Recensione di Lorenzo Spurio
Continuando il tragitto prezioso,
incoronando la terra, sventando profezie. (77)
Il titolo del nuovo volume di poesie dell’autore Stelvio Di Spigno, Minimo umano, desta – da subito – una qualche forma di attenzione, se non di una pronunciata curiosità. Nella precisione della formulazione frastica, nell’essenzialità della sua forma – che ben si sposa anche a un’azzeccata cover dai toni tendenti a un cianotico-monocromatico – si pone al potenziale lettore forse più come dilemma che come – almeno così pare – una sorta di spiegazione, di decodifica unica. Eppure la scelta – credo meditata, se non mediata o suggerita a suggello del contenuto letterale del volume – della cover dovrebbe rimandare a una domanda di fondo, a un dilemma relativo alle basi del reale significato. Difatti – e mi piace rivelarlo qui, ben prima di poter commentare qualche estratto dell’opera – la presenza di mongolfiere (idea di sospensione ma, data la struttura riportata, anche di sperimentalismo della ricerca) e – in basso nell’angolo destro – di ingranaggi (che danno da pensare al meccanismo di orologi, ma che possono – pure – essere impiegati in tutt’altro genere di marchingegno) aprono a un’età di sviluppo tecnico e scientifico, di rinata consapevolezza, di vero rinascimento e di dominio dell’uomo sulla natura. In che relazione il minimo umano – l’essenziale, il puro, l’epidermico, il transeunte – si pone nei riguardi di tale possibile mondo di ricerca e scoperta, di conquista e sconvolgimento?
Questo libro – col quale Di Spigno riconosce un debito alla poetessa Silvia Bre[1] – si compone di un consistente numero di liriche (alcune già apparse altrove, su riviste per lo più, come la nota dell’autore in conclusione del volume puntualmente ricorda) suddivise in varie sezioni: “Preludi”, “Versi morali”, “Elegie finali”, “Terra e cielo”, “Il mondo estremo”, “La vita facile” e “Congedi”. Tra le sue precedenti pubblicazioni in volume figurano Mattinale (2002; 2006), Formazione del bianco (2007) e La nudità (2010). Nell’anonima nota critica in quarta di copertina si legge che, a differenza dei suoi precedenti lavori, qui, in Minimo umano, è ravvisabile “una luce radiosa che conduce alla certezza di una rinascita e un riscatto dalla sofferenza”. Considerazione, questa, che – qualora realmente riscontri il percorso intrapreso dal poeta – di certo può far ben sperare ma che, d’altro canto, non può essere il recensore del libro in oggetto (che non conosce la sua produzione antecedente) a poter fare.
Minimo umano si apre con una (quasi impensabile quanto enigmatica ma al contempo filosoficamente profonda) chiosa dell’umanista Niccolò Cusano che, come si ricorderà, tanto si espresse in tema di “congettura” (tema che, come vedremo, è importante per Di Spigno) da lui concepita come principale forma di conoscenza dell’uomo. In essa – con un procedimento ipertestuale – Di Spigno tenta – se non di chiarire e spiegare il significato del suo libro – semmai di abbozzarne un possibile contorno – o influsso – di circostanze che possano motivarne l’adozione: “Nel movimento, infatti, non si può prevenire/ al minimo assoluto, come è un centro fisso,/ perché il minimo necessariamente coincide con il massimo.// Il centro del mondo coincide con la circonferenza./ Ma il mondo non ha circonferenza”.
L’overture della sezione “Preludi” è occupata da un testo dedicato al compositore russo Alfred Schnittke (1934-1998)[2], i versi sono particolarmente lunghi mentre la partitura strofica sembra avere una conformazione tutta sua, vogliosa di contenersi ed espandersi al contempo quando il verso, come avviene in “Variante lombarda” (la cui composizione è da localizzare nel giugno 2005 come l’autore fedelmente trascrive, sulle rive del lago di Garda) assistiamo a una sorta di fluente flusso di coscienza. Immagini frammiste scorrono dinanzi agli occhi del lettore che pure non è assente né disattento nel recepire una sorta di tormento tra le righe. Assistiamo a una prima palese forma di confidenza sociale quando il poeta non si esime di svelare la condizione transeunte e insicura dell’uomo, ammorbato da quesiti esistenziali indecifrabili, in balia delle proprie vorticanti idee e riflessioni: “C’è una stagnazione dell’essenza e della vita./ Uomini come schegge, dal volto offuscato” (10). La disanima – lucida e attenta, finanche implacabile – è quella di una realtà che lo circonda fatta di una natura libera e accogliente e di un universo umano indistinto, apparentemente infelice, turbato o in attesa. Il ricorrere alla natura – il tentativo di diluizione nel paesaggio – appare come un recondito tentativo di ricerca di un benessere che, da soli, nel privato, nel conflitto continuo con la propria res cogitans, non si può raggiungere. Questo anticipa senz’altro alcune trame della poesia di Di Spigno lette, nella quarta di copertina, nei contenuti di “riflessione esistenziale” e di “inadeguatezza dei nostri tempi”. Quest’ultima, la “inadeguatezza dei nostri tempi” non è tanto un’incapacità di fondo né esiste nell’inerzia degli uomini, vale a dire non si è adeguati perché il tempo scellerato e indomabile nel quale ci troviamo non lo consente, piuttosto è l’inadeguatezza che si sperimenta nell’essere come vorremmo effettivamente essere, vale a dire si realizza in quel discostamento tra una condizione reale e potenziale (alla quale tendere) che sempre più si fa irreale divenendo platonica.
La successiva poesia, “Griselda dei Balcani”, che sembra ammiccare alla prosa lirica, diviene fruibile (e percorribile) al lettore come una sequenza ampia e frastagliata di aporie, di tentennamenti e veri timori dai quali l’io lirico cerca di smarcarsi. Si costruisce, così, una poesia dal contenuto diversificato, difficilmente ascrivibile a una particolare categoria estetica, fluente e imprendibile, dove è il tormento esistenziale, la tribolazione interiore, l’inadeguatezza – appunto – a prevaricare. Si disquisisce, tra i versi, sull’origine della vita dell’uomo e – ancor più – sul senso dell’esserci (il motivo, la finalità, l’esigenza dell’esistere) difatti Di Spigno scrive di una “nuova/ e totale convivenza con un mondo/ che non ti cerca e non fa simpatia” (12) e, a seguire, di solitudine (“la cerco, per riconoscerla/ e braccarla” in “Fragmenta”, 21), variabilità, fluire, dolore e consunzione. Immagini che, pervase dai toni di grigiore e incanalate in un turbamento epocale diverso, erano il biglietto da visita dei crepuscolari (ma qui in Di Spigno non v’è lamentazione né – mi pare – un impeto vittimistico) od erano ingredienti nutrienti di un mal di vivere bohémien, scapigliato e, in altri termini, decadente. Il motivo della morte ad esempio ritorna spesso nel corso dell’intero libro – con collegamenti diversi, sfumature varie, intenzioni multiple – tanto da rappresentare un vero e proprio collante. Qui, in “Griselda dei Balcani”, l’autore riflette – fiele in bocca – sul mistero (lo sconvolgimento) del tempus fugit (“Tutto dipende dai giorni. Passano senza passare/ vengono e nessuno li vede, ci lasciano/ cicatrici sulle mani e sul viso”, 13) e, contemporaneamente, sull’ossessione del deperimento (“frammenta le ossa”, 13). Quale, allora, il senso del tempo che passa, inavvertito, trascorre, inconsapevolmente, si consuma nella disattenzione generale?
La seconda sezione, “Versi morali”, con una curiosa citazione tratta da La storia infinita (adattamento cinematografico di Wolfgang Petersen e non dal romanzo base di Michael Ende) introduce il lettore al tema del viaggio. La vita come percorso, tra ostacoli e risalite, itinerari da percorrere, strade da scegliere, incontri, soste, ripartenze. Il giovane e valoroso Atreyu, l’indimenticabile eroe di questa narrazione fantastica, viene “consigliato” dal Vecchio (figura del saggio, della persona alla quale – se vogliamo salvarci o solo far bene – dobbiamo fidarci) a intraprendere il viaggio velocemente perché il Nulla (cos’è questo Nulla, se non abbiamo – ancora o mai – definito un Tutto?) sta per giungere. Alla minaccia della fine, Atreyu risponde con convinzione e sagacia, con intraprendenza ed orgoglio, e compie un viaggio che – pur difficile e periglioso per la sua incolumità – lo porterà alla conoscenza e al salvamento (non solo del suo corpo, ma di un Regno che prima era minacciato). Atreyu, compiendo il viaggio, allontana la minaccia mortale e conduce a una rivelazione di scoperta, inaugurando una nuova età di splendore e di vita. Di Spigno – la cui scelta delle citazioni è senz’altro inusuale ma non per questo meno pregnante – a questo percorso iniziatico, conoscitivo, formativo e di affermazione di Atreyu (nostra sembianza, in chiave allegorica e smitizzata) dona un patina (di protezione, ma anche di scambio reversibile) d’ordine essenzialmente sociale (meno eroica, più umana e cogente) ed etica. Con “Stampa antica” si apre questo percorso terrestre (nel mondo) ma anche emozionale (nell’interiorità): “Oggi guardo dall’alto il mio destino” (17) che, in una (fedele, è da credere) lettura di ricordi collezionati e ripescati (forse per automatismo, per esigenza corriva, per associazione d’immagini o cos’altro) tracciano momenti vissuti nella loro semplicità ma talmente carichi di emozioni da divenire quasi “universali” per la propria esperienza come quando, “Ti rivedo in una camera d’albergo” (18) che è l’impersonale ma efficace “attacco” di “Il passo breve”. Titolo, questo, senz’altro significativo perché ci fornisce la fisionomia dell’andatura, l’approccio del mondo, l’ampiezza del percorso, il modus vivendi del vivere l’esistenza e saperla rievocare.
Immancabili – in una poesia così intrisa di vita, di episodi di un vivere emotivamente tellurico e continuamente teso all’interrogazione – sono le dediche in varie liriche del volume come quella a Vera della poesia “Ghostling” (dalla quale cito due versi molto potenti: “un giorno, il silenzio improvviso,/ la fiducia ritorta su un muro di spine”, 19) e quelle dei due “Congedi” (titolo della sezione di chiusura) rivolti rispettivamente a Elena D’Arienzo ed Emilia Criscuolo, persone alle quali il poeta era particolarmente legato. Lo rivelano i versi dove il dolore, pur forte, per questa mancanza e perpetua lontananza dalle due, è mitigato da una speranza di un miglior destino (“in un altrove acceso e favoloso/ nel quale rincontrarti/ […]/ ogni volta torni a mancare”, 86; “l’ultima volta che hai pensato alla vita/ […] sei lontana e tuttavia perfetta”, 88)[3].
Quello di Di Spigno è un continuo “colloquio con la morte”, un dialogare attorno al tempo nefasto di “quando l’anima si staccherà da te/ e andrà lì dove tutto si crea” (38); lo rivelano tanto le inquietudini diffuse che i destinatari delle liriche (tra le quali segnalo “Cronologie” dedicata al recentemente scomparso Mario Benedetti), i pensieri continuativi, le domande che pervadono l’animo del Nostro, quel senso di malessere quasi palpabile, i ricordi dei cari ormai andati, il procedimento convinto nell’attuazione di una lirica elegiaca, memorialistica, nostalgica, che a tratti appare come fenomeno residuale di una vita al presente configurata come inadatta, lontana e in qualche modo impraticabile.
Quello del passato è per Di Spigno non solo un insegnamento e un baluardo di formazione ma una fisima calcificata che lo conduce a vivere in una condizione di vulnerabilità e abbattimento, di continua perlustrazione di significati e spiegazioni anche quando – visibilmente – essi non lasciano traccia alcuna. Nell’attacco di “Futura” c’è un piccolo germe di estensione nella sfera del futuro (“Me ne andrò da questo stallo di pietra dura”, 26) ma anche qui – immancabilmente – è un futuro che tende a un decadimento, a una eventuale uscita di scena, a un abisso e che necessita una qualche forma di congedo dall’immanente. Si apre poco dopo, difatti, l’esigua e opprimente sezione delle “Elegie finali” in questo titolo così privo di speranza teso a definire un compimento irreversibile: sono canti di ricordo e di nostalgia, di dolore e di esplicitazione di una mancanza fortemente sentita, che l’autore raccoglie dopo una chiosa della statunitense Marilynne Robinson che giunge diretta e potente come una fitta: “Pregherò, poi dormirò”. È – si è già detto – una sorta di forma di rito che anticipa la caduta, il saluto ultimo all’approssimarsi di una vigilia dell’assenza. Ma è anche una sorta di promessa o un impegno: ciò sarà fatto con quell’ordine. La preghiera, forse, per lenire il dolore che ci si auto-imprime, per mitigare quel “traforo che bisogna/ attraversare” (25), prima del riposo eterno: un sonno continuo e irreversibile. Il tema del dormire, che ben defluisce in questa sezione, è protratto anche da un esergo del “Filocolo” di Boccaccio in apertura a “Sveglia anticipata” dove si legge: “Ora puoi iniziare il viaggio mai fatto/ […]/ Dove vai non c’è ritorno/ […]/ la preghiera, il coro dei cherubini,/ per questo sonno senza più domani” (31). In questa selezione di opere compare anche un omaggio a Giacomo Leopardi con dedica al poeta Franco Buffoni (“l’elogio alla tua logica, quanto perfetta/ la tua iattura, come è giovanile il tuo talento”, 32, si legge nella chiusa) e altri testi dedicati ora a parenti ora ad amici, compreso Alex, un giovanissimo di vent’anni deceduto nel 2001 in un incidente stradale. L’idea del deperimento (la consunzione del tempo e con essa la vecchiaia fisiologica dell’uomo come di ogni essere vivente) che aveva dominato nella prima parte del volume va man mano associandosi, nel terrore e nell’incomprensione dell’animo del Nostro, all’immagine della caduta, della morte che s’avventa sul presente. È un pensiero ricorrente, che si fa progressivamente sempre più pesante, insostituibile, al punto tale che trama profondamente l’ordito delle composizioni. Nell’assenza che la morte produce, nella lontananza implacabile dagli affetti, Di Spigno sembra intervenire con scoramento ma anche con rinata consapevolezza: “Lasciatemi andare via, persone un tempo amate,/ cose tutte dell’esistere condivise” (37).
La sezione che segue (“Terra e cielo”), che mi fa pensare all’omonimo titolo di un’opera abbozzata di Federico García Lorca durante la sua presenza in America (documentata nel carteggio e i cui componimenti finirono per lo più in Poeta a New York pubblicato nel 1940), sembra essere – in termini di composizioni – quella più vasta. L’esergo stavolta è affidato a una breve citazione del (poco ricordato) poeta e drammaturgo polacco Zbigniew Herbert attorno al tema dell’indecisione e dell’approccio speculativo dell’uomo (“ma ci sono anche quelli che dubitano indomiti”[4]); in “Tautologie” si ravvisa un lessico influenzato dall’eziologia medica impiegato per descrivere stati di difficoltà, dolore e asfissia (“fistola del distacco”, “conati di asma”) affidando alla chiusa una rivelazione misantropa e ottundente: “Gli esseri umani sono la mia croce” (43). Tale – in effetti – potrebbe apparire dinanzi una lettura disincantata e parca, tesa a indagare rapporti, significanze ed allusioni ma in fondo c’è dell’altro ed è lo stesso autore che – in maniera altrettanto camaleontica – descrive questo atteggiamento impulsivo e scoraggiato: “Vorrei spiegarmi meglio” – rivela in una conversazione privata col sottoscritto[5] – aggiungendo “gli esseri umani sono davvero la mia croce, perché mi sento sempre in difetto e inadeguato verso di loro, anche se non riesco a non esserne coinvolto e a volergli bene. Non so come funzionano, ma non posso fare a meno di loro. Se non li amassi li ignorerei, e non sarebbero più la mia croce…”.
In “Otto di giugno” il tema mortuario – stavolta nella forma concreta dell’inumazione del corpo – trova voce in versi contenutisticamente contrastivi: “poesia come ruota di mulino/ che accecava la sorte e portava refrigerio” (45) e, appunto, “le mie ossa/ feconderanno la terra” (45). Se gli occhi appartengono a un corpo ancora vivo e risultano “accecati” dando come conseguenza la cecità e l’impossibilità di appropriazione dei propri spazi e il mantenimento della vita sin lì condotta, le ossa di un corpo senza più vita (quel corpo che “marcisce prima della voce”, 58) disciolte nella terra vengono richiamate quale possibile ingrediente arricchente per la qualità del terreno dove nasceranno e prolifereranno vite. L’isotopia delle ossa ritorna in “Somnium” dove, nella terza stanza, riportata con carattere corsivo, si legge: “La vita continua negli ossari/ o nel ricordo? Nella storia o nelle steppe?/ Con noi o senza noi? La risposta/ a questi allunaggi della mente/ è dovuta./ Con parole troppo grosse,/ talvolta, ma il silenzio non è ammesso” (46). Quello di Di Spigno è un continuo interfacciarsi con la morte, un tentativo di serrato dialogo teso forse al desiderio di poter carpire qualcosa di essa. L’interrogatorio verso il mondo oggettuale (pure residuale e nella sua forma dissezionata come le ossa) è il segnale di un impellente bisogno di sapere, di interrogare se stesso, di cercare di spiegare ciò che le parole effettivamente non possono contenere. Ecco allora che il dialogo con le ossa, l’interrogazione dinanzi a un mondo che si disgrega e che non può parlare, assurge a una sorta di ansia metafisica, di sovrumana potenza e di incavalcabile dominio.
Se di preghiere, morte e ossari si è parlato, va anche detto che l’opera poetica di Di Spigno appare nutrita e pervasa dal sentimento cattolico (poesia “Mozione evangelica”, 56) che gli consente – non sempre – di dare una collocazione a quella disperazione costitutiva del suo animo, di percepire un eco – seppur labile e sbiadito – ai suoi interrogativi. In “Ultimatum” sembra palesarsi questa possibilità di ricongiungimento alla fede, di inserimento all’interno di una collocazione spirituale dotata di onniscienza – di una visione suprema e totale in un disegno completo per l’uomo tra compimento di fasi successive – leggiamo, infatti, “Al Dio che sa ogni cosa consegniamo/ concetti, trasvolate, medaglie. Farà lui/ l’inventario della bancarotta. E se alla fine/ saremo comandati dal perdono, nessuna stretta/ collettiva, nessuna sfida dall’interno” (59). Ciò significa credere nella presenza (diffusa) e nella facile inclinazione al peccato (ne aveva parlato nel testo con dedica a Silvia Bre) ma anche nella possibilità di una ricusazione dello stesso, di un invito all’accoglimento, un’espiazione che potrebbe esser vista in quella “luce” di cui si parla nella citazione in esergo alla sezione “Il mondo estremo” tratta dall’opera Ulisse del poeta Luigi Dallapiccola. Di questa parte del libro del nostro autore napoletano (classe 1975) che oggi vive nella Capitale, mi sembra opportuno soffermarsi sui titoli delle liriche che lo compongono, rivelatrici – forse ancor più degli stessi versi – del tipo di approccio e di esperienza emozionale adoperate dall’autore durante la produzione di tali versi. Appartengono a questo mondo “estremo” (i cui sinonimi più ovvi sarebbero “ultimo”, “finale”, “terminale” ma andrebbero ugualmente bene al contesto?) lo scontro (la rottura, l’allontanamento, l’inesplicabilità della scissione, la perdita), la resistenza (la forza, la perspicacia, la volontà e la concretezza dell’agire, la risoluzione e il temperamento volitivo), lo stato delle cose (la realtà, l’anamnesi del presente, il flusso insopprimibile dei pensieri, il contingente, ciò che appare e che non sempre è), il mondo di relazioni (“i padroni e le creature”, le discrepanze e le correlazioni, le intersezioni e le dominazioni, le influenze, gerarchie, i rapporti e quel che ne consegue, sia in termini ascrivibili all’oggettivo quanto – in maniera ben più ardimentosa e imprendibile – alla sfera dell’assoluto); la bellezza (e la capacità di saper vedere il bello, la spensieratezza e l’agio, la rilassatezza, la conquista della pace interiore, il rilassamento e la felice collocazione nel proprio contesto) da “la bella stagione”, possibile anticipo di un varco tra sacche di buio.
“La vita facile”, con una chiosa di Sant’Agostino attorno al tema della memoria è la nuova micro-sezione dove troviamo le liriche “Testimone”, “Ilario”, “Non capiranno” e “Outsider” (a mio modesto vedere le migliori di tutto il libro in oggetto). Si persevera con quel dialogo con l’oltretomba (intuito, pensato o rimandato) quando annota nell’incipit di “Testimone”: “Vedrò lo spettro di mio padre e di mia madre,/ quando di forza lascerò la carne/ […] entrerò nel turibolo dorato, conoscerò/ i fiori di tiglio della rotta finale” (77); finanche nella lirica dedicata al fratello (“Ilario”) il pensiero motivo di fissazione radicata nella mente del nostro è la destinazione ultima del corpo mortale: “Gli uomini baciano la lapide che li aspetta” (78). Le poesie che seguono, “Non capiranno” e “Outsider”, si riferiscono a episodi dolorosi di gente che “non ce l’ha fatta”, tra incidenti stradali o malattie inguaribili (“la madre che piangeva/ il fratello impazzito”, 79), vittime del “turbinio di droghe” (80), persone sfortunate o indifese, che sono cadute presto nel baratro e che porta Di Spigno – come aveva già fatto in precedenza – ad argomentare, pur in chiave sinottica, con un piglio lapidario e catastrofico tendente a un pessimismo inguaribile che “La strada è tutta croci” (81).
La non grande varietà di tematiche che fa di questo libro – un po’ come si era osservato per la copertina – una campitura tendente al monocromatismo contrasta con l’acutezza formale di un dolore pressante e continuo, sorgivo e che si auto-alimenta, col quale Di Spigno cerca di dialogare, con i suoi versi. Il tentativo interlocutorio di Minimo umano è apprezzabile perché, pur presentando la sofferenza e la morte come aspetti tematici fondanti, l’io lirico – che, va ricordato, è giovane! – impiega formule diverse (dalla condanna all’elegia, dal ricordo nostalgico all’attestazione di una carenza di presenze, dall’invocazione all’abbattimento) in questo confronto– ad armi impari – con ciò che (poco) conosciamo e (molto) temiamo.
LORENZO SPURIO
Jesi, 16-07-2020
[1] “Ringrazio Silvia Bre, che considero la vera mallevatrice di questo libro, per i preziosi incoraggiamenti, suggerimenti e operazioni di taglio e sintesi operate su diversi testi che ritengo decisivi” (91). A lei è dedicata la poesia “Preghiera dell’anima costiera” che fa parte della sezione “Terra e cielo” nella quale, col canonico flusso di coscienza di Di Spigno teso a spiegare a se stesso (più che a chi lo legge) il suo stato di malessere e inquietudine, si legge: “Non ora il conto intero dei peccati./ Ancora qualche anno è ciò che chiedo/ per riparare ai torti delle idee” (54)
[2] In una conversazione privata con Di Spigno, avvenuta il 16/07/2020, così si è espresso su questo importante esponente del mondo musicale: “è un uomo che, nonostante [vari] ictus e infarti, ha composto grande musica tra il 1968 e il 1994, riprendendo forme canoniche (concerto, sonata, sinfonia, quartetto d’archi etc.), riuscendo a fare una musica […] moderna, con mezzi assolutamente classici, ovvero ritornando alla citazione, alla conoscenza a tappeto della musica occidentale che aveva davvero portentosa. Per me è un simbolo, perché manda in soffitto le avanguardie restituendo alla musica una piacevolezza di ascolto e una religiosità che sono mancate per decenni, portando la musica in un vicolo cieco dal quale lui, Part, e qualche altro, sono riusciti a uscire. Mi permetto di segnalare […] il suo brano, “Quartetto 3”, con la citazione di Orlando di Lasso, per dar[e] un’idea plastica della sua poetica”.
[3] Nell’analisi del libro in oggetto ho cercato di proseguire in maniera progressiva procedendo nella lettura delle varie sezioni e, contestualmente, delle varie poesie ivi inserite con la sola eccezione della sezione “Congedi”, costituita da due sole liriche, che si trova nella parte finale del libro che, rappresentando due testi molto personali dedicati a persone scomparse, ho deciso di non approfondire ulteriormente.
[4] Si veda, inoltre, la poesia dal titolo inequivocabile in tal senso, “Dilemma” (50).
[5] Conversazione privata avvenuta a mezzo mail il 16/07/2020.
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