempre, comunque, la sua occhiata critica e avvolgente verso la realtà di fuori con timbri d’ironia e d’invettiva.

La Sica riesce in maniera egregia a presentarci, tramite la sua conoscenza diretta dell’uomo, la stima e l’amicizia intessute e coltivate con Zeichen, uno dei ritratti più completi e meno sfocati di questa figura complessa, criticata, non del tutto compresa e in un percorso di latente dimenticanza contro cui il volume stesso della Sica s’infrange. Ne emerge un dialogo ininterrotto tra due amici sullo sfondo di una Roma vivace e ricca, e di un mondo letterario disgregato.

Il giornalista Camillo Langone de Il Foglio ha titolato un breve articolo con “Vorrei anch’io una poetessa come Gabriella Sica a commemorarmi”[4] e questo è indicativo del fatto di quanto amore, sapienza e desiderio di condividere con gli altri, ci sia nelle pagine della Sica, tra ricordi e circostanze curiose, tra inviti a cena (“La poesia mi ha aiutato a procurarmi pranzi e cene”[5], rivelò Zeichen in un’intervista) e passeggiate per Roma.

Il volume della Sica, Tu io e Montale a cena, apre a un contenuto al contempo privato e pubblico di Zeichen da lei definito “poeta bellicoso/ bell’uomo alto scattante” (21), con un “sarcasmo glaciale” (62), narrandoci com’era, come si comportava, come si relazionava agli altri e all’ambiente: “Scriveva poesie nitide e precise/ […] rovistava con la lima nella storia.// [con] ironia intelligente/ l’abbellimento logico pungente// […] indomito sagace alla Szymborska” (57).  La Sica non risparmia di affrescarcelo anche negli aspetti più spigolosi come quando osserva: “Valentino coriaceo al vetriolo/ stai nella tua area di rigore/ gelida area di esodo corrusco/ di esilio da persone e cose/ […] impertinente/ […] nel tuo veemente duello mentale” (9).

Ci sono tutti gli aspetti chiave della vita di Zeichen: dalle liriche che alludono più spesso al tema dell’esodo, alla figura della madre, all’istituto di correzione dove venne collocato giovanissimo, all’ossessione per gli orologi, e poi la dimensione abitativa da lui scelta (“una casa/ vera lui non la vuole” (18), la nota “baracca del poeta” alla quale la poetessa dedica una lirica dove si può leggere:  “È una leggenda la baracca a Roma/ sta in un vicolo cieco sulla Flaminia/ […] nel centro della città eterna/ è una misera fragile frontiera” (17) ricordando il poeta in uno dei loro incontri: “su una logora sedia di legno/ siede pensoso sul da farsi il poeta/ lì coltiva una coppia di piante/ un fico e una vite americana” (17). Quel “fico generoso” (27) vicino al glicine massacrato a colpi d’ascia dopo la sua morte di cui la Sica parla in una lirica di commiato che chiude il volume: “L’hanno tagliato acidi con l’accetta/ nel giardino del poeta/ dove c’era anche un fico ospitale/ che triste s’è seccato” (87).

E poi la condivisione del cibo e dell’ospitalità della Sica (come di tante altre persone sue amiche, poeti e non) verso Zeichen: “Vorrei più spesso invitarti a cena/ come a te tanto piaceva/ […]/ conversare/ in casa e fuori” (53). C’è il sentimento destabilizzante di paura dinanzi alla recente malattia dell’amico, il timore  che presto possa andarsene ad abitare altri spazi (“prometto lo inviterò di più a cena”, 15, pronuncia come sottovoce, a motivo di un fioretto, di un impegno tra lei e se stessa) fino alla lirica che dà il titolo al volume, “Tu io e Montale a cena” dove la poetessa ipotizza           un’improbabile cena a tre, tra cui il grande poeta genovese (“certo è che noi e il convitato immortale/ incallito scanzonatore/ ci siamo rallegrati oltremodo/ banchettando ilari noi tre insieme/ al secolo nuovo brindando/ come un niente lo snodo al Novecento”, 44) e, ancora, la rievocazione di una cena col padre dell’avanguardia, Pagliarani: “la dolce cena noi tre insieme/ la cambiamo questa morte in vita/ […] tu io e Pagliarani come un tempo” (49).

Nel breve periodo di malattia di Zeichen, dopo l’ictus che lo costrinse all’ospedale, una poesia-preghiera forte e sentita perché il suo amico possa rimettersi e ritornare nel suo universo sociale: “fallo tornare tra noi/ Valentino è in un letto d’ospedale/ […]/ non so se ci sei madremadonnina/ se ci sei salvalo salvalo tu che mi ascolti/ […]/ fallo combattere ancora” (15). Ci sono poi le poesie scritte dopo la scomparsa di Zeichen, “ultimo degli irregolari del nostro tempo”[6], che attestano una dolorosa assenza nell’animo della poetessa come ben si evidenzia nella lunga lirica “Il lento congedo” dalla quale cito alcuni estratti significativi: “Così te ne sei andato d’un colpo/ quel terribile diciassette aprile/ l’ictus il trauma il dolore/ ma per un po’ sei tornato indietro/ sul letto di una camera ospedaliera/ […] nei lunghi ottanta giorni/ per fare ancora festa con gli amici/ […] come in un lauto gran banchetto/ […] per poco così sei tornato in vita/ […] cantavi perfino le canzoncine/ lento nel distacco lento” (55-56). La poetessa è evidentemente costernata e affranta dalla dolorosa assenza del poeta-amico al punto tale che cerca una qualsiasi forma di possibile comunicazione con lui, alla ricerca impellente di una relazione: “Potresti con Dio darti un po’ da fare/ e attivare un filo teso e diretto/ tra te e me tra i morti e i vivi/ inviami un segno fammi un fischio” (26).

“Riquadro 67 Gruppo 2 Terza fila n. 7” (35) è l’espressione in codice della localizzazione fisica sullo spazio terrestre, “nel nome del luogo dove stai ora” (35)…, sempre Roma, è vero, ma in una dimensione diversa, qui dove il “cielo [è] a pezzi e i cipressi [stanno] invano” (35). Sempre dedicata alla sua lapide al Verano è un’altra lirica: “ti intrattieni con i nuovi amici/ vicini di casa affini/ Ungaretti e Moravia lì anche loro/ […] ve ne andate/ giù fino all’imbrunire/ piacevolmente in tre a conversare” (85).

Il poeta, andandosene, ha lasciato sola l’amica confidente, la poetessa Gabriella Sica, chiusa in una sensazione d’assenza e di vera e propria malinconia dei tanti momenti vissuti, a “scrutare la geografia di nuvole estrose” (31) come lui spesso faceva, interrogando il tempo: “il poeta agguanta nuvole/ (non ragionammo di questo insieme?/ non era questo il nostro diletto?)” (32), un gioco che ha introiettato e fatto suo, più triste ora che non potrà che condurlo da solista. Se è vero che nel giardino del poeta il glicine è stato ucciso e il fico, solo e impoverito, s’è lasciato morire, c’è ancora un virgulto di speranza che testimonia la vita che mai si frena e che perversa, proprio come le nuvole indecifrabili che sfilano e che affascinavano Zeichen. La Sica, al termine di questo viaggio poetico che ha segnato profondamente la sua esperienza, annota infatti che “spuntano dal tronco le foglie/ più del solito tremolanti/ sta nascendo ancora qualche bel fiore” (87).

Lorenzo Spurio

Jesi, 14/03/2020

 

 

E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. 

 

[1] Gabriella Sica, originaria della Tuscia e romana d’adozione, scrive in versi e in prosa fin da quando negli anni Ottanta ha ideato e diretto “Prato pagano”, ha pubblicato le Poesie per le oche, con prefazione di Giovanni Raboni (Almanacco dello Specchio, Mondadori, 1983) e La famosa vita, nel 1986.  A più di dieci anni di distanza dal suo ultimo libro in versi, Le lacrime delle cose, a fine 2019 è uscito Tu io e Montale a cena per Interno Poesia. Ha ricevuto vari riconoscimenti tra cui, nel 2014, il Premio Internazionale del “Lerici Pea” per l’Opera poetica. Tra i libri in prosa Sia dato credito all’invisibile. Prose e saggi (2000), Emily e le Altre. Con 56 poesie di Emily Dickinson (2010) e Cara Europa che ci guardi. 1915-2015 (2015).  Nel sito ufficiale, www.gabriellasica.com, si possono trovare sue poesie, traduzioni in varie lingue, notizie sui video da lei realizzati per la Rai dedicati ai poeti del Novecento.

[2] Leone D’Ambrosio, “Valentino Zeichen: Sono un poeta mondano e so fare i dialoghi”, Patria Letteratura, 13/03/2015.

[3] Guido Zavanone, Foto ricordo, Manni, Lecce, 2019, p. 69.

[4] Camillo Langone, “Vorrei anch’io una poetessa come Gabriella Sica a commemorarmi”, Il Foglio, 26/10/2019.

[5] Antonio Gnoli, “Valentino Zeichen: sono un poeta grazie alla mia matrigna, essa era una musa crudele e involontaria”, La Repubblica, 16/02/2014.

[6] Giuseppe Rizzo, “La poesia di Valentino Zeichen ci regala un po’ di libertà”, L’Internazionale, 18/05/2016.

Premio alla Memoria ad Amerigo Iannacone (1950-2017), la motivazione del conferimento avvenuto il 10/11/2018 a Jesi

A continuazione viene riportata la motivazione di conferimento del Premio Speciale “Alla Memoria” attribuito al poeta Amerigo Iannacone (1950-2017)  conferito in data 10 novembre 2018 a Jesi (AN) presso la Sala Maggiore del Palazzo dei Convegni in seno alla premiazione della VII edizione del Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi”, ideato e presieduto da Lorenzo Spurio e organizzato dall’Ass. Culturale Euterpe di Jesi:

Amerigo Iannacone ha rappresentato per decenni un pilastro di indiscutibile valore nel campo delle Lettere a tutto tondo. Insegnante, poeta, scrittore, si è dedicato anche alla saggistica e allo studio della storia locale, non esimendosi di esprimersi anche per mezzo di articoli, note, approfondimenti e recensioni che, nel tempo, sono apparsi su riviste di settore, online, blog, siti e collettanee. Immensa la sua produzione perché molteplici e diversificati erano i suoi interessi che lo muovevano a parlare di sé e ad esternare emozioni. Prolifica e lungimirante anche la sua attività redazionale attraverso varie riviste fondate e alle quali ha collaborato, in primis “Il Foglio volante”, un pieghevole semplice, maneggevole e spesso assai divertente che giungeva nelle nostre case di amanti della letteratura, per il quale aveva anche numerosi collaboratori tra docenti universitari e scrittori all’estero. Iannacone è stato anche punto nevralgico nella difesa, promozione e conoscenza della lingua e dell’universo esperanto, curando articoli e volumi nonché prendendo parte o organizzando direttamente convegni, congressi e ha rivestito ruoli importanti nella relativa federazione.

Voce autentica del Molise, ha cantato Venafro e il suo borgo di Ceppagna, legatissimo ai suoi spazi e fedele custode di memorie legate alla popolarità di quella terra di Provincia di cui ha parlato e che ha cercato di far aprire verso l’esterno, con reading, iniziative e consessi pubblici che hanno sensibilizzato il Molise, l’Irpinia, il Sannio e il Matese. Il nostro riconoscimento a un uomo che molto ha dato, la cui eredità sta a noi curare.

Lorenzo Spurio

Presidente del Premio 

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Da sinistra: Eva Iannacone (figlia di Amerigo Iannacone), Mariagrazia Valente (moglie di Amerigo Iannacone), Michela Zanarella (Presidente di Giuria) e Lorenzo Spurio (Presidente del Premio)

 

Una scelta di testi poetici dell’autore sono stati pubblicati nella antologia del Premio assieme alla summenzionata motivazione del Premio e alla nota bio-bibliografica che segue. 

16-Zamb-1.jpgAmerigo Iannacone nacque a Venafro (IS) nel 1950. Legatissimo al suo Molise, amò il borgo di Ceppagna del quale scrisse instancabilmente e fu figura di raccordo di molte esperienze culturali principalmente del Molise, dell’Irpinia e del Lazio Meridionale quasi un padre per la riscoperta della cultura locale sin dalla fine degli anni ‘70. Ma i confini locali non sono stati mai un limite: influente il suo contributo nella comunità esperantista sparsa nel mondo. Quale professore, insegnò presso l’I.S.I.S.S. “Antonio Giordano” della sua città. Poliedrico e pervicace il suo impegno in campo letterario dove si distinse per l’opera poetica, narrativa, saggistica, redazionale, linguistica, di traduzione e di promozione culturale. Fondò nel 1986, e diresse fino alla sua morte, il mensile letterario di cultura varia “Il Foglio Volante – La Flugfolio” e fu redattore di “L’Altra Voce”, “Nuovo Molise”, “Il Quotidiano del Molise”, “Le Libertà”, “La Voce del Molise”, “La Voce del Centro-Sud”, “La Gazzetta del Molise”, “Il Corriere del Molise”.

Vera anima di cultura del Molise, dell’alto Sannio, della Campania settentrionale e del Lazio meridionale per la poesia pubblicò i volumi Pensieri della sera (I ediz. 1980, II ediz. 2012), Dissolvenza incrociata (1983), Eterna metamorfosi / Eterna metamorfozo (1987), Ruith hora (1992) – tradotto in francese nel 1996 da Paul Courget, Mater (1995), L’ombre du caroubier / L’ombra del carrubo (2001 – edizione bilingue con traduzione in francese di Paul Courget), Semi (2004), Versetti e versacci (2006), Oboe d’amore / Ama hobojo (2007), Luoghi (2009), Parole clandestine (2010), Poi (2011), Sabbia (2014), Nuptiae (2015), Eppure (2015), Kaj tamen (2016) e le raccolte di haiku Estaciones (2001) e Stagioni (2005). Sue poesie furono tradotte in inglese, francese, rumeno, cinese, albanese, spagnolo, greco, armeno, brasiliano, catalano, maltese, russo, portoghese, tedesco, siciliano ed esperanto. Fondò il Premio di Poesia “Venafro”, fu presidente di Giuria del Premio “Città di Sant’Elia Fiumerapido” e di altre competizioni poetiche e letterarie a livello nazionale.

Per la narrativa i Microracconti (1991), A zonzo nel tempo che fu (2003), Cronache reali e surreali (2006), Il Paese a rovescio e altre fiabe (2008), Matrioska e altri racconti (2011); per il genere storico pubblicò Parliamo un po’ di Ceppagna (1985), La stramma – Un artigianato in via di estinzione (1997), Dall’otto settembre al sedici luglio (2007); per la cultura molisana: Sera e l’ata sera. Filastrocche, stornelli, proverbi, scioglilingua e altre cosette molisane (2003). Per la saggistica: Verso il fonetismo. Evoluzione della scrittura (1994), Testimonianze. Interventi critici (1998), Vincenzo Rossi e i Canti della Terra (2001 – con Ida Di Ianni), Nuove testimonianze. Interventi critici (2005), Dall’Arno al Tamigi. Annotazioni linguistiche (2008), Prefazioni e postfazioni (2010), …E poi il fiume giallo – Annotazioni linguistiche (2012) e Testimonianze 2007-2014 – Interventi critici (2015).

Iannacone fu uno dei maggiori esperantisti a livello nazionale e internazionale; significativa la sua opera di traduzione in esperanto, promozione della lingua della pace, stesura di saggi e approfondimenti e partecipazioni a convegni e incontri tematici sul tema. Tra le pubblicazioni afferenti a questa preponderante esperienza vanno ricordati: Esperanto, il perché di una scelta (1986), Da Babilonia a Esperantujo. Considerazione sulla lingua internazionale (1998), Piccolo manuale di esperanto (2006). Nel giugno 2017 pubblicò il suo ultimo libro C’ero anch’io – Un’autobiografia o quasi.  Gran parte della sua produzione letteraria è edita dalla Eva edizioni di Venafro, casa editrice che lui stesso fondò e diresse instancabilmente.

Note critiche sulla sua attività letteraria sono state stilate e diffuse in riviste, quotidiani, monografie e volumi dedicati; tra di esse quelle di Gerardo Vacana, Giorgio Barberi Squarotti, Vincenzo Rossi, Aldo Cervo, Giuseppe Napolitano, Lorenzo Spurio, Antonio Vanni, Silvano Demarchi, Leonardo Selvaggi, Ida Di Ianni, Rita Iulianis, Carmine Brancaccio, Vincenzina Scarabeo, Maurizio Zambardi, Giovanni Petta, Renato Corsetti, Lino Di Stefano, Chiara Franchitti e altri.

Numerosi i premi letterari attribuitigli; vinse il Premio della Presidenza del Consiglio dei Ministri per la Critica Letteraria (conferitogli due volte), la XXVI edizione del Premio Nazionale di Poesia “Libero de Libero” (2010) e il XL Premio Val Comino per il giornalismo culturale e la difesa della lingua italiana letteraria (2015). 

È deceduto nel luglio del 2017 a seguito di un incidente stradale nel centro di Venafro dove venne investito. Il 10 marzo 2018 nella Sala Convegni del Palazzo Municipale di San Pietro Infine (CE) si è tenuto un convegno per ricordarlo dal titolo “Legàmi: Amerigo Iannacone e gli amici di Ad Flexum” al quale hanno preso parte Mariano Fuoco (Sindaco di San Pietro Infine), Maurizio Zambardi (Presidente dell’Associazione Culturale “Ad Flexum”), i critici e scrittori Aldo Cervo, Giuseppe Napolitano, Ida Di Ianni, Antonio Vanni, Rita Iulianis, Carmine Brancaccio e Chiara Franchitti. Gli atti dell’incontro sono stati raccolti nell’omonimo volume edito da Eva Edizioni a cura di Elvira Zambardi.

 

Nota: La riproduzione del presente testo, in forma di stralcio o integrale, non è consentita in qualsiasi forma senza il consenso scritto da parte dell’autore. 

Un convegno a Roma dedicato a Pasolini e Rafael Alberti organizzato dall´EuroMed University

Il 28 ottobre 2019 ricorre il ventesimo anniversario della morte del poeta andaluso Rafael Alberti (1902-1999), tra i principali esponenti della Generazione del ’27 e uno dei più importanti poeti del Novecento ispanico. Tornò dall’esilio nel 1963 e si stabilì a Roma, prima in via Monserrato, poi al numero 88 in via Garibaldi (zona Trastevere) fino al suo ritorno in Spagna, 15 anni dopo. Ben nota è la sua amicizia col poeta Pier Paolo Pasolini (1922-1975), tanto che l’autore di Ragazzi di vita  era affascinato dalla scrittura di Alberti. Lo rivela anche un inedito di Pasolini a lui dedicato, trovato da Francesca Coppola, ventinovenne napoletana, dottoranda di ricerca in letteratura spagnola all’Università di Salerno, che ha recuperato il dattiloscritto autografo di Pasolini.

L’influenza della cultura spagnola su Pasolini si manifesta durante gli anni Quaranta e Cinquanta, in particolare attraverso Antonio Machado, Juan Ramón Jiménez, Luis Cernuda, Federico García Lorca e lo stesso Rafael Alberti, così come i poeti catalani che usavano la loro lingua madre. Proprio per rendere omaggio ad Alberti e all’amore di Pasolini per la cultura spagnola, EMUI EuroMed University in collaborazione con l’Accademia di Spagna e l’Istituto Cervantes ed il supporto del Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa della Delizia e la Cineteca di Bologna, ha deciso di dare vita a un convegno internazionale di grande spessore.

Si parte sabato 26 con una passeggiata letteraria nei luoghi di Alberti a Trastevere a cura dell’Istituto Cervantes di Roma (info: cultrom1@cervantes.es, iscrizione obbligatoria https://clicroma.cervantes.es/it/003-ep-c-01-e3).

Si prosegue lunedì 28 ottobre dalle ore 16 con la conferenza di apertura “Rafael Alberti y Roma. Un siglo de creación” con María Asunción Mateo, insegnante, scrittrice, giornalista, ex Direttrice della Fondazione Alberti.

Tanti gli incontri e gli interventi nei tre giorni.

Tra gli ospiti Silvio Parrello, poeta e pittore, testimone della vita di Pasolini, citato nel romanzo Ragazzi di vita edito da Garzanti nel 1955.

Per consultare il programma completo: http://www.pierpaolopasolini.net/2019/program.html

Pasolini e la cultura spagnola (1).jpg

A Roma un omaggio a Carlo Levi con Michela Zanarella

In occasione dell’imminente spettacolo UN SIPARIO A CANCELLI. Le mille patrie di Carlo Levi testo e regia di Vittorio Pavoncello che sarà al Teatro Elettra di Roma a partire dal 17 ottobre, il 12 ottobre alle ore 18, 30 il Book Store del Palazzo delle Esposizioni ospita la presentazione dei due libri SENZA PIETRE che hanno composto un progetto per Matera 2019 Capitale Europea della Cultura. Interventi di Donatella Orecchia, Roberto Piperno, Michela Zanarella. Oltre al già citato testo spettacolo UN SIPARIO A CANCELLI. Le mille patrie di Carlo Levi andato in scena a Matera all’Auditorium Sant’Anna in maggio a cura del MEIC, sarà presentata la raccolta di poesie SENZA PIETRE che 11 poeti hanno dedicato a Carlo Levi a cura di Michela Zanarella.

Matera è una città che deve molto a Carlo Levi, perché attraverso il suo libro di denuncia e attraverso l’intervento di Adriano Olivetti da lui portato a Matera questa città fu finalmente scoperta e posta all’attenzione della politica e della cultura, mettendo fine a ciò che Alcide De Gasperi definì una “vergogna dell’Italia”. Certo, in questa epoca che guarda solo al presente o ad un futuro senza memoria, ricordare il passato può essere scomodo, ma fu merito dell’opera, di ieri, di Carlo Levi che da “vergogna dell’Italia” Matera è diventata, oggi, capitale della cultura europea del 2019.

Levi dipingeva e scriveva dell’assenza, della mancanza di cui soffriva la gente del meridione e nel suo “Cristo si è fermato a Eboli” ha denunciato la condizione di abbandono e di esclusione dei contadini e dei poveri che vivevano nelle grotte. I libri in questo caso e in particolare “Cristo si è fermato a Eboli” hanno contribuito a fare la cultura e la storia e ci sembra giusto presentare le due pubblicazioni edite da Edizioni Progetto Cultura in un luogo come la libreria Bookstore del Palazzo delle Esposizioni.

Saranno presenti i poeti: Simone Carunchio, Davide Cortese, Flaminia Cruciani, Letizia Leone, Serena Maffia, Marina Marchesiello, Roberto Piperno, Luciana Raggi, Anna Santoliquido, Fabio Strinati, Michela Zanarella.

Brani dallo spettacolo di UN SIPARIO A CANCELLI. Le mille patrie di Carlo Levi saranno interpretati da Oreste Valente

“La Quinta Dimensione di Corrado Calabrò, il poeta che strizza l’occhio alla scienza”, a cura di Lorenzo Spurio

Saggio di Lorenzo Spurio 

 

Sono una barca spogliata di vela

che anela inutilmente al mare aperto (54)

Esprimersi in termini critici sull’opera poetica di Corrado Calabrò, per quanto si cerchi di adoperare quell’onestà di sabiana memoria e ci si appelli a un’umiltà di giudizio che ne descriva in maniera congrua gli stilemi cardine, è questione ardua. Un’impresa, si dovrebbe dire, dalle dimensioni titaniche. Lo è per ragioni di varia natura, alcune assai palesi e sotto gli occhi di tutti, altre di appartenenza alla schiera letteraria e a chi, con strenuo impegno e competenza, ha fatto suo il percorso di scavo, approfondimento esegetico e d’interpretariato concettuale. Tali ragioni hanno senz’altro a che vedere con l’influente portata di Corrado Calabrò intellettuale (che è ciò che deve prioritariamente interessare il critico, conscio, però, della sua notevole carriera nel campo della Magistratura), uno dei maggiori poeti della scena nazionale e non solo, se si tiene in considerazione che le sue opere sono state tradotte in decine di lingue (non solo europee) e che per la sua formidabile e riconosciuta attività letteraria gli sono stati attribuiti, tra i tanti premi ed encomi, riconoscimenti accademici quali la Laurea Honoris Causa rispettivamente dell’Università Mechnikov di Odessa (Ucraina) nel 1997, dell’Università Vest Din di Timişoara (Romania) nel 2000 e dell’Università Statale di Mariupol (Ucraina) nel 2015. Ricordo anche uno dei recenti successi in una lingua straniera ovvero il libro Janelas de silêncio (Vasco Rosa, Lisbona, 2017) in lingua portoghese, arricchito dalla prefazione della poetessa e scrittrice Fabia Baldi[1], presentato a Salone Nobile dell’Istituto Portoghese di Sant’Antonio a Roma il 29 novembre 2018. Sempre nel mondo lusofono va ricordato l’importante riconoscimento attribuitogli nel 2016 dall’Università di Lisbona ovvero la preziosa Medaglia “Damião de Góis”.

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Il poeta Corrado Calabrò

L’altra ragione che motiva una certa inibizione e sbandamento nell’approcciarsi alla sua ingentissima opera (decine e decine di opere pubblicate, per cui non faremo qui l’elenco) attiene all’elevata gamma di eminenti critici, accademici o meno, che nel tempo hanno scritto di lui e della sua opera. Si dovrebbero (solo per citarne alcuni) richiamare i nomi di Domenico Rea, Carlo Bo, Maria Grazia Lenisa, Luigi Reina, Mario Luzi e Maria Luisa Spaziani che, senza specificazioni di sorta, ben mettono in luce l’importanza, finanche la completezza e la profondità di Corrado Calabrò. Tra gli altri, un corposo volume monografico a cura del critico Carlo Di Lieto, docente di Letteratura Italiana presso l’Università degli Studi “Suor Orsola Benincasa” di Napoli, pubblicato da Vallardi Edizioni nel 2016 col titolo di La donna e il mare. Gli archetipi della scrittura di Corrado Calabrò. Testo che risulta avere una sua centralità e dal quale non si può prescindere se decidiamo di voler conoscere da più vicino e con un adeguato mezzo informativo, orientativo e di accompagnamento alcuni dei temi-simbolo della poesia di Calabrò.

978880470871HIG.jpgL’antologia Quinta dimensione (Mondadori, 2018)[2], che compendia un percorso selezionato[3] di poesie pubblicate nel sessantennio 1958-2018, è stata presentata a Roma, Milano e a Torino riscuotendo particolare successo. È, come ebbe a dire Pasolini nel caso dei Cantos di Ezra Pound, una poesia «enormemente vasta»[4]: per quantità, calibro, spessore e intensità. Ad aprire il volume una chiosa di Eraclito, poeta del divenire, che recita testualmente: «Noi scendiamo e non scendiamo nello stesso fiume, noi stessi siamo e non siamo». A questa fa seguito l’apertura con un incisivo poemetto dal titolo Roaming introdotto da Senofonte, testo nel quale, in esergo, Calabrò cita Thomas Stearn Eliot, il modernista allucinato, richiamando i Quattro quartetti.

Il lettore di questo libro e dell’intera opera di Calabrò, dovrebbe cautelarsi dinanzi alla materia che gli viene offerta e rendersi consapevole di questo arricchimento continuo. Le copiose citazioni, versi richiamati, echi, camei, rimandi intertestuali ad altrettante opere di letteratura, filosofia e scienza, sono preziosissime e vanno raccolte saggiamente. Esse ci consentono non solo di ricostruire fedelmente il prezioso mosaico che è la stessa campionatura di versi del poeta calabrese, ma anche d’iscrivere questa sua fiorente produzione all’interno del grande mare della letteratura di ogni tempo, dunque della nostra storia e del senso di abitare questo mondo.  Tra i suoi innumerevoli maestri, padri putativi e fonti, vanno senz’altro enucleati gli esponenti di spicco della cultura europea, greca, romana, della classicità letteraria nazionale (Dante, Ariosto, Leopardi), dei poeti melanconici (Rilke[5]), civili (Lorca, Neruda), simbolisti (Baudelaire) e metafisici (Eliot).

Roaming si presenta composito, con una sapiente intersecazione di spazi e cornici temporali, volutamente inteso a divagare e far confluire storie, significati, vicende di uomini d’allora e perplessità d’oggi. La ricchezza dei contenuti e la vistosità delle prese di posizione – soprattutto nei riguardi di alcuni costumi o tendenze diffuse nella nostra età – ci permette di concepirlo anche come sorta di Manifesto – non di una poetica – semmai del travaglio odierno, dove i sentimenti risultano ingabbiati dalle logiche e dalle azioni automatizzate.

L’autore, anche se vive nella Capitale[6] da vari decenni, è nato a Reggio Calabria nel 1935 ed è chiaro ed evidente il suo forte legame a quella terra, per mezzo di una serie di figure quali il mare e ogni riferimento a tale ecosistema, la madre (incuneata nel ricordo per mezzo della casa), finanche della storia di quelle terre soleggiate.

In Roaming, poemetto «sgorgato quasi in trance» (25)[7] come scrive nella nota che lo accompagna datata settembre 2018, si fa accenno ad una delle tragedie più indecorose della storia della nostra Penisola, vale a dire il terremoto che nel 1909 colpì Reggio e Messina decretando un numero di vittime che lo stesso poeta richiama nei suoi versi: «Trentamila morti solo a Reggio./ Io persi nel crollo della casa/ i nonni una zia e un cuginetto/ che quest’anno avrebbe centun anni. / […]/ Sono abitate dai pesci le case/ sott’acqua» (7).[8] Questo tema ritorna spesso in altre liriche a sottolineare, nel ceppo familiare di Calabrò e nella sua memoria, un incisivo segno di dolore per quegli accadimenti.

Da un tempo a noi lontano, Calabrò, forse l’unico poeta italiano a occuparsi di astrofisica (se non altro con tali felici esiti), anticipa uno dei suoi temi ricorrenti ovvero quello dell’interesse verso i mondi siderali, a-terrestri, della dimensione spaziale in parte sconosciuta e per questo ulteriormente ricca di suggestione e fautrice di idee: «Gli astronomi – alcuni – erano intenti/ a scrutare col nuovo telescopio/ gli spazi siderali per scoprire/ altri pianeti simili alla Terra» (7-8).

Tra questi due scenari si situa la lettura critica e distaccata di quell’oggi che è un misto di monotonia, insicurezza, imprecisione e indifferenza diffusa, dove anche il linguaggio è divenuto servo degli oggetti e degli interessi: «È vero che esiste solamente/ quello che appare in televisione;/ ma si può sempre cambiare programma» (10).[9] Versi lapidari che in qualche modo denunciano la passività dell’uomo odierno che non è più agente, ma ricevente e succube di tutto ciò a cui viene sottoposto. Uomo-automa, uomo-oggetto, uomo de-umanizzato: ciò fa anche pensare al realismo terminale di Guido Oldani che, nel relativo Manifesto programmatico, evidenziò questa fede e immolazione della realtà oggettuale a discapito dell’oltraggio e svuotamento della sensibilità umana.

In Roaming si procede a sobbalzi, per scansioni che rimestano di continuo, una possibile linea cronologica: è un procedere a random, appunto, dove la casualità però non è propriamente tale – non è un flusso disincantato e continuo di pensieri, disarticolati – ma le trame profonde della Calabria, dell’amore e del cambiamento, nutrono le fondamenta del poemetto dandone vigore e rendendolo tecnicamente perfetto e contenutisticamente variegato. Ecco, allora, riaffiorare la guerra: «M’è accaduto più volte da ragazzo/ di sentire il fischio delle bombe/ che scendevano dritte sul rifugio/ ed anche di venire mitragliato/ da un aereo in picchiata» (12) e poi far capolino pensieri di continuo divenire, quale la deriva dei continenti: «il pianeta/ sta per venire meno sotto i piedi» (12) fino a inquietudini d’interesse globale: «E se la terra fosse deragliata/ dalla sua orbita? C’è la deriva/ impercettibile dei continenti/ e c’è quella delle galassie» (15).

Proprio come i versi de La terra desolata sono un continuo campo di citazioni, la poetica di Calabrò è un mosaico di realtà, di mondi diversi e distanti, di età, di scenari e situazioni; essa è il luogo in cui, come in una agorà, si mescolano i saperi, le concezioni, i pensieri, in un interscambio continuo tra parola e arte, poesia e musica, scienza e tecnica e, ancora, erudizione di un pensiero che poggia su fondamenta del mondo greco-romano e gore esistenzialistiche. È senz’altro opportuno richiamare le considerazioni ermeneutiche di una studiosa come Julia Kristeva che tanto si è spesa, in termine d’indagine del testo, su valore e la potenza del mondo intertestuale. Così, tra i tanti “commensali” in questo ampia tavola (rotonda) dove si dibatte e ci s’interfaccia, si respira e si cerca se stessi, si contestualizza e si tenta una fuga in una dottrina che non è così accessibile come sembrerebbe, che troviamo il fisico Steven Weinberg, il poeta irlandese Oscar Wilde, la poetessa per antonomasia, Saffo, anima dei lirici greci e, – non appaia vizioso l’avvicinamento e si apprezzi, invece, la vastità delle fonti -, l’apostolo San Paolo (Prima Lettera ai Corinzi), Guido Cavalcanti, Dante, l’autore delle Bucoliche più volte citato dal Nostro in quelle che son divenute formule idiomatiche del mondo latino (Labentia signa), finanche i cantares populares (Machado, il già menzionato Lorca del quale, pure, il poeta si svela innamorato del celebre Llanto), l’avanguardista esasperato Sanguineti[10] e l’enigmatico Lewis Carroll proiettato verso un oltre invisibile che ammicca. Non è di certo una tavola fredda, semmai un banchetto ricco di portate, se si considerano i requisiti di rimando, le motivazioni per cui Calabrò si serve di tali fonti, a più livelli, per inserire i suoi versi. Si crea, così, una polifonia di suoni e d’interpretazioni, linguaggi apparentemente diversi che viaggiano su binari separati, come quello poetico e quello scientifico, che vengono resi, se non amici e sovrapponibili, per lo meno affini, inter-comunicanti, richiamanti l’un l’altro, decretando la fine di aporie binarie inconfutabili. Ci sono sistemi comunicativi di vario tipo che intervengono quali il codice segreto del linguaggio Morse, l’uso di terminologie in altre lingue, l’adozione di onomatopee che tentano di recuperare il suono di un evento che s’è prodotto e poi tutto l’universo dei richiami, dei bisbigli, dei fragori lenti o ritmati, dei movimenti che, colti nel loro tramestio, trasmettono indelebili movenze di un suono che si forma, s’increspa e scivola via.

L’esperienza-imprinting della fanciullezza a Reggio ritorna a galla, per frammenti, ricordi che luccicano, all’interno dell’intero corpus poetico del Nostro. Reggio sta a Calabrò come Macondo sta a Marquez e Recanati sta a Leopardi, è un luogo dell’anima, è spazio titanico e culla, emblema di legami familiari, contesto dove hanno preso forma i giochi, gli amori, i pensieri. Si riappropriano in maniera netta dei versi queste immagini nitide nel ricordo; il recupero delle immagini è asintomatico, quali pillole di un flusso che, di colpo, complici associazioni di immagini, rimandi pareidolitici e effluvi che si spargono, evidenziano la loro compresenza nel presente: sono già lì, non appartengono a una realtà passata, in quell’asfittico tentativo di scansione di un tempo che è tutto presente perché vivo. Ecco «Le strade a pelo d’acqua di Messina» (36) e «Le piazze dei paesi adagiati sullo Ionio» (40), sembra quasi di percepire il vento che fa ondeggiare le tamerici, lo iodio disperso nell’aria che si respira; così sono presenti anche le isole siciliane: «Da Lipari fino ad Alicudi/ piano piano si fredda/ il mare ch’è un immenso bacile d’olio grigio» (74) e poi Filicudi, Panarea. La Calabria, depositaria delle adorate immagini dei cari, è anche quella campestre: «Ulivi rocciosi di Calabria/ dalle arterie marmorizzate/ contorti sulle radici/ come totem viventi!» (112).

Dei genitori, che sono forme di quell’entità varia che è la terra natia, la Grande Madre, si assiepano memorie, nel tempo che separa alla loro corporeità ormai disillusa: «Solo ora sento che mio padre è morto!/ […]/ Con lui salivo su per le colline,/ […]/Andavo, armato della sua fiducia,/ […]/ Chiudo gli occhi: il tuo volto è un po’ smarrito/ ma il tuo cuore va al trotto sul sentiero/ della mia giovinezza e la precorre/ coi passi svelti di quand’ero piccolo» (195-196). E poi la casa delle origini che s’intravede, non vista nel reale, così presente nell’anima: «Quanto sono vicine le due sponde!/Si può scorgere forse la casa/ con tante stanze in cui mia madre è morta./ Quello ad angolo sembra un suo balcone» (202). La casa che fu embrione e che è testamento, baluardo e memoria: «Ma i luoghi dell´infanzia son soggetti/ anch’essi a un’occulta subsidenza./ Riuscii a dissimulare per un anno/ a me stesso che mia madre non c’era» (166); “È come una barca senza chiglia/ una casa in cui manca la mamma” (49).

La dimensione dell’oltre di cui si diceva, dell’alterità senza limiti o dell’illimite (termine spesso usato dal Nostro) può essere riscontrata nelle tematiche dell’amore (che è un sentimento che non conosce vincoli, ostacoli né dimensioni), come pure nell’immensità del mare, che ricorre ampiamente nelle liriche del Nostro al punto da osservare: «Ho comprato un potente cannocchiale/ con ingrandimento trenta volte.// Non per guardare Roma, io cerco il mare;/ è quello l’orizzonte che mi manca.// Qualche volta la notte guardo il cielo» (61). Mare come elemento ma anche come stato d’animo, con l’andamento ondivago delle sue acque, dei cambi di vento, tra traghettamenti, soste, abbordaggi. «Il mare è un rischio» (31)[11] recita Calabrò in una sua poesia e subito fa seguire quest’altro verso: «Il mare va preso come viene» (31). Immagine acquosa della vita, di un percorso fatalistico dove l’uomo è immerso: il mare è la vita stessa dell’uomo dove pericoli, bonacce, alte maree, riflussi e ancoraggi, ne descrivono il corso: «è religioso/ l’altalenante equilibrio del mare» (174). La sintassi poetica di Calabrò si piega a questo mondo acquatico, dell’universo salino, della navigazione e della pesca: tutto rimanda al mondo dei naviganti e dei marinai, in un sodalizio arcaico e archetipo al contempo uomo-mare: «Davanti agli occhi, a tutto campo, è il mare:/ pista d’acqua che ostenta il suo turgore/ come una mammella palpitante/ e livella il presente e il passato» (32); «La notte sia grande quanto il mare// io vorrei la tua lingua, come il mare/ salata» (98). Nel mare, nella profondità del suo temperamento, si perdono anche intrighi, segreti, silenzi e aneliti di un amore che si è consumato con passione e che alberga le reminiscenze più dolci: «Il senso del mare si ritrova/ in quello che chi l’ama non sa dire» (145). Ricchissimo di evocazioni, sguardi sensuali e connessioni intime, in un affascinante brano contemplativo che ha del metafisico, è il poemetto “Il vento di Myconos (Nostos)” nel quale l’indicibile figura del vento, nelle sue varie sembianze e accezioni, è di impareggiabile resa. Esso va letto con lo stesso andamento delle raffiche e delle sue pause, in un vortice che lambisce e rigenera in cui le parole accarezzano e imprimono in forma inarrivabile un simposio tra natura e meditazione, tra canto e investigazione dell’io. Così si legge: «Il vento, egemone dell’isola,/ il vento che scortica i declivi/ isterilendo le vacche scarnite,/ e manda i maschi a fare i marinai» (163).

Il soddisfacimento che si prova dinanzi a questa comunione con le acque – quasi il Nostro fosse un essere anfibio che le domina, sguazzando e risalendo a seconda del bisogno –, è una sorta di estasi panteistica, di amplesso amoroso dove pure l’acqua che sale all’altezza della gola (lontana da intenzioni di morte per acqua, di cui pure parla Eliot) ha il sapore di un godimento estremo, di una totalità inglobata all’estrema potenza, di energia che si protende, al punto tale da invocare un assopimento nelle acque, tra quelle coperte tumultuose che sono le onde: “Sarebbe bello addormentarsi in mare/ con l’acqua in gola che disseta e nutre/ e, volteggiando, planare sul fondo/ dove s’addensa l´ombra degli assenti” (167).

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Uno scatto della consegna della Targa Euterpe di Socio Onorario dell’Associazione Culturale Euterpe al poeta Corrado Calabrò durante la premiazione della VII edizione del Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi” a novembre 2018 a Jesi (AN). Das sx: i Consiglieri dell’Associazione Valtero Curzi, Marinella Cimarelli, Gioia Casale, Elvio Angeletti, Oscar Sartarelli, la Presidente di Giuria del Premio Michela Zanarella, il Presidente dell’Ass. Euterpe Lorenzo Spurio, Corrado Calabrò e la poetessa Fabia Baldi.

Come non far riferimento ai versi più vistosamente dichiarativi di un amore forte, pulsante: sono le poesie di Calabrò più effervescenti e aperte all’altro, dotate di un’energia senza pari dove l’io lirico è in una situazione d’infatuazione, coinvolgimento totale, assuefazione dei sensi. Pennellate che raggrumano sensualità, nella ricerca estenuata dell’alterità della coppia: «Seni così saldi,/ candidi picchi aureolati di rosa/ albeggianti nel buio/ al chiarore rossastro della stufa» (48). L’amore è connotato di mistero, ogni qual volta che il Nostro ne richiama il concetto esso è vincolato a immagini perturbanti, che imprimono foga e destabilizzano. Il poeta sembra dilaniato dal peso della lontananza dall’amata, da una solitudine che si auto-amplifica («L´amore è la presenza rimandata/ di un’assenza», 52; «Se esiste una ragione perch’io t’ami,/ ci sei nella misura in cui mi manchi», 143), dibattuto dinanzi alla non catalogabilità di quella relazione, alla sua levità e preponderanza al contempo che lo porta a domandarsi in cosa esso consista. La risposta al quesito non può che essere velata, per lo più insoddisfacente come sempre accade quando ci si approssima a parlare dell’infinito: «L’amore, d’altra parte, è come l’anima:/ nessuno, credi a me,/ nessuno mai l’ha visto». (76)

Attenzione va posta anche sui componimenti dal piglio più direttamente civile. Vale a dire quelle che poesie che fanno risalire a galla la forza della tensione morale, dell’impegno sociale che ogni cittadino dovrebbe sentire proprio e coltivare. Così, con un linguaggio chiaro al punto da fornire visuali d’istantanee, il Nostro ricorda delle sevizie e tribolazioni del conflitto in Cecenia (scenario geopolitico tutt’oggi indefinito, non riconosciuto completamente): «Nere, la luna spinge madri insonni/ tra mucchi di neve alla ricerca,/ ogni notte, in spazi troppo bianchi.// Cercano la loro via alla vita» (221). Ci sono poi testi atti a ricordare (non in chiave elegiaca, ma a ragione di uno sdegno insormontabile, che è quello dell’umanità civile) la paranoia e il senso d’imminente sciagura durante i bombardamenti del secondo conflitto mondiale («Gli americani coi B23/ […]/ binari luminosi intermittenti/ […]/ Centinaia di bengala illuminavano/ a giorno il cielo, il mare e la città/ […]/S’era ormai spento l’ultimo bengala/ quando si sentirono due raffiche/ droppete-droppete/ e il rombo strozzato d’un aereo.// Dopo sei giorni si scavava ancora/ dove il fetore indicava cadaveri/ ma noi andavamo in cerca di bengala/ e aspettavamo la prossima incursione.// …]/ Era tedesco l’aereo abbattuto», 200), la sciagurata disavventura dei nostri connazionali caduti a Nassiriya nel 2003 («ricordo – ad antenna ammainata -/ è una duna di sabbia nel vento/ cui passano accanto i cammelli/ a testa alta», 232), le problematiche e le animosità comuni e i drammi relativi al fenomeno senza controllo dell’immigrazione. Tema di un’attualità perenne e che ritorna, ponendo quesiti di varia natura, utilizzato come discrimine partitico nella questione della gestione del fenomeno. In “Canto senegalese a Lampedusa”, Calabrò presta la voce a uno sconosciuto uomo che si appresta a valicare il Continente: «fammi passare/ […]/ Il mare è aperto/ come il deserto/ quando è piatto/ ci puoi camminare/ […]/ la luna ci vuole accompagnare» (229).

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L’universo siderale rappresenta una sorta di condizione permanente nell’intera produzione del Nostro dove la luna, da satellite della nostra Terra, talvolta personificata nella donna, altre volte richiamata quale prolungamento di uno stato d’animo, segna le direttive di una poetica intrisa di quel fascino illuminato e sapiente di cui tutti i grandi, da Shakespeare a Lorca, passando per Baudelaire, Borges, Yeats sino a Merini (solo per citarne alcuni) hanno parlato. Della luna Calabrò ci parla di ogni forma di accadimento: dalla sospensione («luna ferma nel cielo/ come un dilemma», 76) all’assopimento («la sedazione della luna», 78) sino ad adoperare tale isotopia anche per descrivere una condizione, quella di «allunato» (96), fino a quando esso diviene un campo di possibile nutrimento per la futura vita: «Un fiore assurdo/ è attecchito sulla luna» (95). Descrivendoci le varie fasi: la luna piena (la «luna ecedentaria di giugno», 14), «la luna calante» (47) di quando «la faccia della luna è coperta» (95) con le sue «rivoluzion[i] a fas[i] alterne» (118) e l’accenno alle varie «lunazioni» (117) vale a dire il periodo che intercorre tra il compimento di fasi identiche e successive. La luna ha una proiezione indissolubile nell’universo femminile (il ciclo mestruale è un periodo che ha relazione proprio con le fasi lunari, proprio come gli intervalli di alte/basse maree) e il gioco di sguardi e di svelamento, in una nudità che è recupero dell’arcaico nella dimensione primigenia della Grande Madre, è palesato in versi densi di passione: «Ti svestirò di luna/ sulla grande terrazza» (100). Però è anche una luna filosofica, alla Leopardi, che permette la contemplazione, lo scavo interiore, la confessione con sé e l’interessamento verso questioni universali sulle quali tutti si son dibattuti: dal tempo e il suo scorrere, al senso della vita, alla dimensione del dolore, alla solitudine al punto che la luna è anche una proiezione, ciò che non è ma che rappresenta perché, in fondo, fiabescamente «La luna esiste solo se la guardi» (123).

La Quinta dimensione di Calabrò è transito incorporeo di un passaggio verso un oltre. Cadono categorie logiche di spazio e tempo e ci si sofferma sul senso dell’oltrepassare, di proiettarsi verso una realtà altra: «Bisogna oltrepassare, come Alice,/ la lastra riflettente di cristallo/ e senza aprirla varcare la porta/ per cui s’accede alla quinta dimensione.// Forse da dentro mi aspetti a quel varco:/ recessivi/ sugli estremi planari dell’inconscio,/ come la sorte s’aprono i tuoi occhi» (204). Ciò che compie Alice nel celebre romanzo di Lewis Carroll è, in effetti, una caduta nell’abisso, un risucchiamento in una voragine sconosciuta: un passaggio a un’altra dimensione. L’accadimento, quella della precipitazione nel cuore della terra, non è voluto né è spiegabile: ha la forma di qualcosa di assurdo e per questo motivo crea paura e da esso promana mistero. La giovanetta si troverà in un mondo dove non vige la logica comune, la morale, dove anche le normali consuetudini e conoscenze basilari sono sovvertite e annullate («Noi siamo le nostre abitudini/ se si stravolgono quelle, chi siamo?», 11). È l’introduzione in un mondo illogico, apparentemente pericoloso e ostile, in realtà la ragazzina scoprirà il meraviglioso, si divertirà, si sentirà – cosa che non le era mai accaduto in precedenza – parte attiva di una compagnia di esseri (siano pure strampalati). Il varco, prima rappresentato dal buco nel terreno, poi dalla porta che non subito riesce a valicare e nel secondo capitolo dallo specchio, il cui passaggio ha la forza del compimento di un rito di passaggio, è connotato positivamente (ma ciò potrà avvenire solo al termine della narrazione): Alice per crescere e diventare donna matura deve necessariamente compiere quel tragitto, far esperienza di quella realtà, introdursi nei gangli di una dimensione altra, che non appartiene a nessun altro del suo ambiente. Ed è, proprio per questo, privilegiata, sebbene di tutta prima lei si senta minacciata da quell’ambiente.

La Quinta dimensione di Corrado Calabrò condivide gli stilemi di questo ingresso misterioso ed esoterico in una alterità, un al di là non meglio definibile dove «vivere qualcosa oltre il vissuto» (40), in un passaggio ultra-terreno che rende afasici («Forse mi sono entrate nell’udito/ semplicemente le cose non dette», 84) e confusi («La notte non riesco a stare a letto;/ l’incertezza è l’unica certezza», 11), in parte ammorbati e appesantiti dal troppo presente che non permette, con levità il passaggio verso l’illimite riconducendo l’io agli ingranaggi della razionalità: «È questo il paradosso degli umani:/ solo al buio c’è concesso di vedere/ quel mondo cui il giorno ci fa ciechi./ Ma la notte è incognita a se stessa,/ dinanzi a Lei anche Zeus indietreggia» (21). Chiaramente non è sufficiente tutto questo per accennare alla Quinta dimensione di Calabrò e si deve richiamare la fisica degli universi paralleli. Tenuto conto che la poco richiamata “quarta dimensione” ha a che vedere più propriamente con la durata di qualcosa, ossia l’estensione che nel tempo può avere, che cosa s’intende con “quinta dimensione”? Si deve ricorrere alla Fisica quantistica, di cui ho scarso nutrimento, mi si perdonerà dunque le imprecisioni! Sembrerebbe che essa abbia a che vedere con i “futuri possibili” o i già citati “universi paralleli”, un campo indefinito di possibilità, di diramazioni, di eventualità futuribili non esperibili, una filiazione continua di circostanze che, cosa che più conta, ci vengono forniti in pensiero quale suggestione, in forma di possibile scelta, o per suggestione e influenza da altre persone. Nel blog “Il mondo della mia psiche” Alexia Meli sostiene che «nella quarta dimensione è possibile il paradosso, cioè che ciò che era vero un attimo fa può non essere vero ora. Anche ciò che era falso un momento fa potrebbe non essere vero ora. Non ci sono definizioni rigide per definire le esperienze, ma scegliamo la nostra vibrazione momento per momento»[12]. Questo sembra rispondere a ciò che accade ad Alice nel Paese delle Meraviglie, mentre la quinta dimensione «è il posto, lo spazio e l’energia che si basa sulla consapevolezza di una coscienza unica. […] nella quinta dimensione il tempo collassa. Il tempo è istantaneo, nel senso che tutto (tutte le possibilità) esistono nello stesso tempo nello stesso spazio. Non esistono polarità, condizioni, giudizi, patterns di pensiero».[13]

A completamento di questa bella antologia è uno scritto investigativo di Calabrò nel quale, con un metro critico e obiettivo, affronta varie questioni impellenti e cruciali relative alla poesia, al suo significato, ai suoi linguaggi e potenzialità nella società a noi contemporanea. Pagine di una vividezza disarmante dove Calabrò per un attimo prende la giusta distanza dalla materia poetica per osservare, con lenti potentissime, il fenomeno poetico tra ambiguità e reticenze diffuse, manipolazioni, codici destrutturati, condizioni di liminarità della poesia, ibridismi e antipoesia (è durissimo, per esempio, contro lo sperimentalismo accecante delle nuove avanguardie ma anche con la cosiddetta poesia asemantica) che dominano troppo pesantemente nello scenario d’oggi. La disanima, su questo aspetto e sull’intero universo della cultura d’oggi, è serrato e con una nutrita documentazione e riferimenti ad autori dei loro rispettivi campi d’azione; con un linguaggio chiaro e privo di omissioni di sorta, l’autore esplica assai distintamente le sue convinzioni, non esimendosi di evidenziare criticità, incomprensioni, improntare delusioni e avanzando denunce più o meno palesi, verso ciò che non gradisce, motivandone sempre le ragioni di fondo.

LORENZO SPURIO

 

La riproduzione del presente testo, in forma di stralcio o integrale, non è consentita in qualsiasi forma senza il consenso scritto da parte dell’autore.  

 

[1] La prefazione di Fabia Baldi è risultata primo vincitore assoluto nella sezione critica poetica all’interno della VII edizione del Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi” la cui cerimonia si è tenuta nella Sala Maggiore del Palazzo dei Convegni di Jesi (AN) il 10 novembre 2018. Essa è pubblicata, in qualità di opera vincitrice, nell’antologia del premio.

[2] Alcune poesie di Calabrò sono apparse in vari numeri della rivista di poesia e critica letteraria Euterpe nel corso degli anni, ovvero nel 2014 le poesie “La luna spenta” (n°12), “Southern Bug” (n°13), nel 2015 le poesie “Dormiveglia” (n°15), “Né ramo né radice” (n°17), nel 2016 le poesie “Alba di notte” (n°18), “Dov’è tuo fratello?” (n°19), “Ma più che mai…” (n°20), “La verità” (n°21), nel 2017 “Gemellaggio” (n°22), “L’esorcismo dell’Arcilussurgiu” (n°24), nel 2018 “Dov’è tuo fratello?” (n°26) e “Canti senegalesi a Lampedusa” (n°26). Non tutti queste opere figurano pubblicate in Quinta dimensione.

[3] Se si pensa che Calabrò scrive da sempre, dobbiamo concepire questa antologia quale il prodotto finale di un attento processo di selezione, vaglio e cernita che ha decretato l’inserzione di determinati testi, piuttosto che altri. Calabrò ha infatti osservato in precedenza: «Le prime poesie pubblicabili (e poi effettivamente pubblicate da Guanda) le ho scritte tra i quindici e i diciotto anni. Parlavano del mare: alcune figurano ancora nelle mie raccolte antologiche», in “Intervista a Corrado Calabrò” in Lorenzo Spurio, La parola di seta. Interviste ai poeti d’oggi, PoetiKanten, Sesto Fiorentino, 2015.

[4] Cit. in Francesco Kerbaker, Recensione ai Cantos di Ezra Pound (Mondadori, Milano, 2018), “Poesia”, anno XXXII, Aprile 2019, n°347, p. 76.

[5] Il poeta tedesco non è citato, ma viene proprio nominato, nella poesia “Non sei una dea” (93).

[6] Nell’intervista a me concessa da Calabrò nel 2015 il poeta ha rivelato: «Vivo da oltre cinquant’anni a Roma, ch’è una città meravigliosa. Ma ogni mattina, quando appena sveglio apro le imposte, avverto un senso di privazione. Ancora assonnato, ogni mattina non mi rendo conto sul momento di cosa mi manchi. Solo un attimo dopo realizzo: mi manca il mare, quel mare che vedevo da ogni finestra della mia casa nativa. È la mia vita non vissuta che s’affaccia».

[7] Tutte le citazioni, sia delle poesie che dei suoi scritti critici sulla poesia che vengono indicate per numero di pagina tra parentesi, sono tratte da Corrado Calabrò, Quinta dimensione Poesie 1958-2018, Mondadori, Milano, 2018.

[8] Alcuni versi dopo si riallacciano a quanto espresso e recitano: «La morte ci alita addosso e con essa/ si cancella tutto» (20).

[9] Oltre al televisore compaiono, quali strumenti-simbolo di quest’età in cui l’uomo è asservito alla macchina, il computer, il cellulare e l’iPod. Oggetti che sono entrati nella vita quotidiana dell’uomo senza più uscirne, contraddistinguendosi ormai come bisogni primari, proprio come il mangiare e il dormire. Ciò evidenzia il vizio della società e la condizione dell’uomo inabile nella sua primigenia natura, viziato e dipendente da altro, prodotto della sua stessa ricerca. Se tali oggetti sono frutto della scienza, pensati come elementi che consentano il miglioramento dello stile di vita (o permettano il diporto), d’altro canto finiscono per essere dei prolungamenti umanizzati, protesi tecnologiche, arti-cyborg. Il loro utilizzo è continuo, rituale (e maniacale al contempo), ormai fisiologico, come traspare anche da un verso di Calabrò: «di tanto in tanto/ riaccendo il cellulare» (89).

[10] «Privo di senso e saputo,/ come le nonpoesie di Sanguineti,/ è un calendario scaduto» (207).

[11] Proprio come la vita è una scommessa, dopo tutto.

In questo mare che è la vita, dunque tanto il passato, il presente che il futuro, il Nostro si trova spesso a ragionare: «Forse è un imbarco dal quale non torno» (33).

[12]  https://alexiameli.altervista.org/terza-quarta-quinta-dimensione-cosa/ L’articolo è stato pubblicato poi anche sulla rivista Apri la mente il 19/12/2017. http://aprilamente.info/terza-quarta-e-quinta-dimensione-cosa-sono/

[13] Nello stesso articolo si legge anche: «Nella quinta dimensione si è consci di essere consapevoli. Non esistono paura, bisogno di sicurezza, mancanza di fiducia. Le energie femminili e maschili sono fuse insieme in armonia. […] Si interagisce coscientemente con il Creatore e tutti gli Esseri di Luce».

“Federico García Lorca, il poeta tellurico”: ricordando il Poeta a 83 anni dalla sua morte – incontro a Cupramontana (AN) sabato 17 agosto

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Sabato 17 agosto 2019 alle ore 21:15 presso la Sala del Torchio dei Musei in Grotta (MIG) a Cupramontana (AN) si terrà l’evento culturale “Federico García Lorca, il poeta tellurico”, un incontro di approfondimento per ricordare il celebre poeta spagnolo, intellettuale poliedrico (drammaturgo, scenografo, disegnatore e musicista), membro di spicco della Generazione del ’27, ad ottantasei anni dalla sua morte, avvenuta, per mano franchista nel bel mezzo della guerra civile spagnola il 19 agosto 1933 nella campagna fuori Granada, nei pressi di Viznar.

Il corpo del Poeta – che non venne mai ritrovato neppure nel corso delle più recenti ricerche e richieste di scavo dell’area – rimane a tutt’oggi un dilemma insolvibile che, nel corso del tempo, ha dato vita alla creazione di varie piste investigative e tesi anche piuttosto singolari. 

Durante la serata il critico letterario Lorenzo Spurio (autore nel 2016 di una plaquette poetica dedicata al Poeta nell’occasione degli 80 anni dalla morte, Tra gli aranci e la menta, edita per PoetiKanten Edizioni di Firenze)  traccerà il percorso umano e letterario di quello che l’amico Pablo Neruda (che conobbe alla Residencia de Estudiantes di Madrid negli anni ’20 del Secolo Scorso e ritrovò a Buenos Aires nel 1933) definì, ben prima della sua tragica fine, come un “naranjo enlutado“.

Il percorso, tra le varie opere dell’autore, che esordì nel 1918 con Impresiones y paisajes, proseguirà fino alle opere più note e celebrate del Romancero Gitano (1928) e del Poema del Cante Jondo (pubblicato nel 1931 ma contenente poesie scritte nei 7-9 anni precedenti) per giungere alle poesie più enigmatiche e dal gusto surrealista di Poeta a New York scritte durante la sua permanenza nella metropoli americana nel periodo 1929-1930 e pubblicate solo nel 1940.

Le letture di brani scelti delle sue opere saranno eseguite dalla scrittrice Gioia Casale e a impreziosire la serata saranno gli interventi musicali alla chitarra del Maestro Massimo Agostinelli che con Lorenzo Spurio ha precedentemente collaborato in altri eventi dedicati al poeta granadino. 

“Memoria come Resistenza: Etty Hillesum e Westerbork”, articolo di Stefano Bardi

a cura di Stefano Bardi

diario-1941-1943_41845.jpgAuschwitz, Birkenau, Mauthausen, Bergen-Belsen, Sobibòr, Fossoli! Nomi, questi, legati all’oscura pagina storica del 27 gennaio 1945 che devono essere affiancati a quello di Westerbork, campo che fu usato dai nazisti come punto di raccolta, smistamento e partenza per gli altri campi di Concentramento. Tre possono essere considerati le fasi di questo campo di concentramento: la prima dal 1942 al 1945 (rifugiati, detenuti, ebrei), la seconda dal 1945 al 1948 (agenti SS, simpatizzanti Movimento Nazional-Socialista, criminali nazisti) e la terza dal 1949 al 1971 (alloggi per molucchi). Questo campo, seppur non rientra in pieno nella logica dello sterminio di massa degli ebrei, fu comunque ideato come un campo fatto di regole ferree: detenuti accompagnati nei loro spostamenti da guardie militari, appello giornaliero, gruppi di lavoro divisi in camerate, sorveglianza diurna e notturna dei posti letto delle camerate, divieto assoluto di comunicare e ricevere posta dall’esterno. Un campo dal quale partirono 107.000 persone per i vari Campi di Concentramento e che fu liberato il 12 aprile 1945 dalla fanteria canadese.

La scrittrice olandese di origine ebraica Esther Hillesum detta “Etty” (Middelburg, 15 gennaio 1914-Auschwitz, 30 novembre 1943) visse in prima persona la deportazione ebraica prima di essere trasferita ad Auschwitz dove troverà la morte. Esperienza quella di Westerbork che sarà racchiusa in parte nel Diario 1941-1943 e soprattutto nelle Lettere 1942-1943 seppur fortemente censurate con la cancellazione dell’emittente, da parte del comandante della Polizia di Sicurezza tedesca del campo. Va subito detto che la scrittrice non fu arrestata né deportata ma scelse lei stessa di essere rinchiusa in questo campo per seguire l’infausto destino del suo popolo; lì lavorò come assistente sociale all’interno dell’ospedale civile del campo. Lavoro che le permise di annotare tutti gli orrori della follia nazista di cui, insieme alla famiglia e al fratello Michael detto “Mischa”, pagherà le conseguenze ad Auschwitz. L’altro fratello, Jacob detto “Jaap”, morirà, invece, a Lubben dopo la liberazione del 17 aprile 1945 durante il viaggio di ritorno nei Paesi Bassi.

Nel 1981 uscì postumo Diario 1941-1943 che sarà poi ristampato in varie edizioni fino a quella integrale del 2012. Esso è stato redatto fra Amsterdam e il Campo di Transito di Westerbork e si basa su due grandi concetti: esistenzialismo e spiritualismo filosofico che devono farci raggiungere, la totale armonia con la Natura. Armonia che sarà da essa trovata grazie all’abbraccio Dio concepito come un’intensa energia interiore e come la fiamma che muove ogni Vita.

Un diario estremamente analitico fatto di date, ore e momenti giornalieri in cui Etty Hillesum scrisse le sue intime pagine dalle quali fuoriesce l’immagine una donna forte, che, non fugge dall’infausto destino del popolo ebraico e l’unico elemento oscuro è il suo animo ingarbugliato, ragnatelico e represso.

Un secondo aspetto è la concezione della Vita da lei concepita come un’energia che deve essere consumata giorno dopo giorno, poiché il futuro è solo una speranza priva di consistenza; e di conseguenza vivere significa coesistere con l’esterno (vacuità) e l’interno (realtà esistenziale). In parole semplici, la Vita è intesa come unica e vera fonte sapienziale dalla quale l’Uomo deve abbeverarsi per intraprendere il suo cammino esistenziale che deve cominciare, dalla sua più profonda interiorità. Vita che deve essere però costruita con le parole! Lessemi intesi dalla Hellisum come strumenti in grado di creare case sicure animate da dolcezze e armoniosi silenzi, ma anche universi interiori con i quali emarginarsi dagli altri che sono codardi, languidi e senza protezioni psico-sociali. Parole che sono concepite come privazioni esistenziali non create, però, da mani altrui, ma dalle nostre medesime mani che strappano dal nostro cuore le gioie e le emozioni per sostituirle con ansie, offese, angherie, paure, asti, rimorsi e nostalgie canaglie.

Un ultimo aspetto riguarda il suo sguardo pieno di compassione verso i nazisti, agnelli sacrificali essi medesimi di un oscuro potere al di sopra di essi. Diario quello di Etty Hillesum che è chiuso dal alcune lettere scritte dal Campo di Transito di Westerbork che saranno da me analizzate.

Nel 1982 uscì l’opera postuma Lettere 1942-1943 che sarà poi ristampata fino ai giorni nostri, in edizioni più ampie e complete. Opera epistolare composta dalle lettere redatte dalla Hillesum ad Amsterdam e Westerbork fra l’agosto 1942 e il settembre 1943 che ci mostrano la crudeltà del Campo di Transito di Westerbork. Un campo dove l’autrice e la sua famiglia resistettero psico-fisicamente, dove si muovevano all’interno di uno spazio composto da un ospedale civile, un orfanotrofio, una stazione ferroviaria, una sinagoga, una cappella mortuaria. Un luogo costituito principalmente da baracche arrugginite e piene di correnti d’aria, panni lasciati asciugare all’aria e cuccette sulle quali patire. Il tutto accompagnato da pessime condizioni igieniche e da un’alimentazione di scarso valore nutrizionale, che portarono molti ebrei a togliersi la Vita con le proprie mani.

Etty Hillesum è una scrittrice che ancora oggi, dopo settantasei anni dalla sua morte, è ricordata nella toponomastica e onomastica in vari luoghi del mondo tra cui: la piazza nel paese di Mirano, l’albero nel Giardino dei Giusti di tutto il Mondo di Milano, la Etty Hillesum Stichting (Fondazione Etty Hillesum) di Amsterdam, il Centro di Ricerca Etty Hillesum dell’Università Gand e tanto altro ancora.          

  STEFANO BARDI

Bibliografia

Hillesum E., Lettere 1942-1943, Adelphi, Milano, 2001.

Hillesum E., Diario 1941-1943, Adelphi, Milano, 2011.

 

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Federico García Lorca: la sua poesia e la sua vita. Due incontri in Liguria con Lorenzo Spurio (Genova 13/04 e La Spezia 14/04)

Due incontri poetici con il poeta e critico letterario Lorenzo Spurio che approfondiranno il vasto e impareggiabile percorso umano e letterario di Federico García Lorca avranno luogo nel secondo fine settimana di aprile in Liguria.

Il primo di essi vedrà Lorenzo Spurio presentare il suo ultimo libro di poesia “Pareidolia” (The Writer Edizioni, Cosenza, 2018 – con prefazione della poetessa Michela Zanarella) presso la Stanza della Poesia di Genova (Piazza Giacomo Matteotti n°70) il 13 aprile alle ore 17:45. La presentazione sarà condotta dalla poetessa e critico letterario Rosa Elisa Giangoia, Durante l´incontro si terrà una “Conversazione su Federico García Lorca”, tesa a indagare alcuni degli aspetti meno noti e più curiosi del percorso umano e letterario del poeta spagnolo, tra i quali la sua permanenza newyorchese nel 1929 e le sue opere surrealiste.

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Il giorno successivo, domenica 13 aprile a La Spezia, presso Il Poggio Ortobar (Scalinata San Giorgio n°5) alle ore 16:30, presentato dal poeta Francesco Salvini, Spurio parlerà del suo precedente libro, “Tra gli aranci e la menta. Recitativo per l´assenza di Federico García Lorca” (PoetiKanten Edizioni, Sesto Fiorentino, 2016 – con prefazione del poeta e critico letterario Nazario Pardini), pubblicato nell´amara ricorrenza degli ottanta anni dalla morte del poeta granadino (vincitore di vari premi nazionali tra i quali “L´Astrolabio” di Pisa). La plaquette affronta il tema della morte, dell´assenza del corpo e della forza espressiva della poetica umana e dell´impegno civico di uno dei più grandi poeti al mondo. Le pagine sono impreziosite da alcune raffigurazioni a china del Maestro irpino Franco Carrarelli elaborate appositamente a partire dalle poesie di Spurio. Nella quarta di copertina del libro, a firma di Corrado Calabrò, si legge: “La silloge è al tempo stesso una rievocazione ed un’invocazione del poeta, con un fondo di accoramento che si scioglie nel colloquio con le piante e con la natura, in sintonia col sentire del poeta e in risonanza con i suoi versi”.

La serata darà modo di parlare e riflettere sull´esistenza travagliata e breve del “poeta tellurico”, valente drammaturgo e difensore dei diritti civili, con particolare attenzione al suo viaggio Oltreoceano compiuto nel 1929 che lo portò prima a New York e poi a Cuba. A novanta anni esatti da questa esperienza assai importante per García Lorca, Spurio racconterà alcuni degli episodi che caratterizzarono quella fase della sua vita, le sue amicizie, la sua vena più incline all´avanguardismo e alla sperimentazione e le nuove opere che lì maturano, prima fra tutte “Poeta a New York” che sarà pubblicata postuma, nel 1940. Durante l´incontro alcuni poeti locali interverranno con loro letture di testi di Garcia Lorca.

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INFO EVENTO GENOVA 13-04-2019

Stanza della Poesia di Genova

stanzadellapoesia@gmail.com

 

INFO EVENTO LA SPEZIA 14-03-2019

Il Poggio Ortobar: – Evento FB

 

 

 

Addio al teatino Vito Moretti, poeta “umano” e saggista di ampia caratura

Giunge dalla stampa online[1] e dalle tante attestazioni di stima e amicizia in Facebook l’annuncio del decesso del professore Vito Moretti (nato a San Vito Chietino nel 1949) di Chieti, docente universitario, poeta e scrittore, saggista e critico letterario che da poco aveva festeggiato i cinquanta anni della sua carriera di letterato. Recentissima, di pochi giorni fa, la notizia che la sua poesia inedita “Potessi raccontare i sogni” è risultata nella rosa dei finalisti del celebre Premio Letterario “Don Luigi Di Liegro”, X edizione, di Roma.

Ingente il suo contributo al mondo della poesia contemporanea, pubblicò (l’elenco dei titoli non è completo!)[2] le opere in dialetto N’andica degnetà de fije (1982), La vulundà e li jurne (1986) e Déndre a na storie (1987), Na raggio ne e li déhe (1989), La case che nen e chiude (2013) e per la poesia in lingua, dopo alcune plaquettes confluite in Una terra e l’altra. Ristampe e inediti (1995), ha dato alle stampe Temporalità e altre congetture (1988), Il finito presente (1989), Le prerogative anteriori (1992) e Da parola a parola (1994), Di ogni cosa detta (2007), L’altrove dei sensi (2007), Con le mani di ieri (2009), Luoghi (2011), Dal portico dell’angelo (2014). I suoi interventi teorici sono stati raccolti nel volume Le ragioni di una scrittura. Dialoghi sul dialetto e sulla poesia contemporanea (1989).

Il mio ricordo è legato ad alcuni brevi episodi che ci permisero di incontrarci in quella che era la terra che lui amava più di ogni altra cosa, ovvero il capoluogo teatino. Difatti nella prima edizione del Premio Letterario “Città di Chieti”, ideato nel 2017 dall’amica e poetessa Rosanna Di Iorio nel quale figuravo per sua volontà quale Presidente di Giuria, data il lungo corso della sua unanimamente riconosciuta attività poetica, la vastità dei suoi interessi letterari, lo spessore delle pubblicazioni e degli interventi critici in conferenze, dibattiti e convegni di varia natura, ci era sembrato opportuno premiarlo con un Premio Speciale definito, appunto, “Città di Chieti” (aveva partecipato in quell’occasione con la poesia “Così è questa la traccia”). Si trattava, com’è intuitivo da comprendere, uno dei tanti  numerosissimi premi, attestazioni di merito e di riconoscimento che da decenni il professore aveva ricevuto con orgoglio e merito in ogni parte del Paese.[3] Ricordo che in quella circostanza, pur dispiaciuto, non ebbi l’occasione di incontrarlo perché doveva trovarsi impegnato fuori città per altre iniziative letterarie e il premio gli venne in seguito consegnato dall’organizzazione.

Lo incontrai, invece, ad aprile 2018 presso il Teatro Marrucino di Chieti nell’occasione della presentazione al pubblico del libro di poesie La stanza segreta (Vitale, 2018) di Rosanna Di Iorio dove ero stato chiamato, assieme a Lucia Bonanni, a intervenire sul volume. Scambiai qualche veloce chiacchiera con lui ma questo non impedì che ne apprezzassi l’impeto nell’esternazione delle sue battute nonché l’acume delle considerazioni.

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Il professor Vito Moretti. Foto tratta da: http://www.ilcentro.it/cultura-e-spettacoli/quelle-ombre-adorne-di-vito-moretti-1.21839?utm_medium=migrazione

Rimasi così in contatto con lui, esclusivamente a mezzo internet, e apprezzai – ben prima che la sua produzione poetica (vastissima e di alto profilo) – la sua attività di critico e di esegeta di testi letterari della tradizione abruzzese con particolare attenzione a Gabriele D’Annunzio. Molto interessato ad alcune sue pubblicazini sull’argomento (ormai per lo più fuori catalogo e dunque introvabili) era stato così gentile da inviarmi estratti delle opere a mezzo e-mail ed altre me le avrebbe sicuramente inviate per posta – quale dono – come mi aveva promesso avendo avvertito nelle mie parole il grande interesse verso il suo lavoro ermeneutico. Purtroppo non ve ne fu tempo. Conservo, invece, con piacere una serie di testi (capitoli estratti) di volumi[4] o di suoi studi critici vertenti il fenomeno del “dramma rurale”, del teatro rustico d’argomento abruzzese con riferimento a La Figlia di Iorio di D’Annunzio. Gli comunicai, nei mesi scorsi, infatti, che ero molto interessato ad approfondire tali questioni per una lettura più ampia e comparativa per un mio studio improntato sul tema dell’onore e del dramma rurale nell’opera dello spagnolo Federico García Lorca. Sono testi importanti e ben calibrati, i suoi, che saranno di certo utili nello sviluppo del mio saggio e che lo saranno per tutti coloro che, interessati al fenomeno agreste in oggetto, faranno ricerche in tal senso.

Ma la produzione di critica letteraria di Moretti è vastissima e non esula interessi d’altro tipo. Vorrei, infatti, ricordare alcuni dei testi della sua intensa bibliografia: Occasioni abruzzesi. Letture e pagine critiche (Tracce, 2000), Il plurale delle voci. La letteratura abruzzese fra Sette e Novecento (Bulzoni, 1996), D’Annunzio pubblico e privato (Marsilio, 2001), Le forme dell’identità. Dall’Arcadia al decadentismo (Studium, 2001),  I labirinti del Vate. Gabriele D’Annunzio e le mediazioni della scrittura (Studium, 2006), Ariel e Melitta. Carteggio inedito D’Annunzio-De Felici (Carabba, 2007), Di carte e di parole. Note, proposte e ricerche sulla letteratura dell’Otto e Novecento (Bulzoni, 2009), Le forme recitate. Aspetti della letteratura tra Otto e Novecento (Studium, 2011).

L’ultima volta che lo sentii, circa un paio di settimane fa, era per informarlo della decisione della redazione della rivista di poesia e critica letteraria “Euterpe” di pubblicare una delle sue poesie,  giunte per la selezione dei testi, ovvero la poesia “Nel nostro campo”, che figura all’interno delle pagine del n°28 di Febbraio 2019.

Alcuni versi estratti da un’altra sua bella poesia, “Dubita, se ogni punto”, così recitano: “Nulla ha più della perfezione/ che ti impegna al perdono, alla linea che declina/ e che pure sale, e che si moltiplica, tu sai,/ dove tutto è infinito”.

 

Lorenzo Spurio

09-02-2019

 

[1] La testata “Chieti Today” così titola la notizia: “La cultura abruzzese piange il professor Vito Moretti, docente universitario e scrittore”: http://www.chietitoday.it/cronaca/scomparso-professor-vito-moretti-chieti-san-vito-chietino.html mentre l’emittente locale “Rete 8” così titola: “Chieti piange la scomparsa del professor Vito Moretti”, http://www.rete8.it/cronaca/234chieti-piange-la-scomparsa-del-professor-vito-moretti/

[2] Notizie biobibliografiche più esaustive possono essere consultate sui siti della casa editrice Tabula Fati: http://www.edizionitabulafati.it/vitomoretti.htm e “Poesie del nostro tempo”: http://poetidelparco.it/9_228_Vito-Moretti.html Numerosi suoi testi poetici sono presenti sul siti, riviste online e antologie poetiche.

[3] Solo per citarne alcuni: il “Versilia-Marina di Carrara”, il “Premio Alghero”, il “Pisa-Calamaio di Neri”. Il professore, inoltre, era presidente e membro di giuria in numerosi premi letterari nazionali sia abruzzesi che di altre regioni.

[4] Principalmente estratti di VITO MORETTI,  I labirinti del Vate. Gabriele d’Annunzio e le mediazioni della scrittura, Roma, Edizioni Studium, 2006.

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“La storia dell’Italia che emerge dai racconti di Vittorio Sartarelli”, di Lorenzo Spurio

Recensione di Lorenzo Spurio 

 

La lettura di “Racconti. Ricordi, esperienze e sentimenti” (Elison Publishing, 2015) di Vittorio Sartarelli, noto scrittore di Trapani, è piacevole perché, con un fare che è piano e un linguaggio accessibile a tutti, ci narra di episodi personali situandoli nella loro cornice storica. Non c’è l’intenzione di ricostruire in forma meticolosa le vicende storiche mediante date, riferimenti precisi o documentazioni dell’epoca, bensì di narrare il suo vissuto in maniera spontanea, così come ritorna alla mente nell’inarrestabile flusso dei ricordi. Lo scrittore ci fornisce, però, elementi e aspetti di decenni passati che oggi solo le persone mature ricordano, o che si ritrovano, appunto, nei libri di storia. Vorrei – in questa breve recensione – cercare di focalizzare l’attenzione su tali aspetti.

Ne “Il professore di matematica”, il racconto che apre la breve raccolta, si accenna a uno dei temi che poi verrà ripreso e sviluppato maggiormente in seguito ovvero alla pratica diffusa e legalizzata delle cosiddette “case chiuse” o “case rosa” meglio note come lupanari, casini o bordelli. Si trattava di edifici dove giovani e belle ragazze, comandate spesso da una figura anziana che gestiva l’intera casa, offrivano le loro grazie secondo un prezzario che era affisso all’entrata. Luoghi di piacere per alcuni, di perdizione, per altri, erano frequentatissimi negli anni del Regime e in seguito furono osteggiati pesantemente tantoché, dopo una dura battaglia sociale portata avanti negli anni Cinquanta, nel 1958 la Legge Merlin, firmata dal Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, decretò la chiusura delle case rosa. Di ciò si parla più lungamente in “La cattiva strada” dove si descrive il tormentato approccio di un ragazzino con l’altro sesso, la sua iniziazione che avviene mediante l’incontro con una prostituta. L’autore così scrive: “Eravamo all’inizio degli anni Sessanta […] quando esistevano ancora, perfettamente legalizzate, le “case chiuse” […] luoghi squallidi, effimeri e menzogneri del piacere carnale, riservati a una gran parte degli uomini di quel tempo” (13). L’autore sottolinea anche un aspetto di cruciale importanza quale la pericolosità di malattie veneree non esistendo all’epoca validi “protettori” da impiegarsi durante i rapporti. Segue una breve ma valida dissertazione su tale aspetto dell’amore a pagamento nel quale Sartarelli giunge finanche a esporsi sulle nuove endemicità quale l’AIDS. L’incontro carnale del giovane con la prostituta, definito “balordo” (23) è insoddisfacente e al contempo fa riaffiorare il vero bisogno dell’uomo: quello di una compagna affabile e amorosa, di una donna che sappia ascoltare e condividere con lui la strada.

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Un esempio di listino di una casa chiusa. Foto tratta da: https://tinyurl.com/yc65cw8m

Del racconto che segue, “La mia città”, dirò che è un affascinante dipinto della città tra i due mari, il capoluogo siciliano di Trapani sul quale Sartarelli ha scritto una vera e propria guida storico-turistica arricchita da scatti fotografici particolarmente suggestivi. Si passa in rassegna la stratificazione culturale della città e i suoi misteri religiosi sino a evidenziare la posizione estremamente strategica non solo per l’Italia ma per il Mediterraneo tutto, la ricchezza paesaggistica, il clima mite, l’architettura che rende la città un gioiello, come la nota Torre de Ligny che si protende verso il mare. Nel racconto “Viaggio nei ricordi” (presente in questo volume) sono di particolare impatto e ricche di dettagli le descrizioni della pratica della tonnara nell’Isola di Favignana nonché della piazza Florio, nel centro della città.

In “Le donne della mia vita” (racconto pubblicato sulla rivista di letteratura online “Euterpe” n°27 nei mesi scorsi) è narrato con vivezza e forza espressiva l’amore verso tre donne che, in modi differenti, hanno marcato la sua esistenza: dalla nonna alla moglie, passando per la figura della madre. In tale racconto ritroviamo una dimensione storica relativa al secondo conflitto mondiale che risulta interessante riportare: “A causa dei bombardamenti effettuati sulle città dalle famose “fortezze volanti” la mia famiglia fu costretta, come molte altre, a sfollare dalla nostra città, in un paesino pedemontano dell’hinterland cittadino. Lo sfollamento per motivi bellici, fu un fenomeno di massa caratteristico di quegli anni” (41). La narrazione procede in forma cronologica e, nel ricordo delle donne che l’hanno amato, segue la memoria relativa alla fine del conflitto mondiale a partire dal noto sbarco in Sicilia degli Alleati. Così ne parla l’autore: “Nel mese di Giugno del 1943, gli Anglo-Americani sbarcarono in Sicilia, dove, di fatto, quasi senza colpo ferire, terminarono le ostilità. L’ingresso trionfale delle truppe d’occupazione nel paese dove eravamo sfollati fu preceduto da un gruppuscolo di sedicenti partigiani, osannanti “la liberazione” e cantando l’inno “Bandiera Rossa”” (42).

Del periodo bellico è senz’altro il racconto “Venti di guerra” quello che fornisce maggiori immagini e descrizioni di quel nefando periodo che fu la seconda guerra mondiale. Pur piccolo, il giovane autore era in grado di “avverti[re] quel senso di ansia continua e di paura che irretiva gli adulti della [sua] famiglia” (48) segno di una minaccia palpabile e imminente. C’è il ricordo doloroso dei bombardamenti operati dai francesi eseguiti sulle Scogliere di Tramontana rimembrato quale “sorta di azione dimostrativa a scopo punitivo e intimidatorio” (49). E poi i bombardamenti sulle città, la distruzione e la fuga per tentare di mettersi al riparo. Lo sfollamento, del quale già si è detto, rappresentò di certo un periodo traumatico per il giovane autore, difficilmente comprensibile, motivo di angoscia e tribolazione: “non capivo il perché di tutto ciò, ma avvertivo la sofferenza di quelle persone e lo sgomento di coloro che come noi, assistevano a quelle scene pietose” (50).

L’autore, con la conoscenza di uomo maturo, nell’atto dello scrivere è riuscito a fondere sapientemente il sentimento autentico di quelle vicende sperimentate dagli occhi di ragazzino, innocente e vulnerabile, astruso alle nefandezze del mondo, alla politica, agli schieramenti e quant’altro, con la cronaca storica, documentata e ufficiale, di quanto realmente accadde in quei truci momenti in cui l’umanità si vide denigrata. Dai bombardamenti allo sfollamento sino a che gli Alleati non sbarcarono in Sicilia in un momento di crisi e inconsapevolezza collettiva in merito a quale parte abbracciare (l’8 settembre era stato annunciato il celebre Armistizio, firmato segretamente, che, di colpo, mutava gli alleati e i nemici dell’Italia). In tale scenario disunito e profondamente acceso, l’autore ci parla degli Alleati e dei partigiani, ma anche della povera gente che poco capì quanto dall’alto venne comandato, dei poveri cristi che, com’era avvenuto negli anni precedenti, furono costretti ad accettare il nuovo (sì!) ma imposto (un po’ come accadeva ne Il Gattopardo alla famiglia del Principe Salina).

Credo che le brevi storie raccontate da Sartarelli in questo volume, oltre a dimostrare una grande fiducia verso la materia storica, siano frutto di un meticoloso recupero della propria identità in periodi altri, ormai distanti, epoche che lo hanno riguardato dove ha convissuto e dove è maturato come uomo. Un volume snello ed efficace – mi permetto di osservare – per le nuove generazioni dove, senza formalismi o estenuazioni di cifre, si può davvero avvicinarsi alla storia, ad alcuni momenti centrali per la vita del nostro Paese che, di fatto, l’avrebbero poi traghettato verso lo Stato libero e democratico che è oggi. Conoscerne le fondamenta risulta, pertanto, assai importante.

LORENZO SPURIO 

 

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