Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.
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Alle donne che trovano nella poesia la valvola salvifica della loro vita
“Spiritualità”: parola complessa, eterogenea, considerata la sua essenza polisemica, infatti può essere spirituale la religiosità, intesa come dovere ed impegno nella fede, oppure è spirituale la ricerca del divino, l’apertura interiore verso il trascendente, ma si può anche farne una considerazione realistica, ossia si può vedere l’incorporeità nella realtà e, sebbene non percepibile con i sensi fisici, considerarlo la fonte da cui la materia tangibile trae vita.
La spiritualità, considerata la sua eterogeneità semantica, è ravvisabile in tantissimi poeti, a cominciare dalle origini della letteratura italiana e, solo per citare il più famoso, ricordiamo Il Cantico delle creature di S. Francesco d’Assisi. Tuttavia non volendo esplicare un lungo elenco di autori in cui la spiritualità, intesa nella pluralità delle sue esplicazioni è presente, si ritiene opportuno fermarsi alla contemporaneità che, pur caratterizzata dal consumismo e dall’alienazione etico-morale, tuttavia non manca nei versi di alcuni poeti e poetesse.
La poetessa Patrizia Cavalli (1947-2022)
In tale delimitazione temporale, particolarmente rilevante è la silloge di Patrizia Cavalli, Poesie (Einaudi). La poetessa sostiene che solo ai versi è possibile affidare un ruolo significativo, in vista di quei valori che definiamo come religiosi, o meglio spirituali. La poesia infatti rivendica l’approfondimento di valori che si possono indicare anche con il termine di verità. D’altronde, la filosofia del Novecento ha rivalutato tale funzione e in particolare Haidegger ha affermato il primato della poesia come e in quanto forma di conoscenza.
Rilevante è anche la concezione della poetessa Chandra Livia Candiani che nella silloge Il silenzio è cosa viva (Einaudi), sostiene che il silenzio favorisce la meditazione che non divide quel che consideriamo spirituale da quel che consideriamo ordinario e i gesti quotidiani possono diventare, possono diventare forme di preghiera, spiritualità.
Infine si vuole ricordare, come espressione del poliedro vivere e sentire la spiritualità, Mariangela Gualtieri che nella raccolta Senza polvere senza peso (Einaudi). La poetessa con una scrittura in viva tensione compone versi di suggestione lirico-visionaria, in cui le inquietudini dolenti della precedente raccolta, aspirano a distendersi in immagini di interiore gioia. Infine appare opportuno evidenziare e lodare la scelta di pubblicazione della suddetta, prestigiosa casa editrice che ha dato voce alla spiritualità presente nelle suddette poetesse.
Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.
Il concetto espresso nell’affermazione “Poesia e spiritualità” potrebbe essere confuso o scambiato con “Poesia è spiritualità”; ma quell’accento sulla “e”, trasformandola da congiunzione in affermazione d’identità, muta tutto il percorso concettuale che si dovrebbe prendere per parlare di Poesia. Infatti, accostare due termini (o concetti) con una “e”, congiunzione, significa oggettivarli, porli di contro, per similitudine o contrasto. Alla stessa maniera si pongono come principio identitario perché poesia è alla fine spiritualità, come espressione dello spirito. Quindi il dualismo identità-opposizione assume una dimensione concettuale che ha diverse particolarità, influenzando poi la poesia stessa come espressione della sensibilità e sentimento.
Se l’identità, nel principio cardine della logica occidentale, come vuole Aristotele, non ammette negazione, perché ciò che è se stesso non può esser altro, per contro però, proprio per dover essere se stesso, ha necessità di confrontarsi con altro, in quanto è l’esistenza di quest’ultimo a blindarlo nel suo essere assolutamente sé. Però formulare il rigido “Poesia è spiritualità” relega la poesia nel solido schema della sola espressione spirituale, intesa questa nell’interpretazione di espressione non in senso lato di espressione dello spirito, ma particolare di espressione dello spirito religioso o filosofico.
Di conseguenza dovendo poi allargare l’orizzonte interpretativo a un significato di spiritualità, ossia azione dello spirito, a ogni attività di pensiero umano, il concetto di spiritualità ne sarebbe fortemente sminuito e depotenziato come valore morale etico di vivere l’esistenza. Su questa via, percorrendola tutta, giungiamo al fondo di sostenere che la poesia al fine può non essere spirituale, nel senso di spiritualità come connotato di valore etico, ma definirsi poesia intellettiva, cioè prodotto d’intelletto e ragione e sensibilità in senso lato.
Chiariamo, ora, il concetto di “spiritualità”: particolare sensibilità e profonda adesione ai valori spirituali, in particolare l’insieme degli elementi che caratterizzano i modi di vivere e di sperimentare realtà spirituali, sia con riguardo a forme di vita religiosa, sia con riferimento a movimenti filosofici; sotto questa luce la poesia deve definirsi in canoni ben definiti e determinati. Ma se prendiamo il termine “poesia” dal latino “poesis”, e prima ancora dal derivato greco, abbiamo «fare, produrre», siamo su “capacità e “abilità” di produrre composizioni verbali in versi, cioè secondo determinate leggi metriche, o secondo altri tipi di restrizione; con un certo grado di approssimazione si può dire che il significato di poesia è individuabile nell’uso corrente e tradizionale nella sua contrapposizione a prosa, perché i due termini implicano rispettivamente e principalmente la presenza o l’assenza di una restrizione metrica. Però una poesia che si limita e rispetta restrizioni metriche, ossia di modo di esprimersi, ha necessità primaria di agire sotto l’egida e guida della ragione e forse non necessariamente della logica in quanto, attraverso la metafora può superare anch’essa, in certi limiti. Quindi deve presupporsi un qualcosa che unisca sensibilità e ragione, sentimento e coscienza critica razionale e questo ponte lo possiamo trovare nel «calcolo poetico concettuale», forma di pensiero definibile come un ossimoro, figura retorica consistente nell’accostare parole che esprimono concetti opposti, perché, in effetti, un dualismo contrario esiste.
Infatti “calcolo”, deriva da “calcolare”, ovvero determinare misure, quantità, rapporti mediante calcoli matematici, e, in senso più esteso, valutare qualcosa, metterla in conto. È una operazione transitiva di azione mentale poggiante sulla Ragione, sulla determinazione razionale di definizione logica. Il termine concetto, invece, coincide con quello di universale con il quale il soggetto crea una propria rappresentazione astratta degli oggetti percepiti ed è un simbolo mentale, tipicamente associato con una corrispondente rappresentazione in una lingua o nella simbologia. Il calcolo, pertanto, è intimamente legato al concetto di riuscire a vedere la realtà o sentirla, nel caso del discorso poetico. L’ossimoro sta nella contraddizione propria della visione di calcolo concettuale raffrontata con la poeticità, perché quest’ultima è essenzialmente facoltà della poesia, intesa sia come generica capacità creativa sia come arte letteraria e quindi tipica di ciò che ispira poesia o è degno di essere trattato in versi; attitudini proprie della dimensione sentimentale o di sentimento che nulla ha a che fare con il calcolo concettuale predefinito, sebbene anche nella poesia sia presente la concettualità come sfondo interpretativo di ciò che si vuol esprimere.
L’incontro o scontro, quindi, fra il pensiero poetante e la poesia pensante è quel luogo in cui la Pura Emozione del sentire deve necessariamente farsi carico della sua realtà, perché non può esistere e definirsi se non si concede e accede, poi, alla materialità che la salvaguarda.
La poesia è quella forma di “esternazione” di un arcano sentire, e per “sentire” deve intendersi non ciò che i cinque sensi possono manifestare, in altre parole manifestare quel che interpretano materialmente anche se in una forma assolutamente particolare, ma piuttosto quell’“avvertire” un paradigma del vivere in una forma metafisica, oltre la fisica, e percorrerla però con quella condizione che è propria dell’ente esistenziale, cioè la ragione la quale è presa d’atto del reale contingente.
Il «calcolo poetico concettuale», pertanto, diventa l’unità di misura, e strumento di analisi e valutazione della Poesia e sue espressioni. La poesia in quel suo viaggio, fra il sentire e il dover necessariamente farsi carico del suo stato contingente di reale in cui sta, deve creare una dimensione sua, in cui interpretare un’altra realtà, questa si meta-fisica, dove la meta è oltre, altrove, e il fisico non è la realtà stessa, ma quello stato concettuale ed emozionale che decifri l’esistenza di chi attraverso la poesia comunica e trasferisce il proprio “sentimento” all’esterno di sé.
In una lettera del suo epistolario il poeta romantico inglese dell’800 John Keats si chiede se esista un luogo tra l’essere e il non essere, e se c’è, quello è il luogo della poesia. Perché se il reale non coincide con ciò che è, allora, il poeta che scrive del proprio stato guarda non in ciò che è e nemmeno in quel che non è, ma in un’altra dimensione. Lì sta la poesia! Siamo nella realtà della irrealtà della poesia. Ed è in quello scambio di significato della “e” congiunzione con la “è” come determinazione di uno stato d’essere, il farsi esistenza di qualcosa. Per Keats, poi, la questione della Poesia è “salvezza” di compimento perché ciò che non si compie, che non arriva a manifestarsi nell’assolutezza del suo essere bellezza-verità, è fallimento; se non c’è creazione perfetta, né formazione compiuta non v’è salvezza. E questo avviene nella presa d’atto dell’Assenza e delle mancanze rispetto a un’idealità sentita e vissuta che lascia il Poeta incompiuto nella sua stessa dimensione da cui vuol uscirne. E anche in questo caso la comparazione “poesia e spiritualità” ha un suo significato profondo perché “salva” la poesia, ossia il fare, produrre del poeta in una possibilità ampia di manifestarsi in modi e forme altrettanto ampie.
Al pari la “poesia è spiritualità” chiude in rigidi schemi sia il poeta sia la sua poetica, perché non ammette diversità. Scrive sempre Keats che “il Poeta è la più impoetica delle creature” perché dovendo essere la poesia “compiuta”, che vuol dire assoluta, il poeta che non è assoluto ma mancante, non è poetico. Perché non è poesia ciò che è pensato per ricatturare ciò che è assente. Se la poesia è desiderio di ciò che non è, perché già stato, lamento di ciò che è, che è meno di ciò che speriamo, allora la poesia è impazienza del significato. L’incompiutezza cui è condannato il Poeta, per voler esprimere l’assoluto del suo sentimento e fallire in questo perché costretto a fermarsi sull’assenza e mancanza della realtà in cui guarda e sente. Ed egli, il Poeta, con la Poesia passando sopra la realtà, trasfigurandola riesce con l’immaginazione a creare una possibile realtà che seppure sia assente e mancante diviene realtà proiettata e definita. L’irrealtà della poesia diviene pertanto realtà vissuta dall’emozione del sentimento, e siccome il Poeta “vive” di emozioni, quella realtà dell’irrealtà diviene la “sua realtà”, che poi cerca di trasferirla, esternando il suo “sentire”. Passaggio, questo, dal sentire al dire, attraverso il linguaggio cui il Poeta stesso deve affidarsi per determinarlo. Ecco il significato diversivo tra la comparazione in un “e”, e l’identità di un “è”.
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Spiritualità è far addormentare il proprio dolore con una ninna nanna d’amore, risvegliando così dolcemente, al tempo stesso, la propria assopita felicità.
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Terapie Spirituali
Scrivere è sognare il paradiso prendendosi cura della propria anima in una stanza refrigerata del proprio torrido e personale inferno.
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Cercando le definizioni di “spiritualità” nei dizionari ci si trova immersi in affermazioni nebulose, ripetitive, generiche che concordano solo nell’eliminazione degli aggettivi qualificativi, quali – interiore, religiosa, cattolica, laica, naturale, orientale… – e insistono sul tema della ricerca interiore, introspettiva, presente e costante in ogni essere umano, a prescindere dalla sua cultura, dalla sua confessione religiosa, dal suo “status” di persona e di valori, tensioni e aspirazioni, che fanno a meno dal credere nel “Trascendente”. Si ipotizza una ricerca individuale, attingendo all’esperienza, ma anche al patrimonio di conoscenze e sapienza della società nella quale viviamo.
La spiritualità si caratterizza allora attraverso la valorizzazione del quotidiano perché nulla di quanto si vive è ‘profano’: cambia invece la condizione vitale che differenziandosi determina modalità diverse nel vivere la vita. Questa dimensione interpretativa è strettamente unita alla poesia e alle sue manifestazioni.
La spiritualità della poesia si innesta nella spiritualità del singolo e della sua vita, è ricerca che ha come fine la realizzazione di se stesso, o l’autocompimento esistenziale, la maturazione dell’esistenza, nel dialogo con gli altri e all’incontro con la dimensione religiosa, metafisica.
La filosofia del Novecento, ha rivalutato la funzione della letteratura e quindi della poesia anche ai fini del pensiero, di una riflessione radicata sulla verità e le sue ragioni.
L’affinità tra linguaggio religioso-spirituale e linguaggio poetico si rivela nel loro dimorare nelle profondità dell’esperienza umana, rasentando i confini del dicibile. La poesia restituisce, con assoluta evidenza, la complessità della vicenda umana alla ricerca dell’anima, del divino, in virtù di uno sguardo orientato oltre la successione del tempo e del visibile; uno sguardo che attraversa il silenzio, per attingere alla fonte della vita della parola.
Moltissimi i poeti che si sono espressi e confrontati sul tema. La spiritualità è il contatto con la propria umanità. La parola poetica riesce a toccare il nocciolo della verità ed è proprio questa sua capacità unica, senza eguali, che trasforma l’arte in una forma di umanesimo spirituale e, attraverso le parole, ci mostra il vero volto spoglio, duraturo e nitido delle cose. La poesia è la vera “lampada d’oro” che illumina il cammino di molti lettori che si accostano al canto di sirene delle parole. Per alcuni Autori che hanno fatto la scelta di coincidenza di spiritualità con fede religiosa, la poesia trova la sua strada maestra. È il caso di David Maria Turoldo.
La ricerca inquieta di Dio, Tenebra luminosa, l’invito alla preghiera, la natura, sono riflesso di Lui. Questi temi si intersecano nella sua poesia in un suo costume espressivo costituzionalmente severo, essenziale, garante dei valori di fondo di matrice evangelica e garantiti in qualche modo in un Friuli dalla civiltà contadina in condizioni di necessità più che di libertà. Una preghiera la sua che è un soliloquio, ma anche un dialogo col cielo. I luoghi, le persone (casa, paese, fiume, la terra, la vigna…) acquistano “il di più” di significato e valore da superare, la funzionalità contingente: “che io possa ancora vedere / il sole che sorge / una nuvola d’oro, / Espero che riluce la sera / in un limpido cielo.” È sempre sottinteso il fondo storico-sociale nella sua arpa, ma come larga cornice, di sapore biblico, come possiamo constatare in Preghiera: “…salutare il giorno/ e dare speranza agli umili / e dire insieme la preghiera….”, pur consapevole che la poesia, oltre che preghiera, vuol essere invito gioioso al canto:
Svegliati, mia arpa,
che voglio destare l’aurora:
cantare i silenzi dell’alba
chiamare le genti sulle porte,
e salutare il giorno:
e dare speranza agli umili
e dire insieme la preghiera
del pane che basti per oggi:
allora anche i poveri ne avranno d’avanzo.
Amen.
(Poesia “Preghiera”)
Oppure il caso di Clemente Rebora, in Frammenti lirici, che Silvio Ramat definiva poesia “metafisica”, come se l’io fosse in attesa di una rivelazione vaga e indefinita, eppure aperta nel mondo religioso, nell’ora “divina” che prima o poi giungerà confortante: -spazio e tempo sospeso-, come se l’universo si fosse fermato improvvisamente e in tale condizione rivelasse il suo profondo essere permettendo di comprendere appieno il suo esistere. Allora, con l’inno alla vita, che si esprime sotto forma di inquieto fremente monologo, si scoprirà la malia del vivere, la profusione del sentimento che annulla il fastidio ripetitivo del giorno qualunque, sconfinando attraverso i palpiti fecondi nella vita profonda dell’universo:
Divina l’ora quando per le membra
Lene va il sangue, e vivere è malìa:
Nel vero effusa la persona sembra
Luce nell’aria; e ignora come sia.
Da fonti aperte nasce il sentimento
Che d’ogni cosa fa ruscello, e intorno
D’amorosa bontà freme anche il lento
Fastidio ch’erra nell’usato giorno.
Onde sconfina l’attimo irraggiato
Nel vasto palpitar che lo feconda,
E scopre il senso intenso in ciascun lato
dell’universo una vita profonda.
(Dalla poesia “Divina l’ora quando per le membra”)
La spiritualità laica o naturale che dir si voglia, attraversa il quotidiano, i nostri dubbi e limiti, come per Franco Loi in questa poesia carica di disincanto:
Siamo poca roba, Dio, siamo quasi niente,
forse memoria siamo, un soffio d’aria,
ombra degli uomini che passano, i nostri parenti,
forse il ricordo d’una qualche vita perduta,
un tuono che da lontano ci richiama,
la forma che sarà di altra progenie…
Ma come facciamo pietà, quanto dolore,
e quanta vita se la porta il vento!
Andiamo senza sapere, cantando gli inni,
e a noi di ciò che eravamo non è rimasto niente.
(Da Liber, 1988)
Loi medita sull’essere poeta oggi, sulle sue ambiguità e contraddizioni, sull’estraneità della poesia allo svagato mondo contemporaneo, sull’incertezza ed inquietudine che ne genera, coinvolgendoci nella malinconia del vivere.
Interessante ed originale l’itinerario compiuto dalle poetesse. Prima in assoluto mi sembra la poesia di Emily Dickinson, che ha un’anima grande, immensa, mai definibile una volta per tutte, perché rompe la quotidianità, le cornici, i quadri storici di riferimento che ogni critico si impegna a trovarle, inutilmente. Sa immaginare la vita e la sua gioia, ma anche rasentare, frequentare l’assoluto, la “finita infinità”: il sovrumano, il divino, sa volare umilmente attenta nel suo giardino quotidiano, ma anche volare alto, più di un metafisico, sa vedere con occhi liberi: l’amore è assoluto, come la morte, come la poesia, “estatica nazione”. Il quotidiano la sfiora, ma non la cattura, non l’impiglia, non la isola, non l’avvilisce. Lei sa uscire dalle sue strette, sa volare.
Non accostarti troppo alla dimora di una rosa:
se una brezza le preda
o rugiada le inonda
cadono con timore le sue mura.
E non voler legare la farfalla,
o scalare le sbarre dell’estasi:
garanzia della gioia
è il suo rischio perenne.
(c.1878)
E ancora: in se stessi bisogna cercare, camminare, scavare, unendo cuore e mente in un unico continente, inseguendo la bellezza, che “non ha causa”:
La bellezza non ha causa:/esiste.
Inseguila e sparisce.
Non inseguirla e appare.
Sai afferrare le crespe
Del prato quando il vento
Vi avvolge le sue dita?
Iddio provvederà
perché non ti riesca.
(c.186)
E conclude – le parole al minimo, lasciare parlare gli spazi bianchi – una lotta impari e improba ingaggiata con la forza della disperazione nei confronti della ultrapotente “parola”:
‘Ha una sua solitudine lo spazio
solitudine il mare
e solitudine la morte- eppure
tutte queste son folla
in confronto a quel punto più profondo,
segretezza polare
che è un’anima al cospetto di se stessa –infinità finita
Finita infinità.’
(c. 1695).
La più vicina al suo sentire mi sembra essere in Italia la poetessa milanese Antonia Pozzi, di cui ora è nota sia la storia umana che spirituale, rimanendo valido quello che di lei scriveva la grande filologa Maria Corti: “Il suo spirito faceva pensare a quelle piante di montagna che possono espandersi solo ai margini dei crepacci, sull’orlo degli abissi”. Una vita brevissima, suicida a soli ventisei anni, ricca di interessi culturali, di incontri e di passioni contrastate, insopportabili nelle loro contraddizioni. Nel suo canzoniere, pubblicato postumo, vi è una continua ricerca dell’autenticità dell’esistenza nelle parole, e le parole della Pozzi, come ha scritto Montale, «sono asciutte e dure come i sassi», ridotte al «minimo di peso».
Tristezza di queste mie mani
troppo pesanti
per non aprire piaghe,
troppo leggere
per lasciare un’impronta.-
tristezza di questa mia bocca
che dice le stesse
parole tue
altre cose intendendo-
e questo è il modo
della più disperata
lontananza.
(Poesia “Sfiducia”)
Eppure rimane il senso e il valore della ricerca, dell’approdo, la speranza di una risposta leggera e alla fine liberante:
[…] Ma giungerà una sera
a queste rive
l’anima liberata:
senza piegare i giunchi
senza muovere l’acqua o l’aria
salperà – con le case
dell’isola lontana,
per un’alta scogliera
di stelle –
In Italia Alda Merini scrive poesie, specie religiose, che nascono dall’insistenza dolorosa e sincera sul tema dell’impossibilità per tutti di salvarsi dalle angosce…: “Quando l’angoscia spande il suo colore / dentro l’anima buia / come una pennellata di vendetta…”. L’angoscia è il senso refrattario di ciò che a noi è dovuto per diritto di vita. L’angoscia non nasce solo dalle frustrazioni che stimolano l’Es a procedere sul versante opposto a quello della follia. Il dualismo follia-ratio è un salto di qualità che viene molto spesso annullato dall’ambiente in cui si vive.… nel mio caso la poesia mi ha salvato la vita. Fatta a tentoni, fra mille burrasche e dimenticata da tutti… L’anima ha mille sentieri e soprattutto mille tentazioni nascoste. Se l’anima è franca, se ha conosciuto il valore e il peso della morte, conosce le radici della vita e sa che sono amare ma salutari. Non esiste una medicina né per l’anima né per il dolore, perché se il dolore è una vetta che sorge improvvisamente nel cuore, la morte cerca di renderlo eterno e di farne un languore umano. Ma la morte non è una nemica, è soltanto un grande filantropo che ama gli uomini e un grande filologo che conosce la natura delle parole. Ciò che vale nell’anima è la nudità…. L’anima ha la semplicità dell’acqua ed è la prima natura dell’uomo…”.
La raccolta Tu sei Pietro è del 1961. Nella chiusa della lirica Rinnovate ho per te, di questa raccolta, appare una straordinaria affermazione autobiografica: “Ché cristiana son io ma non ricordo/ dove e quando finì dentro il mio cuore/ tutto quel paganesimo ch’io vivo”. Nel 2002 ha pubblicato Magnificat da Frassinelli. Toccante e sincero il suo miserere:
Miserere di me,/ che sono caduta a terra/come una pietra di sogno.
Miserere di me, Signore,/ che sono un grumo di lacrime.
Miserere di me,/ che sono la tua pietà.
Mio figlio/ Grande quanto il cielo.
Mio figlio,/ che non è più vivo.
Miserere di me,/ o universo,
egli era la punta di uno spillo/l’ago supremo della mia paura.
Miserere di me/ Che sono morta con lui.
Miserere della mia grandezza,/miserere della mia stanchezza,
miserere della misericordia di Dio.
Ma il tema religioso non è mai frutto si sublimazione definitiva. Si sente infatti come “una piccola ape furibonda”, “una donna non addomesticabile”, costretta a dire la verità, pur essendo “piena di bugie”.
L’angoscia è di una puntualità incredibile: ha fatto un corso accelerato di storia e ti ripete sempre le stesse cose, non ha la minima fantasia. E se tu chiedi all’angoscia: Dov’è tuo fratello? L’angoscia ti risponde puntualmente: sono io il custode di mio fratello. E finalmente, dopo queste parole auliche, tu entri profondamente nella Bibbia e scrivi il Magnificat.”
Tra le poetesse contemporanee riserverei un posto privilegiato a Louise Glück, premio Nobel per la letteratura 2020. È straordinaria per la sua originalità poetica la raccolta che l’ha resa famosa anche in Italia: L’Iris selvatico, un libro complesso e denso che è un dialogo tra i fiori del giardino, il giardiniere e Dio. La Glück non è particolarmente credente, ma sa trasformare il vissuto soggettivo in una ‘metafisica del quotidiano’, come in questa straordinaria dolorante severa e spoglia preghiera-confessione:
Padre irraggiungibile, quando all’inizio fummo
esiliati dal cielo, creasti
una replica, un luogo in un certo senso
diverso dal cielo, essendo
pensato per dare una lezione: altrimenti
uguale… la bellezza da entrambe le parti, bellezza
senza alternativa… Solo che
non sapevamo quale fosse la lezione. Lasciati soli,
ci esaurimmo a vicenda. Seguirono
anni di oscurità; facemmo a turno
a lavorare il giardino, le prime lacrime
ci riempivano gli occhi quando la terra
si appannò di petali, qui
rosso scuro, là color carne…
Non pensavamo mai a te
che stavamo imparando a venerare.
Sapevamo solo che non era natura umana amare
solo ciò che restituisce amore.
(Poesia “Mattutino”)
Bibliografia
Dickinson Emily, Poesie di E. Dickinson, traduzione e note di M. Guidacci, BUR, 1996
Dickinson Emily, Tutte le poesie, “I Meridiani”, Mondadori, Milano, 1997
Glück Louise, L’iris selvatico, traduzione di Massimo Bacigalupo, Il Saggiatore, 2020
Glück Louise, Ricette per l’inverno dal collettivo, traduzione di M. Bacigalupo, Il Saggiatore, 2022
Loi Franco, Liber, Garzanti, 1988
Loi Franco, Poesie scelte e breve nota bibliografica, a cura di Nelvia Di Monte, 2021
Merini Alda, Il suono dell’ombra. Poesie e prose 1953-2009, a cura di Ambrogio Borsani, Mondadori, 2009
Merini Alda, Magnificat. Un incontro con Maria, Ed. Sperling & Kupfer
Merini Alda, Tu sei Pietro, All’insegna del pesce d’oro, Scheiwiller, Milano, 1962
Pozzi Antonia, Parole. Tutte le poesie, a cura di Graziella Bernabò e Onorina Dino, Milano 2015
Pozzi Antonia, Poesia che mi guardi. La più ampia raccolta di poesie finora pubblicata e altri scritti, a cura di G. Bernabò e O. Dino, con approfondimenti critici, Luca Sossella Editore, Bologna 2010
Rebora Clemente, Frammenti lirici, 1913
Rebora Clemente, Frammenti lirici, a cura di G. Mussini, Interlinea, 2008
Turoldo David Maria, Dialogo tra cielo e terra, a cura di E. Gandolfi Negrini, Piemme, 2000
Turoldo David Maria, Diario dell’anima, San Paolo, 2003.
Turoldo David Maria, Il dramma è Dio: il divino la fede la poesia, Milano, BUR, 2002
Turoldo David Maria, Nel lucido buio. Ultimi versi e prose liriche, Milano, 2002
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L’opera di un poeta è fusione totale tra parole e immagine, che origina quello che Bachelard chiama retentissement, ossia la capacità della poesia di creare una sorta di “vicinanza” tra poeta e lettore, che mette in moto l’attività di comprensione e interpretazione. Petrarca scriveva che «la poesia, in quanto vera poesia, è sempre sacra scrittura» poiché nasce da una commistione tra ispirazione e sentimento del divino. Anche quando il poeta non tratta esplicitamente il tema religioso (qualsiasi sia la sua confessione) vi è sempre una fortissima tensione spirituale, non a caso «nel tempo della notte del mondo i poeti, cantando, insegnano il sacro» (Heidegger). Proprio Heidegger parlava della funzione della poesia come forma di conoscenza. Infatti nell’antica Grecia il poeta era l’hermeneutès, ossia l’intermediario tra gli uomini e l’Olimpo ed era l’interprete dei presagi degli Dei. La poesia perciò era parte integrante della religione e della vita spirituale. Nasce dal “fondo profondo” (E. Montale) e nel silenzio interiore il poeta coglie il senso del mondo e lo porta in superficie attraverso la parola. Ma «i poeti non accendono che lampade essi poi spariscono» (Emily Dickinson) nel senso che il poeta non parla per sé ma per gli altri. Ne segue che l’attività poetica dà volto alle cose e rende libera la mente, aprendola alla conoscenza del mondo e alla verità dell’Essere Supremo, che è Dio, inizio e fine di ogni cosa creata.
La vita è amore e se «l’amore è movimento», secondo il pittore E. Tomiolo, verso gli altri, verso se stessi, verso la natura, verso Dio, è proprio l’amore negato che spinge la lucana Isabella Morra[1](vissuta nel Cinquecento) ad alzare un grido straziante contro l’universo per il padre lontano,[2] contro il «Torbido Siri»,[3] contro i «fieri assalti di crudel Fortuna».[4] Crollati tutti i miti: il desiderio di trovare un amore o una ragione per vivere nelle lande solitarie e ostili di Valsinni, trovò conforto in Cristo e nella Vergine. Non a caso Il Canzoniere di Isabella Morra, come quello di Petrarca, si conclude con la canzone alla Vergine. Isabella delusa e ormai libera dalla zavorra della vita, abbraccia il mistero di Cristo e in Lui proietta i suoi desideri identificandosi nella peccatrice Maddalena, redenta e pentita e con «la mente rivolta «a la Reina del Ciel, / con vera altissima umiltade»[5], l’anima si porge alla contemplazione di Dio. L’incontro con la dimensione religiosa, metafisica, le dà certezza che esiste un mondo alternativo a quello nel quale vive. La sua poesia è parte integrante del suo breve percorso di vita, che la guida e la sostiene nella solitudine sia nel dialogo con la natura aspra e selvaggia, sia con l’unica amica: Antonia Caracciolo, moglie di Diego Sandoval De Castro, ritenuto a torto dai fratelli, suo amante.
Ben diversa è la poesia di Aurora Sanseverino[6] (vissuta nel Settecento), una delle poche donne, che fece parte dell’Arcadia con il nome di Lucinda Coritesia. Le sue poesie non vanno al di là di una pura esercitazione letteraria; in esse la spiritualità e la religiosità sono improntate dall’esteriorità. Non analizza l’angoscia e la ricerca della pace contro «gli aspri martiri»[7] non nasce dal senso vertiginoso di vuoto, che distende la sua poesia fino al grido, allo spasimo, al pianto. Non c’è vera sofferenza e il “male di vivere” è una finzione, espressa in moduli leggeri, musicali appena increspati di malinconia. Il sentimento è distaccato e astratto e si apre a un gioco di parole secondo i modelli dell’Arcadia. Le lande sconfinate dell’entroterra lucano, che fanno da sfondo ai suoi sonetti e canzoni, appaiono irreali e artificiosi; uno scenario perfetto per una narrazione idilliaca di un mondo fiabesco, e il concetto di solitudine è ben lontano da quello straziato di Isabella Morra. Le poesie utilizzano un linguaggio semplice, musicale a tratti lezioso, in obbedienza al tòpos classico del «luogo ameno». Figlia del secolo e della cultura dei Lumi, Aurora non sente la tematica del trascendente e Dio è inteso semplicemente come un Essere Supremo, secondo il dettame del sensismo. Gran parte della sua produzione di liriche, ballate, melodrammi è andata perduta e i pochi sonetti conosciuti hanno portato la critica letteraria a dire che il suo lavoro è «non godibile e sostanzialmente artefatto».
L’isolamento e l’essere “figlia di una regione derelitta” qual era la Basilicata, dominio per secoli di “ignominioso servaggio”, porta la potentina Laura Battista[8] (Ottocento) a una consapevolezza dei problemi politici, sociali e storici della sua regione. Colta e raffinata al pari del Leopardi, del quale fu seguace, ebbe per opera del padre uno studio «matto e disperatissimo», che la portarono giovanissima a scrivere di greco, di latino, di tedesco e di francese. I Canti[9], ottanta componimenti in tutto, si muovono dalla sfera pubblica a quella privata. La passione politica spingeva la Battista a partecipare agli avvenimenti della nazione, dall’altro premeva il suo disagio esistenziale, soprattutto per la sua relegatio a Tricarico. La sua è una poesia d’occasione, legata agli avvenimenti, espressi spesso con un linguaggio religioso e enfatico, infatti usa per Garibaldi i termini «Redentore dei popoli», «Divino». I sonetti, ben costruiti tra retorica celebrativa e patriottica nell’esaltazione del momento, si spiegano come un brindisi e perciò risentono di una certa monotonia. Diventa la sua spiritualità autentica nelle liriche soggettive e private, che toccano i sentimenti di donna e di madre, che vive una condizione di solitudine in una casa senza amore e in un paese senza prospettive.
Poche son le donne che assurgono agli onori della gloria letteraria, come scrive in una lettera Laura Battista, ma «la donna o villipesa o trascurata presso le nazioni rozze di qualsivoglia età […] non poteva[…] rimanere addietro, quasi non fosse anch’essa creatura di Dio».[10]
Poete e scrittrici da ogni parte del mondo e, dalla Basilicata, terra negletta e isolata, faranno sentire nel Novecento, la loro voce a cominciare dalla compianta Giuliana Brescia[11] definita la “Saffo lucana”. La sua poesia altalenante tra male di vivere, angoscia e senso ineluttabile della morte, abbraccia temi che la collocano molto vicina a Isabella Morra per il senso profondo d’inquietudine. In una poesia pubblicata postuma vi è tutta il dolore del male di vivere, che nasce da una sorta di prigionia psicologica, manifestatasi fin dall’adolescenza. Scriveva: «Passata la vita per me / finito il domani / le porte son chiuse / serrate / mi resta soltanto nel fianco / lo spasimo acuto di un male che è ancora / la vita». Una religiosità laica e mai confessionale contraddistingue le sue poesie, che nascono dai sogni che si scontrano con una realtà dura e problematica. Il linguaggio è semplice ma musicale e armonico fin dalle poesie giovanili. Si chiude nella sua “tela di vagheggiamenti” nei silenzi assordanti, nelle illusioni del vivere quotidiano, dove i «sogni si son persi / nel deserto desolato della realtà». Le liriche (Poesie del dubbio e della fede, Versi affiorati dai cassetti) delicate e ricche di forza interiore, diventano a tratti tenere proprio quando si chiude nell’intimismo, che riverbera su una natura umanizzata alla Pavese, al quale è accomunata dalla scelta del tragico destino. Nell’angoscia esistenziale àncora è la parola poetica, adulata, blandita, ricercata, che accende la speranza; ma essa è illusoria e non riempie quel vuoto straziante, che la porterà a porre fine alla sua breve vita.
Per la poesia di Lorenza Colicigno[12]sono appropriate le parole di Montale «ogni volta che trovo in questo mio silenzio una parola, scavata è dentro di me come un abisso», perché le sue liriche nascono da un profondo silenzio interiore, dove trova il senso religioso del mondo. La poesia si dispiega come preghiera perché indaga nel fondo delle cose e porta a galla l’inesprimibile. Ma il poeta è colui che più degli altri porta nell’anima la propria terra. Si parla di poeta come del cantore di una geografia umana. Egli erige modelli, mappature, carte del proprio luogo per affermarne l’appartenenza, creando una sorta di «paesologia» (Franco Arminio) che è una forma di etnologia del paesaggio, di cui il poeta ne dà espressione. Il bello è che la paesologia non studia un paese, l’annusa, l’ascolta proprio come fa Lorenza con la sua città, Potenza: ne rende l’energia della case arroccate sulle montagne; s’immerge nella vita della città, nelle scale mobili, che salgono quasi fino al cielo; canta la «debolezza / dei vecchi e la baldanza degli adolescenti» (in Ritorno); si chiude, solitaria spettatrice, dietro una finestra o un terrazzo a scrutare l’orizzonte, che si allarga sulla valle dove il «Basento insegue albe e tramonti / e ascolta il brusio della città che lo stringe / nell’abbraccio schiumoso della sua / modernità di ciottoli e lattine»[13] e scorre sonnolento e acquitrinoso. Contempla la città da un cantuccio solitario, dove l’«aria natia», per dirla con Saba, o la «matria»[14] è pregna di gioia e dolore insieme.
Anche per Amalia Marmo[15] il compito della poesia è scavare nel profondo dell’anima ed enunciare attraverso la parola la verità. «Vedere il mondo in un granello di sabbia» per dirla con William Blake, è questo il senso dell’estro creativo. La ricerca del ‘meraviglioso’, tanto caro a Novalis»[16] che porta a Dio, così presente nell’universo, è la missione del poeta. Le sue liriche nascono dal «sapore della terra» e dal «la salsedine del mare»[17]. La parola poetica c’immette nel ‘mistero’, che è simile all’”Inconoscibile” di Spencer: una realtà assoluta che la ratio umana non può raggiungere. Il genio creativo ci fa immergere nelle acque del subconscio e riemergere “illuminati” di una verità da divulgare. La poesia per la Marmo «altro non è / che ignara ispirazione. / Un eterno aiutante / un profeta o un indovino / senza mete o ragione».[18] La poeta sarà sempre «sentinella costante» della «memoria lirica»[19]. Filtra la ragione con il cuore, intessendo una poesia che è «distillato di vita, quasi peccato / d’intelletto tolto al tempo / per stupire se stesso e l’universo /e chiuderlo in un pugno di mistero»[20]. Il mistero non è quello religioso ma qualcosa che supera l’umano intendimento. Crede in Dio e nell’immortalità dell’anima. Ha certezza in una vita futura. Il mondo, la natura, gli accadimenti sono aspetti diversi dell’universale mistero.
L’acuta sensibilità e lo scavo interiore di Rosalba Griesi[21] danno origine a quell’inquietudine esistenziale, ordita su interrogativi ontologici, che si mescolano ai sogni quasi invisibili, alle luci lievi della speranza. L’atmosfera spirituale si riverbera sullo spettacolo della natura, sui suoi colori cangianti: dagli «spruzzi di giallo»[22] delle mimose al «bianco immacolato» delle zagare; dall’arancione delle margherite al verde dei campi, simili al mare. Il dettato lirico fluisce a volte delicato e sinuoso, altre prorompente e impetuoso nello scandagliare gli oscuri anfratti o gli abissi o i campi brulli per comprendere la sofferenza e riemergere rinnovato e dispiegare «parole taciuta / parole serrate / parole nel cuore posate / […] parole donate»[23]. Rosalba si eleva dal paesaggio naturale della terra a una riflessione escatologica, che richiama il senso della vita e la tensione dell’uomo verso l’Assoluto, che è Dio-Provvidenza di manzoniana memoria. La sua religiosità è priva di fronzoli e si distende in note scarne, quasi epigrammatiche.
Le liriche di Rosa Pugliese[24] s’inseriscono nella poesia civile, poiché sono denunzia, accusa contro l’umanità “liquida” e l’io lirico sembra arrestarsi fiaccato dagli avvenimenti della storia, dal tempo, che vorrebbe fermare nelle scatole di latta, dove trovare «una carezza materna»[25]. Le poesie nascono dall’incanto e il superamento e il dominio del dolore lo trova nella contemplazione di armonie cosmiche e naturali. La letizia travalica il vortice dell’angoscia nella magia dell’infanzia o dei luoghi amicali; nel gioco della vita; nello scorrere del tempo in stagioni e in ore, e nella Bellezza, che ancora una volta salverà il mondo. Scriveva Pablo Neruda «La poesia è un atto di pace / Di pace è fatto il poeta come di farina il pane» e la poesia per Rosa Pugliese è un atto di pace, poiché prende tutto il dolore del mondo e lo placa proprio come il fiume che s’infratta tra dirupi e forre per sfociare lento e placido nel mare. La Nostra trae dalla sofferenza l’energia creativa e la elabora superando lo stretto orizzonte provinciale per cantare il dolore della gente costretta a emigrare nei barconi. La poesia è voce dell’anima e noi diventiamo «tratturi di campagna / solcati dalla terra che li ha generati», o fiori di malva, germinati nella terra, crepata dal gelo.
Il testamento letterario e umano di Anna Santoliquido[26] è tutto racchiuso nelle sue numerose raccolte: da I figli della terra del 1981, nella quale la poesia nasce dalle vallate di ginestre e malvarose, dai campi biondi di grano e rossi di papaveri della sua Forenza, fino a Profetesha / La Profetessa, pubblicata in Albania nel 2017, dove sperimenta la dolcezza e la generosità della gente, che le riportano alla memoria i luoghi e le donne della sua infanzia. I versi limpidissimi e rigorosi aprono al lettore una nuova percezione dell’uomo, che sente l’altro non più nemico ma fratello. È questo il grande dono della poesia. «Che cosa può dare / agli altri un poeta?» si chiede la Santoliquido. Egli dona il cuore per amare, gli occhi per vedere, gli sguardi sereni, un pugno di pace. Ed è la speranza che non l’abbandona, impegnata in una continua analisi e ricerca interiore. Sa che oltre le esperienze e le prove della vita, in fondo c’è sempre un raggio di luce, che illumina e dà forza. Ricompone il conflitto che è alla base dello smarrimento spirituale della nostra società, alla quale manca quel “sapere dell’anima”, che oltrepassa e fonde umano e soprannaturale, sapere scientifico e visione poetica. È sorretta nel cammino elegiaco dalla fede, è questo il varco (Montale), che cancella la distanza dalla trascendenza e immanentizza l’ebbrezza ontologica e, come Sant’Agostino, supera la lacerazione tra materia e spirito. Il poeta attinge all’Assoluto e «offre parole / parole incarnate». È simile al Demiurgo platonico, creatore della realtà, che ci porta fuori dal “caos primordiale”. Diventa divulgatore di pace nel mondo e nell’anima, ma è anche colui che «muore da solo». È la forza eternatrice della poesia, di foscoliana memoria, che lo ferma «al limitar di Dite», ad afferrare la luce e liberare il canto. Il suo lavoro è simile a quello della Sibilla, il mito di cui ci parla Virgilio nell’Eneide. La profeta ispirata da Apollo, trascrive le profezie del Dio sulle foglie, che il vento disperde. Il rito rivela la missione di intermediario del vates, spesso inascoltato, tra il mondo della verità e quello degli uomini. Egli è il porto sepolto, come diceva Ungaretti, e nel profondo scopre l’inesauribile segreto, i misteri inenarrabili che il soffio del vento disperde anche se le parole sono portate dall’angelo. Anna è poeta sempre, sotto il cielo di Puglia e della Lucania, ma anche «a Belgrado e a Zagabria». I versi scaturiscono dalla sua capacità di andare dal vicino al lontano, dal microcosmo al macrocosmo. L’ispirazione nasce perché, «è l’angelo a portarmi le parole / le lascia nei vasi rotti / il vento le disperde […]»[27] e lei come una sacerdotessa vaticinante le raccoglie in «una forma di preghiera» (Kafka). Ci introduce in un mondo d’incanti quando scrive «Com’erano / piene / le mani / nodose / di mio nonno / quando / con voce roca / ma gentile / mi donava /un pugno / di noci / o di castagne»[28] o quando tratteggia in un distico toccante il ritratto della madre «Se solo potessi catturare / il sorriso delle sue rughe!»[29]. La poesia della Nostra colpisce per la forte empatia con il lettore, poiché è sempre aperta alla speranza, all’adesione con il mondo in cui vive, a nutrire attese per il futuro sulla rievocazione delle bellezze di un passato vissuto e assaporato. Il ruolo del poeta nella società è di pace perché come lei stessa scrive «è colui che porta in tasca l’universo». Egli parla una lingua nuova, toccante, rivelatrice: quella dell’anima. Per la Santoliquido valgono le parole del poeta dell’invisibile, Rilke, «Noi siamo le api dell’invisibile. Noi raccogliamo incessantemente il miele del visibile per accumularlo nel grande alveare d’oro dell’invisibile»[30].
[1]Isabella di Morra, conosciuta come Isabella Morra, nata a Favale nel 1520. Visse in solitudine sotto la prepotenzadei fratelli e segregata nel proprio castello, dove scrisse l’opera letteraria, IlCanzoniere, formato da dieci sonetti e tre canzoni. La sua breve vita si concluse con il suo assassinio, nell’inverno del 1545 o 1546, da parte dei suoi fratelli a causa di una presunta relazione clandestina con il barone Diego Sandoval de Castro, poeta di origine spagnola e barone della vicina Nova Siri, anch’egli qualche mese dopo subì la stessa fine. Quasi sconosciuta in vita, Isabella di Morra acquistò una certa fama dopo la morte, grazie agli studi di Benedetto Croce, e divenne nota sia per la sua tragica biografia sia per la sua poetica, tanto da essere considerata una delle voci più autentiche della poesia italiana del XVI secolo, nonché una pioniera del Romanticismo. Non si conoscono notizie inerenti alla sua vita precedente e alla biografia della famiglia Morra, dal titolo Familiae nobilissimae de Morra historia, pubblicata nel 1629 da Marcantonio, figlio del fratello minore Camillo.
[2] Giovan Michele di Morra riparò a Parigi, accusato di una congiura contro la corona, affidando la moglie, Luisa Brancaccio, e i cinque figli, Decio, Cesare, Fabio, Porzia e Isabella, a Marcantonio il fratello maggiore, uomo violento e rissoso.
[3] I. Morra, Torbido Siri, in Isabella di Adele Cambria, edizione Osanna, Venosa 1996, pp. 65/64.
[5] Ivi, XIII Quel che gli giorni a dietro, pp. 87/92.
[6]Aurora Sanseverino nacque a Saponaria nel principato di Citra (l’odierna Grumento Nuova, in Basilicata) nel 1669 e morì a Napoli nel 1726, da Carlo Maria principe di Bisignano e conte di Saponaria e Chiaromonte e Maria Fardella contessa di Paco. All’età di 11 anni, sposò il conte Girolamo Acquaviva di Conversano, ma il matrimonio durò solo pochi anni per la morte prematura del marito. Ritornò a Saponaria per un breve periodo e compì diversi viaggi con il padre, a Palermo e Napoli. Un secondo matrimonio avvenne il 28 aprile 1686 con Nicola Gaetani dell’Aquila d’Aragona, conte di Alife, duca di Laurenzana e principe di Piedimonte. Dopo il matrimonio, si trasferì nella dimora del marito a Napoli, città all’epoca caratterizzata da un’intensa vita culturale. Nella sua casa napoletana ospitò vari poeti, musicisti e pittori, dando così vita a un noto salotto letterario. Oltre alla letteratura, fu un’abile cacciatrice, partecipando a battute di caccia al cinghiale sui monti del Matese.Fece parte dell’Arcadia con il nome di Lucinda Corinesia.
[7] Aurora Sanseverino, Ben son lungi da te, vago mio nume, in Scrittori lucani, Consiglio Regionale della Basilicata.
[8]Laura Battista nacque a Potenza nel 1845, figlia di Raffaele Battista di Agrigento e di Caterina Atella da Matera. Il padre fu un insegnante di lettere e segretario perpetuo della Società Economica di Basilicata e consigliere provinciale di Matera. Raffaele insegnò Latino e Greco presso il Real Collegio di Basilicata a Potenza, dal quale fu espulso a causa del suo orientamento Liberale, poiché l’istituto fu affidato alla direzione dei Gesuiti. Egli poté riprendere a insegnare solo dopo l’Unità d’Italia e, quindi, dopo la scomparsa del regime borbonico. Nel 1871, in seguito la famiglia si trasferisce a Matera, per le persecuzioni di cui fu oggetto il padre per le sue posizioni politiche, divenne consigliere provinciale della Basilicata. Autore di studi e inchieste sullo stato dell’economia agraria della provincia, era un fine latinista e autore di traduzioni e fu il primo e, per molto tempo, l’unico maestro di Laura. Ella insegnò per breve tempo nel convitto femminile di Potenza. Ben presto abbandonò l’insegnamento sia per la salute cagionevole sia per aver sposato il conte Luigi Lizzadri di Tricarico, dove si trasferì.
[9] G. Caserta, Laura Battista, Canti, per i tipi di Conti, Matera 1879.
[10] G. Caserta, cit. L. Battista, Potenza 22 marzo 1875 Direzione Della Scuola Normale Femminile di Basilicata, p. 153.
[11]Giuliana Brescia nacque a Rionero in Vulture nel 1945 e morì suicida a Bari dove viveva con il marito e la figlia, nel 1973. Nel 1962 le fu assegnato a Napoli il premio La maschera d’oro. Le sillogi sono state pubblicate postume: Poesie del dubbio e della fede, Versi affiorati dai cassetti.
[12]Lorenza Colicigno nasce a Pesaro nel 1943 e vive a Potenza. Insegnante di Lingua e Letteratura Italiana, ha lavorato in radio e televisione a Roma e Potenza. Ha pubblicato: Questio de silentio (1992) Canzone lunga e difficile (2004), Matrie (2017), Cotidie (2021). I suoi scritti si trovano in antologie e pubblicazioni.
[13] Lorenza Colicigno, Potenza e velo, in Cotidie, Manni Editore, Bari, 2021, p. 5.
[14] Il termine è tratto dal latino mater matris, terra madre, termine utilizzato per la prima raccolta.
[15]Amalia Marmo nata a Miglionico (MT) nel 1948, vive a Marconia di Pisticci (MT). Laureata a Napoli in Lettere classiche. Ha avuto molti riconoscimenti letterari. Ha pubblicato raccolte di poesie e romanzi.
[16] Novalis affermava «La nostra vita non è ancora un sogno, ma sempre più deve diventar tale».
[17] Amalia Marmo, Indenne paradiso perduto, in Il vento leggerà Gradita Sinfonia, Edizioni Setac, Pisticci, 2015, p. 30,
[21]Rosalba Griesi nasce a Palazzo San Gervasio, dove vive e lavora, nel 1958. Ha pubblicato: Il viaggio (2004), Nel mare del tempo (2011), Natale e dintorni (2014), Nicol ali di farfalla (2015), I racconti di nonna Peppa (2017). Le sue liriche e racconti sono stati inseriti in diverse antologie.
[22] Rosalba Griesi, Mimose, in Nicol ali di farfalla, LuogInteriori, Città di Castello (PG), 2015, p. 39.
[24]Rosa Pugliese nasce a Zurigo nel 1965 e vive a Venosa (PZ). Si laurea in Lingue Straniere. Ha pubblicato due raccolte di poesie: La strategia della formica (2019) e La tana del riccio (2022). I suoi lavori sono pubblicati in varie antologie.
[25] Rosa Pugliese, Colleziono scatole di latta, in La strategia della formica, scatole parlanti edizioni, Reggio Calabria, 2019, p. 21.
[26]Anna Santoliquido, nata nel 1948 a Forenza (Potenza), vive a Bari. Ha pubblicato le raccolte di poesia: I figli della terra (1981 – Premio Città di Napoli), Decodificazione (1986), Ofiura (1987), Trasfigurazione (1992), Nei veli di settembre (1996), Rea confessa (1996), Il feudo (1998), Confessioni di fine Millennio (2000), Bucarest (2001), Ed è per questo che erro (2007), Città fucilata (2010), Med vrsticami/Tra le righe (2011), Quattro passi per l’Europa (2011), Casa de piatrǎ/La casa di pietra (2014), Nei cristalli del tempo – poesie per Genzano (2015), Versi a Teocrito (2015), I have gone too far (2016). Ha pubblicato anche un volume di racconti e ha curato diverse antologie, tra le quali Zgodbe z juga – Antologija južnoitalijanske kratke proze (2005). È autrice dell’opera teatrale “Il Battista”, rappresentata nel 1999. Ha fondato e presiede il Movimento Internazionale “Donne e Poesia
[27] Anna Santoliquido, Incontri, in Ed è per questo che erro, Smederevo, 2007, p. 9.
[28] Anna Santoliquido, Mani nodose, in Figli della terra, Fratelli Laterza editore, Bari, 1981, p. 27.
[30] R. M. Rilke, dalla lettera al suo traduttore polacco Vitold von Hulevicz del 13 novembre 1925
Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.
La poesia di Luigi Carotenuto[1] si caratterizza fin dai suoi esordi come un cammino spirituale, che nella sua ultima pubblicazione, Farsi Fiori (gattomerlino, 2023), approda a una calma e luminosa maturità. Ne parliamo con lui in questa breve intervista.
Partiamo dal titolo del tuo nuovo libro. È tratto da una poesia che si caratterizza, come molte altre, per una sintesi epigrammatica fulminante: Farsi fuori / per / farsi fiori. Come mai proprio questo titolo? Devo ammettere che Farsi fuori mi ha subito fatto pensare a una scelta drammatica; che cosa significa per te questo “fuori”?
Farsi fiori per essere essenziali, lasciare che di noi stessi vi sia l’espressione dello sbocciare, dell’aprirsi alla vita. Farsi fuori perché, per essere veramente, bisogna rinunciare alle identificazioni. Morire al mondo, all’amor saeculi, come lo chiamava Ildegarda, per accostarsi all’amor caelestis. Forse, anche se apparentemente paradossale, per incontrare veramente gli altri, nella loro intima essenza, bisogna rinunciare a qualunque forma di attaccamento, di personalità, non in un senso nichilista però, bensì per raggiungere quella forma di purificazione che rende possibile l’evitamento di meccanismi proiettivi, investimenti sull’altro, frutto di paure, egoismi, illusioni.
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Il tuo libro è ricco di simboli, che diventano parole-chiave, cardini intorno ai quali ruota la tua poesia – penso per esempio al cerchio, alla luce – ed espliciti richiami a filosofie orientali, come l’enso, il mudra. Quali sono i principali riferimenti spirituali della tua scrittura?
La Bhagavadgita, Il sentiero della non-dualità o Advaita Vedanta, i libri di Raphael, Meister Echkart, i Vangeli, la filosofia perenne, gli gnostici, il Tao Te Ching, i Padri del deserto, IlLibro tibetano dei morti, Steiner, Scaligero, tra gli altri, un elenco che non può essere esaustivo, perché molte verità passano da incontri inattesi e trasversali, di libri e gesti, i quali è bene custodire, e spesso lasciare riposare nel silenzio che è forse lo spazio più profondo per dare respiro al sacro.
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Quale definizione daresti di “spiritualità”?
Definire rischia in qualche modo di intrappolare, arginare, il concetto di spiritualità, che porta in sé lo spirito aereo, il soffio, nel suo nome, e non può rimanere stretto nelle gabbie del linguaggio. Ha in sé l’inesauribile delle possibilità, ben oltre la dimensione di spazio e tempo. Mi rendo conto dell’insufficienza espressiva, nella dimensione umana la spiritualità dovrebbe portare l’infinito e l’invisibile nel quotidiano e quindi cambiare completamente la prospettiva dell’individuo che vi si accosta e la coltiva, quello stato di metanoia in termini filosofici. In una traduzione in rete di un passo dal Tao Te Ching ho trovato l’espressione “coltivare l’eterno”: ecco, forse questa potrebbe essere l’idea di spiritualità da cui partire.
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Riconosco ai tuoi libri una forte valenza politica, nel senso soprattutto di una contrapposizione ai “rumori”, altra parola chiave, della società moderna, alla sua ricerca di beni materiali e soddisfazioni effimere. Sintetizzando, quali sono i disvalori, i mali della contemporaneità e quali valori possiamo contrapporvi?
Ai rumori contrapporre i sussurri, alle grida il canto tenue. Siamo fatti per la musica delle sfere, non soltanto per i clangori. Ma forse, più che contrapporre (anche se il controcanto fa parte della partitura in musica), che presuppone un altro, spesso nemico, il quale ci fa rimanere nella dualità, per unificare bisogna essere. C’è un libro di Thích Nhất Hạnh dal titolo Essere pace. Semplicemente essere, incarnare, ciò che si desidera, è il modo per non tradirlo, in un mondo di parole che sono il contrario delle azioni, e gesti che tradiscono le vere intenzioni. Comprendere e compatire la dimensione d’ombra in noi e negli altri, in tutte le sue sfaccettature, vale a dire accostarsi all’enigma del cuore umano senza essere né persecutori né fintamente caritatevoli.
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Nel tuo libro, a volte usi la prima persona ma principalmente il “tu”. Come mai questa scelta?
Probabilmente, il tu a cui mi rivolgo è quella sorta di maestro interiore, la parte più saggia di noi stessi. Nell’attraversamento di testi e conversazioni spirituali, gli autori che più mi hanno convinto sono proprio quelli che riportano il lavoro a sé stessi e non a guru esterni. Anche nel lavoro psicologico, terapeutico, clinico, analitico, l’analista non può fare il cammino al posto dell’altro, può però percorrere parte del tragitto, stare al fianco, lasciare che l’altro si possa rispecchiare aiutandolo a constatare di sé stesso lati, risvolti, aspetti, di cui non si era accorto. Il tu, forse, nella scrittura del sottoscritto, rappresenta una funzione dialogica che risulta necessaria per l’indagine introspettiva e per avviare in determinate direzioni il processo creativo.
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Uno scatto del poeta intervistato, Luigi Carotenuto
Nei versi di questo come dei tuoi libri precedenti ti riferisci spesso ai bambini. E qui un bambino è un interlocutore ricorrente. Che cosa rappresenta per te il mondo dell’infanzia?
Mi interrogo spesso su questo, dandomi risposte che trovo molto parziali, carenti, forse perché ho un’aspettativa alta, idealistica, rispetto al mondo dell’infanzia. Hillman dice che «qualunque cosa diciamo sui bambini e sull’infanzia in realtà non riguarda mai i bambini e l’infanzia». Per tornare alla tua domanda, qui il bambino e il sapiente si fondono, il bambino diventa il sapiente per quel potenziale di espressività che porta con sé, in divenire e nel presente. Il bambino rappresenta anche quella parte interiore a cui dare voce, quindi è un dialogo sì, con il bambino, i bambini, incontrati a scuola, ma anche un auto-dialogo con il puer interno.
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Nei versi ricorre spesso la morte e si percepisce un tentativo di inquadrarla in un percorso pieno di senso e di fiducia, mentre nei tuoi libri precedenti percepivo una dose maggiore di conflittualità con riferimento al tema della perdita. Come si è evoluto il tuo pensiero riguardo alla morte, e come si inquadra in un cammino spirituale?
Hai ragione, in questo libro vi è la calma percezione, fatta di qualcosa di tangibile, anche se sottile, che la morte sia soltanto un passaggio, che non coincida come si ritiene comunemente con l’annullamento e la fine dell’esistenza. Di questa visione si fanno portavoce numerose tradizioni spirituali, sentirla però dentro come verità cambia di molto lo sguardo sugli eventi e dovrebbe sostanziarci di compassione. Il dolore dei viventi, a prescindere dal grado di consapevolezza o stato di coscienza in cui si trovano, può essere misura e banco di prova per testare quella umanità di cui siamo o meno portatori. Riguardo al passato, ai libri precedenti, sento di essere pervenuto su questo tema a un’accettazione pacificata, rimanendo aperto agli accadimenti, alle possibilità di scoperta, senza certezze e senza l’ansia di voler risolvere gli enigmi o rivendicazioni rispetto al percorso biografico.
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I termini “sottrazione”, “calma” e “levità” si adattano perfettamente alla tua poesia ma anche al percorso di vita che auspichi nei tuoi versi in generale e in particolare in questa pubblicazione. Come lavori sulla parola e sulla visione della vita per perseguire questo senso di pace, per arrivare a una leggerezza ed essenzialità di stile e di pensiero?
Cercando di tenere viva la curiosità per la conoscenza e tenendomi fuori più che posso dal banchetto duale e, questo sì, davvero antisociale, del buono e cattivo, della vittima e del carnefice, tanto praticato sui mezzi di iper-comunicazione dei tempi odierni, che negano la vera possibilità di comunicare e ascoltare sé stessi e gli altri, attraverso il silenzio e la misura. Il pensiero della morte, ad esempio, mi aiuta a constatare l’illusorietà di certe dinamiche, il «lutto di tutto» (mi pare sia di Zanzotto, vado a memoria). Partendo dalla fine, insomma, trovo la misura del gesto, almeno negli intenti. Sulla scrittura, non saprei, è qualcosa che avviene in buona misura inconsapevolmente, spesso sento e ho sentito, nella stesura di testi precedenti, di non avere una forma né una scrittura delineate, prestabilite, come se ogni volta partissi da una tabula rasa per iniziare un libro. Ma dallo stato di vuoto, di vacuum, può farsi spazio il molteplice delle possibilità creative: questo è il lato promettente della faccenda, che mi dona sempre nuovi stimoli.
[1]Luigi Carotenuto (Giarre, CT, 1981) è poeta, compositore e educatore. Ha pubblicato i libri di poesia L’amico di famiglia (Prova d’Autore, 2008), Ti porto via (Prova d’autore, 2011), Krankenhaus (gattomerlino, 2020) e Farsi Fiori (gattomerlino, 2023). Un suo poemetto inedito in volume, Taccuino olandese, è apparso sul n. 48 – Anno 2015- di «Gradiva». Nel 2021 è uscito in Francia, per le Éditions du Cygne, Krankenhaus suivi de Carnet hollandais et autres inédits, curato e tradotto in francese da Irène Dubœuf. Figura nell’antologia di poeti siciliani tradotti in lingua inglese, a cura di Ana Ilievska e Pietro Russo, Contemporary Sicilian Poetry. A multilingual Anthology (Italica press, 2023). Collabora con «l’EstroVerso» di Grazia Calanna e cura la rubrica “Particelle sonore” per la rivista «Niederngasse» di Paola Silvia Dolci.
Questa intervista viene pubblicata nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionata dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.
La vasta produzione poetica – in dialetto messinese (di Malvagna) e in lingua italiana – di Josè Russotti (31 marzo 1952 – Ramos Mejìa – Argentina) appare fortemente omogenea sul piano tematico ma assai diversificata sul piano stilistico-linguistico (per peculiarità che sono tutte da verificare) e come attraversata da una perenne, progressiva ricerca espressiva: opera, senza meno, in fieri di un poeta che mira sagacemente alla conquista dello stile.
Il poeta di Malvagna esordisce nell’arengo poetico con una vibrante, commossa raccolta di poesie dialettali (con traduzione italiana a piè di pagina), Fogghi mavvagnoti,[1] che dell’«opera prima» possiede tutti crismi (sviste e refusi compresi). Vi si percepisce, immediatamente, l’amore viscerale di Russotti per il paese della sua infanzia – vero e proprio leitmotiv – tuttavia frustrato dalla delusione per quella che pare un’irreversibile sparizione: «Urìa stari ‘ssittatu subbra un furrizzu ‘i ferra / a menzu â campagna ciuruta di Pìttiri. / […] Ma non c’è vessu e modu di nuddha manera / ‘i truvari u sint’ri chi carusu avìa scapicciatu» (Urìa stari);[2] e ancora: «Lucia di centu dottrini, / non vidi chi stu paìsi pinìa / e mòri senza na raggiuni?» (Donna Lucia Pantano).[3]È forte, invero, il disappunto dell’io poetante per l’attuale vita-non vita del paese «china di lazzi e ruppa» e il suo desiderio inappagato di «nnèsciri ô chianu» (Mi veni iàddita).[4] Trapela anche nettamente, nella raccolta, la sensibilità sociale di Russotti per le sofferenze degli ultimi (Canzuni pi un drogatu, Turi Cacotta, L’emigranti), accentuata dal suo tormento di figlio desolato dopo lamorte del padre (U scontru) e della madre (E jò chi n’ha vistu mòriri mai a nuddu, 7 febbraio ’99). Trascorre peraltro nei testi, per brevi cenni, tra immagini di crudo realismo, qualche lieve meditazione sui grandi temi del bene e del male, del tempo irrevocabile, della vita che fugge, della morte che incombe (Parori, Ora mi veni, Don Micu Scrofani, Acqua chi scenni e s’incanara, Comu attenti suddati). E ritorna sovente, per concreti, espliciti riferimenti, l’attaccamento carnale, sensuale del poeta all’amore (U nsonnu, Chi nostri cori, A surgiva, Quanti uòti, Niàutri dui).
Sul piano linguistico-stilistico, Fogghi mavvagnoti è, però, a tutti gli effetti, un’opera radicalmente intessuta di termini, locuzioni, stilemi popolari rimemorati agevolmente dal poeta di Malvagna e trasposti felicemente sulla pagina con i loro forti accenti realistici, senza particolari mediazioni autoriali che non siano quelle relative all’armonia, al ritmo, alla testura dei versi, che paiono, invero, «senza tempo tinti». Talché, parafrasando un titolo di Marcuse, questa prima raccolta di Russotti, parrebbe «a una dimensione»: quella realistico-referenziale della poesia dialettale tout court. Si rilegga, a conferma, la prima strofa di Spondi dill’Alcantara: «Uci di fìmmini si lèunu / ndê spondi dill’Alcantara. / Uci di matri patuti / che càntunu chini di prèjiu / vannu dritti e vagghiaddi / chî so’ cufini subbra a testa»,[5] dove la precisione dei dettagli non differisce punto da quella che si può ritrovare in un saggio di antropologia culturale o, meglio, nel quadro di un pittore realista, come Courbet.
La raccolta di poesie in lingua italiana, Spine di Euphorbia, pubblicata, quindici anni dopo[6], contiene liriche che si muovono nello stesso ambito tematico-contenutistico della precedente, ma appare del tutto nuova sotto il profilo stilistico. C’è, invero, un salto tra Fogghi mavvagnoti e Spine d’Euphorbia che non si spiega solo col cambiamento del codice linguistico (dal dialetto mavvagnotu alla lingua italiana) e con il lungo intervallo tra l’una e l’altra, ma presuppone una radicale svolta, se non una rivoluzione effettiva, nella maniera d’intendere e praticare la poesia, da parte di Josè Russotti, che sembra ora privilegiare la dimensione metaforico-simbolica dei testi, probabilmente mutuata dalla lettura dei poeti maggiori del Novecento (García Lorcain primis, già ricordato dallo stesso Russotti nella prima raccolta, i maudits francesi nonché gli italiani ermetici e post ermetici, conosciuti in occasioni non programmate),[7] ma fatta propria dal poeta nei modi entusiastici del neofita che idoleggia il tesoro di cui è venuto in possesso, cavandone impensate potenzialità espressive. Vale la pena di rileggere la prima lirica della raccolta, Madre sola, dove il flusso continuo di metafore, similitudini e simboli, senza annullare la realtà e conservando un altissimo grado di leggibilità, concorre a un canto-pianto che riesce a sfiorare le vette del sublime: «Madre di nulla vestita! // Vestita del tuo dolore che è pianto / del tuo lamento che è canto / Madre senza neppure aspettare / e quasi alla fine dei miei passi / ti riscopro brace per l’inverno inoltrato […] All’ombra dei tuoi capelli argentati / diventavo quieto come un agnello / e ambivo le carezze della notte […] Madre di nulla vestita. Madre da sempre sola / adesso ti rincorro nei rimpianti della sera».[8]
Non mancano, invero, nella raccolta, casi di iperfigurativismo (da neofita), in cui le metafore si susseguono di verso in verso, senza riuscire a essere illuminanti: «Dentro un fuoco di lava / appaio sconfitto e detestabile/ e tale perduro // Gli occhi in lutto / bagnano l’ossario aperto / di filo spinato // Si taglia a fette / questa piaga immensa / dentro un sogno di latta / che non trova nei ricordi / un qualsivoglia riscontro // I morti / giacciono in me» (I morti giacciono in me).[9] Ma bisogna riconoscere che il poeta, in Spine di Euphorbia, riesce, perlopiù, a combinare in un’armonica cifra stilistica, il piano realistico (degli affetti familiari, della vocazione sociale, dell’amore-disamore per il paese di origine), e il piano simbolico-metaforico della poesia novecentesca, conseguendo altissimi livelli poetici. Basti ricordare A Very, All’alba di un giorno qualsiasi, A-sintonie instabili, Con l’attesa ferma nel cuore, Disomogenie malvagnesi, Graffio l’angolo di vetro, I negri invisibili, L’ultimo passo (a Sebastiano, mio padre), Mai t’amai così teneramente, Noi chiedevamo solo amore, Non piangere per me Malvagna, Se vuoi infrangere, Sul filo amaro della vita, Vegeto in una crepa di luna, Vòlto a scavare. La scoperta della dimensione metaforica della poesia produce peraltro un altro notevole scatto, rispetto alle raccolte precedenti, in Spine d’Euphorbia, dove l’amore della donna amata, si traduce in immagini della natura circostante che, a loro volta, prefigurano modi pensosi, drammatici dell’Essere all’insegna della precarietà, della provvisorietà, se non della insignificanza del mondo. (Avvinto, Ci sorridemmo, Del tuo tenue sapido effluvio, Eri qui, Nudo amore, Spine d’Euphorbia, Steli di Tamaro fra le dita, Ti lascio una crepa di vita). In questo ambito si coglie, peraltro, qualche timido riflesso del cristianesimo sofferto di Russotti (Sotto il sole d’agosto).
La rivoluzione stilistica evidenziatasi in Spine d’Euphorbia si riflette nelle liriche in dialetto della raccolta Arrèri ô scuru, pubblicata due anni dopo, presso Controluna (Roma 2019).[10] Vi si ritrova, profondamente ramificata, la forte, abituale materia sentimentale (l’amore della madre – Matri sura -, del padre – Unn’eri, E campu ‘i tia -, della moglie – Ciatu c’appoj diventa aria e si sciàmina, U to’ ciàuru di sempri, della figlia – Figghia chi resti ntô cori pi sempri), insieme con la vocazione etico – sociale (Di russu virgogna ora è u ma’ duluri, ‘Nfin’a quannu, Nino Bongiovanni, u putaturi, Ntâ sta terra di Sicilia) e con un’accentuata tensione introspettiva (Si tesci di dumanni a tira, Intra un vacanti ‘i nenti) dell’io poetante. Ma – quel che più conta -pullulano sulla pagina le figure retoriche (similitudini, metafore, simboli) tipiche della poesia in lingua del Novecento, già ampiamente sperimentate in Spine d’Euphorbia, qui utilizzate, però, con maggiore discernimento, senza alcuna perdita di senso. Si rilegga la prima poesia (che dà il nome alla raccolta), Arrèri ô scuru, dove, in pochi versi, mirabilmente fioriscono luminose metafore, atte a rendere nuovo il motivo eterno dell’amore: «[…] Ma ‘a notti è fatta suru di sirènzi, / unni mi peddu e mi cunfunnu / sutta na cutra di ‘nganni e llammìchi. / Femma u passu e vèstiti d’amuri, / picchì si’ timpesta subbra i puntara, / simenza d’addauru ‘i chiantari».[11] La documentazione di tale miracolo di armonia espressiva, per via di limpide metafore, potrebbe essere, invero, sterminata: ricorderemo, per sommi capi, «A puisia è simenza chi scava ntâ terra, / ràrica chi nun canusci cunfini», in A pusìa è …;[12] «Urìssi pi sempri a to’ bucca di meri», in Ciatu c’appoj diventa …;[13] «Si non si’ ccà a mmenzu a nuiàtri / a cantari a to’ gioia e a to’ alligria» in E campu ‘i tia;[14] «I campani sònunu a luttu subbra / i cappotti ‘ncurvati d’u friddu», in Figghia chi resti ntô cori …;[15] «Mu sentu d’incoddu / u to’ ciauru di fimmina e matri», in U to’ ciauru di sempri;[16] «Matri di nenti vistuta, / vistuta d’u to’ duluri chi è chiantu», in Matri sura;[17] «Ntâ sta terra di Sicilia / […] lorda / di mafia e bucchi ‘ntuppati», in Ntà sta terra di Sicilia, p. 78; «sutta a ràrica d’u rimpiantu» («sotto la radice del pianto») in Ntô mari lavu tutti i ma’ peni.[18] Su questa via, vòlta a una sempre maggiore limpidezza espressiva, procede invero, come vedremo, il poeta di Malvagna nelle raccolte successive, in cui si va perfezionando la sua travagliata conquista dello stile.
Il processo avviato nelle poesie dialettali di Arrèri ô scuru s’intensifica nelle liriche della seconda raccolta poetica in lingua, Brezza ai margini[19], di Josè Russotti, il quale continua a privilegiare la curvatura metaforica, novecentesca dei testi, ma mira, nel contempo, con maggiore convincimento, alla comunicazione, alla leggibilità, alla poesia «corale», per dirla con Quasimodo.
Le prime cinque liriche della prima delle due sezioni di cui l’opera si compone, Amare è vita, sono stabilmente imperniate sulle volizioni, i pensieri, le angosce di un io poetante tuttavia speranzoso, che avverte nel «silenzio dell’erba» il grido di dolore di chi nei «vicoli stretti del […] presente» non trova più «la porta di casa»,[20] o soffre per «il vuoto degli assenti»,[21] o rievoca, nella «bolgia infinita della sera», le «intrepide illusioni mancate»,[22] o si conforta sapendo che, «come per incanto / sorgerà il sole del mattino»,[23] o cerca un conforto frugando «nei vicoli / carichi di remoti silenzi».[24] Seguono tre liriche (VI, VII, VIII) imperniate sulla tecnica allocutiva dell’io/tu, che costituiscono autentiche invocazioni d’amore alla moglie: accolga lei, «nelle pieghe del suo dolore»,[25] le lacrime del suo uomo; la sua mano non si stanchi di dare al poeta «un senso di raro sollievo» (degno di attenzione l’intenso distico: «Me lo sento addosso / il tuo odore di femmina e madre»,[26] versione italiana del verso sopra citato di Arrèriô scuru); se l’amore dovesse affievolirsi («Se dovessi frugare nel vano / del tuo ventre acceso»), lei sicuramente saprà «aprirgli il cuore».[27] La tensione erotico-espressionistica si prolunga nella lirica successiva, in cui il poeta si prefigura che «Brandelli di lusinghe» e «bocche sconosciute e intrepide /accenderanno il suo cuore / nella bolgia della sera».[28] La decima lirica della raccolta è una dolorosa, ma stilisticamente compiuta, rievocazione della madre morta: il poeta cerca in casa ma «non trova più niente di lei»; il suo cuore «cade a pezzi», ma egli aggiunge «una goccia all’origano nel vaso di suo madre» (il verso è davvero sublime) sperando che ritorni.[29]
La seconda sezione, Angoli bui nel silenzio, della raccolta si apre con una lirica, la XI, in cui l’io poetante canta mestamente la morte del padre scomparso quando egli era in tenera età: «L’assenza / è un suono molteplice di arpe sulla riva / […]».[30] Al padre è anche ispirata la lirica XVII che forma con la XI un singolare dittico filiale. Il dodicesimo componimento è quello più gonfio di crudo, corposo realismo, prossimo – parrebbe – ai moduli espressionistici della poesia di Cattafi: «la grandine sui tetti», il «sangue dalla croce», la «fame che divora le budella», il «gesto inconsulto / di chi disperde il seme», il «vento tra la gramigna», «lo sputo sui vetri», il «vino rosso […] nello stipo»:[31] brandelli, invero, di una vita vissuta tra stenti, lontano dagli agi, e tradotti in una tormentata musicalità. Segue quella che si definirebbe «una trilogia della gente»: tre ampie liriche «corali», in cui il poeta, messo da parte il suo io dolente e risentito, guarda attorno a sé, divenendo quasimodianamente partecipe del dolore degli emarginati che sono vessati dagli uomini e dalla sorte: gli emigranti, extracomunitari, in ispecie, vittime della brutalità della storia e i morti di Covid. In essi il poeta emigrante si identifica, a tal punto che, nella prima strofa, della XIII poesia, presta loro la sua voce e diventa di fatto uno di loro: «Ci ha lasciato la madre che ci nutrì / col latte del seno e sedano crudo» (un distico sublime, invero).[32] Nella lirica successiva, la «gente» (forse, i parenti dei morti per Covid) «piange e stringe le ossa / dentro un fazzoletto intriso di memoria»,[33] e nella quindicesima il poeta «corale» registra accorato il «greve allinearsi delle bare».[34] Della stessa temperie stilistica sono i componimenti XX e XXI, in cui lo stesso acceso espressionismo presiede alla visione dei corpi dei migranti che «emergono e poi affondano […], / gonfi di sterile salgemma»;[35] mentre «le barche approdano vuote»: il poeta porge «alla faccia stupita degli stolti / un piatto ben condito di sapienza».[36] Nella lirica XVI, domina, tra illusioni e delusioni dell’io poetante, «la noia di certe giornate disadorne», mentre lo sguardo cade «sulla lumiera di carni putrefatte e scheletro» (di cattafiana memoria).[37] Seguono tre liriche (XVII-XIX) in cui ritorna la voce disillusa del poeta, che rifiuta ogni ipotesi consolatoria dell’aldilà («la morte è solo un gelido varco interiore / nella vanità dissoluta del transito finale»)[38] e ridimensiona il ricordo, più o meno affettuoso, che di lui avranno i compaesani, agognando semmai l’infinità che solo l’arte può dare («vivere ancora e poi ancora / e ancora, nel fertile cuore / dei fragili»),[39] e guardando in faccia la morte «che scivola sul destino delle cose».[40] La paura del disamore o meglio della fine dell’amore ritorna nella mesta lirica XXIII, che sembra costituire il pendant pessimistico («un ristagno di silenzi / innanzi alla fisica estraneità di mia moglie»)[41] del trittico alla moglie (della prima parte). Vi si collegano, per l’intonazione elegiaca, i due ultimi componimenti soffusi dalla malinconia del tramonto: «ogni gemito diviene / un tormento di rondini in pena».[42]
L’autore di Brezza ai margini è, in effetti, un poeta che patisce (o ha patito) sulla sua pelle il dolore, la sofferenza, l’ingiustizia del mondo, approdando a una visione amara (ma non sconfitta), leopardiana se vogliamo, della vita e dell’arte: un uomo dimidiato, ad ogni modo, come un poeta medioevale, tra il sogno o il rimpianto del paradiso e l’amara certezza dell’inferno.
Nello stesso anno, qualche mese prima – precisamente nel gennaio del 2022 –, Josè Russotti dà alle stampeuna sorprendente raccolta di trentanove liriche in dialetto malvagnese,[43] con traduzione a fronte in italiano, distribuite in sette sezioni: I) Pî mapatri; II) A Mariacatina, ma’ matri; III) A mia moglie; IV) A Elyza, mia figlia; V) Nei giorni chiusi; VI) A Malvagna, il paese della memoria ritrovata; VII) Sulla vita e sulla morte. Quanto dire che Chiantulongu racchiude, come le altre raccolte e forse più compiutamente – alla stregua di un organico canzoniere d’antan – la vita e la storia personale dell’autore, talché, a lettura ultimata, sapremmo tutto di lui anche se non lo conoscessimo affatto: il legame fortissimo con la sua famiglia di umili origini (padre, madre, moglie, figlia); l’amore per Malvagna, il paese nativo (da cui il Russotti padre, indomito contadino in cerca di lavoro e di fortuna era emigrato per trasferirsi in Argentina, insieme con la moglie, e a cui, come tanti, era ritornato nel 1959, con moglie e figli); la sensibilità sociale, esplicita nella quinta sezione, Nei giorni chiusi, dedicata ai tragici effetti del Covid 19; il suo profondo, insanabile dissidio esistenziale, nella sezione finale Sulla vita e sulla morte. Ma quel che più colpisce è non solo il perfetto recupero, che vi si registra, di termini e locuzioni dialettali forti, efficaci, del tutto inedite (epperò pregne di un ancestrale nitore primigenio), ma anche l’attitudine del poeta a coniugare, sullo stesso asse linguistico, i colori antichi della poesia dialettale e le più ardite forme della poesia contemporanea, senza sbilanciamenti di sorta verso nessuno dei due poli espressivi. Donde, in altri termini, la coesistenza (come in Arrèri ô scuru, ma con maggiore pregnanza), in uno stesso componimento, del registro realistico, tipico della poesia popolare, col registro meditativo, introspettivo, allusivo, tipico della poesia novecentesca. Si veda come nella lirica finale (Davanzi a sti petri) della sezione dedicata all’indimenticabile padre (morto giovanissimo, dopo il ritorno in Sicilia), alla sequenza dialettale «mutu, restu ora, / davanzi ô to’ ricoddu / ‘ngudduriatu e suru» («silente, rimango adesso, / dinanzi al tuo ricordo / avvolto e solo») segua, senza soluzione di continuità, un verso allusivo di chiara matrice ermetica: «ndâ frèvi d’u sirènziu» (nella febbre del silenzio).[44] Allo stesso modo, nella lirica finale (Cu ddu sapuri di …) della sessione dedicata alla madre, morta dopo lunga e penosa malattia, sono perfettamente associate locuzioni contadinesche («ô brisciri d’u matinu») e forme di levatura novecentesca: «E di ora â fini / nniàvi u to’ coppi / ndô ballàriari mutu / d’u tempu!» («E da ora alla fine / annegavi il tuo corpo / nella muta sospensione / del tempo!»).[45] Ma le citazioni di questo che pare essere lo stemma esemplare della poesia di Josè Russotti sono numerosissime, nella raccolta. Ci si limita a evidenziarne qualche altra particolarmente pregnante.
Nella sezione dedicata alla cara moglie, la lirica Dumannu a tia dipinge la moglie con un dittico «muta ti nni stai ‘i canzàta / intra un faddari chinu ‘i pinzèri» («muta te ne stai in disparte / dentro un grembiule colmo di pensieri»),[46] dove il primo verso («muta ti nn stai ‘i canzàta») è desunto tale quale, dalla parlata locale mentre il secondo («intra un faddari chinu ‘i pinzèri») è immagine di raffinata caratura stilistica. Eppure, l’accostamento non stride affatto. Allo stesso modo, in Rìnnina d’amuri, la dolce figlia Elyza, prematuramente scomparsa, giunge «lorda ‘i brizzi» («sporca di sorrisi») – il di specificativo dopo l’aggettivo è usuale nelle poesie degli Ermetici –, ma la similitudine del verso successivo («commu na rìnnina ô giuccu» – «come una rondine al nido») è normale nel linguaggio popolare.[47] La stessa armonica associazione di stilemi popolari e figure retoriche ultramoderne si coglie agevolmente nelle liriche della sesta sessione, dedicata a Malvagna, dove l’amore del paese natio fa tutt’uno col dolore per «la sua sventura» di «paese che muore»: «Chiossai d’u ‘nvernu iratu / disìu a nivi janca di latti, / quannu u cantu d’i cicari fa a junnata. / Nivi fina di farina cinnuta / a cummigghiari i tènniri chiantimmi. / Mentri, / tutt’attornu ô paisi / matura u tempu, / avanza a motti» («Più dell’inverno gelato / bramo la neve bianca di latte, / quando il canto delle cicale fa la giornata. / Neve fina di farina setacciata / a coprire i teneri boccioli. / Mentre, / tutt’attorno al paese, / matura il tempo, / avanza la morte»).[48] Ugualmente intessuti di forme lessicali tratte dall’immaginario popolare di Malvagna e di stilemi postermetici sono i componimenti dell’ultima sezione, in cui si squaderna l’amara condizione esistenziale del poeta che cerca e non trova un senso della vita: «Non viddu nudda differenza / tra chiddu chi fu aieri / e chiddu chi sarà dumani: / suru a motti mmisca e sracancia i catti / subbra a tuàgghia d’a vita» («Non vedo nessuna differenza / tra quel che accadde ieri / e quel che accadrà domani: / solo la morte sconvolge e muta le carte / sulla tovaglia della vita».[49] Unico conforto la poesia, che va custodita come un tesoro: «Si campa d’amuri e di nenti, / di llammìchi e sustintamenti / ma non livàtivi a puisia d’u cori!» («Si vive d’amore e di nulla, / di stenti e sostentamenti / ma non toglietevi la poesia dal cuore!»).[50]
Il bifrontismo tematico e stilistico (tra la dimensione lirica, introspettiva, memoriale e la vocazione sociale), in composizioni magistralmente metaforiche ma viepiù schiarite in direzione della leggibilità assoluta, appare, con nuovi intendimenti, nella terza raccolta poetica in lingua di Josè Russotti,[51] che chiude, all’insegna del sublime, il portentoso biennio 2022-2023.
Delle quattro sezioni di cui il libro si compone, la prima (Pieghe all’ombra della sera) è imperniata sull’io dolente e tuttavia indomito del poeta, consapevole del sua solitudine e del suo disagio esistenziale in un mondo incapace di amare e di capire: «Ramingo e solitario nell’anima, orfano di padre e di madre assente, / stretto nell’angolo buio, spegnevo le mie paure / cantando tristi canzone d’amore / […] Un batuffolo indifeso / attorno al lordume dei grandi, / teso a implorare carezze / che nessuno mai seppe donare»;[52] «Con le mani impazienti / sul pomo della notte, / erro per l’infinito / come un bimbo col suo veliero : / cosmonauta vagabondo / nelle costellazioni dell’Io / per scoprire ciò che la vita / non ti permette di scoprire »;[53] «Smarrito nelle pieghe della vita, / vivo la duplice angoscia / sui ponti di rive opposte»;[54] «Io amo il mio vitigno e i figli d’allevare, / il vino nel bicchiere e il grano da mietere. / […] lontanissimo / dalla vanità dei colti / come un rozzo guascone, / prenoto ancora un posto / per nuovi sogni / da raccontare».[55] Donde, l’avvertenza dei limiti personali («Sono / figlio della Poesia e mi nutro di parole, / vivo nella lusinga dei miei errori / e solo nei versi la mia morte desiste dal morire»;[56] «Parea una piccola screziatura / nei riflessi dell’alba policroma, / […] Parea la fine del suo tenero silenzio / […] È la mia fragile ombra, / che mi segue ancora […]»,[57] [il corsivo è mio]), ma anche l’orgoglio dei valori coltivati: «In un urlo feroce di bandonéon argentino / cantai al cielo / lo sdegno per le futili apparenze / e il falso moralismo, / fino a far tremare i polsi / degli astanti».[58] Anche se lo sdegno per la malevolenza dei potenti sconfina talora negli eccessi della paranoia: «Li avevo tutti addosso / l’aculeo piantato sulla lingua, / la stizza del prete dietro la schiena, / gli occhi degli altri fissi su di me»;[59] «Non mi turba il vostro stupore / né l’infamia delle parole».[60] Quanto dire che, in Ponti di rive opposte, Russotti fa un passo avanti: non indulge all’elegia del paradiso perduto dell’infanzia, come in Brezza ai margini, ma oppone più decisamente la sua alterità di «rozzo guascone» alla cultura dominante. E, su questa stessa lunghezza d’onda, la polemica esplicita contro critici e poeti mediocri ma acclamati dai più: «[…] mi ritrovai fra le mani / esempi di poesia macellata / da finti poeti, svigoriti di parole / e vuoti endecasillabi rimati»;[61] «Ma se la vivida poetica degli avi non traspare / nei monitor accesi della sera / l’indicibile oltraggio cova / nella stupidità degli accoliti. / Nei predicatori del nulla / e nella fragorosa autocelebrazione / di chi non conosce la decenza. / Non è il male che insinua le menti /ma l’estremo dilagare dell’insanabile / mediocrità».[62] Dove sono esplicite le isotopie disforiche di «finti poeti», «vuoti endecasillabi», «stupidità degli accoliti» ecc., sull’asse semico della «mediocrità» come vero «male». Né manca, in questa prima sezione, del libro la testimonianza della religiosità (quasi francescana) del poeta, tuttavia immune da ogni forma di clericalismo: «ho imparato a domare l’orgoglio / e ho camminato al fianco degli scartati»;[63] «Ogni Pasqua che arriva non lenisce il mio dolore / è solo un giorno come tanti: / il rito della resurrezione è una parte / che non mi si addice».[64]
Anche da questa sintetica documentazione, si possono cogliere alcuni aspetti precipui dello stile poetico di Josè Russotti, il quale a) predilige un lessico chiaro fino ai limiti dell’oltranza («lordume dei grandi», «futili apparenze», «il falso moralismo», «poesia macellata», «predicatori del nulla», «l’insanabile / mediocrità»), b) adotta talora un’inedita, raffinata associazione di nome e aggettivo («alba policroma», «tenero silenzio», «fragile ombra»[65] e costrutti metaforici («sul pomo della notte»,[66] «provo a scavare con le unghie strappate / tracce del mio passato»;[67] «Lo strazio / è sale che sa di abitudini»[68]) nonché similitudini («danzano i pensieri / come l’erba fra i sassi»),[69] e immagini («Io amo il mio vitigno e i figli d’allevare, / il vino nel bicchiere e il grano da mietere»)[70]molto personali, desunti chiaramente dalla cultura contadina e magistralmente innestati in contesti verbali e stilistici di diversa caratura.
La seconda sezione del libro, Naufragio, contiene poesie intessute intorno all’amore coniugale, non privo di forti accensioni erotiche, corporali. Si alternano, difatti, liriche tenerissime che cantano – o recuperano dai flussi della memoria – momenti di assoluta tenerezza («[…] la tua mano sul viso / mi dà un senso / di raro sollievo»),[71] a cui non difetta mai, però, l’inevitabile legame carnale del vero amore: «Nell’approssimarsi incerto del mattino, / quel poco o molto che rimane / del tuo splendido sorriso / ha il verso di certe nenie infantili. E […] riparto / per nuove galassie inesplorate / annegandomi, da ora alla fine, nell’insenatura del tuo / florido petto».[72] Il poeta esprime, invero, sentimenti antichi, universali, forse imperituri, con un linguaggio forte, inusuale, pregno di fremente, non dissimulata carica erotica: «Linfa e sudore coprono / la tua pelle di sposa fedele, /mentre l’intrepida mano / affonda nella verticale ambìta / della tua calda ferita. Le dita la sfiorano appena / per non fermare / l’estasi sublime / del ritrovato desiderio».[73] Non casualmente, le isotopie erotiche – «sudore», «pelle», «intrepida mano», «calda ferita», «estasi», «desiderio» – convivono armonicamente, nei contesti citati, con quelle della castità coniugale: «raro sollievo», «splendido sorriso», «sposa fedele». E vale, a stento, la pena di sottolineare come tali isotopie siano, di norma, antitetiche, in gran parte della cultura e della poesia moderna, dove permane la scissione antica, forse di origine cattolica (più che cristiana), della donna nelle due ipostasi di angelo (madre, moglie, sorella) e demonio (amante, prostituta). Certo, poetesse come Alda Merini, Patrizia Valduga e la messinese Iolanda Insana hanno ampiamente ricomposto, nelle loro opere, quella orrenda scissione, consegnando al lettore un’immagine unitaria della donna, ricca di luci e ombre, di carnalità e di spiritualità (come in tutti gli esseri viventi). E tuttavia la poesia di Russotti assume, anche in questo ambito, un rilievo non marginale.
La terza sezione, Il Lavacro, ritesse, con accenti di assoluta purezza espressiva, l’amore del poeta per la madre scomparsa: «Solo nell’approssimarsi dei giorni / quel poco o molto / che mi è rimasto di te e di me, oh madre mia, / assumerà il verso / di certe nenie infantili»;[74] «La rivedo ancora, in un sogno di sempre, / quando prima della scuola / mi sistemava i bordi del bavero bianco».[75] Se non manca, invero, in alcuni componimenti di questa e nelle altre sezioni, così come nella precedente silloge, qualche oscurità superflua (di matrice ermetica), bisogna riconoscere che sfiora i vertici del sublime la suddetta lirica III di p. 77, in cui è ridotto al minimo l’armamentario poetico e il dettato, pur conservando il ritmo inconfondibile della poesia, si accosta molto alla prosa: «Le braccia incrociate sul petto / davano il senso compiuto dell’atto finale: / crudele da vedere. Duro da scordare. / Eppure, alla fine, a guardarla sul volto / pare che ci sorridesse ancora» (p.78).[76] Negli ultimi due componimenti del Lavacro, il poeta-figlio rimpiange, con la stessa composta premura la scomparsa del padre: «Piansero i tuoi figli indifesi / […] aspettando ancora e per sempre / il vano ritorno!».[77]
La vocazione sociale del poeta è presente, infine, insieme con qualche, allusiva lirica di congedo («avverto il lento declinare dell’ombra»),[78] nell’ultima sezione del libro, In Memoria. Josè Russotti, sensibile, in ispecie, al dramma dell’emigrazione, rievoca lo scempio del corpicino del piccolo Aylan, «curvo sul muto arenile di Bodrun», dove «al duro infrangersi dell’onda / si estinsero i tuoi sogni»,[79] o leva un inno solidale in ricordo di un eroe siciliano, militante di Democrazia proletaria, noto per le sue denunce contro Cosa Nostra, da cui fu assassinato il 9 maggio 1978: «la mia anima impura /non rinuncerà al tuo canto possente / dell’ultima volta: grido superbo / di agile armonie» (A Peppino Impastato),[80] o leva un canto per Mimmo Asaro, il poeta contadino, pressoché dimenticato, che ha rubato «parole alla terra / e le lasciò andare al vento» (Un canto per Mimmo Asaro, il poeta contadino).[81]
Una strana sezione, interna alla sezione In Memoria, è costituita da una sola lirica, Per Amalia, dedicata alla poetessa Amalia De Luca, amica e sodale di Russotti, peraltro presente nella raccolta con quattro sue liriche che aprono ciascuna delle quattro sezioni della raccolta stessa. Della poetessa palermitana, versata ai ritmi lievi, armoniosi, sincopati di una poesia luminosa, ricca di cieli, venti, mari, fiori, uccelli, con aperture improvvise all’assoluto, Russotti rimemora, con profonda simpatia, «il tocco lieve delle fragili ali», le «ciglia di teneri turioni», le parole «di rara bellezza», il corpo che resiste al «tempo delle stagioni», la «voce scavata dal profondo dell’anima», ma soprattutto la serena cordialità di chi lo chiama «nel cuore del silenzio per dirgli che l’ibiscus / non fiorisce più nel suo terrazzo».[82]
Quanto dire, in conclusione, che il poeta siciliano di Malvagna si autentica, senza meno, come una delle voci più originali e autentiche della poesia contemporanea. E vien fatto di pensare che quella saldatura tra passato e presente, perseguita invano dal poeta Russotti nella vita, si realizzi perfettamente sulla pagina, nei suoi componimenti poetici in dialetto e lingua.
[1] Josè RUSSOTTI, Fogghi mavvagnoti, Edizione libera, Malvagna (ME), 2002.
[6] J. RUSSOTTI, Spine d’Euphorbia, Il Convio Editore, Castiglione di Sicilia (CT), 2017.
[7] Ne ha detto, con dovizia di particolari, lo stesso Russotti, in una esaustiva pagina (Come sono diventato un poeta) redatta dopo la presentazione, presso la Biblioteca Regionale Universitaria di Messina, di Brezza ai margini (ved. infra) nel 2022.
[82] Ivi, pp. 99-100. Della poetessa palermitana è stata pubblicata, nel 2021, dalla Fondazione Thule Cultura di Palermo, la raccolta completa di Poesie 2002-2021, preceduta, invero, da una vasta raccolta di saggi critici sulla produzione poetica della stessa (AA.VV., Il problema dell’essere e il richiamo spirituale nella poesia di Amalia De Luca, a cura di Tommaso Romano e Giovanni Azzaretto, Thule, Palermo 2020), che ne ratifica la levatura europea.
Questi testi vengono pubblicati nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionati dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.
Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.
In questo momento di morte e guerre, nasce spontaneo chiedersi se possa bastare una poesia per salvare il mondo. Poesia come preghiera profonda, pianto intenso, ma anche inno alla vita. Siamo ormai consapevoli del fatto che le armi non potranno mai risolvere i problemi dell’umanità e che tutto si ripeterà recidivamente, come un rituale. Ma se le bombe, gli spari, i cannoni, il sangue, non possono salvarci, potrà forse farlo la preghiera?
Già sembra di intravedere un sorriso di scetticismo in coloro che leggeranno questa domanda. Tuttavia, tentare un nuovo percorso verso la pace, è necessario e urgente. Una sola piccola poesia, come preghiera umana, al di là di ogni credo religioso e filosofico, in nome dell’Uomo, della Vita, della Speranza, potrebbe trasformarsi in un seme fertile che potrebbe sbocciare dopo essere stato coltivato e curato con amore e attenzione. Come un canto antico che affiora dai pori della nostra pelle, dal nostro DNA sopravvissuto per milioni di anni ad ogni ostilità nei confronti della nostra evoluzione. È un enigma cercare di comprendere perché l’Uomo voglia trovare la pace attraverso la guerra, la vita attraverso la morte, l’amore attraverso l’odio. È un mistero nascosto nel profondo dell’ego umano, nella parte “bestiale” che caratterizza l’uomo, quella più oscura e terribile, che si sarebbe dovuta smussare attraverso lo sviluppo dell’anima unita all’intelligenza, soprattutto sociale, che contraddistingue la razza umana da quella animale e dai suoi istinti spesso crudeli.
È quindi il momento di rivalutare la preghiera. Non quella da filastrocche infantili ma quella che nasce da un sentito profondo, che punta a catturare l’essenza più spirituale e pura che ancora si annida dentro gli esseri umani e che non trova più il passaggio per fuoriuscire, alla luce, verso il prossimo.
Ci siamo riempiti di beni materiali e anche di nozioni intellettuali, di conoscenza fine a se stessa, ma abbiamo tralasciato il cuore, la sacralità anche delle nostre debolezze e delle nostre paure, della nostra capacità di commuoverci, di stupirci di fronte all’alba e al tramonto, che non sono mai gli stessi. Si è arrivati a scambiare la spiritualità per debolezza, per inutilità, per nullità, poiché non sembra portare profitti. Di conseguenza, la preghiera, l’inno alla bellezza umana e divina, hanno perso forza e sembrano spesso essere fonti di imbarazzo e incapacità. Si è giunti ad una sorta di capolinea per l’umanità. È assolutamente necessario trovare nuove direzioni e nuove motivazioni per la felicità, la pace e la convivenza sulla terra. Perché (tornare ad) essere idealisti e romantici e tentare di salvare noi stessi con la poesia, l’implorare la vita, l’amore, il nostro credo, la natura, il nostro essere più profondo?
Le prime forme di comunicazione linguistica dei nostri antenati erano simili a suoni cantati, liriche primordiali. Erano armonia e bellezza, andate perse con il materializzarsi della vita umana sulla terra, quando si ha iniziato a lottare per sopravvivere, per poi volere accumulare potere e ricchezze. Perché non tornare all’età dell’innocenza, come fossimo ancora bambini, incontaminati dalle negatività che ci circondano? Ci siamo riempiti del nulla svuotandoci. Perché non riprovare ripartendo dal poco per raggiungere una completezza e realizzazione con la semplicità e la sincerità? Basterebbe una poesia? Un canto? Un inno?
Il ritorno all’umiltà, in primis, ci potrebbe veramente salvare; questa enorme parola “umiltà”. Bisogna avere tanto coraggio ad essere umili. E la poesia è umiltà perché ci denuda di fronte al mondo e ci dona il coraggio di essere nuovamente ed autenticamente “uomini”.
Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.
La seguente intervista è rivolta a Guido Oldani, padre del realismo terminale, che ha fondato nel 2010 con il suo noto libricino Il Realismo Terminale edito da Mursia. Il testo teorico segue comunque la raccolta il Cielo di lardo, edito da Mursia che già poeticamente esprime la sua poetica, che pare essere quella dominante nel terzo millennio. Secondo quanto dice Amedeo Anelli, nella relativa scheda, presente nel blog Presidio poetico, ed in attesa di stampa, il RT di Oldani è già ravvisabile nel suo primo libro Stilnostro (1985 ed CENS prefazione G. Raboni).
La sua poesia e il suo dettato è noto a livello internazionale, dagli Stati Uniti dalla Repubblica Popolare Cinese. Ma veniamo alla spiritualità, dimensione che Oldani non solo fa propria, ma la articola al punto di avere dato alle stampe il corposo testo E hanno visto il sesso di Dio – testi poeticiper agganciare il cielo, per l’editore Mimesis significativa raccolta che l’italianista Daniele Maria Pegorari giudica addirittura come la più rilevante nella traiettoria poetica di Oldani.
L’autore è bene noto a questa rivista essendo egli stato insignito del premio alla carriera del Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi” organizzato dall’Ass. Culturale Euterpe APS di Jesi (AN) in seno alla quale la rivista trova collocazione.
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Proviamo ad affrontare di petto la questione chiedendogli cosa sia la spiritualità:
La spiritualità è l’oltre confine della materia o della natura stessa della quale fa parte anche la nostra vicenda corporale. Naturalmente se ne può anche negare l’esistenza, ma questa negazione sarebbe comunque un atto di fede non essendo dotata di nessuna prova tangibile o teorica che sia. La spiritualità è l’inevitabile uscita di sicurezza dalla bottega dell’esistenza che, per quanto la si lucidi adeguatamente, finisce sempre con il ritrovarsi in una sua propria banalità, la banalità appunto della bottega. Ma vediamo di dirlo meglio, darei la seguente definizione: essa è come un trattore che spicchi un prodigioso volo. Egli così come gli astanti, pensano che lui stia nuotando. Questa dimensione dell’oltre, apparentemente fumettistica, rappresenta a mio avviso adeguatamente l’oltre reale o meglio ancora, l’oltre del pratico. Incomincia da questa rappresentazione molto terrestre il filo di fumo di una incontenibile vicenda, che fa parlare di sé da millenni, come una calamita che promuove il decollare dei nostri poveri aerei praticoni della corporale quotidianità.
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Secondo lei c’è una reale differenza tra il termine spiritualità e quello di religiosità oppure sono la stessa cosa o analoghi?
Certo sono espressioni che si richiamano, ognuna rinviandosi all’altra che le è parente. Penso che la religiosità sia una vicissitudine spirituale che si viene a dotare di una forma propria, un po’ come paragonare un blocco di marmo di Carrara con il David di Michelangelo: uguale sostanza con esito differente. Mi verrebbe da dire che la spiritualità è più ampia, come la verità è più ampia dell’evidenza, ma subito dopo mi sento di rovesciare l’affermazione e cioè se è vero che la spiritualità contiene il religioso è pur vero che quest’ultimo elemento contiene la spiritualità. Mi verrebbe ancora da citare il verso dantesco, nel Paradiso, la famosa espressione “Figlia di tuo figlio”. Ancora come se dicessimo che il tempo è fatto di giorni ma questi sono composti dal tempo. Siamo in presenza di due specchi che si riflettono a vicenda l’un l’altro vicendevolmente, all’infinto.
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Quali sono i poeti italiani che lei considera spiritualmente i più significativi?
Mantenendo la creativa confusione tra i due termini che ho accostato me ne vengono in mente più di uno, relativamente al ‘900. Il primo è senz’altro Clemente Rebora che, con la poesia Voce di vedetta morta ha scritto la più bella poesia sulla guerra di un secolo intero per intenderci più bella persino di quelle di Ungaretti che sul tema, come sappiamo ha scritto dei veri e propri capolavori. Rebora ha saputo condurre alla spiritualità la grevità degli oggetti e delle cose. Le nuvole diventano nuvolaglie, il vagone sul binario morto rappresenta la possenza di una spiritualità espressa attraverso il tonnellaggio. Nel secondo ‘900 a mio avviso, per ragioni analoghe a quelle citate per Rebora, citerei senz’altro Enzo Fabiani, del quale io giovane poeta ne divenni amico nella sua maturità. Penso alla sua raccolta Il legno verde, nella quale anche se il tema non è espressamente religioso, circola una potenza spirituale che deborda da ogni verso della pagina. Aggiungerei senz’altro l’amico David Maria Turoldo con la sua partenza Io non ho mani ed il suo arrivo mediante Canti ultimi. Nella prima c’è ancora l’affetto per Ungaretti, nella seconda c’è l’abbraccio inequivocabile con l’aldilà eterno che sta per raggiungere. Questo per citare i soli poeti italiani, se no il discorso sarebbe una vera e propria trama. Credo che la nostra attinenza allo spirituale/religioso sia anche favorito dalla storia della nostra cultura. In ragione di una religione, quella del figlio del falegname, non ci furono dei permanenti divieti alla rappresentazione iconografica del divino in forma umana. Penso che ciò abbia consentito di scatenare la fantasia delle singole intelligenze. Esiste una spiritualità bastarda anche nelle forme odierne di celebrazione delle ricorrenze. Mi riferisco ai giorni dei morti, novembrini, cui sono stati applicati i cerotti festeggianti di Halloween. A dire il vero, da bambino, usavamo scavare le estremità di una zucca oblunga per farne un teschio in cui si metteva una candela accesa. Cosa che al buio faceva il suo effetto. Oggi mi pare che tutto diventi qualcosa come “scherzetto dolcetto”. Va bene, si cerca di mescolare un funerale con un carnevale ma la ruga del tema della fine della vita rimane beffardo e angosciante. Ci si può fermare qui oppure inoltrare una scala senza gradini per salire a quota di vertigine, dove l’infinitamente alto e il rumorosamente basso tendono a coincidere tra di loro.
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L’intervistatrice Annachiara Marangoni assieme al poeta e fondatore del Realismo Terminale Guido Oldani in un evento passato
Cosa centra tutto ciò con il Realismo Terminale? Ci sono rinvii da questo a quelli, o attinenze?
Direi proprio di sì. Il Realismo Terminale è un modo di leggere il mondo, che si concentra nel fatto che c’è in atto, in maniera preponderante, con il terzo millennio uno sfociare della natura nell’artificialità. Come a dire che noi, ad esempio, con tutte le nostre protesi stiamo sempre più diventando simili ad automi o qualcosa del genere. Aggiungerei qui che, proprio negli ultimi anni, noi stiamo aspirando ad avere un’intelligenza simile a quella artificiale e ad un bisogno di artificializzare il pianeta. Il motivo per il quale c’è questa abbondanza inarrestabile di guerre è proprio perché il genere umano vuole trasformare il nostro pianeta in un grosso artificio. Questa vicenda si trasferisce nel linguaggio, attraverso la nota figura retorica di riferimento che è la similitudine rovesciata. Credo di avere scritto da qualche parte che Gesù era magro come una bicicletta. È un altro modo di dire le cose che, a mio avviso, incrementa potentemente la spiritualità. Dire infatti che il figlio del falegname assomigli ad una biciletta è indimenticabile. Se dico che ha il volto emaciato, lo dimentichiamo un quarto d’ora dopo avere letta l’espressione. Se in una stazione ferroviaria assisto alla fermata di un treno, lo spruzzo di scintille dei ceppi sulla ruota metallica, fa pensare ad una spiritualità, come ad esempio quella citata nel discorso trinitario.
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Ci sono riferimenti filosofici o teologici in questo accostamento alla spiritualità nei testi?
Credo di sì, penso ad esempio a Teilhard de Chardin. Il nostro, già alla metà del secolo scorso mediante la legge di complessificazione ed interiorizzazione, sosteneva che l’evoluzione partendo da quello che abbiamo sotto gli occhi, si sarebbe unificata sempre di più fino a sfociare nel divino, con il quale coincidere. Qualcosa di analogo, se non sbaglio, credo abbia detto Teresina di Lisieux. Ella ha scritto infatti che è il divino stesso a spingerci a coincide con la sua presenza. Insomma, sono questi argomenti che possono anche esser un po’ noiosamente accademici ma che danno una grande ragione di vitalità alla scrittura.
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Dopo il suo libo E hanno visto il sesso di Dio, ci sono altri lavori incorso sempre inerenti questa direzione di scrittura?
Direi di sì. C’è un sito di Roma legato ad un luogo di culto che mi ha chiesto di interpretare poeticamente, ogni domenica il rispettivo Vangelo liturgico. Come forse si saprà il ciclo completo della liturgia è triennale, cioè dopo oltre 150 puntate, il ciclo torna ad esprimersi daccapo. Questo lavoro che mi aveva non poco imbarazzato, aveva con sé due possibili eventualità. La prima è che in 3 anni si può lasciare questo mondo, la seconda è che si può spremere del tutto il limone della fantasia e ci si possa fermare per strada. Detto questo, tale lavoro sto invece per concludere ed il lavoro pare interessi, al punto che questa è iniziativa trova degli imitatori.
*
Oltre a queste implicazioni nei mezzi virtuali ci sono anche coinvolgimenti della più tradizionale ma molto efficace carta stampata?
Direi di sì, c’è il mensile «Luoghi dell’Infinito», al quale di tanto in tanto assegno dei testi di ordine spirituale. Ci sono inoltre un altro paio di riviste letterarie cartacee sulle quali sono confluiti i miei testi che vengono preceduti dal titolo di Vangelini Apocrifi. Ottimo interlocutore per queste pubblicazioni è stato il francesista della Sorbona Giovanni Dotoli, curatore del più grande dizionario Italiano Francese e viceversa, in circolazione. È lui che ha scelto di pubblicare delle manciate di questi testi sia sulla rivista Europea di Poesia edita a Parigi presso la Sorbona, sia sulla altrettanto significativa Noria, sempre a doppia circolazione italiana e francese.
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Qual è il vantaggio secco della scrittura realistico terminale nel linguaggio spirituale?
Farei sicuramente tre affermazioni: la prima è che le similitudini rovesciate, utilizzando gli oggetti, producono un forte incremento di espressività alla scrittura. La seconda affermazione è che il mio tipo di scrittura cancella del tutto la possibilità di retorica tanto facilmente rinvenibile. Il terzo ed ultimo vantaggio è che il Realismo Terminale toglie quella aura di sentimentalismo che spesso accade di incontrare nello svolgimento di questi argomenti e nella citata area semantica.
Selezione di poesie inedite di Guido Oldani, Fondatore del Realismo Terminale
I premiati
il regno di lassù è come un tale
che dà a una coppia sua di dipendenti
due all’uno, cinque all’altro di talenti.
operosi, raddoppiano la cifra
e lui che torna ne sarà contento,
che il cielo è una mezza paginetta
e il terzo ebbe solo una moneta
per giunta, pelandrone, la nasconde
ma la sua pianta non avrà le fronde.
Il Giudizio finale
come forchette dai cucchiai divide
chi standogli davanti qui risiede
e volerà su in cielo o giù allo spiedo.
detto alla svelta, con quattro parole,
chi fa manutenzione con amore
a qualsivoglia uomo bisognoso,
traverso quello, dio in persona incontra
e a conseguente sorte vi s’inoltra.
Le beatitudini
“mai uomo al mondo seppe dire meglio
del discorso che pronunciò in montagna”
pensò gandhi, che quasi fu cristiano.
il telescopio per vedere dio
sta nel petto ed è un cuore puro,
la terra nostra l’avrà l’uomo mite;
otto categorie sono beate
ma noi si è bocce in urto, poi la lite.
Gli esclusi
il cielo è come un treno senza orario,
si deve stare all’erta per salirvi
e non allontanarsi dal binario.
dieci ragazze attendono lo sposo,
con le lampade, cinque senza scorta
di olio necessario se lui tarda,
tant’è che arriva quando c’è già buio:
le sciocche lascia fuori dalla porta.
Sia il testo dell’intervista a Guido Oldani a cura di Annachiara Marangoni che le poesie inedite di Guido Oldani vengono pubblicati nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionati dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. Entrambi gli autori hanno autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.