N.E. 02/2024 – “Il lungo viaggio”, poesia di Eleonora Bellini

Il lungo viaggio, le notti

orfane di voci e di fuochi,

la stella maliarda

che gioca e che ammicca,

i giorni e le dune, la sabbia e la sete

ora

non sono più nulla al cospetto

del bimbo di carne, di latte, di fasce.

I tre re si mutano in padri e l’oro,

l’incenso e la mirra sembrano

futili, sono riposti in un angolo.

Ora

è la carezza che conta, il braccio

che regge, la voce che scalda.

L’inerme fiducioso bambino, il figlio,

ha distrutto gli orpelli. Il suo fragile

minuscolo corpo avvolge

di tenerezza quei duri

corpi maturi, scioglie i pesanti mantelli,

nasconde gli scettri, infonde

respiro all’affanno. I padri

giocano, fanno un inchino e il bambino

dona smorfie, vagiti e sgambetti. I cuori

volano e la madre sorride. Epifania.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.



“Lorca americano: la silloge poetica partorita da un mix di depressione e dolore”. Saggio di Lorenzo Spurio

La giornalista Nuria Azancot ha dedicato un recente articolo uscito su «El Español» all’esperienza in terra americana di Federico García Lorca (1898-1936) dal titolo (traduco dallo spagnolo) “La redenzione americana di Lorca: così scrisse Poeta a Nueva York[1], tra la depressione e il dolore[2]”. La Azancot con una prosa veloce ma non priva di elementi di pregio passa in rassegna la vicenda del viaggio americano di Lorca che, nel 1929, a seguito di una grande sofferenza (che secondo Ian Gibson lo vide addirittura vicino alla scelta del suicidio) dettata dalla fine del rapporto amoroso con Emilio Aladrén (che l’aveva abbandonato per l’inglese Eleanor Dove) giunse a New York dove studiò lingua inglese presso la Columbia University.

Quel viaggio-vacanza, pensato per essere di poche settimane, si allungò a dismisura. Viaggiò, conobbe membri della cultura americana (tra cui la romanziera nera Nella Larsen, autrice di Passing), entrò a contatto con il barrio negro di Harlem, visse sulla sua pelle la crisi sociale e umana del Crollo della Borsa di New York, prese parte alla visione di pellicole sperimentali del cinema americano e tanto altro ancora. Giunse anche a L’Avana dove, lasciando alle spalle il delirio del denaro, della spersonalizzazione e della massificazione della megalopoli americana, gli sembrò per un attimo di essere ritornato a casa. La critica ricorda come fu proprio a Cuba che il poeta – nella latinità calda e spensierata che ricalca, in maniera enfatizzata, il meridione della sua terra natale –si sentì maggiormente ad agio, riuscendo ad allontanare il peso dell’impossibilità di esprimere liberamente il suo amore, di abbattere alla luce del sole il pregiudizio bigotto della borghesia granadina, «la peggiore d’Europa», come il Poeta ebbe a stigmatizzarla.

A New York Lorca fu colpito profondamente dalla frenesia del commercio, dall’incomunicabilità delle genti, dalla meccanizzazione della vita dell’uomo. L’architettura dei grattacieli che si perdono a vista d’occhio longitudinalmente e la dominazione di materiali inerti come il cemento, il ferro e il vetro descrivono un unicum distintivo di questa sua esperienza nella Grande Mela. Nella fitta corrispondenza con i suoi genitori (soprattutto con la madre e l’amato fratello Francisco) non potrà che innalzare, con la meraviglia che alimenta nelle sue pupille per quanto di fantasmagorico visto, la città di New York e l’idea dell’America quali contesti di grande progresso, di vivacità e di profondo dinamismo sebbene nelle liriche che scrisse in quel periodo non mancano immagini fosche, che trasmettono l’idea del caos, della solitudine e della distanza, la versione di uomo allucinato sopraffatto dalle logiche del consumo, dal dio quattrino, dove i sentimenti sembrano assopiti e predomina la macchina, la devianza e l’indifferenza.

L’autrice dell’articolo ricorda anche le due gite “fuori porta” di Lorca che lo portano a lasciare la Grande Mela per il Vermont, ospite di Philip Cummings e poi a Bushenellsville e Newburgh dove scrisse, tra le altre, la dolorosa “Niña ahogada en el pozo. (Granada y Newburgh)”. Nel Vermont, in particolare, lontano dal rumore e dal vorticismo della megalopoli, sembrò prima riacquistare una dimensione a lui cara, fatta di normalità a contatto con un contesto naturale ma, in un secondo momento, fu visibilmente pervaso da una grande angoscia che gli deriva da una profonda nostalgia tanto della sua infanzia (il cui ricordo lì si ampliò notevolmente) quanto della sua terra natale.

Il libro Poeta en Nueva York che contiene le poesie scritte durante la sua permanenza a New York e poi a Cuba (tra cui la celebre e cantilenante “Iré a Santiago”), com’è noto, non verrà pubblicato prima del 1940, ovvero postumo, ben quattro anni dopo la morte del Poeta. La pubblicazione, avvenuta grazie all’interessamento di José Bergamín avvenne con i tipi delle Editorial Séneca del Messico, sebbene, quasi contemporaneamente, un’edizione bilingue spagnolo-inglese (traduzioni di Rolfe Humphries) veniva pubblicata negli Stati Uniti per la W.W. Norton and Company.

Come ricorda la Azancot, le poesie del periodo americano evidenziano che «la trasformazione poetica e personale si era venuta sviluppando nel corso di quei mesi». Sappiamo che l’esperienza vissuta in territorio d’Oltreoceano fu determinante nella vita del granadino non solo perché propiziatrice e fautrice di un avvicinamento all’avanguardia e alla sperimentazione linguistica spesso associata a un reale assorbimento al surrealismo (nel quale, forse, le maggiori opere vanno rintracciate nel suo teatro de lo imposible o teatro irrepresentable) ma soprattutto gli consentì un’apertura mentale e di maggiore comprensione del reale che, senza quel viaggio, sicuramente non avrebbe mai raggiunto.

Particolare del manoscritto di “Poeta en Nueva York”

Sebbene non poté vedere pubblicata la raccolta di liriche di quell’importante viaggio, il Poeta aveva dato a conoscerne molti dei contenuti: alcune poesie erano state pubblicate su alcune riviste, altre recitate in veladas con amici e colleghi letterati, altre ancora declamate a intervalli nel corso della sua dotta e puntualissima conferenza che pronunciò in varie città dal titolo “Un poeta en Nueva York” comprensiva di un recital de poemas neoyorkinos.

Il testo della conferenza, che per fortuna si è conservato, rappresenta, a suo modo, una sorta di narrazione biografica di quei momenti nella quale ci dà le sue idee suscitate dal contatto diretto con la megalopoli e, a ragione ed ampliamento di questo, situava la lettura di alcune delle liriche più importanti della raccolta tra cui “Norma y paraíso de los negros” (mentre, forse per questioni di lunghezza del testo, si limitava a invitare il lettore a leggere “Navidad en el Hudson” che è senz’altro uno dei testi più pregnanti di questa sua fase poetica). Nel testo della conferenza leggiamo: «He dicho un poeta en Nueva York y he debido decir Nueva York en un poeta» (ovvero «Ho parlato di un poeta a New York e avrei dovuto dire di New York in un poeta»), frase che ben sintetizza la potenza nevralgica e catartica rappresentata da New York (e per estensione dall’America) che felicemente agì su di lui, tanto dal punto di vista umano (le numerose conoscenze, la partecipazione agli spettacoli-cinema avanguardista, l’inserimento nel barrio negro e il sentimento di fratellanza verso di loro, la denuncia dell’ingiustizia, della discriminazione, etc.) che intellettuale (la produzione delle sue liriche, i testi per il teatro lì elaborati come El Público, il testo per conferenza di poco successivo, le dichiarazioni agli amici e alla stampa, le confessioni ai cari nella corrispondenza, etc.).

LORENZO SPURIO

Jesi, 06/08/2022


[1] Nuria Azancot, “La redención americana de Lorca: así escribió Poeta en Nueva York entre la depresión y el desamor”, «El Español», 03/08/2022.

[2] L’originale spagnolo parla di desamor che, però, non possiamo tradurre come “disamore” ma con “dolore” o “strazio” trattandosi di un dolore esistenziale, tanto personale che creativo dovuto alla fine della sua relazione amorosa. Nel sottotitolo dell’articolo si dice che Federico «si trovava in un critico momento sentimentale e letterario».


La riproduzione del presente saggio, in forma integrale e/o di stralci, su qualsiasi tipo di supporto non è consentita senza l’autorizzazione da parte dell’Autore.

N.E. 01/2023 – “La lacrima e il sorriso: Ortis e Didimo Chierico”. Saggio di Graziella Enna

Molte notizie relative al periodo veneziano di Foscolo, che precedono direttamente la stagione dell’Ortis, ci giungono dalle sue epistole. L’autore mostra un ritratto di sé da cui emergono tratti di ascendenza alfieriana caratterizzati da un’indole sdegnosa, corrucciata e incline alla malinconia. In altre, inviate al Cesarotti, affiorano temi come le sventure familiari, la solitudine, l’amicizia, la vita perseguitata e la morte. Da tutti questi elementi si palesa uno spirito dibattuto tra speranze, illusioni, passioni forti, momenti di estrosa vivacità alternati ad altri, opposti, impregnati di angoscia esistenziale, lamento elegiaco, profonda tristezza, prefigurazioni del personaggio appassionato dell’Ortis. Quando Foscolo, in giovane età, approda alla stesura del romanzo epistolare, ha già illustri antecedenti. La storia dell’infelice e giovane Jacopo, ardente di passioni patriottiche e consumato da una divorante passione amorosa, non è certo una mera imitazione né di Goethe ne“I dolori del giovane Werther”, né di Rousseaunella “Novelle Héloïse”, dai quali certamente ricavò alcune suggestioni ed elementi legati soprattutto alla struttura ma da cui si distacca ampiamente. Solo nella premessa alla sua ultima edizione spende alcune parole sul raffronto con il Werther goethiano, dalle quali possiamo evincere lo spirito tutto foscoliano. Mentre il Goethe meditò a lungo sull’opera e poi la stese di getto, l’Ortis è il diario delle sue angosciose passioni proprio come lui le provava di giorno in giorno. Nel Werther la molla dell’azione dall’inizio alla catastrofe è soltanto l’amore, in lui invece è rappresentata una gamma variegata di sentimenti umani rapportata alle condizioni storiche e alle delusioni politiche: desideri, illusioni e disinganni si rincorrono. Se Goethe riversa nel suo personaggio solo qualche aspetto della sua vita, Jacopo Ortis invece è il Foscolo stesso al cui nome egli è indissolubilmente legato. Tutto ciò si può facilmente dimostrare analizzando la storia delle vicende per le quali l’opera passò. A diciotto anni Foscolo concepisce, mentre si trovava nei colli euganei, l’idea di un romanzo epistolare, “Laura, lettere”, che compendiava le sue prime delusioni d’amore. Due anni dopo a Bologna, dopo il trattato di Campoformio e la bruciante passione per Teresa Monti, diede all’opera il titolo che conosciamo amalgamandovi suggestioni di matrice roussoiana, (come emerge dal nome Jean Jaques che Foscolo traduceva Gian Jacopo), ma anche a un fatto di cronaca: Ortis era infatti il cognome di uno studente morto suicida a Padova. Mentre il Foscolo combatteva in varie parti d’Italia con gli eserciti rivoluzionari dopo aver lasciato Bologna, nel 1800 si innamorò di Isabella Roncioni, promessa sposa ad un altro, traendo da quest’esperienza l’ispirazione per proseguire la sua opera giovanile (pubblicata arbitrariamente, come è noto, da un certo Sassoli con il titolo di “Storia di due amanti infelici”). Nel 1802, a Milano, integrò le pagine già scritte ma si accorse che la vicenda del giovane suicida non esprimeva più interamente il suo stato d’animo. Vagheggiò così la stesura di un’altra opera in cui poter rispecchiare più fedelmente se stesso senza però indossare la maschera tragica del suicida. Voleva intitolarla “Sesto tomo dell’io”, storia di un anno intenso della sua vita, il 1799-1800, fatto di amori, battaglie, un ferimento nell’assedio di Genova, le peregrinazioni nell’Italia invasa da eserciti stranieri. E’evidente che Foscolo volesse riportare toni ben diversi da quelli dell’Ortis, arricchendoli con l’ironia e la mutevolezza di impressioni e opinioni per mostrare il suo processo di maturazione. L’opera non fu portata a termine, ma le pagine stese non risultarono inutili nella prosecuzione dell’Ortis a cui egli tornò dopo la caduta del Regno italico e il ritorno a una situazione simile a quella degli anni di Campoformio. Foscolo abbandonò l’Italia per affermare la sua libertà di scrittore, divenne esule come Jacopo e gli affidò i suoi pensieri, in particolare quelli presenti in un’opera polemica di carattere politico rimasta senza compimento, “Della servitù dell’Italia”. Nell’Ortis entrarono questi discorsi come risulta chiarissimo nella lunga lettera del 17 marzo in cui afferma con veemenza l’incapacità degli Italiani a trovare la motivazione per ribellarsi dall’asservimento straniero.

Gridano d’essere stati venduti e traditi: ma se si fossero armati, sarebbero stati vinti forse, non mai traditi; e se si fossero difesi sino all’ultimo sangue, né i vincitori avrebbero potuto venderli, né i vinti si sarebbero attentati di comperarli. Se non che moltissimi de’ nostri presumono che la libertà si possa comperare a danaro; presumono che le nazioni straniere vengano per amore dell’equità a trucidarsi scambievolmente su’ nostri campi onde liberare l’Italia!

Ancora si veda questo passo in cui evidenzia l’inerzia delle classi dirigenti e dell’intellighenzia.

L’Italia ha de’ titolati quanti ne vuoi;[…] I medici, gli avvocati, i professori d’Università, i letterati, i ricchi mercatanti, l’innumerabile schiera degl’ impiegati fanno arti gentili, essi dicono, e cittadinesche; non però hanno nerbo e diritto cittadinesco.

Questo passaggio sarà ripreso nel passo dei “Sepolcri” (vv.142-145)

Già il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo,/Decoro e mente al bello Italo regno,/Nelle adulate reggie ha sepoltura/Già vivo, e i stemmi unica laude. 

Gli esempi dimostrano che, rispetto alla compattezza dei suoi capolavori, forse l’Ortis può apparire caotico ma in realtà contiene in nuce tutti i motivi topici foscoliani senza i quali forse non si potrebbero comprendere le opere maggiori. Dietro questa forma imperfetta e abbozzata della sua poetica il protagonista è un tutt’uno con l’autore che prorompe dalle pagine con il suo potente individualismo, con la sua passionalità, con un’enfasi retorica arricchita di riferimenti culturali classici, proponendo al lettore un ritratto che può amare o odiare. L’Ortis ha una grande complessità di relazioni con la vita dell’autore che si compendia nella famosa affermazione nell’epistola al Cesarotti del 12 settembre 1802:

«fra un mese avrai in nitida edizione pari a questa una mia fatica di due anni, ch’io chiamo il libro del mio cuore. Posso dire di averlo scritto col mio sangue; tu ergo ut mea viscera suscipe. Da quello conoscerai le mie opinioni, i miei casi, le mie virtù, le mie passioni, i miei vizi, e la mia fisionomia».

Lo scrittore Ugo Foscolo

Parte integrante del nuovo Ortis fu poi la Notizia bibliografica in cui tentò di spiegare l’opera e il suo significato. In buona sostanza l’Ortis ci rappresenta lo specchio della vita foscoliana non in un solo momento della sua esistenza relegata all’età giovanile. Il fatto che l’opera sia continuamente in fieri, palesa chiaramente la necessità da parte dell’autore di rivederla, di correggerla, di completarla. La critica moderna ha poi analizzato le lettere d’amore rivolte a Antonietta Fagnani Arese e vi ha riscontrato una perfetta e fittissima corrispondenza con i sentimenti espressi da Jacopo nei confronti di Teresa, nel romanzo. Ecco alcuni esempi:

Epistola:   “Non ho niun soccorso negli uomini, niuna consolazione in me stesso. Ormai non so che ricorrere al Cielo e pregarlo con le mie lacrime, e cercare conforto fuori di questo mondo dove tutto ci perseguita e ci abbandona. Credimi, mia Antonietta, se il mio pianto, se le mie preghiere, se i miei rimorsi, se il dolore profondo che è fatto carnefice ormai di questo povero cuore, fossero rimedi bastanti per te, tu saresti risanata, ed io ringrazierei i miei tormenti”

 Ortis :  “Non abbiamo piú niun soccorso dagli uomini, niuna consolazione in noi stessi. Omai non so che supplicare il sommo Iddio, e supplicarlo co’ miei gemiti, e cercare qualche aiuto fuori di questo mondo, dove tutto ci perseguita o ci abbandona. E se gli spasimi e le preghiere e il rimorso, ch’è fatto giá mio carnefice, fossero offerte accolte dal cielo, ah! tu non saresti cosí infelice, ed io benedirei tutti i miei tormenti”.

Epistola:  “Mi sono gettato su quel letto, e mi sembrava ancora caldo dell’orma del tuo corpo divino…mi sembrava ancora odoroso. Oh primo giorno! Come tu sei stampato nel mio petto!”

Ortis:   “Mi sono prostrato, o mia Teresa, presso a quel tronco, e quell’erba ha dianzi bevute le più dolci lagrime ch’io abbia versato mai; mi pareva ancora calda dell’orma del tuo corpo divino; mi pareva ancora odorosa. Beata sera! come tu sei stampata nel mio petto!”

Epistola: “Tutto è follia, mia tenera amante, tutto purtroppo! E quando anche il soave sogno de’nostri amori terminerà, credimi, io calerò il sipario; la gloria, il sapere, l’ amicizia, le ricchezze, tutti i fantasmi che hanno recitato fino ad ora nella mia commedia, non fanno più per me”

Ortis: “Tutto è follia mia dolce amica; tutto pur tropp! E quando il mio sogno soave terminerà, quando gli uomini, e la fortuna ti rapiranno a questi occhi, io calerò il sipario: la gloria, il sapere, la gioventù, le ricchezze, tutti fantasmi che hanno recitato fino ad ora nella mia commedia, non fanno più per me”.

 È evidente una deliberata scelta di Foscolo di trasferire completamente la propria vita nell’arte che dal punto di vista tematico si traduce nei motivi essenziali della sua poetica. Anche lo stile è variegato e composito, passa dai toni drammatici e patetici a quelli espositivi e distesi, come se lo scrittore trovasse la soluzione dei suoi conflitti in questi elementi apparentemente discordanti. La continua revisione di Foscolo ha trovato un sostegno notevole sia nel suo esercizio epistolare, sia nella lettura e traduzione di Sterne, di cui conosce le opere intorno ai vent’anni. Mentre si trova a Calais al seguito dell’esercito napoleonico fu a stretto contatto con dei prigionieri inglesi da cui ricevette l’originale del romanzo “La vita e le opinioni di Tristram Shandy gentiluomo”. Sterne è un  autore è molto diverso da lui proprio per la comicità e l’ironia intrinseche alla sua poetica. Stranamente Foscolo conosce anche l’inglese, (mentre tutti gli intellettuali all’epoca conoscevano solo il francese), così decide di tradurre Sterne. Non sceglie il Tristram, ma un altro libretto, il “Viaggio sentimentale” che era, come dice il titolo, un diario di viaggio fatto dall’autore tra Francia e Italia. Foscolo inizia la sua traduzione nel 1805 a Calais, ma poi l’abbandona e la rifà da cima a fondo a Firenze, poi la pubblica a Pisa nel 1813 con il titolo “Viaggio sentimentale di Yorick lungo la Francia e l’Italia, traduzione di Didimo Chierico”. Quando Sterne aveva pubblicato l’opera, l’aveva attribuita ad un personaggio fittizio di nome Yorick, come il buffone di una famosa scena dell’Amleto di Shakespeare. Foscolo è molto attratto dall’umorismo di Sterne e dall’atteggiamento di Yorick, che si contrappone all’immagine stereotipata del viaggiatore settecentesco e guarda al comportamento degli uomini evidenziandone l’incoerenza. Foscolo, imitando Sterne, attribuisce la traduzione ad un fantomatico letterato chiamato Didimo Chierico, eccentrico personaggio che vestiva da prete senza aver assunto gli ordini sacri, aggiungendo in fondo alla traduzione la “Notizia intorno a Didimo Chierico”. Sostiene di aver ricevuto da lui il manoscritto con la preghiera di pubblicarlo. In realtà Didimo è l’autoritratto di Foscolo maturo, mentre l’Ortis era stato il suo ritratto giovanile. Dall’epistolario di Foscolo è possibile estrapolare dei riferimenti alle difficoltà che incontrò nel tradurre, che gli pareva un’impresa servile. A suo parere, la traduzione non doveva essere un atto puramente meccanico ma possedere qualcosa di originale, essere una cosa sua propria, l’aspira a comporre una figura in cui riconoscersi e farsi riconoscere. Non ha ancora terminato l’Ortis e già nasce in lui l’idea di un secondo alter ego, (che non aveva portato a compimento nel “Sesto tomo”), più maturo e più savio. Questa nuova maschera foscoliana acquista il suo senso posta in relazione all’Ortis. Didimo è infatti l’anti Ortis o meglio, l’Ortis sopravissuto, divenuto letterato, traduttore, commentatore, con lo stesso animo di un tempo ma totalmente disincantato. È un personaggio che si mostra estraneo ai tempi, eppure ne vive le contraddizioni, ha vissuto la durezza della vita militare, ha conosciuto la vanità e la supponenza di intellettuali eruditi, ma a sua volta recita la parte del pedante esprimendosi ironicamente con un linguaggio dotto e obsoleto, ha vissuto una giovinezza appassionata ma col tempo ha ridimensionato le sue pulsioni come testimoniano queste parole nella “Notizia”:

Dissi che teneva chiuse le sue passioni; e quel poco che ne traspariva, pareva calore di fiamma lontana.

Esiste poi un differente punto di vista in cui si pone l’autore: Ortis è Foscolo in prima persona, Didimo, (questo è l’elemento caratterizzante dello scritto autobiografico), parla come un’altra persona. Didimo viene tenuto a distanza come se lo scrittore volesse fare ammenda della sua intemperanza giovanile per dare una nuova immagine di sé, lucida, disincantata e verace.In luogo della scrittura delle passioni tristi di Jacopo il nuovo scritto contiene l’osservazione delle cose del mondo, un nuovo tipo di ironia che è il patrimonio di Yorick trasmesso a Didimo che adotta un punto di vista meno doloroso e tragico della realtà sostituendo i giudizi perentori, l’intransigente moralismo, i toni oratori e ampollosi a una visione mite velata di ironia. Alcuni stralci della “Notizia” presentano così Didimo:

 Insomma pareva uomo che essendosi in gioventù lasciato governare dall’indole sua naturale, s’accomodasse, ma senza fidarsene, alla prudenza mondana. E forse aveva più amore che stima per gli uomini;

Ma pareva, quando io lo vidi, più disingannato che rinsavito; e che senza dar noia agli altri, se ne andasse quietissimo e sicuro di sé medesimo per la sua strada, e sostandosi spesso, quasi avesse più a cuore di non deviare che di toccare la meta.

Jacopo vive nell’aspirazione continua ai miti di perfezione, nell’esasperazione di sentimenti e passione politica. Didimo, in una sua personale autarkeia, accetta la felicità modesta e relativa che si può ricavare dalle proprie esperienze quotidiane. Non sono però che due aspetti che convivono nella personalità foscoliana, da una parte la ricerca dell’ideale, dall’altra l’accettazione intelligente e saggia della quotidianità.

  • Caretti Lanfranco, Ugo Foscolo, Milano, Garzanti 1969
  • Fubini Mario, Ortis e Didimo, Milano Feltrinelli 1963
  • Barbarisi Gennaro, Le postille di Didimo Chierico al “Viaggio sentimentale”, in Giornale Storico della Letteratura Italiana; Torino Vol. 135, Fasc. 409, 1958
  • Matteo Palumbo, Jacopo Ortis, Didimo Chierico e gli avvertimenti di Foscolo “Al lettore” Source: MLN , Jan., Vol. 105, No. 1, pp. 50-73 Published by: The Johns Hopkins University Press, 1990
  • Ferroni Giulio, Storia della letteratura italiana, dall’Ottocento al Novecento, Einaudi, Milano 1991
  • Foscolo Ugo, Notizia intorno a Didimo Chierico,  CURATORE: M. Fubini http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/  2001 TRATTO DA: “Opere” di Ugo Foscolo Edizione nazionale sotto gli auspici del Ministero della P. I. Firenze, Le Monnier, Vol. V: Prose varie d’arte
  • Foscolo Ugo, “Le ultime lettere di Jacopo Ortis”, Milano, Bur Rizzoli 1999

*

Questo testo viene pubblicato su questo dominio (www.blogletteratura.com) all’interno della sezione dedicata relativa alla rivista “Nuova Euterpe” a seguito della selezione della Redazione, con l’autorizzazione dell’Autore/Autrice, proprietario/a e senza nulla avere a pretendere da quest’ultimo/a all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ vietato riprodurre il presente testo in formato integrale o di stralci su qualsiasi tipo di supporto senza l’autorizzazione da parte dell’Autore. La citazione è consentita e, quale riferimento bibliografico, oltre a riportare nome e cognome dell’Autore/Autrice, titolo integrale del brano, si dovrà far seguire il riferimento «Nuova Euterpe» n°01/2023, unitamente al link dove l’opera si trova.

“Sono figlio di nebbie e di primi autotreni”. Pubblicata una riedizione dei testi poetici giovanili del poeta beat Aldo Piromalli

È uscito da pochi giorni il volume di poesie Sono figlio di nebbie e di primi autotreni del poeta e artista romano Aldo Piromalli, protagonista indiscusso della scena letteraria beat della Capitale negli anni della Contestazione e non solo. Il volume, voluto e interamente curato dal sottoscritto e da Alessandro Manca, entrambi da anni in costante rapporto epistolare con Piromalli (residente in pianta fissa ormai da qualche decennio ad Amsterdam), è stato pubblicato dalla romana Sensibili alle Foglie all’interno della pregiata collana dell’archivio di scritture, scrizioni e arte ir-ritata “Scrizioni Ir-ritate”.

Il volume, che conta ben 255 pagine, prende in esame l’intera produzione poetica edita di Piromalli localizzata nel periodo 1957-1979, come ben esplicitato in copertina dove – in una riduzione bicromatica di b/n – campeggia un suo disegno geometrico con linee più o meno nette e campiture di tratteggi diagonali a definire volumi compenetranti. Vi troviamo le sillogi e i volumi – in realtà dei piccoli pamphlet – che, com’era la moda dell’epoca, vennero pubblicati in ciclostile a tiratura limitatissima e i cui originali, oggi, sono difficilmente trovabili, se non grazie alle copie conservate in qualche biblioteca (anche estera) che nel tempo le ha acquisite.

Piromalli – classe 1946 – è un artista a tutto tondo, non solo poeta ma anche artista visivo e performativo, amante di lingue e culture straniere, di filosofie lontane, bibliofilo accanito, traduttore e, ancora, presenza assidua, per lo meno sino a una decina di anni fa, della scena della cultura alternativa contemporanea.

Nel libro che viene ora dato alle stampe si ritrovano i suoi lavori della fase giovanile, che contraddistinsero la sua permanenza e le “scorribande” nella Capitale (l’autore partecipò anche al rumoroso e psichedelico Festival di Castelporziano nel 1979, rimembrato come “la Woodstock italiana”) ma anche parte dei suoi frenetici viaggi a piedi, in autostop, per nave o su mezzi di fortuna che lo portarono a lungo a errare in vari paesi dell’Europa (fervidi ancora i suoi ricordi del passaggio in Albania e dell’esperienza in Grecia) e fuori dall’Europa. Il libro fornisce un concentrato di esperienze che hanno caratterizzato la sua natura di uomo (finanche la parentesi di reclusione a Regina Coeli) e reso nota la sua vena di poeta flâneur, errabondo ed estatico, forse uno dei veri ultimi “maledetti” della nostra letteratura. Sono confluite in questo libro le sillogi di poesie e di prose poetiche Uccello nel guscio (1971), Viaggio. 1967 (1976), Un quartiere nel cielo (1978) e Uccello libero. Poemetto (1979) pubblicate nella loro forma originale, senza rimaneggiamenti di sorta né interpunzioni anche, laddove – piccoli errori di battitura e sviste dell’autore – avrebbero consentito un intervento, rifiutato dai curatori per mantenere massima fedeltà al testo originario. Vi compaiono anche i contributi critici accessori originari quale la fine testimonianza critica vergata da Bruno Corà per Uccello nel guscio (1971) in cui esordiva con un esergo dai Canti pisani di Ezra Pound.

Sulla vasta opera di Piromalli – con un particolare occhio alla sua dimensione artistica – si è espressa la studiosa Giulia Girardello, che lo ha anche incontrato nella capitale olandese. Insieme a Mattia Pellegrini la Girardello, per la medesima casa editrice, nel 2013 ha dato alle stampe Se io sono la lingua. Aldo Piromalli e la scrittura dell’esilio. L’attenzione verso la poliedrica e in-catalogabile persona di Piromalli, artista geniale e imprevedibile, ha visto anche l’assegnazione del noto Premio “Pietro Ciampi”[1] (su segnalazione dell’artista Dora García) nella sua ventesima edizione celebrata nel 2020, riconoscimento ritirato alla Villa Mimbelli di Livorno dalla sorella Nicla Piromalli, dal cognato Mattia Camellini, da Alessandro Manca e da Giulia Girardello.

Aldo Piromalli qualche anno fa. Scatto di Giulia Girardello.

Alessandro Manca (nato a Lecco nel 1985, vive a Casatenovo) – col quale ho felicemente lavorato in continuo contatto per la curatela di questo volume – è libero ricercatore e apprezzato studioso del movimento underground di poesia in Italia negli anni ’60, della Beat Generation americana e dello scrittore Pier Vittorio Tondelli. Ha dato alle stampe I figli dello stupore. La Beat Generation italiana (2018), volume al quale è annesso un cd-documentario, strumenti che aiutano a far chiarezza e approfondiscono la (trascurata e criticamente in-investigata) stagione della poesia beat italiana. Ha curato la riedizione de I fiori chiari. Il romanzo della Beat Generation a Milano dal ’66 al ’69 (2019) di Silla Ferradini, romanzo autobiografico che rappresenta una documentazione fedele della storia e dei sentimenti di quei ragazzi che formavano un gruppo di Contestazione non politicizzato attivo a Milano. Ha curato, altresì, la riedizione del romanzo Il paradiso delle Urì (2020)di Andrea D’Anna la cui prima edizione risale al 1967 per Feltrinelli.

In relazione a questo filone di studi – per altro particolarmente lacunosi e raminghi all’interno della letteratura nazionale – ho avuto modo di dedicare un ampio saggio a Piromalli dal titolo “Aldo Piromalli, controverso poeta beat italiano, tra la Contestazione degli anni ‘60/’70 e la più recente esperienza della mail art” apparso sulla rivista «Euterpe» n°29 nel giugno 2019 e riproposto nel volume nell’appendice finale. Sempre sulla rivista «Euterpe» (n°23, giugno 2017) era apparsa una mia intervista fatta al poeta qualche anno prima. Tra gli altri esponenti della Contestazione giovanile italiana il cui impegno si è rivolto anche alla scrittura con la pubblicazione di volumi, mi sono occupato del maestro-poeta “capellone” torinese Gianni Milano con un saggio dal titolo “Nuove e vecchie battaglie: la Contestazione di Gianni Milano, il “Ginsberg italiano” che oggi si batte contro la TAV” («Euterpe» n°30, gennaio 2020) e dello scrittore e saggista interculturale Gianni De Martino, direttore di «Mandala. Quaderni d’oriente e d’occidente», autore del romanzo (più volte ripubblicato, la cui prima edizione è del 1988) Hotel Oasis, con prefazione di Alberto Moravia e di numerosi altri testi di prosa d’ambientazione esotica e imperniati sull’esperienza del viaggio. A lui ho dedicato un’interessante intervista uscita su «Leggere Poesia» il 25/10/2020.

LORENZO SPURIO

Jesi, 19/02/2023


[1] Il Premio “Pietro Ciampi”, nel nome dell’artista livornese Pietro Ciampi ricordato per aver “rotto” con una certa tradizione, annualmente viene attribuito a insigni esponenti del mondo cantautorale e non solo, fino a toccare varie sezioni artistiche del campo visivo come il teatro, il cinema, la letteratura, aspetti che contraddistinsero la passione dello stesso Ciampi.


La pubblicazione di questo testo in forma integrale o di stralci, su qualsiasi tipo di supporto, non è consentita senza l’autorizzazione da parte dell’autore.

Arriva “Èremos”, romanzo di Emanuela Antonini in terra esotica che fa riflettere sul ruolo della donna

Articolo di Lorenzo Spurio

È appena uscito il nuovo libro della poetessa e scrittrice Emanuela Antonini, il romanzo Èremos, pubblicato per i tipi di Porto Seguro Edizioni di Firenze con prefazione di Lorenzo Spurio.

Èremos narra di un viaggio in Tunisia, destinato a lasciare un segno nella vita della protagonista. La pavese Micol, di famiglia benestante, è per natura anticonformista e ironica, con quel pizzico di romanticismo che la rende particolare. Laureata in Economia e Commercio, dopo un’esperienza professionale in Germania e un matrimonio naufragato, ottiene un ruolo apicale in una nota azienda romana. Consapevole delle difficoltà, connesse al suo essere donna, in un mondo di dominio ancora molto maschile – la storia è ambientata a fine anni Ottanta del secondo millennio – dimostrerà che è possibile coniugare lavoro e famiglia. Nel frattempo, infatti, convola a nozze con Nicola, coronando il suo sogno d’amore con la nascita di due figli. Qualche lieve difficoltà nella coppia e forse un po’ di stanchezza nella protagonista vengono ben presto messe al bando da un’importante opportunità che le si presenta: un viaggio di lavoro in Tunisia. Sarà questo il momento per riflettere sulla propria vita frenetica, divisa tra responsabilità lavorativa e familiare e fare il punto sul suo rapporto di coppia. Quello raccontato da Emanuela Antonini, dunque, è una sorta di viaggio nel viaggio. La permanenza nel territorio africano si rivela una vertiginosa incursione nell’io profondo, luogo di difficile accesso, che i greci indicano con la parola eremos, termine col quale ha deciso d’intitolare l’avvincente narrazione.

Nella prefazione al volume il critico letterario Lorenzo Spurio ha scritto: “Una delle intenzioni dell’Autrice […] è quella di affrontare il tema della donna moderna […], della mancanza di un reale sistema paritario per questo genere rispetto all’uomo. Di approfondire, soprattutto a livello professionale, la questione del divario che ancora esiste tra i vari generi facendo della protagonista, che negli anni ascende da responsabile a dirigente, non solo un esempio positivo, ma una sorta di mosca bianca. [L’Autrice] fa parlare la realtà del periodo, le disattenzioni diffuse verso l’universo femminile, mettendo in luce l’ipocrisia di chi sostiene che l’emancipazionismo della donna si è già avuto e completato da tempo, sottolineando l’esigenza del porre la questione […] quale concreto tema d’indiscussa importanza e di grande attualità che solo insieme e convinti si può cercare di trattare”.

L’autrice Emanuela Antonini

Emanuela Antonini è nata a Perugia nel 1957, vive da molti anni nelle Marche a Fabriano (AN). Biologa, è poetessa e scrittrice. Per la poesia ha pubblicato Sfumature agrodolci (Aletti, Roma, 2014) mentre per la narrativa i romanzi Entropia d’amore (Thyrus, Arrone, 2007) e La vecchia ingannatrice (Neftasia, Pesaro, 2012). Alcune sue poesie sono presenti in varie raccolte antologiche tra cui Il rifugio dell’aria. Poeti nelle Marche (Progetto Cultura, Roma, 2010) a cura di Francesca Innocenzi, Convivio in versi. Mappatura democratica della poesia marchigiana (PoetiKanten Edizioni, Sesto Fiorentino, 2016) a cura di Lorenzo Spurio e Fiori di poesia. Per la giornata mondiale della Poesia (Euterpe APS, Jesi, 2022; progetto a scopo benefico a sostegno dello IOM) a cura di Lorenzo Spurio. Fondatrice e presidente di due concorsi letterari: il Premio Nazionale di Poesia e Arti Visive “Città del Maglio” a Fabriano organizzato dall’Ente Palio di Fabriano (due edizioni tenutesi) e del Premio Nazionale “Novella Torregiani” – Letteratura e Arti Figurative organizzato da Euterpe APS che si tiene a Porto Recanati (attualmente è in corso la sesta edizione). È Consigliera dell’Associazione Euterpe APS di Jesi. In passato è stata membro di giuria in alcuni concorsi letterari tra cui il Concorso Letterario “Versi in libertà” dell’Accademia “Francesco Petrarca” di Viterbo (2014) e nel Premio “Poesie d’Amore” dell’A.L.I. Penna d’Autore di Torino. In collaborazione con il professor Schiavoni e il Maestro Zingaretti ha organizzato un progetto artistico-letterario all’Ospedale “Profili” di Fabriano dimostrando come poesia e pittura possano felicemente interagire armoniosamente. Numerosi i premi letterari vinti tra cui il 1° Premio al “San Valentino: Poesia, racconti e lettere d’amore” (2008) e il 1° Premio Internazionale di Poesia, Narrativa e Saggistica “Tulliola” (2009).

LORENZO SPURIO


E’ severamente vietato riprodurre, in forma integrale o di stralci e su qualsiasi tipo di supporto, il presente articolo senza l’autorizzazione da parte dell’Autore.

“Itaca nel cuore” di Stefania Pellegrini, recensione di Lorenzo Spurio

Recensione di Lorenzo Spurio

Vorrei

giungere in vista di Itaca,

sentire la tua mano sulla guancia,

come rugiada nel cuore d’una rosa (97).

Di recente pubblicazione è la nuova raccolta di poesie di Stefania Pellegrini, autrice nata in terra d’Irlanda e da tanti anni residente nei pressi di Aosta. Non si tratta della sua opera prima e numerosi suoi testi sono già apparsi in rete, soprattutto sul suo sito personale «Parole Nomadi», su varie uscite della rivista di poesia e critica letteraria «Euterpe», nonché su antologie di premi letterari.

Il nuovo volume, edito per i tipi di CTL di Livorno, porta il titolo di Itaca nel cuore e già da questa definizione che richiama il mito classico – e con esso il mistero del viaggio – compendiamo che il percorso che la Nostra ci propone d’intraprendere immergendoci nelle sue liriche ha qualcosa d’analogo a un itinerario odeporico vale a dire di quella letteratura di viaggio che non è semplice cronaca di trasbordi e viaggi fisici quanto – ben più spesso e in forme ancor più profonde – di carattere esistenziale e interiore.

La Pellegrini ha deciso di suddividere il copioso materiale poetico che qui trova posto in varie sotto-sezioni che, in realtà, appaiono più come delle vere e proprie micro-sillogi che possono essere concepite, lette e dunque fruite nella loro singolarità: sono autosufficienti ai contenuti e complete e non necessariamente debbano trovare riflesso e collegamento con le altre sezioni. Ed è la stessa Autrice a chiarire nella nota introduttiva del volume quella che è stata la sua intenzione alla base di questa necessaria e ben condotta cernita di titoli e relativa catalogazione in sottogruppi. C’è una prima sezione che porta il titolo “La forma dei giorni”, enunciato nel quale non facciamo difficoltà a percepire l’intenzione della Nostra di volersi riferire a quegli aspetti della vita odierna, agli ambiti colloquiali e transeunti dell’uomo contemporaneo, in balia tra pensieri e ossessioni, a volte ostaggio di incomprensioni, altre pervaso da moniti di fuga e sempre – comunque – fortemente attraccato alla vita concreta nella quale la Nostra ritrova il senso delle cose in circostanze di meditazione, pausa, riflessione, ricerca di sé e attribuzione di significati all’essenziale che ci contraddistingue.

A rivelare questo (possibile) atteggiamento sono i titoli stessi delle poesie che si trovano contemplate in questa prima parte: “Sono così oggi”, “Cambiare prospettiva”, “Mia solitudine”. Sono, in effetti, testi particolarmente intimi in cui l’interiorità della Nostra viene offerta al lettore non tanto perché ne faccia testamento proprio quanto perché, senza difficoltà né superfetazioni, può ritrovarcisi egli o ella stessa. Pensieri, dubbi, divagazioni, riflessioni e rievocazioni, ma anche memorie, ricordi che riaffiorano, promesse, visioni incantate o comunque piacevoli (non sempre in linea con l’animo dell’io lirico) fanno da sfondo a questi componimenti. Penso anche a testi quali “E nasce il giorno” e “Il mare”.

D’altro canto non possono – né devono – passare inosservati gli scambi lirici nei quali la Nostra tematizza la vita nella forma del percorso, tramite l’allegoria del viaggio, metafora nota del cammino dell’uomo, viandante in terre che non conosce, scopre, caratterizzato da continue dislocazioni per ragioni dettate da aspetti pratici della vita. Si pensi ai componimenti “La locomotiva”, “Andata-ritorno” ma anche “In quell’andare” e “Il viaggio” dove questo si fa particolarmente palese.

Noto è il mito di Ulisse che ritorna ad Itaca dopo numerose peripezie di varia natura di cui Omero dà di conto in una delle epiche più studiate e affascinanti dell’intera letteratura mondiale. Eppure al suo ritorno Ulisse non viene riconosciuto da chi l’ha visto nascere e crescere (con eccezione della nutrice Euriclea oltre che del cane Argo s’intende), dal suo popolo e questo elemento – che vedrà la sua agnizione nel momento che il personaggio considera valevole di far cadere il mondo di impostura e tradimento che per i tanti anni di sua assenza si è creato – ha dato spazio alle considerazioni critiche e alle interpretazioni più varie, a partire dalle più banali per affrontare circostanze situazionali e logiche in effetti che non hanno nulla di inferiore a un chiaro esperimento sociologico. Credo che il non riconoscimento di Ulisse al suo approdare su Itaca non derivi dal semplice fatto che lui è di molto cambiato, invecchiato, barba incolta e travisato da mendicante, e dunque restituisce un’immagine assai differente da quella che tutti hanno di lui, ma attiene anche all’impossibilità di saper cogliere l’essenziale, l’incapacità di scorgere l’autentico, la miopia e la faciloneria che portano l’uomo in senso generale ad essere connaturatamente più propenso al giudizio (e al pregiudizio) che al ragionamento e al collegamento meditato. È pur vero che Ulisse è diverso, ma non solo fisicamente, dunque nel mero aspetto, è un uomo formato, completamente maturo, temprato dalle fatalità della vita, le cui vicissitudini lo hanno ispessito e reso saldo in una maniera da averne fatto un uomo essenzialmente diverso da com’era. Eppure si mantiene in lui la compassione e l’amore che nella scena con la ritrovata Penelope – l’unica sofferente della sua assenza – risalgono in superficie. Ecco, la poesia della Pellegrini ha qualcosa di analogo a questo comportamento ambiguo di Ulisse: al di là del fascino arcaico verso il mare visto sia come ecosistema puro ma anche come elemento di attraversamento verso spazi diversi e lontani dai propri, nelle poesie della Nostra sembra di percepire, pur diluiti in contesti emozionali introiettati ed esperiti come propri, i motivi del viaggio e dell’evasione, dell’allontanamento e della crescita interiore e morale, dell’asperità della vita, della condizione di esule, ma anche del ritorno, del recupero di quel che si credeva perso e di cui, non senza difficoltà (proprio come la memoria dei nostri cari ormai sottratti al tempo), possiamo riappropriarci.

Un’illustrazione del ritorno ad Itaca di Ulisse

La seconda sezione del volume, dal titolo “Oltre le pagine sporche”, con un sottotitolo inciso che recita “Incontri”, ha a che vedere con la dimensione spiccatamente civile della Nostra, di cui sulle pagine della rivista «Euterpe» si è già avuta, più volte, dimostrazione. La Pellegrini abbraccia l’arma della poesia per parlare di drammi, situazioni di difficoltà, condizioni di vita marginali e di sopraffazioni, contesti di violenza, infanzia negata, situazioni d’indecorosa indifferenza e di crudeltà umana. Sono testi mossi – in taluni casi – da episodi concreti, partoriti da una cronaca efferata e iterata, così dolorosamente colpevole di riempire l’informazione che ci giunge da angoli reconditi del mondo. Ma, altrettanto spesso, anche da situazioni e contesti della nostra Provincia, che accadono poco distanti da noi, nell’indifferenza e nell’incomprensione dei più, mix deleterio che impoverisce il senso di concordia umana che andrebbe rinsaldato e protetto. Doverosamente preponderante appare il tema del fenomeno migratorio: “Fiore del deserto / vertigine bronzea di vellutata pelle, / occhi grandi incrostati di sale / colmi di mistero, e di passione, / dalla furia del mare sgranati di terrore” (53) si legge nella poesia “Amàli” che apre questa sezione del volume. Il tema ritorna in “Alya, Alya” che ci narra di un altro naufragio divenuto eccidio: “Brucia le labbra l’acqua salata, / ostile, ansiosa di tenermi con sé. // […] // L’acqua sale, le labbra, gli occhi bruciano” (58-59).

Tra le altre rievocazioni di sciagure umane che la Pellegrini richiama quali motivi trainanti di un duro affondo di sgomento e denuncia vi è la shoah con un ricordo relativo a undici giovani fucilati a Nus, in provincia di Aosta e dove l’Autrice risiede, nel luglio del 1944. “Non piangere madre, / un tempo c’è stato, e non è stato vano” (55) recita l’explicit, in un singulto di dolore che non svanisce con gli ultimi versi della lirica e che, invece, pare raggrumarsi come uno spiacevole nodo alla gola. C’è una grande partecipazione dell’io lirico in questi testi, lo si nota dal grande garbo verso una materia spesso abusata e maltrattata – anche in poesia – fatta oggetto di facili utilizzi, quando non addirittura di indecorose strumentalizzazioni. Nelle poesie della Nostra si riscontra un pathos la cui intensità risulta difficilmente configurabile a parole. Alto è il senso di pietas della Pellegrini, di quell’ascolto gratuito e doveroso verso l’altro che, anche nella circostanza di episodi ormai lontani e consegnati alla Storia, non dovrebbe venir meno. C’è il senso dell’umanità, trafitta dalle sofferenze, ma anche il monito a non dimenticare per non cadere in baratri analoghi. Se la Storia è testimonianza di vita, diviene doveroso e imprescindibile per l’uomo d’oggi farsi testimone per le nuove generazioni.

Sguardo attento anche verso l’esodo del popolo curdo sottoposto al continuo esilio da una terra che lo rende “appeso al filo della speranza” mentre vive disperato, sospeso, tra “un lembo di terra nomade” e “un recinto di filo spinato” (61), all’infanzia negata dei bambini siriani con “i sogni impigliati sul filo spinato” (63), finanche a un meno noto genocidio degli indiani Sioux noto come il “massacro di Chivington” che vide come scenario il Colorado nel 1864: “Agnelli al suolo sacrificati, / sciabole sguainate, corpi come grano / mietuto sui campi” (66). La Nostra dedica un componimento anche per coloro che, avendo commesso reati, si trovano “relitti ai margini del vuoto, / chius[i] nel grigiore delle ristrette mura” (67), quelle degli istituti penitenziari. Storie di profughi, di immigrati che muoiono nel loro tragitto che dovrebbe condurli in un pase dove cercano pace e futuro, spose bambine, violenze assolute, bambini soldato (“Perdona mamma muoio, / preme un’ombra nera / sulla coscienza”, 75), infanti martoriati nel corpo e assopiti nell’anima, esuli in cerca di uno spazio che possa accoglierli, deportati nei lager, donne stolkerate e abusate (“la voce melliflua che ti adula / con parole spacciate per amore / […] / ti viola insistente”, 78), manovalanza straniera soggiogata e vilipesa da avidi caporali, sono i nuovi martiri contemporanei.

Si riscontrano anche invocazioni e tentativi di dialogo con la luna: “Parlaci / delle nostre imperfezioni” (11), promesse (non facili) fatte a sé stessi, dettate da un’altalenante convinzione dell’esistenza di motivi di forza atti a imprimere un segno di cambiamento o a fortificare meccanismi di resilienza: “Vincerò le stupide paure / […] / Per affrontare / le rotte del mare sconosciuto // […] // e troverò il coraggio / per superare gli ostacoli” (15), convincimenti entusiastici dinanzi a un’avvincente scoperta: “Ma oltre / lo sguardo mira, / verso quel mare che tutte le contiene. / Ancora salperò!” (19), finanche il riconoscimento di una vulnerabilità data dalla carenza di presenze amorose e rassicuranti: “Posa la polvere e lame di luce / l’odore dei ricordi, / aleggia tra le finestre e il comò, / con il passo silente della sera, / e il marchio doloroso delle assenze” (24) mente l’insicurezza diffusa della condizione instabile e logorante del dubbio crea ansia: “Cresce – prolifica / in cerca d’attenzione / come gramigna nell’orto, / e insinua / granelli d’incertezza, / un tarlo nella mente / che rode fin dentro il cuore” (28).

Con l’ultima sezione del volume, “L’impronta del tempo”, è come se si completasse quel percorso circolare che la Nostra ha intrapreso e concesso a noi lettori di intraprendere con lei. Ritornano, infatti, ma in maniera ben più sentita e in forma quasi opprimente, i temi dell’infanzia (“Mi guardo, mi riguardo / cercando la ragazza nella foto / […] / Scopro a illudermi, / a abortire il ricordo”, 88), dei ricordi (“sola mi rifugio / tra le pieghe del ricordo / […] / mentre andavo incontro all’anse / del grande mare, / incurante dei venti contrari”, 98), dell’inesorabilità del tempo che porta la Pellegrini a ragionare su questioni supreme, d’impossibile decodifica per l’uomo, eppure temi impellenti, ricorrenti, a tratti dolorosi, necessari, che svelano un’accentuata dote intellettiva e cogitante: “E mi chiedo perché, / nell’essere non è il rimanere” (89) scrive nell’affascinante testo che porta il titolo “Sfoglia il tempo la mia vita”. Grumi di nostalgia in quel “suono dei tuoi passi andati” (100) si assommano a un senso di vera angoscia dettato dal sentimento dell’assenza (“Ti cerco – non ti trovo, / […] // Queste ore a contare / il tuo ritorno”, 101) e trovano compimento, nell’adesione alla prepotenza della realtà, che smentisce veli e smantella illusioni: “Cede la foglia il suo stare, / da un fiato di vento si lascia rapire. // […] // Vedi? / Niente resta lo stesso” (105).

L’acqua, lo scivolare, lo scorrere, il fluire, divengono in questa sezione del volume tutte sfaccettature di quell’andamento sorgivo e impetuoso improntato al divenire e, in quanto tale, irrefrenabile: immagini e riflessioni di un tempo che cambia perché progressivamente s’allontana da quel passato che ha impresso le nostre esistenze. Tale percorso – come già accennato – non sempre si mostra di facile accettazione per l’uomo perché, adombrato da meccanismi inconoscibili e restio a conformarsi alle sue precipue volontà, produce sperdimento e incomprensione: “non trovo risposte / ai miei richiami” (91), scrive l’Autrice.

LORENZO SPURIO

Jesi, 07/05/2021

Note: La riproduzione del presente testo, sia in formato integrale che di stralci e su qualsiasi tipo di supporto, non è consentito se non ha ottenuto l’autorizzazione da parte dell’autore. E’ possibile, invece, citare dall’articolo con l’apposizione, in nota, del relativo riferimento di pubblicazione in forma chiara e integrale.

“Chi ha gettato la sua ombra” di Danilo Carciolo

Segnalazione di Lorenzo Spurio

Chi ha gettato la sua ombra (Placebook Publishing, 2020), pubblicato ufficialmente lo scorso 13 novembre, è l’opera prima di Danilo Carciolo, autore siracusano classe 1989. L’opera accoglie una selezione di versi scritti nel corso degli ultimi dieci anni. La raccolta si divide in quattro sezioni, ognuna segnata da diversi stati d’animo e stile. Al cambio dell’emozione e dell’avvenimento scatenanti la scrittura, in maniera assai originale, cambia anche la forma. Dalla prima all’ultima poesia – come è stato osservato – sembra di percorrere un cammino dove il continuo flusso di coscienza – il cui recupero di istanti emozionali è a tratti oscuro e ironico – rappresenta uno dei fili rossi dell’opera. La tetra-partizione del volume è così rappresentata: una prima parte sotto il titolo esplicativo di “Assimilare ed elaborare”; le poesie qui contenute si caratterizzano per la presenza di immagini per lo più asprigne e fosche (si tratta – come l’Autore ha evidenziato – dei versi temporalmente meno recenti). Il secondo scompartimento di liriche – apparentemente meno razionale – va sotto la definizione di “Scarti di pazzia”. Qui si ritrovano poesie decisamente più lunghe che non celano una qualche influenza dall’eccentrico e mai banale scrittore e poeta Carmelo Bene. Meno esplicabile – per lo meno a un primo colpo – è la titolazione delle terza sezione, “Cahier de vendanges”, espressione, questa, che sta a significare qualcosa come “taccuino di viaggio” o “diario di bordo” quale summa di un metaforico “raccolto”; Carciolo informa che qui sono raccolte tre poesie legate a una particolare esperienza d’impronta naturalistica vissuta in territorio francese. L’uomo che si fonde al contesto ambientale, in uno scambio fertile e metamorfico prende piede in questi versi dove la natura è dipinta nella sua anima più vitale. La parte finale – la quarta – contiene, sotto il titolo “Risorgendo” quelli che sono i versi più recenti dove – cosa avvenuta con rarità in precedenza – si scorgono anche toni giocosi, un piglio ironico dell’autore dinanzi alla vita che fa di questa poesia – meno fosca – una chiusura degna di una ripartenza.

Danilo Carciolo (Siracusa, 1989) dopo aver conseguito il diploma da attore teatrale nel 2018, ha iniziato a lavorare come performer in varie produzioni teatrali italiane. Incuriosito dalle figure di Sergio Corazzini ed Arthur Rimbaud, ha iniziato a scrivere in versi intorno ai diciassette anni. Tra i diciannove e i ventuno anni ha scritto un romanzo breve, tuttora inedito. Per quanto riguarda il teatro, insieme a Matteo Romano, ha scritto Neapolis, uno spettacolo di teatro contemporaneo che esplora la storia di Siracusa, da un passato ancestrale ad Archimede, dall’assedio dei romani all’epoca moderna. In cantiere sono previsti altri testi teatrali. Ha ricevuto un attestato di merito in occasione dell’evento 100 Thousand Poets For Change 2020 e una segnalazione di merito dalla giuria del Premio Nazionale di Poesia Himera 2020. Per la poesia ha pubblicato Chi ha gettato la sua ombra (PlaceBook Publishing, 2020).

A continuazione una scelta di quattro testi poetici estratti da Chi ha gettato la sua ombra (PaceBook Publishing, 2020), uno per ciascuna sezione di cui si compone:

“Da Balamb”

di Danilo Carciolo

In questa città che s’affaccia

sull’acqua salata

sembra non esserci nulla

da fare, fra queste case bianche

e azzurre e il vento

che accarezza i nostri capelli.

Come vorrei passare la mia

mano dentro di essi.

Affogo nel tuo sguardo

e non capisco di che colore risplende.

Solo pescatori qui intorno,

qualche nave che parte

per raggiungere l’orizzonte

inutilmente

e una manciata di militari

in divise diverse, tanto quanto

è diverso il loro cuore

dalla bandiera.

A cosa serve avere un nome

se siamo anonime stelle

disperse su questi campi.

Spalancando la finestra

da un balcone dell’unico albergo,

vicino alla costa dei tuoi battiti,

proiettiamo i nostri respiri,

insieme ai sogni, verso il mare.

Dal porto, un bambino

suona un’ocarina celeste

gioiosamente malinconica.

*

Il vento dorme sul mare dei ciliegi in fiore”

di Danilo Carciolo

Il vento dorme sul mare dei ciliegi in fiore.

Toshiro si erge a statua buddista,

seduto sopra un’onda ferma di petali.

Naoko lo contempla divertita, distratta

gli versa un po’ di the verde,

come se fosse la sua anima

donatagli per berla:

come lei divorò i battiti di lui,

quando accettò

l’anello

che adesso si inargenta riflettendo un grattacielo

  • ed il kimono l’hanno dimenticato nell’armadio a muro.

In alto,

dei rami cercano di nasconderli dal sole

e celano loro l’aereo

che sfreccia immobile nelle lenti

del ragazzo.

Un po’ di rugiada sorride

divisa, fra cielo e Terra.

Hiroshi prende un onigiri, lì vicino

e sbatte, sbadato, sulle opinioni

in libertà, che lo sfiorano

pericolosamente.

Naoko si perde negli occhi di Toshiro:

lui se ne accorge

e si toglie una lente.

*

“Les mains”

di Danilo Carciolo

Che s’intrecciano,

mani

che si stringono.

E si lasciano

rubare un’essenza

esterna

e si voltano.

Le vidi tagliarsi

mentre una teneva un

grappolo

e l’altra,

miope,

strinse la forbice.

Di sera, invece

riempivamo bicchieri di vino

con ancora la terra

radicata tra le unghie

e sdraiata sulla carne.

Mani ad invocare

o sull’uva a trattenere,

sollevare i bagagli

come a voler pregare.

Compagne essenziali trascurate

ma come torce nella notte fate

quasi luce tra i muri e le vie

di questo viandante tra misteri già

svaniti.

Mani

tra le

gocce.

Mani come oblio,

come un punto

prima di un inizio.

*

“Senza titolo”

di Danilo Carciolo

Non chiedi allo specchio

di mostrarti come vorresti essere:

deformi invece il tuo sembiante

in nuovi riflessi d’apparenza.

Non chiedermi quindi

di scrivere versi in cui riconoscerti:

deformerei i miei sentimenti,

questi frammenti d’inutili scarti.

La pubblicazione dei testi poetici su questo spazio è stata autorizzata dall’autore senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. La riproduzione del testo ivi pubblicato, in formato integrale o di stralci, su qualsiasi tipo di supporto è espressamente vietato senza l’autorizzazione dell’autore.

“In te ho nascosto un lago”, la nuova raccolta poetica del fermano Marco Fortuna

Segnalazione di Lorenzo Spurio (*)

La poesia di Marco Fortuna – poeta fermano classe 1974 – è esistenza, contemplazione della natura, diluizione del dolore, nostalgia e rinnovamento, aspirazione a un nuovo umanesimo. Con essa ci pare di poter dire e rivelare che la parola si è fatta immagine difatti i versi del poeta marchigiano, confluendo nella narrazione del sentimento universale, diventano socialità e rappresentazione dell’uomo, nei cui dolori, gioie e illusioni, da sempre, si scopre la totalità della vita. In una sua dichiarazione lo stesso autore ha avuto modo di asserire che “Nella poesia ci emozioniamo per qualcosa che capita a noi stessi e non, di riflesso, per qualcosa che capita ad altri. E’ una delle cose preziose che servono per farci “sentire” che siamo ancora vivi”.

Marco Fortuna è nato e vive nelle Marche a Fermo. Il suo amore per la poesia è iniziato tra i banchi di scuola e si è rinnovato sempre con intensità. Ha iniziato a scrivere poesie nel 2000 e ancora oggi è impegnato in questo tipo di scrittura in una ricerca costante che considera una sorta di “viaggio nel cuore dell’uomo”. Ha pubblicato Non lasciarmi (Albatros, 2011, poesia), Senza una traccia (autopubblicazione, 2012, poesia), Dimmi le parole (Italic, 2017, poesia), In te ho nascosto un lago (LietoColle, 2019, poesia) e La strada del ritorno – favole d’amore e di perdono (La Rondine, 2019, libro di favole illustrate). Una sua poesia figura nel volume antologico e saggistico La giovane poesia marchigiana (Santelli, 2019) di Lorenzo Spurio.

I suoi interessi letterari nel tempo hanno spaziato in ambito teatrale con la stesura della pièce teatrale Le parole possono cambiare il mondo, messa in scena per la prima volta dalla compagnia teatrale i Lo.co.s. nel 2016 al Teatro Nuovo di Capodarco di Fermo. Prossimamente verrà presentato, in tour per l’Italia, un nuovo spettacolo teatrale dal titolo L’amore non basta, incentrato sulle contemporanee forme di solitudine. Importanti le collaborazioni con musicisti di fama nazionale e internazionale come il M° Fabrizio De Rossi Re, il M° Roberta Silvestrini, il M° Paolo Quilichini, il M° Davide Martelli e il M° Antonio Ferdinando De Stefano che ha musicato una sua poesia per uno spettacolo teatrale andato in scena a Bruxelles. Con il musicista Fabio De Sanctis ha musicato alcune delle sue poesie interpretate dall’attore e poeta Sergio Soldani.

Ogni poeta eleva la nostalgia come suo elemento centrale. Forse sì, ma in Fortuna, questa meditazione sul passato e sul ritorno possibile, senza essere troppo drammatizzata, si riempie di particolari (dico proprio di particolari fisici, di cose, di modi delle materie) così bene elencati, confessati, acquisiti e infine immessi nel tessuto del testo, da conferire all’opera un tenore di originalità. Non un canto funebre sul mondo, ma poesia rivitalizzante il mondo. Il mondo poetico di In te ho nascosto un lago è un mondo non perduto; è solo il mondo della conoscenza dell’azione affettiva. A continuazione uno dei trenta componimenti che è possibile trovare nel libro:

Ecco la casa di terra dove bambini

scaldano davanti al fuoco

le gambe scarne

e sfogliano il granturco

nell’odore di fango e paglia.

Poche le parole che cadono dalla bocca

e poi il fuoco si spegne

la notte si raffredda.

Le finestre spoglie,

senza vetri,

guardano il campo

dove una lepre fulminea passa.

Sulle canne dello stagno

la libellula dorme quieta.

(*) La presente segnalazione è basata sui contenuti del comunicato stampa ricevuto in data 03-11-2020 dall’editore, riformulato e modificato dal sottoscritto in maniera originale. E’ vietata la riproduzione del testo senza il permesso da parte dell’autore come pure la pubblicazione e diffusione della poesia del poeta Marco Fortuna senza il permesso scritto da parte dell’autore. Il gestore del blog è sollevato da qualsivoglia disputa o problematica voglia nascere a seguito della diffusione di parti o del testo integrale su altri spazi e formati non autorizzati.

“L’istinto altrove” (Ladolfi, 2019) di Michela Zanarella – con tre inediti – a cura di Lorenzo Spurio

Segnalazione a cura di Lorenzo Spurio

Michela Zanarella (Cittadella, 1980) dal 2007 vive e lavora a Roma. Poetessa, scrittrice e giornalista, molteplici i suoi impegni nel campo della letteratura. Per la poesia ha pubblicato: Credo (2006), Risvegli (2008), Vita, infinito, paradisi (2009), Sensualità (2011), Meditazioni al femminile (2012), L’estetica dell’oltre (2013), Le identità del cielo (2013), Tragicamente rosso (2015), Le parole accanto (2017), L’esigenza del silenzio (2018 – co-autore Fabio Strinati) e L’istinto altrove (2019). Le sue opere sono state tradotte in varie lingue tra cui il rumeno: Imensele coincidenţe (2015 – traduzione di Daniel Dragomirescu) e in inglese: Meditations in the Feminine (2018 – traduzione di Leanne Hoppe); numerosi testi singoli sono stati inoltre tradotti in inglese, francese, spagnolo, portoghese, greco, arabo, turco. Le sue poesie figurano su numerose antologie italiane e straniere, volumi monografici, riviste, antologie di concorsi, blog, siti e piattaforme culturali online.

Per la prosa ha pubblicato la raccolta di racconti Convivendo con le nuvole (2009), la biografia Nuova identità (Il segreto). Linda D, biografia di una cantatrice (2015) e il breve saggio Com’erano i ragazzi di vita (2017). Figura, inoltre, tra gli otto coautori del romanzo di La ragazza di Roma Nord (2020) di Federico Moccia. Ha curato varie antologie tra cui vanno ricordate, tre le più recenti, Pier Paolo Pasolini. Il poeta civile delle borgate. A quaranta anni dalla sua morte (2016 – co-curatore Lorenzo Spurio) e Senza pietre. 11 poeti per Carlo Levi (2019).

Numerosi i riconoscimenti ottenuti nel corso degli anni tra cui il Premio Cerda “Calogero Rasa” a Palermo (2008), il Premio “Anime e Luci” di Padova (2008), il Premio “Giovanna Dalla Torre” di Roma (2011), il Premio 13 di Roma (2013), il “Creativity Prize” al Premio Internazionale Naji Naaman’s (2016), il Premio “Le Rosse Pergamene” di Roma (2018), il Premio “Officine Ensemble” di Roma (2019),…

È ambasciatrice per la cultura e rappresenta l’Italia in Libano per la Fondazione Naji Naaman e socio corrispondente dell’Accademia Cosentina, collabora con EMUI_ EuroMed University, piattaforma interuniversitaria europea, e si occupa di relazioni internazionali. È redattrice di Periodico italiano Magazine, Laici.it e della rivista di poesia e critica letteraria Euterpe e speaker di Radio Doppio Zero. Già Presidente della Rete Italiana per il Dialogo Euro-Mediterraneo (RIDE-APS), Capofila italiano della Fondazione Anna Lindh (ALF), è Presidente Onorario dell’Enciclopedia Poetica WikiPoesia.

Membro di giuria in vari concorsi letterari, da anni è Presidente di Giuria del Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi” di Jesi (AN) e del Premio Letterario “Città di Latina”. Presiede il concorso letterario nazionale “Le Ragunanze” indetto dall’omonima associazione romana della quale è presidente con il patrocinio dell’Ambasciata di Svezia.

Su di lei hanno scritto, tra gli altri, Dacia Maraini, Dante Maffia, Donatella Bisutti, Giuseppe Neri, Marcella Continanza, Antonino Caponnetto, Antonio Spagnuolo, Roberto Ormanni, Marco Falco Rinaudo, Cristina Biolcati, Vittorio Pavoncello, Dario Amadei, Cinzia Baldazzi, Paolo Merenda, Michele Bruccheri, Irene Sparagna, Gilbert Paraschiva, Luciano Somma, Marco Marra, Daniel Dragomirescu, Leanne Hoppe,…

86501653_2832223340169153_7177540068498735104_o
Michela Zanarella

Ho sempre seguito con attenzione e interesse il percorso poetico di Michela Zanarella a partire dal libro Sensualità. Poesie d’amore e d’amare, edito nel 2011, e per il quale scrissi una recensione nella quale osservavo: “Michela Zanarella è una sensibilissima compagna in questo vivido viaggio nel mondo amoroso, dipinto con grande attenzione mediante un’ampia aggettivazione, soprattutto quella che si riferisce ai colori. […] È un amore quanto mai realistico e vivo, per nulla romanzato, che, come nella realtà, è irrimediabilmente esposto al «dolce aggredire del tempo» e alla lontananza tra gli amanti vissuta con sofferenza: «La vita è misera come un secco ruscello d’agosto senza il tuo fiato accanto» […] La silloge descrive un affascinante universo fondato sui sensi e sulle sensazioni, tutte viste dal sensibile animo femminile della Zanarella”[1].

Spostandoci, invece, alle opere più recenti, vorrei porre l’attenzione – seppur fugacemente – su due opere in particolare: Le identità del cielo (2013) e L’esigenza del silenzio (2018). In riferimento alla prima di queste avevo scritto: “La nuova poesia di Michela Zanarella è materica, nel senso che impiega una sintassi che fa riferimento a forme di materia ed è terrigna, perché nelle divagazioni la poetessa non può che istituire rapporti tra quel che fu, l’origine e la nascita, e quel che sarà, il tutto dominato sempre da una sovrastante in-conoscibilità dei fatti. Come un vate del silenzio, Michela Zanarella fonde nel canto più alto pensieri di palingenesi e costruzioni cosmologiche rapportate nella dimensione dell’uomo qualunque, portato a vivere “un’esistenza che si ripete” […] Con questa silloge esprime la fenomenologia della polvere, per rintracciare sensi e significati in quelle nuvole alte [impresse nell’immagine della cover] che ci sovrastano e che, giorno dopo giorno, vivono con noi[2]”.

Nel 2018 per Le Mezzelane Casa Editrice di Santa Maria Nuova (AN) uscì il nuovo libro Le identità del cielo, un progetto diverso dai soliti e assai curioso a partire dalla conformazione dello stesso se si tiene conto di essere stato scritto assieme al poeta maceratese Fabio Strinati[3]. Non poesie scritte “a quattro mani”, come è facile abitudine degli ultimi anni ma poesie personali, scritte per intero da ciascun autore, inserite all’interno del medesimo volume, senza ripartizioni interne, né indicazioni esplicite su quale dei due autori del volume fosse stato a scrivere i singoli testi. Chi conosce bene la scrittura dell’autrice però (come pure, d’altra parte, quella dell’altro autore) non farà molta difficoltà ad attribuire di volta in volta la paternità (maternità, dovremmo dire, nel primo caso) dei testi. Notevole in questo caso anche la prefazione stilata dal noto poeta Dante Maffia che così si apprestava a presentare i due autori, le due esperienze, il progetto nella sua unicità: “[Gli autori] compiono un viaggio insieme e ne danno un resoconto non attendibile, fuori dalla verità comune. Perché nelle loro parole c’è la verità di un cielo che si è specchiato senza cercare la deflagrazione. La metafora per fare intendere la catena di metafore sottese in ogni pagina, il fluire limpido e a volte magmatico dei pensieri e delle emozioni, lo sforzo per poter entrare nell’invisibile e trarne ragioni ineluttabili. Non è questo del resto il compito dei poeti? Non è quello di squarciare veli e di entrare nella magia di insondabili chimere per offrire poi la dovizia di nuovi cammini?”. Ho ripreso alcune riflessioni esposte precedentemente sulle sue opere passate all’atto della loro pubblicazione e diffusione sia perché hanno ancora una loro validità sia perché consentono di studiare in maniera più particolareggiata e concreta la poetica della Nostra che, pur iscritta in un processo di continua maturazione, ben si contraddistingue – e in maniera peculiare – sin dalle sue origini per la forza e al contempo l’eleganza delle immagini, per la sontuosa elaborazione del verso, per l’alto afflato lirico che consente una vivida partecipazione da parte del lettore.

copertina Zanarella bozza (2)1Marco Marra recensendoLe parole accanto (2017) ebbe a scrivere: “La voce di una poetessa si fa tale quando scandaglia senza alcuna riserva ogni angolo dell’anima, toccandone anche gli anfratti più remoti e bui. L’introspezione proposta in questa silloge poetica è densa di coraggio, talvolta velata da un lucido piglio critico e autocritico che puntualmente l’autrice diluisce in una goccia di speranza e stempera nella sua visione di fondo positiva della vita” [4].

Arriviamo così all’ultimo libro pubblicato, L’istinto altrove (2019), per il quale sembra opportuno – data l’autorevolezza della firma – citare direttamente dalla prefazione siglata dalla scrittrice Dacia Maraini: Michela Zanarella sembra voler far sua la natura stessa del linguaggio poetico che riesce a scavare e mettere in luce le radici più profonde e nascoste dei sentimenti che ci animano, l’amore sopra tutti. E come l’amore ci porta lontani e distanti dal mondo reale per abbracciare quelle che credi essere o sono davvero le ragioni della nostra vita, così la poesia si concede la libertà di connessioni, digressioni, perdite di senso, perché qui sono le parole che si incontrano, si intrecciano in un gioco spesso senza senso apparente, non ci sono verità, ma solo, appunto, istinto e quando le parole prendono ad avere un senso compiuto è proprio allora che si allontanano di nuovo”.

A seguire una scelta di componimenti tratti da L’istinto altrove, edito per i tipi di Ladolfi di Borgomanero (NO) nel 2019:

 

Siamo liberi di sentire

Siamo liberi di sentire

con le vene e con gli occhi

come si muove in silenzio l’amore.

Ci capiterà di non fermarci

tra uno sguardo ed un respiro.

Proveremo a scavalcarci le labbra

nell’armonia perfetta di un bacio.

Ci capiterà forse di non vergognarci

se ci esplode la vita.

Non rinunceremo mai

a ripetere il senso

del nostro avvicinarci all’infinito.

 

*

 

Non si ferma la luce

Non si ferma la luce

che mi sfrega l’anima

e che va in giro per il corpo.

Resto con i palmi aperti

in attesa delle tue dita

e quando sento che mi sfiori

è come se il mondo prendesse forma.

Dentro di noi non fa silenzio il sangue.

Se puoi avvicina l’aria che respiri

alle mie labbra

e fammi strada dentro il tuo corpo

fino a parlare il verbo

delle nuvole e delle stelle.                                       

 

*

Ti verrei ad abbracciare

Ti verrei ad abbracciare

come fa il sole quando sorge

sulla terra

e ti darei le mie parole

per unirle al tuo silenzio.

L’amore che ho per te

fatto di luce e di pazienza

si moltiplica come fa la vita

quando arriva come pioggia improvvisa

a risvegliare l’erba o a riempire i pozzi.

 

A seguire tre inediti:

 

Sono le fidate espressioni degli occhi

Sono le fidate espressioni degli occhi

la posa del silenzio tra le labbra

il corsivo di un amore scritto di getto nell’anima.

Si misero al vetro tra il destino e il tempo

i corpi scesi a innamorarsi

quasi a chiedere permesso alla terra

di toccare l’infinito.

L’hanno conosciuta le guance le mani le ossa

la verità.

Nude hanno stretto la luce

nel compimento del sole.

 

*

 

E se la vita fosse

E se la vita fosse

un perpetuo scavare tra le macerie

un continuo estrarre detriti di cielo

a mani nude.

Avremmo meno paura del vento

che spinge i tronchi a tremare

e le tegole dei tetti a cadere

o tratteremo l’aria come un’anticipazione

della pioggia che turba e poi spaventa?

Continueremo a credere di poter arretrare il dolore dagli occhi

ma le ciglia sono fatte per conoscere il pianto

quel fiume che pare rischiarare il tempo

unicamente alla foce.

 

*

Di tutto il cielo sopra di noi

Di tutto il cielo sopra di noi

sappiamo ben poco

ma se stiamo fuori dal portone

col cuore taciturno nei cappotti

e lo sguardo rivolto al sole

cerchiamo di tenercelo stretto

come se fosse il primo bacio

che la luce dà alla terra.

Magari verranno albe meno fredde

e potremmo lasciare le mani fuori dalle tasche

libere di indicare le nuvole, l’amore e il bianco della neve.

 

 

La riproduzione del presente testo, e dei brani poetici riportati (dietro consenso dell’autore), sia in forma di stralcio che integrale, non è consentita in qualsiasi forma senza il consenso scritto da parte dei relativi autori.

 

 

[1] Recensione pubblicata su Blog Letteratura e Cultura il 26/05/2011, https://blogletteratura.com/2011/06/26/sensualita-poesie-damore-damare-di-michele-zanarella/

[2] Recensione pubblicata su Blog Letteratura e Cultura il 26/12/2013, https://blogletteratura.com/2013/12/26/le-identita-del-cielo-di-michela-zanarella-recensione-di-lorenzo-spurio/ ; per chi volesse leggere la mia recensione alla precedente silloge, Meditazioni al femminile (2012) rimando al testo pubblicato su Blog Letteratura e Cultura il 03/02/2012, https://blogletteratura.com/2012/03/03/meditazioni-al-femminile-di-michela-zanarella-recensione-a-cura-di-lorenzo-spurio/

[3] Fabio Strinati (San Severino Marche, 1983), poeta, scrittore e compositore, vive ad Esanatoglia (MC). Importante per la sua formazione, l’incontro con il pianista Fabrizio Ottaviucci. Ha partecipato a diverse edizioni di “Itinerari D’Ascolto”, manifestazione di musica contemporanea, come interprete e compositore. È presente in diverse riviste tra cui Il Segnale, Odissea, Euterpe, Fucine Letterarie, Il Filorosso, Diacritica, Il Foglio Volante, Versante Ripido. Numerose le sue pubblicazioni poetiche.

[4] Recensione pubblicata su Different Magazine nel 2018, https://www.differentmagazine.it/recensione-di-marco-marra-sulla-silloge-le-parole-accanto-di-michela-zanarella-recensione-di-marco-marra-sulla-silloge-le-parole-accanto-di-michela-zanarella/

“Turismo DOC” di Luciana Censi, recensione di Lorenzo Spurio

Recensione di Lorenzo Spurio 

download.jpgL’incontenibile effervescenza e la più piacevole spontaneità di Luciana Censi, scrittrice di Foligno, pluripremiata in vari contesti letterari in tutta Italia, sono ben contenute nella sua ultima opera, Turismo DOC, edita da Pegasus Edizioni di Cattolica – Sezione Saggistica – nel 2019. Un “saggio personale”, come ben anticipa la primissima pagina del volume, e non avrebbe potuto essere diversamente essendo Luciana così originale, caratteristica, difficilmente descrivibile, sicuramente peculiare in un modo tutto suo, ovvero personale. Uno stile proprio che le è congeniale e che la fa sicuramente distinta nel panorama vasto e spesso lamentoso degli scrittori contemporanei.

Luciana Censi è stata una insegnante di matematica e in ogni suo intervento, pur modesto che sia in termini di spazio, ciò non può non essere esternato. Ce ne rendiamo conto anche dal titolo di uno dei suoi precedenti lavori ovvero L’assioma della completezza (Pegasus, 2017) che è seguito a La tirannia della memoria (Gelsorosso, 2015), il cui titolo, che richiama l’assioma, rimanda a concetti d’importanza capitale oggetto di studio della logica.

Quando mi dona il suo volume di Turismo DOC (dove il Doc – avremmo dovuto intuirlo – non ha nulla a che fare con una possibile “Denominazione di Origine Controllata” ed è, invece, “Denominazione di Origine Censi”, definizione coniata da Carla Barlese) in un recente incontro letterario a Foligno mi fa osservare, con espressione convinta e occhi birichini che le varie immagini che compaiono in copertina, sistemate in superfici quadrate, sono collegate – o distanziate – tra loro per la presenza di triangoli rettangoli. La concatenazione di immagini, che rappresentano l’impressione su carta di alcuni momenti tratteggiati nelle storie narrate all’interno, viene a costruire una sorta di collana vorticante che intuiamo mobile, fluttuante su quel cielo con lievi nuvole che fa da sottofondo, ed in effetti è una curva frattale, come mi spiega l’autrice.

Dopo un ricco testo della professoressa Carla Barlese posto come prefazione che è una summa di acuta analisi critica dell’opera unita, in maniera sinergica, a un profondo sentimento di amicizia e stima verso l’autrice del volume, si dispiegano venticinque racconti che, in realtà, non sono dei veri racconti o che, al contrario, sono racconti ma sono anche dell’altro. Si tratta senza ombra di dubbio di narrazioni, in alcuni passi anche particolarmente meticolose, senz’altro suggestive e incalzanti, dotate di tutti gli ingredienti sapienziali che rendono un libro interessante e pregno di curiosità che ne animano una lettura-fiume, ricorrente e continuativa, per scoprire realmente dove, questo “narratore non affidabile” intende andare a parare.

Le storie raccontate sono cronache, vale a dire episodi realmente accaduti a Luciana Censi nel viaggiare in varie regioni d’Italia, dove ci parla con franchezza di bellezze paesaggistiche e architettoniche, ma anche della fatica che si fa per raggiungere un posto, la prelibatezza più caratteristica di un dato luogo, con echi che abbracciano la storia (Federico II), trapassano stili (il Liberty del villino Ruggeri di Pesaro, poco distante dalla famosa “palla” di Pomodoro), lasciano tracce (le “impronte sulla sabbia” dell’omonimo racconto) e tanto altro ancora. Ci sono sonorità che la scrittrice è in grado di esaltare con la sua penna, con tecniche efficaci che permettono, pur nella loro semplicità, di coinvolgere il lettore e di trasportarlo nel possibile contesto di cui sta leggendo. Si è detto della non affidabilità della narratrice – che poi è anche il personaggio delle varie vicende – per un fatto molto semplice: l’atteggiamento imperscrutabile da lei adottato, in comunione con le dissertazioni e l’approccio pervaso di ilarità e autoironia, ne fanno un personaggio non solo “a tutto tondo”, ma praticamente lontano da una qualsiasi classificazione. La sua spensieratezza e naturalità sono i tratti distintivi che più si apprezzano e che sono – banale aggiungerlo – tratti di quella pervicace libertà espressiva dell’autrice, quel suo dire aperto, tendente alla condivisione e alla felice compartecipazione dei suoi stati, sentimenti.

Questo libro, che si compone di poco più di cento pagine, ci permette di viaggiare pur restando fermi. Non solo nei luoghi (Spello, Assisi, Pesaro, Erice, Cingoli, Ostia Antica e la Roma dei Fori imperiali, Catania, Pesaro, il lungomare di San Benedetto del Tronto, Dozza e altri luoghi ancora) che Luciana descrive e impiega per permettere alla sua protagonista, suo alter ego, di compiere le sue azioni, ma anche – e soprattutto – nei flussi emozionali, negli sguardi verso il mondo, nella lettura dell’altro, nei dialogici con terzi, nelle riflessioni condotte in privato e generosamente a noi donate per mezzo del dettato del verbo.

Ci sono parchi archeologici (Ostia Antica), saline (Trapani), chiese (la chiesa dell’Ara Coeli di Roma poco distante dal Vittoriano, con la sua “infinita” scala, la cattedrale normanna di Monreale con i mosaici dorati), le piazze, i monumenti (il Tempio di Segesta, Villa d’Este di Tivoli, la reggia di Caserta, il Castello dei Conti Guidi a Poppi nell’Aretino, il Kursaal di Grottammare), le acque del mare di Policoro (Basilicata) e del Po a Torino, città nella roccia come la celebre Matera, musei (il Museo Egizio di Torino) e così via.

Mi confida che l’idea di questo volume: il raccontare storie personali, di viaggio e di vita, in giro per l’Italia dove si è recata man mano per ritirare premi che ha riscosso in varie competizioni letterarie, è stata molto apprezzata al punto tale da aver ispirato altri autori a tenere questa sorta di “libro di bordo”, per tracciare momenti trascorsi con zaino in spalla, poi in una caffetteria dopo la premiazione e, ancora, a pedalare, fino allo stremo, assieme al paziente coniuge. Non solo l’idea creatrice che sta alla base di questo volume (e delle tante storie che continua a narrarci e condividere con noi su Facebook) è originale e riuscita, ma presuppone un tipo di scrittura che reputo non facile: non è la semplice trascrizione di ciò che si è fatto in maniera asettica, seguendo un ordine cronologico o di causa-effetto, ma necessita la giusta decantazione dei momenti, il recupero degli istanti anche per mezzo delle foto che fedelmente fa accompagnare al testo. Sono frammenti di una sorta di autobiografia che la Nostra scrive a puntate, come una soap opera letteraria dove la protagonista è sempre la stessa, cambiano gli spazi, la meteorologia, gli alberghi nei quali ha soggiornato, il cibo e, soprattutto, le persone incontrate: tra amici ritrovati, nuove conoscenze, persone lambite con lo sguardo, visi noti in Facebook che finalmente prendono vita. Ed in fondo la ricchezza delle immagini che Luciana Censi tratteggia nel volume e la felicità che si respira degli attimi vissuti in sana condivisione, sono proprio gli elementi principe di questa narrazione speziata, mai prevedibile, che ci informa e ci rende edotti, istruendoci anche fornendoci informazioni di carattere storico-geografico-archeologico e di altre scienze. Un turismo letterario che, di riflesso, potrebbe essere letto, oltre che come narrazione di un picaro d’oggi in un percorso di continue partenze e ritorni, come una vera e propria guida che l’ipotetico turista si appresta a far sua per compiere il tracciato suggerito dalla Nostra. Un viaggio nel Belpaese che Luciana è in grado di esaltare, rendendo merito a tante bellezze diffuse, più o meno note e celebrate, ma che hanno senz’altro ragione di una visita e una condivisione con i nostri cari.

Lorenzo Spurio

04-12-2019

La riproduzione del presente testo, in forma di stralcio o integrale, non è consentita in qualsiasi forma senza il consenso scritto da parte dell’autore. 

Ugo Foscolo e il giovane Napoleone in un percorso parallelo, a Senigallia sabato 9 novembre

72784985_2375342046051547_1682683537062363136_n.jpg

Sabato 9 novembre alle ore 17:30 presso il Museo del Giocattolo Antico a Senigallia, in via Pisacane n°43-45 si terrà una serate letteraria organizzata dall’Associazione Culturale Euterpe di Jesi. L’evento, dal titolo “Il giovane Napoleone e Ugo Foscolo” è teso a scandagliare, tra storia ufficiale, produzione letteraria e sensibilità dominanti nel periodo di riferimento, le esperienze umane di due esponenti di spicco della cultura europea.

Durante la serata verranno presentati al pubblico i volumi “Il giovane Napoleone. Tra lo Sturm und Drang e il Romanticismo” del poeta, scrittore e saggista Valtero Curzi pubblicato per i tipi di Intermedia Edizioni nel 2018.

Parimenti la poetessa croata Bogdana Trivak presenterà il suo saggio “Ugo Foscolo e il viaggio sentimentale” pubblicato dalla Fondazione Mario Luzi nel 2018.

Nel corso dell’incontro – che sarà focalizzato sulla fase giovanile del futuro imperatore Napoleone e sulla produzione letteraria di Foscolo – si individueranno possibili tratti d’unione tra i due uomini, percorsi di analisi paralleli, aspetti che possono risultare interessanti per una trattazione allargata che contempli elementi di carattere storico, letterario e umanistico. Un pomeriggio all’insegna della cultura, per approfondire un temperamento nuovo nell’Europa a cavallo tra due secoli, anticipando elementi e attitudini che nel Romanticismo troveranno il loro apice e naturale completamento.

Un sito WordPress.com.

Su ↑