New Yorker’s Breaths di Maurizio Alberto Molinari (2011)

New Yorker’s Breaths di Maurizio Alberto Molinari

LietoColle Editore, Faloppio (Co), 2011

Recensione di Lorenzo Spurio

Le poesie contenute in New Yorker’s Breaths di Maurizio Alberto Molinari si caratterizzano per essere poesie fresche, vitali, e per essere altamente evocative. Così chi stupidamente pensa che un libricino così fino come questo può essere letto facilmente in dieci minuti, sbaglia di grosso. O per lo meno ha ragione nella misura in cui intende il ‘leggere’ come una semplice azione meccanica priva di comprensione e di analisi che consenta di sviscerare metafore e concetti impliciti. Non ho nessun problema nel confessare che un’unica lettura non mi ha permesso di comprendere completamente i messaggi che l’autore vuole mandarci con questa opera. Credo che la scrittura di Molinari, pur non essendo dichiaratamente criptica e oscura, è sempre alla ricerca, come l’autore ha riconosciuto nella prefazione, di un dialogo con il lettore, una sorta di negoziazione sui significati. Una lirica in particolare mi ha creato alcuni problemi di interpretazione ma al di là di questo non credo che Molinari voglia mettere paletti alla comprensione e, anzi, più  un poeta è in grado di evocare situazioni, momenti ed emozioni diverse con le sue parole, più credo sia alto il suo livello di scrittura.

Dopo queste brevi ma necessarie considerazioni è doveroso dire che questi “respiri newyorkesi” sono dei vivissimi spaccati di vita quotidiana nella grande metropoli americana. L’attenzione nelle descrizioni e alla componente emotiva si fondono per formare un tutt’uno. L’unico filo conduttore della silloge è rappresentato da questi pensieri scaturiti all’autore in seguito a un viaggio o una permanenza in America. Una delle cose più curiose è il fatto che l’autore ha reputato necessario corredare ciascuna lirica con una foto in chiaro scuro, spesso modificata che ricalca direttamente particolari di New York come il suggestivo incrocio tra West 38th St. e Fifth Avenue raffigurato nella prima foto. Ma questa “newyorkesità” non si evince solo dalle foto, ma dalle parole che Molinari utilizza e anche dall’impiego abbastanza frequente della lingua inglese in alcuni titoli delle liriche.

La silloge apre con una serie di poesie che, pur evitando di nominarla direttamente, fanno riferimento alla strage dell’11 settembre 2001: Molinari parla di «vite sfuggite» (15), «esistenze vaghe» (15), dell’ «ultimo volo» (17), di «residui umani» (25) e un’intera poesia è addirittura dedicata ai pompieri che persero la vita nelle operazioni di salvataggio dopo l’incidente. E così questo «grande frutto tutto da mangiare» (11) è descritto in maniera visiva con una serie di immagini che descrivono una vera e propria isotopia della luce: riflessi, specchi, riverberi, lampi, ombre, macchie, colore..solo per riportare alcune delle parole che più spesso ricorrono nella silloge.

Altro tema dominante, come spesso accade in poeti sensibili, è quello del tempo e il trattamento che Molinari ne fa è non solo enigmatico e metaforico ma altamente ispirato: «Il ricordo e il presente sono semplici dame e cadaveri senza delusioni né ritorsioni» (53) osserva in “Broadway – 1901”.

Ma è New York il tema dominante, il centro pulsante di questo libro affascinante. La città americana è simbolo per antonomasia di modernità o forse dovremmo dire di postmodernità? E’ centro di potere e della finanza, è una città ricca ma che conosce anche grandi disparità sociali (la poesia “Nyc Homeless” tratteggia la figura del tramp per dirla all’americana), è una città frenetica, caotica, spossante e alienante ma questi ultimi aspetti sembrano venir meno nelle liriche. Ciò che invece Molinari sottolinea con molta attenzione è l’internazionalità della gente, della mescolanza di etnie, razze, religioni, in una parola il melting pot celebrato dall’autore nell’omonima lirica:  «Visi nuovi e apparenti / somatiche sconclusionate / nel melting pot del mondo» (49). Ma di New York abbiamo anche riferimenti alla sua “voce” per eccellenza, il New York Times e a spazi arcinoti quali Broadway e Carnegie Hall

Con questa silloge breve per numero di parole ma grande per la capacità di immagini e di metafore che evoca, Molinari ci fa viaggiare per le vie di New York mostrandoci il bello e il brutto, rendendoci anche spettatori in diretta del tragico attentato terroristico delle Twin Towers. Se le immagini del momento mandate alla televisione furono in grado di scioccare e di toccare i cuori della gente in ogni parte del mondo, alcune delle poesie di Molinari sono in grado di rievocare sensazioni destabilizzanti e impotenti di simile misura. Complimenti.

MAURIZIO ALBERTO MOLINARI è nato nel 1961 da genitori calabresi. Lavora a Milano in qualità di Copywriter e Account Executive presso l’Agenzia di Packaging & Strategic Design RSTB. Ha pubblicato le sillogi poetiche Poemantikha (Maremmi Editore, 2005), Il Passeggero (Il Filo Editore, 2008), Bottoms & Joysticks (Ibiskos-Ulivieri, 2009) e Poemantikha Nova (Aletti Editore, 2010), si è classificato in vari premi e concorsi letterari e molte delle sue liriche sono state segnalate e pubblicate in antologie poetiche.

LORENZO SPURIO

 14 Luglio 2011

E’ VIETATA LA RIPRODUZIONE E LA DIFFUSIONE DI STRALCI O DELL’INTERA RECENSIONE SENZA IL PERMESSO DELL’AUTORE.

Il bisogno dei segreti, Intervista a Marco Candida

INTERVISTA A MARCO CANDIDA

Autore di Il bisogno dei segreti

Las Vegas Edizioni, Torino, 2009

Intervista a cura di Lorenzo Spurio

LS: La prima domanda di un’intervista serve sempre un po’ per rompere il ghiaccio. Non è banale né scontata perché nessuna domanda è stupida. In che maniera il titolo del libro abbraccia l’intero significato che hai voluto trasmettere con questo romanzo?

MC: Il bisogno dei segreti significa le necessita’ di tenere nascoste alcune cose. Ciò che tendiamo a tenere nascosto di noi stessi è di solito anche quell’elemento che ci caratterizza, che ci rende davvero quel che siamo. C’è del mistero in ognuno di noi, le cose non sono mai tutte lí, chiare e limpide: ed è questo mistero che rende la nostra persona unica, irripetibile. Che a volte ci permette di essere affascinanti. Che ci permette altre volte di essere seduttivi. Che in alcune circostanze ci permette di avere addirittura del carisma. Questo mistero. Ora con i mezzi tecnologici a disposizione oggi è possibile che questo mistero ci venga sottratto e con esso quello che siamo. Immaginiamo un mondo dove sia possibile installare telecamere grosse come la punta di uno spillo nelle nostre abitazioni a nostra insaputa. Immaginiamo di essere spiati per qualche ragione. E’ evidente che non avremmo più segreti. Quella sigaretta che fumiamo di nascosto dalla moglie perché sappiamo che se ci vede si arrabbia – e alla quale sigaretta noi diamo un’importanza, vuoi per scaramanzia, vuoi per stupidità, capitale. Quel cumulo di manoscritti che teniamo nascosto in cima all’armadio o sotto alla poltrona sfondata e che rappresentano i nostri sogni. Qualsiasi cosa. Non è importante la grandezza del segreto. Ma facciamo anche il caso di un uomo iscritto a un partito politico e attivamente impegnato a sostenere un uomo politico e che venga scoperto a sua insaputa a casa sua davanti alla televisione in vestaglia a insultare quello stesso uomo politico che sostiene in pubblico. Dove sta in questo caso la verità? Davvero vogliamo cavarcela dicendo che quell’uomo è un ipocrita pronto a pugnalare alle spalle quello stesso uomo politico che sostiene alla prima occasione disponibile? Io non credo proprio. Io credo invece che la questione sia molto più complessa di cosí. Pensiamo ad esempio al tipico cliché degli innamorati. Quando sono divisi parlano male uno dell’altro, si lamentano per questo o quel difetto, quasi si detestano, ma poi non appena si incontrano e si rivedono ecco l’acredine scomparire di colpo ed è solo amore amore amore. Io credo che di queste cose, che di queste dinamiche si debba tenere conto nella società che ci aspetta e nella quale in parte già stiamo vivendo.   

LS: Quali sono i tuoi autori preferiti? La poesia ti piace? Se si, quali poeti?

MC: Gli scrittori che preferisco sono Jack London, Ernest Hemingway e Stephen King. Credo di aver deciso a dodici anni di iniziare a scrivere quando ho letto Zanna Bianca e Il richiamo della foresta di London. Poi a tredici con Pet Sematary di King. A sedici i racconti di Nick Adams di Hemingway. Nel tempo mi sono dedicato anche alle lettura di testi filosofici (apprezzo molto, tra gli italiani, la prosa del professor Carlo Sini e trovo Emanuele Severino incredibile), ma devo dire che nel mio cuore questi tre autori sono quelli che hanno un posto vero. In questo senso Rimbaud è il mio poeta preferito – sono sempre rimasto colpito dal suo motto “En marche” e dal fatto che sia morto per un cancer pilori, un cancro al ginocchio, forse per il troppo camminare. Mi piace Rimbaud e poi Leopardi dal quale tutto parte e termina. Omero. Dante. Mi piace anche molto Elizabeth Bishop.

LS: Molti scrittori nella loro stesura di un romanzo partono da una scena che non necessariamente corrisponde alla scena dell’incipit. Il processo di scrittura è dinamico e spesso non lineare. La mia impressione è che il tuo romanzo non sia nato in maniera progressiva a partire da quanto narri nel primo capitolo ma, piuttosto, che ha visto una stesura a scossoni, retrospezioni e digressioni. Ovviamente è una mia idea e posso sbagliarmi. Qual è stata la genesi del romanzo? Da quale punto sei partito?

MC: Ho scritto il romanzo in otto giorni. Sono partito dal primo capitolo e sono sceso in fondo. Forse l’impressione che hai avuto è dovuta al fatto che in alcuni punti ho utilizzato testi preesistenti e li ho fusi nella narrazione. Ad esempio c’è un testo scritto al tempo futuro che ho scritto a ventiquattro, venticinque anni e che mi sembrava facesse al caso mio e l’ho messo dentro naturalmente riadattandolo un poco al ritmo generale della storia. C’è un incubo che ha la signora Katrina la madre di Connie che è un racconto scritto a diciannove, vent’anni. Su duecento pagine saranno totalmente fresche – ossia scritte in quegli otto giorni e riviste nei due mesi successivi – centosettanta, centossessanta pagine. Non mi pare comunque che ci siano particolari digressioni, a me sembra di aver scritto una storia molto leggibile, compatta, non commercialissima e la cosa che mi disturba è che non riesco a credere che mi piaccia cosí tanto. Arrivo in fondo e mi dico: “Ma sto leggendo come un pazzo. Vado velocissimo…”. Mi prende tantissimo. Ma forse parlo cosí solo perché io sono il papà.

LS: La protagonista Connie è un personaggio tipicamente contemporaneo, scissa, inquieta, difficilmente comprensibile, che impersoni fica atteggiamenti molto diversi in tempi molto ristretti. Alcuni la considerano una pazza, altri cercano di aiutarla ma in linea generale nessuno riesce, almeno per buona parte della narrazione, a comprendere quali sono i suoi problemi o, per usare un riferimento diretto al tuo testo, quali sono i suoi “segreti”. Perché hai voluto creare un personaggio talmente complesso con il quale il lettore, a mio parere, trova difficile immedesimarsi?

MC: In realtà proprio all’inizo del romanzo si fa riferimento ad un appuntamento dal dottore da dove Connie è appena uscita. Questo è il suo segreto. Connie ha una malattia incurabile e a causa di questo trauma diventa la persona cattiva che diventa. Questo dettaglio della malattia viene anche ripreso nella scena dove sua madre si reca nel suo appartamento di nascosto per trovare tracce che possano indicarle le vere ragioni che hanno portato Connie al suo radicale cambiamento di costumi. Prima Connie è buona, ma adesso a causa della malattia, di questo sgambetto terribile che la vita le gioca, diventa perfida. Mi è sembrata una buona metafora della cattiveria umana e del nichilismo: tutto di colpo ci rendiamo conto che nulla ha senso, comportarsi bene non aiuta e allora per effetto di questa presa di coscienza diventiamo cattivi. Come se avessimo ricevuto un qualche torto. In effetti osservo che una persona cattiva è molto spesso una persona parecchio suscettibile – che si offende per un nonnulla, che stabilisce di aver ricevuto un torto e di doversi perciò vendicare quasi per niente. Dunque anche la persona cattiva ha bisogno di un trauma che la spinga ad agire, ad essere quello che è.

LS: Leggendo il romanzo l’impressione che ci facciamo è che le sue fondamenta, oltre a poggiare sulla tua grande abilità di scrittura, si reggono su di un’ampia serie di riferimenti all’irlandese James Joyce e, più in generale, alla tendenza letteraria alla quale appartenne, il modernismo. Il nome dell’autore e la sua opera magistrale vengono fatti più volte nel testo ma, al di là del semplice nominare l’autore, la storia si caratterizza per scandagliare l’io disturbato della protagonista, facendo trapelare i suoi pensieri direttamente sulla carta, utilizzando una tecnica tutta modernista che punta a far parlare direttamente la coscienza di Connie. Perché hai voluto utilizzare Joyce in questa maniera? La tua scrittura “joyciana” ha anche una finalità di celebrazione del grande poeta dublinese?

MC: Adoro James Joyce. L’Ulisse è un libro talmente coraggioso… E il Finnegans Wake che leggo qui negli Stati Uniti in versione originale è un libro pazzesco… Qui Joyce viene nominato per divere ragioni. Intanto va detto che questo è un romanzo e come tale ha alcune caratteristiche proprie del “romanzesco”. Il primo capitolo del romanzo per me è molto importante perché è anche una sorta di occulta captatio benevoletiae nei confronti del lettore colto che dovrebbe spingerlo a vedere il romanzo come un metaromanzo. A me ha sempre colpito molto una cosa che ho sentito dire del Nome della Rosa di Umberto Eco e cioè che Eco è come se avesse aperto le virgolette a inizio romanzo e le avesse chiuse alla fine – come se quel romanzo fosse una citazione lunga cento, duecento, trecento pagine. Ecco forse si potrebbe intendere cosí anche questo romanzo – e questa volta per davvero, non come semplice boutade. Infatti come una cosa complessa e importante come una lingua straniera – e la lingua, diceva Heidegger, è la casa del’essere, dunque non noccioline – si può imparare da un manualetto d’inglese di 7600 parole, allo stesso modo un romanzetto di duecento pagine può insegnarci molto più di quel che si crede sulla nostra vita, sui nostri sentimenti, passioni, sulle dinamiche di relazione, che è poi ciò che la letteratura, in fin dei conti, fa davvero. Tuttavia il romanzo può essere letto semplicemente come romanzetto con tutti i suoi dispositivi da romanzetto. Connie legge l’Ulisse di Joyce mentre sta vivendo la sua Odissea Personale. Inoltre l’Ulisse rappresenta l’antiromanzo, la letteratura vera, contro la situazione romanzesca che Connie sta vivendo. Poi nell’Ulisse ci sono una serie di conflitti ma non si configurano in modo tradizionale, un conflitto/una storia, mentre nella storia di Connie c’è conflitto/storia/romanzesco. Ma più di tutto nelle mie intenzioni c’era di suggerire al lettore (magari colto) che il romanzesco, la fiction, ciò che tendiamo a catalogare come finzione, invece fotografano spesso drammi reali altro che (e che la nostra vita insomma assomiglia di solito più a prosa che a poesia) e che dunque questa netta contrapposizione tra romanzesco/finzione, letteratura/verità, forse va fatta, ma con grande sensibilità, cura, stando bene attenti. A volte ciò che si presenta nelle vesti di un romanzetto può essere migliore di quel che ha sembianza d’opera maestosa.

LS: Spesso chiedo ai vari autori che intervisto se c’è qualcosa di autobiografico nel loro romanzo o nelle loro poesie. Generalmente mi rispondono di sì ma che preferiscono non scendere nei particolari. Ovviamente non è mio interesse ledere la privacy di nessuno. In effetti la critica letteraria ha sempre sostenuto che anche se un autore rifiuta di riconoscere che i suoi personaggi o le storie che racconta hanno un qualcosa di autobiografico, in realtà lo scrittore lascia sempre traccia di sé nelle sue creazioni, anche senza volerlo. C’è sempre qualcosa dello scrittore, della sua vita, delle sue esperienze, delle sue paure, che prende forma, a volte in maniera implicita, nelle sue opere. Come la pensi su questo argomento? Pensi che ci sia qualcosa di tuo nei personaggi o nelle storie che racconti? Ad esempio, la scena della festa di compleanno di Connie, in discoteca, ti è stata ispirata da qualche episodio vissuto realmente?

MC: In questo romanzo non ci sono particolari riferimenti a me stesso – i miei primi due romanzi sono quasi romanzi di nonfiction, ma questo è praticamente tutto inventato. La scena della discoteca è un esempio di “romanzesco” che dicevo sopra ossia una scena movimentata e rocambolesca, non non-credibile, ma comunque inusuale, romanzesca appunto. Ce ne sono cinque o sei di quelle scene nel romanzo.

LS: Solo a pagina 100 (il libro ne ha circa 200) siamo in grado di comprendere il titolo che hai dato a questo romanzo, Il bisogno dei segreti. C’è un interessante considerazione della protagonista Connie sull’importanza della privacy come diritto della persona. La nostra società contemporanea è da anni portavoce dell’esigenza di difesa di questa sfera del privato e l’utilizzo di molti strumenti elettronici (telecamere nascoste, intercettazioni telefoniche) sembrano costituire un vero e proprio ostacolo alla difesa della libertà umana. Quanto per te è importante questa concetto? Nella nostra società quanto si pone attenzione sulla privacy? Perché?

MC: Ho amici che detestano gli sbirri ad ogni angolo della strada, ma a me non fanno nessun problema, nemmeno quando mi fermano e mi chiedono i documenti oppure, come è successo negli Stati Uniti, mi perquisiscono all’aeroporto o quasi mi ammanettano come è successo, in un avvenimento lí sí davvero rocambolesco, a capodanno a cinquanta metri da casa. Questo perché ho la coscienza a posto. Non vado in giro con un grammo di marjuana nel taschino e almeno che io sappia non mi devo incontrare con individui che commerciano sostanze illegali o che delinquono in altro modo. Tuttavia la privacy è qualcosa di diverso. E’ la possibilità di sfogarsi. Per me c’entra molto col modo in cui pensiamo il concetto di verità. Che cos’è la verità? Pensiamo anche al pettegolezzo. Invitiamo un amico poi quello se ne va e gli sparliamo dietro. E’ inevitabile. Serve per sfogarsi. Quel momento arriva, arriva sempre. Prima o poi sparliamo dietro. Io non credo che la verità siano le cose brutte. Anche fossero i dettagli più oggettivi possibili. Non so. “Che naso storto”. D’accordo, forse in quel momento mi andava di dirlo, ma in un altro momento quel naso mi sembra bello, non un difetto ma addirittura un pregio. Dunque dove sta la verità? Qual è la verità del sentimento? Questa è una domanda terribile e cercare di rispondere a una domanda come questa (“Pensa davvero quello che dice?”) be’, voler stabilire questo è come dichiarare una guerra.

LS: Ad un certo punto nel tuo romanzo evochi una barzelletta di tre anime parlanti che si informano ciascuna sulla morte delle altre. Parlando del tema della morte il narratore osserva: «Il collega d’ufficio di Connie concludeva dicendo che se muori noiosamente probabilmente hai anche vissuto noiosamente» (106). E’ una frase interessante, che mi ha colpito all’istante. Saresti in grado di spiegarla in maniera più estesa?

MC: A Connie rimane poco tempo da vivere. Dunque vuole fare esperienze. Vuole viaggiare. Vuole chiudere qualche conto. Vuole mettere in atto il suo “piano” – che è paradossalmente un piano di assoluta bontà. Allora al “morire noiosamente” corrisponde il “vivere noiosamente” e per “noiosamente” qui si intende in modo “ordinario”, “minimalista”, potremmo dire “non-romanzesco”, “non-rocambolesco”. Nel mio primo romanzo si parlava della felicità intesa come eudaimonia ossia di un demone che ci accompagna e che ci rende per l’appunto ben disposti, felici, ma anche che ci mangia a poco a poco. Mi viene da dire che la vita è la malattia di cui moriremo – chi fuma troppe sigarette ci morirà di quelle sigarette, chi legge troppi libri diventerà probabilmente cieco. La vita è la malattia di cui moriremo – le cose che ci rendono felici, che ci fanno sentire vivi, ci ammazzano anche. (Un pensiero non allegrissimo, forse, ma sul quale vale la pena riflettere…)

LS: Per tutta la durata del romanzo utilizzi una serie di date molto precise: giorni, mesi, anni quasi con un attenzione maniacale. Esse si riferiscono sia a episodi accaduti al passato e che vengono rievocati che ad episodi futuri, che accadranno. Perché questa precisione temporale? Questo desiderio di mettere paletti così statici che, in un certo senso, immobilizzano il lettore all’interno della varie vicende narrate?

MC: Perché la storia è quella. Deve esserlo. C’è un inizio e c’è una fine. Si svolge a Tortona, Genova, Milano. I protagonisti sono Connie. Manuel. Matteo. La signora Katrina. Altri. La storia è quella e io ho raccontato una storia e spero di averlo fatto bene. Il lettore deve essere ingabbiato nella storia. Non posso metterlo in un campo di papaveri o in mezzo al deserto e poi dirgli “Cavatela da solo. Immagina. Costruisci”. Il lettore deve evadere. Scappare. L’evasione ci deve essere sempre. Noi diciamo che leggiamo per evadere dalla realtà, ma se ci pensiamo bene, evadiamo anche dalle cose che leggiamo mentre le leggiamo. La ricerca dell’altrove non ha mai una fine. Leggiamo una poesia e saltiamo da un livello all’altro dei significati. Leggiamo un romanzo e mentre godiamo di quello che accade pensiamo anche al suo significato allegorico oppure a un qualche significato che ci viene in mente e che ci sembra che venga in mente a noi, che sia un’intuizione nostra. Evadiamo. Scappiamo. Quanto più la cella si stringe attorno al lettore tanto più il lettore cercherà un altrove, un’ulteriorità. Tutte queste cose che ci siamo detti qui sono un’evasione da quelle quattro mura che sono state erette dalla storia: perché non può essere tutto lí, sarebbe assurdo fosse tutto lí, in una storia di cellulari e connessioni internet, deve esserci di più, che è poi proprio quello che dice Connie alla fine del romanzo: “Tu ci credi. Ti batti. Nella tua testa una parola non è più solo una parola. Una parola diventa una cosa. E poi apri un romanzo e te la trovi lí è tutta compresa lí”. No. Deve esserci di più. C’è sempre di più, anche se alla fine finiano in una lapide dove si segnano le date di nascita e di morte – e perché solo quelle date e non quelle dei giorni migliori, più significativi? Io comincio a credere che ci sia modo di evadere anche da lí, dalla gabbia finale.

LS: Hai altri progetti in cantiere? Stai scrivendo qualcosa di nuovo? Se si, puoi anticiparci qualcosa?

MC: Ho finito un romanzo che mi sembra molto bello e sto cercando un editore e poi uscirà la mia prima raccolta di racconti e un altro romanzo. Sul mio blog si possono trovare tutti gli aggiornamenti.

Ringrazio Marco Candida per avermi concesso questa breve intervista.

Lorenzo Spurio

10 Luglio 2011

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La guerra degli Scipioni, Intervista a Luca Rachetta

INTERVISTA A LUCA RACHETTA

Autore di La Guerra degli Scipioni

L’Autore Libri, Firenze, 2009

Intervista a cura di Lorenzo Spurio

LS: Qual è stata la genesi di questo romanzo? Qual è stata l’idea iniziale da cui è partito tutto?

LR: La guerra degli Scipioni è il risultato dell’unione di tre racconti lunghi che avevo concepito per un’ipotetica raccolta ispirata alle quattro stagioni. Oltre al racconto sull’inverno, La missione di San Silvestro (pubblicato nel 2010 come e-book), disponevo di tre tracce su cui costruire la storia autunnale (il professore che riprende la scuola e vive l’autunno della propria vita), quella primaverile (il buffo personaggio che attende la rinascita della società) e quella  estiva (l’esplosione dei sensi che ritroviamo, all’interno del romanzo, nel sogno di Paolo Scipioni). L’idea è stata quella di convogliare le tematiche dei tre racconti in un solo testo, per poi amalgamare il tutto in modo coerente. E per amalgamare in modo coerente spunti apparentemente così diversi ho fatto del personaggio più complesso, il professore, il filo conduttore del testo, modellando gli altri due personaggi in modo da farli somigliare a due versioni amplificate ed esagerate  del protagonista, Giovanni Scipioni: se questi dunque ha problemi familiari e nel rapporto con gli altri, Paolo e Antonio riprendono rispettivamente questi due ordini di problemi, che Giovanni riesce a tenere a bada, seppur a fatica, ma che in loro esplodono fin quasi a travolgerli.

LS: Pur non conoscendoti so che sei un professore della scuola secondaria. Il protagonista della storia è proprio un professore e possiamo immaginare che alcune caratteristiche di Giovanni Scipioni in realtà ti appartengono. Quanto c’è di autobiografico nel tuo romanzo?

LR: Molto, anche se Giovanni Scipioni, rispetto al precedente Silvano Rupestro (protagonista de La torre di Silvano), è un personaggio meno scopertamente autobiografico, a dispetto della comune professione: l’età difatti non corrisponde, così come lo stato civile e la composizione della famiglia. Eppure chi mi conosce bene ha ritrovato tanto del sottoscritto nel professor Scipioni, forse anche di più che nei personaggi che hanno caratterizzato la mia produzione precedente. Penso che il caro Giovanni  cerchi, come il suo autore, quel qualcosa in più che non è sempre dato scorgere all’orizzonte, ma che pochi idealisti si affannano comunque a cercare: un pizzico di senso che dia più sapore alla vita. E poi Giovanni Scipioni ha coscienza di quanto sia difficile agire in campo scolastico oggi come oggi, non solo perché talvolta è la stessa istituzione scolastica a non mettere gli insegnanti nelle migliori condizioni per operare (classi troppo numerose, risorse finanziarie inadeguate, poca convinzione nel tutelare la dignità e la professionalità dei docenti e altro ancora), ma anche perché, se la società è sempre più complessa, labirintica e priva di valori, una volta che essa fa irruzione nelle aule sotto forma di alunni o di genitori, tutti col loro gravoso fardello di problemi, chi si trova dietro la cattedra viene chiamato a compiere un’impresa di contenimento e di educazione di proporzioni assolutamente titaniche, dunque di assai incerta realizzazione. Anche questi convincimenti “sospetto” di averli regalati io, al buon Giovanni.

 LS: Nella copertina del tuo libro figura il ritratto del pittore francese Manet. Perché lo hai scelto? Ha qualche nesso con la storia che racconti?

LR: In realtà non ho scelto io la copertina, bensì il settore grafico della casa editrice. Non mi è stato chiesto nessun suggerimento in merito alla scelta dell’immagine, perciò non posso rispondere alla tua domanda. Posso comunque dirti che il soggetto mi piace, come mi sono piaciute le copertine dei libri precedenti, La teoria dell’elastico e La torre di Silvano, perché amo la pittura contemporanea e l’abbinamento della stessa coi miei testi mi lusinga e mi offre molti spunti di riflessione. Gli stessi che mi auguro possano nascere in colui che osservi la copertina del libro prima o dopo la lettura. Per il prossimo romanzo, invece, la nuova casa editrice mi ha chiesto un parere riguardo alla scelta dell’immagine da promuovere a copertina del volume. Ma per adesso non mi azzardo ad anticipare alcunché, perché i lavori sono ancora in corso.

 LS: Dal romanzo fuoriescono dei personaggi particolarmente singolari ma ben tratteggiati che non sono per nulla stereotipati, in maniera particolare il misantropo Antonio e il sentimentale Paolo. Perché hai deciso di caratterizzare ciascun personaggio in maniera così marcata con le loro convinzioni ed ossessioni?

LR: Credo che sia una peculiarità del mio stile di scrittura caratterizzare i personaggi mettendone in risalto tic, manie, ossessioni, vale a dire gli aspetti della loro indole che li dominano e che debordano al di fuori di essi fino a investire gli altri e a condizionarne i rapporti sociali instaurati nella vita di tutti i giorni.  E siccome lo stile è diretta emanazione della sensibilità di chi scrive, sarei portato a ricondurre questa mia propensione a un certo mio modo di vedere e di vivere la vita, che mi fa sentire molto vicino a quegli autori di inclinazione umoristica (Brancati, Pirandello, Palazzeschi, Gogol) assai attenti a scomporre la realtà e a descriverla cogliendo particolari che sfuggono ai più, nei quali però risiede spesso l’essenza di un’umana vicenda.

LS: In più punti del romanzo, soprattutto per bocca del personaggio di Antonio, fuoriescono delle idee completamente condivisibili riguardo la politica attuale e la nostra società. La figura del pazzo, come dimostra Shakespeare o anche il menestrello tuttofare del Medioevo, si identifica sempre con colui che parla senza freni ma che nella sua follia rivela sempre una qualche verità. Quanto il problema della meritocrazia, espresso da Antonio Scipioni, è secondo te importante nella nostra società?

LR: Certo, Antonio Scipioni è eccessivo nel giudicare impietosamente il prossimo e finisce così con lo scivolare in una forma di misantropia che lo rinchiude in un mondo tutto suo, organizzato secondo un criterio manicheo che fa di lui il bene assoluto e degli altri il male incarnato. Tuttavia mi piace pensare che Antonio Scipioni, nella sua ossessione maniacale, dimostri comunque sprazzi di lucidità nel sentire che nel mondo c’è qualcosa che non va, qualcuno che approfitta della propria posizione e rimane per di più impunito. Sì, direi proprio che prima di bollare Antonio come folle “tout court”, bisognerebbe pensarci un attimo, come quando ci si trova davanti a certi “folli” pirandelliani o a quella galleria di inetti e di buffi che la letteratura umoristica, a me molto cara, ospita nelle proprie pagine. La meritocrazia? In Italia, e forse non solo da noi, non si fa che parlare di caste di privilegiati, di clientele elettorali, di raccomandazioni, di baronie universitarie, di concorsi truccati, di perfetti incompetenti “parcheggiati” in posti di pubblica responsabilità. Se Antonio è pazzo, ciò conferma appieno il sospetto che il pazzo, in fin dei conti, è colui che dice la verità.

LS: Nella tua scheda biografica ho potuto leggere che ti sei molto occupato dell’analisi critico-letteraria di un famoso autore siciliano che in passato è stato forse un po’ eclissato da grandi altri siciliani quali Tomasi di Lampedusa, Elio Vittorini e Sciascia. C’è qualche riferimento a Brancati nel tuo romanzo?

LR: In realtà nessun riferimento diretto e voluto, se non quel debito implicito e inconsapevole che deriva dal fatto che qualunque scrittore, prima di divenire tale, è stato un lettore attento e vorace che si è cibato delle opere di scrittori preesistenti, le quali, ingerite e assimilate, hanno poi finito con l’alimentarne l’immaginario e lo stile. Non saprei dunque dirti quanto di Brancati possa essere scorto nella mia scrittura, ma posso senz’altro dirti che un omaggio non troppo criptico al grande autore di Pachino l’ho comunque fatto. Don Giovanni in Sicilia, Bell’Antonio e Paolo il Caldo: ecco da dove provengono i nomi dei tre protagonisti de La guerra degli Scipioni.

LS: A quali autori italiani ti ispiri o ti senti più vicino nella tua scrittura?

LR: La lettura di Pirandello, Brancati, Palazzeschi, Landolfi ha probabilmente alimentato il mio spirito critico, per sua natura orientato in una precisa direzione, quella di chi ama denunciare ipocrisie, storture sociali e l’incapacità, prima ancora che di dialogare, di ascoltare l’altro. Questo perché, quando si scrive, anche se si finisce col presentare la propria personalità e col raccontare la propria esperienza, non ci si limita a questo, a mio modo di vedere. Nelle proprie pagine finiscono anche la personalità, l’esperienza e l’abilità stilistica di qualcun altro, in genere mai conosciuto di persona, ma assai frequentato con la lettura. Una sorta di sensibilità gemella o in ogni caso assai prossima alla tua, ritrovata in una persona magari assai lontana da te dal punto di vista geografico o cronologico.  

LS: Ci sono una serie di scene in cui Antonio Scipioni in virtù del suo ligio dovere nei confronti del lavoro cerca di far valere presentandosi prima dal sindaco, poi scrivendo al presidente della Repubblica, recandosi poi da un vescovo e pensando anche di rivolgersi a un prefetto. Da cosa nasce questo desiderio del protagonista di appellarsi a forme di potere sempre più alte e quasi irraggiungibili a un comune mortale?

LR: Nella sua lucida follia Antonio coglie il senso e la ragion d’essere delle istituzioni: organizzare la vita dei cittadini in modo efficace e nel pieno rispetto dei diritti di tutti, tutelando il merito e scoraggiando i comportamenti scorretti. Le autorità che tenta di avvicinare senza successo non dovrebbero dunque essere così distanti e irraggiungibili, proprio a ben considerare la funzione che esse devono esercitare. Pur partendo da presupposti errati e pur sbagliando le modalità di approccio, come ho già avuto modo di dire rispondendo a una domanda precedente,  Antonio coglie una fondamentale verità, consistente nel fatto che talvolta mancano davvero i punti di riferimento cui inoltrare una richiesta di giustizia, ovvero una richiesta di chiarimento riguardo ai valori su cui, almeno in teoria, dovrebbe reggersi la nostra società.

LS: Il personaggio di Giovanni Scipioni finisce per assorbire tutti i problemi dei suoi fratelli senza che nessuno lo aiuti ad affrontare i suoi. Giovanni non è forse sotto questo punto di vista un personaggio troppo buono, disponibile, solidale verso gli altri e poco attento a se stesso?

LR: Forse è vero, perché Giovanni ricopre a tutti gli effetti il ruolo di capofamiglia, che porta assai spesso a trascurare la propria persona a favore della salute fisica e psichica dei propri congiunti. D’altro canto in una storia che ha come protagonisti tre personaggi alla ricerca dell’autenticità, quindi, se vogliamo, di una forma di equilibrio, seppur precario, da contrapporre al divenire e alla mancanza di punti di riferimento,  è proprio la famiglia che può rappresentare la base su cui fondare un’esistenza più stabile e piena. Giovanni Scipioni ne ha una che sta attraversando una fase di incomprensioni e di divisioni, ma che è intenzionato a difendere a tutti i costi: per questo Paolo, in grave difficoltà nel tentativo di fondarne una propria con la moglie Eleonora, e Antonio, privo di un suo personale focolare, gravitano attorno a Giovanni, quasi che volessero essere risucchiati nella sfera familiare retta da questo imperfetto e vacillante pater familias contemporaneo, per essere da lui accuditi e confortati. Forse perché Giovanni è l’unico che possiede la ricetta per costruire qualcosa e tenerla in piedi in mezzo ai marosi della vita.

LS: Stai lavorando a qualche nuova narrazione? Hai dei progetti in cantiere?

LR: A settembre uscirà, per i tipi della Edizioni Creativa,  La setta dei giovani vecchi, il mio nuovo romanzo. Di cosa parla La setta dei giovani vecchi? Beh, nella cittadina di Castel Chimerico vive il quarantaduenne Giovanni Eufemi, precario nella professione, in politica e in amore. Insegnante con contratto a tempo determinato, membro del partito di maggioranza relativa in seno al consiglio comunale senza però un effettivo peso politico all’interno dello stesso, eterno fidanzato della quarantenne Eleonora: su Giovanni Eufemi pare che gravi una maledizione che lo condanna all’incompiutezza, che il nostro protagonista attribuisce allo Stato, ai compagni di partito e, in definitiva, alla vita in genere, le cui trame sembrano essere state ordite da pupari attempati impegnati a boicottare i più giovani. Una sorta di gerontocrazia imperante tiene infatti lontano dai posti di maggiore responsabilità e soddisfazione coloro che insidiano l’ordine costituito, ai quali si appioppa l’appellativo di “giovani” anche oltre i quarant’anni per convincerli ad attendere, ad avere pazienza, nell’attesa di completare un iter di formazione che a Giovanni sembra tuttavia infinito e, in fin dei conti, insensato. I suoi più cari amici, tutti coetanei, non è che se la passino meglio, essendo alle prese con una condizione di instabilità esistenziale complicata da un forte scoraggiamento, venato in aggiunta di vittimismo e di malcelata rassegnazione. Il protagonista e i suoi amici, gravati dal peso insostenibile di un inesorabile fallimento, giungeranno infine a un punto di non ritorno… Alla “setta dei giovani vecchi”, ossimorica e mostruosa creazione della nostra società, non rimarrà così che riunirsi per l’ultima volta, per l’ultima, terribile “cospirazione” di protesta contro la società stessa. O forse contro la natura umana…

Ringrazio Luca Rachetta per avermi concesso questa breve intervista.

LORENZO SPURIO

 10 Luglio 2011

E’ VIETATA LA RIPRODUZIONE E LA DIFFUSIONE DI STRALCI O DELL’INTERO ARTICOLO-INTERVISTA SENZA IL PERMESSO DELL’AUTORE.

Pensieri senza pretese, Intervista a Christian Lezzi

INTERVISTA A CHRISTIAN LEZZI

Autore di Pensieri senza pretese

Arduino Sacco Editore, Roma, 2011

Intervista a cura di Lorenzo Spurio

 

LS: Quali sono i tuoi autori italiani e stranieri preferiti? C’è qualche testo in particolare che ami? Se si perché?

CL: Sinceramente non ho un autore di riferimento. Diciamo che vado a periodi, mi muovo per stile, per sensazioni trasmesse. Vario molto, a seconda dell’umore, come se fosse una ricerca interiore, un percorso che arricchisce, passo dopo passo, libro dopo libro. Passo con facilità dai classici russi al verismo siciliano, dal decadentismo francese ai voli arditi di D’Annunzio, dall’immaginifico tetro di Howard Phillips Lovecraft allo spirito guerriero di Yukio Mishima, dalla leggerezza profonda di Banana Yoshimoto, alla straordinaria poesia di Dylan Thomas, dal teatro dell’assurdo di Sartre e Camus, al crudo realismo dipinto da alcuni seppur dolcissimi versi della compianta e meravigliosa poetessa milanese Alda Merini. Passando ovviamente per mille altre cose, mille dettagli e sfumature, alla ricerca di emozioni, di colori e di odori, di immagini che prendono forma, dando vita alle parole. Non disdegno i contemporanei, adoro la potenza espressiva di Faletti, snobbato dai più e non capisco perché, e amo follemente la capacità descrittiva di Patrick Süskind (Il Profumo, per citare un suo romanzo) o di Sebastian Fitzek (La Terapia) o ancora Thomas Harris (Hannibal). Un testo in particolare? Ti direi, così su due piedi, Canti Pisani di Ezra Pound. E’ una questione di pelle, di emozioni che nemmeno uno scrittore può spiegare nel leggere un simile capolavoro.

LS: Perché la scelta della poesia di temi tanto diversi tra loro che, forse, avrebbero potuto essere meglio amalgamati in una narrazione?

CL: Perché la vita stessa, nel bene e nel male, non è monotematica. Lo scibile umano è fatto di mille schegge di vissuto, mille e più esperienze contrastanti e contraddittorie. E tutte accadono senza un preciso ordine temporale, senza preavviso. Ordinare per categoria le mie poesie sarebbe stato come cercare di mettere in ordine le varie fasi della vita, ma la vita non ha un iter logico, sappiamo per certo dove sono collocate la nascita e la morte, ossia l’alfa e l’omega della nostra esistenza, ma per il resto, le cose accadono senza seguire uno schema. Io narro le emozioni, positive o negative che siano, in ordine casuale, in base al momento, all’ispirazione, ai fatti contingenti. Proprio come se fosse vita vera o vissuta. Nella vita di tutti i giorni ti capita di essere innamorato, ma anche disperato per la perdita di un amico, di un fratello, del lavoro. Le emozioni si sovrappongono e si susseguono con una casualità non calcolabile. Questa è la mia poesia e, di conseguenza, la logica della raccolta.

LS: C’è una poesia in particolare della raccolta che ti piace? Perché?

CL: Tutte le Poesie che scrivo sono miei riflessi d’anima, pensieri scritti con il sangue, provati sulla pelle, in molti casi. Naturalmente sono legato a tutti i miei scritti, ma forse darei la priorità ad alcune di esse, per via delle emozioni che suscitano in me stesso, ancora oggi, nel rileggerle. Anche a distanza di tempo. Ma non intendo fare una graduatoria o un elenco, anche perché, le poesie a cui sono più legato oggi, potrebbero essere sostituite da altre, già domani.

LS: Nella tua silloge uno dei temi più importanti è quello della memoria, connessa all’infanzia. Nella tua vita il ricordo è così importante? Perché?

CL: Non necessariamente memoria connessa all’infanzia. Memoria e ricordo, in generale. Di cose passate, di momenti vissuti, di sorrisi che non rivedrai e di parole che si sono perse nei meandri della memoria. O di qualcosa o qualcuno che è un ricordo continuo, fino al momento in cui lo rivivrai. Il ricordo, inteso come punto di partenza, come scuola di vita, come presa di coscienza della propria vita, è importante per tutti, non solo per me. Certo, guai a vivere nel passato, come novelli reduci, ma nemmeno si può prescindere da esso e da ciò che è stato. Vivere l’oggi per il domani, ma traendo insegnamento da ieri.

LS: Nelle poesie c’è un immagine che ricorre spesso. E’ quella del labirinto. In che maniera questo universo intricato si legata alle tue liriche?

CL: La mente umana ama i labirinti, ha una propensione tutta sua a perdercisi dentro. In senso poetico, posso dirti che il concetto di labirinto incarna un po’ la mia ricerca di una scrittura visuale, in cui le parole, i concetti, si inseguono, danzano insieme, dipingono emozioni e stati d’animo… in sintesi, si perdono e si ritrovano nel mondo della varia umanità. Allo stesso modo, io amo danzare con le parole, vedi la mia Poesia “In catene”, in cui pensi di leggere una cosa e invece…

LS: Quanto di autobiografico c’è nella raccolta?

CL: Questa è una domanda a cui, per mia scelta non darò mai una risposta chiara. Mettiamola così: scrivo di me anche quando non scrivo di me, ma non sempre scrivo di me. E’ contorto, lo so, ma è una questione di labirinti emotivi e mentali. Ciò che trovo importante è trasmettere contenuti emozionali, sensazioni, spaccati di vita e di esperienza. Che poi, questi riflessi d’anima e di esistenza, siano vissuti in prima persona o solo sfiorati per sentito dire, poco importa. Io canto di vita, di morte, d’amore… e di altri abissi da esplorare. Devono per forza essere miei, questi labirinti, per essere credibili?

LS: Nella silloge c’è una poesia che parla di guerra. Qual è stata la genesi di questa lirica? Avevi un conflitto bellico in particolare in mente quando scrivevi?

CL: No, non c’è un conflitto in particolare, anche se chi conosce la mia vita potrebbe pensare il contrario citando ad esempio il conflitto nei Balcani, nel Golfo Persico o in Palestina. Questa poesia è nata spontanea, come tutte le altre, al pari di un fiore di campo, irrigata dal disgusto provato nei confronti dell’umana stupidità che, per il tornaconto di qualcuno, trascina in una lotta fratricida intere nazioni. Un po’ di storia, un po’ di attualità. Purtroppo di fertilizzante, per concimare un fiore del genere, ne abbiamo da vendere.

LS: La poesia che parla dell’Istria, del Carso e delle foibe dimostra la tua conoscenza di pagine nere della storia d’Italia. Quanta ricerca e analisi storica c’è nelle tue poesie?

CL: Potrei scrivere un libro in tre giorni su quei tristi accadimenti. Ma pensa, ho pianto scrivendo una poesia. Figuriamoci se scrivo nel dettaglio di fatti reali che ancora mi prendono alla gola. Quella dell’Istria, di Fiume, della Dalmazia, per me non è solo storia, ma un qualcosa che mi tocca da vicino, che mi brucia dentro. Sono terre che mi scorrono nelle vene, che mi brillano negli occhi, ma volutamente non darò dettagli autobiografici. I fatti citati non vanno dimenticati. Sono stati criminalmente taciuti per anni da una democrazia nata storpia. Ora è giusto che la verità si diffonda, superando gli interessi ideologici della politica. Per quanto riguarda le altre poesie, non c’è, di norma, molta ricerca storica nello scriverle. Il mio è uno scrivere d’impulso, d’istinto, una sorta di Spontaneismo Armato (di penna).

LS: Nella silloge ci sono vari riferimenti al mondo dell’arte pittorica. Mi colpisce in maniera particolare i riferimenti a Boccioni e al futurismo. Questo movimento artistico-letterario che ha da poco compiuto i cento anni secondo te quanto è stato importante per la cultura italiana e quanto lo è per te e per la tua scrittura?

CL: Sono sempre stato appassionato d’arte, complice un genitore che è un Broker d’Arte visuale, oltre che di collezionismo, alta orologeria e gioielli. Sono cresciuto in mezzo ai dipinti e questo mi ha impresso un certo amore per l’arte contemporanea in particolare. Adoro le sperimentazioni, le cose originali che fanno dell’artista, un vero Artista. Rifare oggi ciò che faceva Canaletto, trecento e rotti anni fa,  o Fontana appena 50 anni fa, rende operai dell’arte, non Artisti. Il vero artista inventa, sperimenta, crea nuove tendenze, segna il sentiero mai battuto prima. Io voglio dovermi soffermare per 45 minuti a capire il significato di un’opera, aprendo la mente, perdendomi dietro a mille ragionamenti. Ad una mostra impressionista mi annoio, ci vogliono 30 secondi a capire cosa stai guardando. E vorrei fosse così anche per chi legge le mie poesie, rileggendole con attenzione, analizzando i concetti, elaborandole fino a capirne davvero il senso. Il futurismo è stato un momento di rottura, un terremoto che ha rinnovato la scrittura, la pittura, e mille altre arti. E non solo il mondo delle arti, ovviamente. Pur denigrato e svilito da molti, a causa della sua collocazione storica, è stato un movimento di vitale importanza per l’era moderna. Nel mio modo di scrivere forse ci rientra per caso, quasi inconsciamente, come fosse una solida base d’appoggio nel tentativo di essere personale, di fuggire gli stereotipi poetici. Forse, per gusti e per stilistica nello scrivere (vedi le mie metafore), mi sento più vicino alla metafisica (De Chirico, Kostabi, Rabarama). Io non scrivo in rima e rifuggo come la peste la moda imperante dello scrivere poesie che non hanno un contenuto, ma che badano solo alla musicalità di quanto scritto. Io parlo di cose concrete, le canzoni le lascio scrivere ai cantautori. E con questo rispondo alla critica mossami in una recensione del mio libro. Le mie poesie sono “trascurate” dal punto di vista metrico e musicale perché io scrivo la sostanza delle cose, non la loro forma. La metrica omologa gli scrittori, mentre l’estrema ricerca della musicalità va a discapito dei contenuti. Lungi da me offendere un mostro sacro della poesia, come il compianto maestro Mario Luzi, ma a me, di sapere “chi ha potato così male il pino” non importa poi tanto. Per farla breve e per chiudere la questione, quella trascuratezza è assolutamente voluta. E’ come se fosse un atto di forza, di ribellione contro le mode e gli stereotipi di cui sopra. A me interessa mettere in chiave poetica dei concetti concreti, di vita reale, vissuta o solo osservata, il resto è noia, per dirla con Califano. E poi, forse, è già troppo ciò che ho fatto ad oggi. Ho scritto la mia prima poesia in data 3 Agosto 2010, undici mesi fa. Nonostante le apparenze, sono solo alle prime armi.

LS: Hai altri lavori in cantiere? Idee?

CL: La mia attività poetica è quasi quotidiana. Conto di pubblicare un nuovo  e-book di poesie dopo l’estate, ma ho appena pubblicato Pensieri Senza Pretese, non ho molta fretta. Dallo scorso Febbraio 2011 poi ho iniziato a scrivere un romanzo, uno psycho-thriller molto complicato nella sua storia ingarbugliata. Spero di venirne a capo, di non perdermi nei suoi labirinti e di riuscire nell’intento. Ma non è facile, sono ancora ad un centinaio di pagine formato A5. Un po’ la pubblicazione del libro, un po’ l’effettiva complessità degli argomenti trattati, ha rallentato i lavori. Ma molto presto riaprirò il cantiere. Per fortuna ho accanto a me una persona speciale, Isabella, la donna cui ho dedicato una poesia omonima e tutto il libro (nei ringraziamenti) che, guarda il caso alle volte, è una Psicoterapeuta. Non solo mi appoggia nella mia attività, ma mi aiuta anche con le complicate questioni relative alla psiche umana e alle sue devianze comportamentali e patologiche.

 

Ringrazio Christian Lezzi per avermi concesso questa breve intervista.

LORENZO SPURIO

7 Luglio 2011


E’ VIETATA LA RIPRODUZIONE E LA DIFFUSIONE DI STRALCI O DELL’INTERO ARTICOLO-INTERVISTA SENZA IL PERMESSO DELL’AUTORE.

Il bisogno dei segreti, di Marco Candida

Il bisogno dei segreti di Marco Candida

Las Vegas Edizioni, Torino, 2009

Recensione di Lorenzo Spurio

Il bisogno dei segreti è un interessante romanzo di Marco Candida che ci fa viaggiare tra le pieghe dell’inconscio di una protagonista singolare e di cui comprendiamo la vera natura solo a termine della narrazione, dopo duecento pagine. La narrazione apre con la presentazione del protagonista, Connie, una ragazza di ventinove anni alle prese con una rispolverata dell’inglese, studiato a scuola ma ormai troppo ossidato perché è intenzionata ad andare nel Nord Dakota. Curiosi nelle prime pagine del romanzo sono i riferimenti alle frasi belle e confezionate tradotte in inglese che Connie legge sui dizionari che ha appena acquistato. Frasi come “ti amo” o “hai un bel sorriso” nel dizionario figurano sotto la sezione di amore e relazioni come ‘frasi comuni’, modi di dire idiomatici ampiamente utilizzati nella lingua orale. Di contro a quella schematizzazione e semplificazione di formule Connie nota quanto poco l’abbia utilizzate nella sua lingua. Se sulla carta, scritte, sembrano così banali, nella realtà di tutti i giorni hanno un peso molto grande tanto che spesso risulta difficile farle uscire dalla propria bocca. Questa scena introduce un tema molto importante nel romanzo, l’opposizione tra mondo irreale (auspicato) e mondo reale, tra la guida al mondo e il mondo: «Ogni parola e ogni espressione per lei sono state una conqui­sta» (11).

Connie ha viaggiato molto sia in Italia che all’estero e ora vive a Staglieno, affascinata dalla vicina Genova. Non c’è molta azione nella prima parte del romanzo e la narrazione, fatta da un narratore in terza persona esterno alla storia, segue e rincorre i pensieri di Connie come se abitasse nella sua stessa mente. Si tratta di uno scandaglio attento e continuo della psicologia e dei pensieri della protagonista, che fa pensare molto alla tecnica del modernismo inglese del flusso di coscienza. C’è inoltre un riferimento al fatto che Connie stia leggendo Ulysses, il capolavoro di James Joyce e questo rafforza ulteriormente l’idea che il romanzo sia caratterizzato da un forte substrato modernista. Non solo, ma il personaggio di Connie è in grado di dare un suo giudizio sul grande autore dublinese che ha reso grande la letteratura: «Il solo fatto di esistere e di muoversi e di fare le cose anche più banali può essere una storia» (24).

Con tutti i nomi di città, paesi, monumenti ed attrazioni turistiche italiane e straniere che vengono evocate è facile intravedere una grande passione per i viaggi radicata nell’animo del Candida stesso il quale, con queste vigorose pennellate, riesce a farci viaggiare per svariati km in un tempo brevissimo.

Nel secondo capitolo l’autore entra con sapiente maestria ancora più a fondo nell’io della protagonista Connie mostrandocela prima sfuggevole e pensierosa, poi lasciva e adultera e infine risoluta e aggressiva. E’ un continuo cambiare di atteggiamenti e di modi di rapportarsi agli altri che nemmeno lei sa spiegarsi e la sua amica Ginevra è la prima ad osservare che è veramente strana:  «Tu sei malata» (45). All’animo inquieto di Connie si sommano ben presto le serie preoccupazioni dei suoi genitori che la vedono cambiata e che temono si droghi o si stia lasciando andare. I genitori non capiscono che cos’abbia, le segnano una visita dal dottore e la madre si vede costretta a fare, di nascosto, un sopralluogo nell’appartamento della ragazza scoprendo così la ragione dello strano comportamento della figlia, senza però svelarlo al lettore.

Seguono una serie di vicende che concernono Connie e gli altri personaggi, suoi amici, e molto spesso si fa riferimento al tema della sessualità nelle sue varie accezioni e deviazioni. La mente disturbata della protagonista la conduce a pilotare giochi grotteschi e perversi dove arriva a ricattare un uomo richiedendo denaro per evitare che scene della moglie adultera si diffondano su internet. Connie sembra essere spietata e fa tutto con molta lucidità e convinzione. Il lettore segue le sue idee non condividendole, navigando nel buio più pesto per l’allarmante e inspiegabile mente di Connie.

Connie pensa che il concetto di privacy mascheri soprattutto quello che lei definisce “il bisogno dei segreti”: «Nella vita di ogni persona ci sono dei segreti e molto spesso sono questi che rendono la vita di ogni persona diversa l’una dall’altra. Sono i segreti. I segreti possono essere piccoli o gran­di. Le ipocrisie minuscole o gigantesche. Le menzogne stupide o indispensabili. Però, ci sono. Sono nella vita di ogni persona». (100).

E’ evidente nel corso del romanzo il pensiero condivisibile dell’autore su alcune questioni di particolare importanza nella nostra società: la difesa della privacy, la capacità dei mezzi di comunicazione di rendere straordinario ciò che è ordinario e di esaltarlo, ridicolizzarlo, enfatizzarlo. Ciò che interessa e fa notizia, osserva Candida, non è il fatto comune ma l’assurdo e l’anomalo tanto che sono sempre le notizie tragiche e sanguinose a fare da protagoniste: «Là fuori il mondo è marcio, corrotto e violento. I giornali sono il quotidiano canto di dolore dell’uomo che abita questo mondo. Un lamento senza fine, stampato e distribuito in milioni di esem­plari. Esistono giornali di destra e di sinistra. Però non esistono giornali di notizie buone e di notizie cattive. Forse bisognerebbe inventarli». (104).

Andando avanti nella lettura, ho quasi l’impressione però che Candida voglia inserire troppo materiale, troppe storie, troppi elementi in un romanzo che è molto complesso: disturbi della persona, comportamenti inspiegabili, rapporti difficili, droga, perversioni sessuali, ricatti e tradimenti. Tuttavia è proprio qui che risiede il vero significato dell’opera, dell’analisi attenta della psicologia del personaggio, delle sue debolezze ed ossessioni, della complessità e dell’imperscrutabilità della mente umana. Così verso il finale del romanzo il narratore svela degli elementi che, di fatto, ribaltano tutta la storia, quella alla quale il lettore è ormai convinto di credere. Nelle ultime righe s’insinua una svolta non di poco conto che fa tirare un sospiro di sollievo al lettore il quale, tuttavia, non riesce a sentirsi troppo dispiaciuto per la malattia mortale che presto porterà Connie alla tomba.

LORENZO SPURIO

9 Luglio 2011


E’ VIETATA LA RIPRODUZIONE E LA DIFFUSIONE DI STRALCI O DELL’INTERA RECENSIONE SENZA IL PERMESSO DELL’AUTORE.

Sensualità, poesie d’amore d’amare – Intervista a Michela Zanarella

INTERVISTA A MICHELA ZANARELLA

Autore di Sensualita’, poesie d’amore d’amare

Sangel Editore, Cortona, 2011

LS: Questa silloge poetica affronta il tema dell’amore in maniera molto intima. Quanto di personale, di riferimenti autobiografico c’è?

MZ: Considero Sensualità una raccolta poetica molto intima e personale. Ho racchiuso in versi tutta la mia sensibilità femminile, mettendomi a nudo davanti al lettore, senza paure. Questo libro nasce come promessa d’amore al mio compagno. Ho voluto gridare al mondo tutta la purezza e l’autenticità di un sentimento forte e prorompente. Ogni poesia rappresenta un frammento di vissuto; ogni espressione appartiene ad emozioni profonde e reali.

LS: Nelle liriche c’è una presenza fissa che è quella del destino. Come dobbiamo intendere questo concetto, in maniera religiosa come “disegno provvidenziale” oppure come semplice casualità?

MZ: Secondo me ogni situazione avviene per un disegno già tracciato; gli stessi incontri che facciamo nel corso della nostra esistenza non sono e non possono essere casuali. Vedo la poesia come un dono che mi è stato affidato, una sorta di concessione divina. Ogni istante è un bene unico e prezioso che Dio mi offre per renderlo speciale. Scrivere è dunque salvezza e protezione per mente e spirito.

LS: Alcune scene che dipingi magistralmente nella tua poesia sono cariche di erotismo. Mi sono spesso imbattuto in persone che considerano il sesso come un tema troppo basso per essere inserito nella letteratura, tanto meno in poesia. Credi che a tutt’oggi nella cultura letteraria italiana o mondiale ci siano tabù nel trattare un certo tipo di scene e se si perché?

MZ: Trattare temi legati alla sessualità e all’amore fisico in letteratura non è semplice, infatti ancora oggi ci sono tabù e paure quando si affrontano certi argomenti. Non dobbiamo però dimenticare che negli scritti antichi ci sono chiari riferimenti all’amore sensuale, esempi concreti sono i miti greci con Saffo ed i racconti di Le mille e una notte. Lo stesso Cantico dei Cantici contenuto nella Bibbia viene considerato “poesia erotica”. Nel terzo millennio ancora si fa fatica ad accettare la letteratura erotica; uno scrittore cinese, Yan Lianke, ha visto mettere al bando la sua opera, Servire il Popolo, perché narrando il periodo della Rivoluzione Culturale del 1966-76 parla di sesso. La società odierna non è del tutto educata al sesso come concetto naturale e spontaneo dell’individuo. Ho scelto di scrivere d’amore e di sensualità, per liberarmi da pudore e timidezza. Spero di aver creato un libro dalla buona intensità emozionale.

LS: Ci sono autori in particolare ai quali ti sei rifatta nella stesura di questa silloge? Quanto pesano per te i classici della letteratura? Qual è il tuo poeta preferito?

MZ: Non mi sono rifatta ad altri autori per la stesura della silloge, ho cercato di mantenere un mio stile, fatto di immagini, suoni, colori ed odori. I classici della letteratura sono sicuramente una guida per la scrittura, anche se devo ammettere che provo ad essere indipendente dai grandi maestri. Tra i poeti che preferisco ci sono Salvatore Quasimodo, Pier Paolo Pasolini, Alda Merini. Leggo anche poeti meno noti ed emergenti. Sono molto legata alla figura di Pasolini, ho fatto uno studio approfondito sulla sua scrittura e sulla sua vita. Non a caso è stato una figura intellettuale che ha anticipato i tempi. Pasolini ha condotto un’inchiesta dove per la prima volta si parlava di sessualità, alla telecamera furono intervistate persone comuni che esprimevano il loro pensiero su prostituzione, divorzio, rapporti sessuali.

LS: Nella tua scheda biografica ho letto che stai scrivendo un romanzo. C’è da chiedersi perché una poetessa giovane come te abbia così in fretta il bisogno di cambiare metodi espressivi? Puoi anticiparci qualcosa sul romanzo?

MZ: Non è questione di fretta di cambiare metodi espressivi, la mia è più un’esigenza dettata dalla voglia di crescere anche in altri generi. Mettersi alla prova in ciò che si conosce meno, stimola ad una costante analisi delle proprie capacità. La poesia sarà sempre la base del mio scrivere, tentare con strade alternative, non significa abbandonare ciò che amo in modo viscerale. Il romanzo richiede una preparazione molto più attenta e profonda, è un genere di narrazione in prosa di una certa estensione, la poesia è sintesi, suono e ritmo. Preferisco non anticipare nulla del romanzo che sto scrivendo, ancora è in fase di sviluppo e voglio creare una certa curiosità nei lettori.

LS: Nella recensione che ho scritto con particolare piacere per la tua silloge mi sono soffermato su alcuni aspetti che, a mio modo di vedere, ritornano spesso durante tutta la raccolta. Uno di questi è il continuo riferimento a una materialità liquida, sia in relazione al paesaggio (ruscelli, mare) che ad esempio alle lacrime versate. Che senso dai a tutto questo?

MZ: L’acqua è l’elemento primordiale, dalla genesi dell’uomo alla natura che lo circonda. E’ come se mi sentissi legata in modo indissolubile a questo elemento, che ha dato vita a numerose tradizioni spirituali. Il mio segno zodiacale è un segno d’acqua, quindi credo che questa simbiosi non sia casuale. L’acqua è ciò da cui tutto nasce. Nella sua imprevedibilità possiede la calma, la gravità e la profondità, ha il potere di fecondare, è segno generatore nell’universo femminile, dal liquido amniotico alle lacrime.

LS: Il titolo della silloge, Sensualità, è già di per sé molto esplicativo evidenziando la carica erotica-romantica delle liriche. A questo hai sentito però di aggiungere un sottotitolo, Poesie d’amore d’amare. Perché?

MZ: Il sottotitolo è nato per dare maggiore concretezza al contenuto del libro, per garantire una maggiore chiarezza ad un concetto così vasto e  universale come la sensualità. “Poesie d’amore d’amare” diventa una sorta di gioco espressione-immagine tra l’amare ed il mare, ecco quindi il riferimento all’acqua, come elemento di vita e femminilità.

LS: Com’è maturata l’idea di scrivere questa raccolta di poesie? C’è stata una genesi particolare?

MZ: Questa raccolta è nata come dedica alla persona che amo, l’ho custodita per mesi, fino a quando ho trovato una casa editrice, la Sangel Edizioni, che mi ha accompagnato nella realizzazione di questo piccolo sogno. L’amore è diventato una sorgente a cui abbeverare la mente ed il cuore quotidianamente. Raccogliere in un libro tutte le poesie d’amore dedicate al mio compagno mi sembra  la migliore promessa per l’eternità.

LS: Per i giovani autori è spesso importante l’originalità e non ripetere temi e formule che si sono già adoperate per evitare il rischio di incorrere in critiche poco positive. Credi che un autore debba continuamente rinnovarsi nel suo stile e nei suoi temi o che possa mantenere un suo personalissimo e comunque originale “marchio di fabbrica” che lo contraddistingua?

MZ: Penso che un autore debba seguire un suo stile, non tralasciando comunque la possibilità di tentare altre forme espressive. Uno scrittore può essere sempre originale, anche non abbandonando le caratteristiche di formazione. Per quanto mi riguarda, posso dire che sono sempre alla ricerca di nuove frontiere, ma tengo ben salde le particolarità stilistiche che mi identificano.

LS: Nella nostra contemporaneità sono tutti scrittori. E’ un dato di fatto che ci sono più scrittori che lettori. La silloge poetica sembra conoscere, come genere, una grande diffusione e, forse, una minore attenzione critico-letteraria. Pensi sia difficile per un nuovo autore oggi imporsi sulla scena? Se si perché? Quali sono gli ostacoli maggiori?

MZ: E’ davvero difficile imporsi nel panorama letterario attuale, come tu stesso hai detto, ci sono più scrittori che lettori. L’importante penso sia scrivere perché si crede in se stessi e nel contenuto del libro che si propone, indipendentemente da un buon successo editoriale o meno. La poesia è un genere poco commerciale, è raro trovare un poeta emergente che riscuota consensi dalla critica e dal mercato librario.

Ringrazio Michela Zanarella per avermi concesso questa breve intervista.

Lorenzo Spurio

7 Luglio 2011

E’ VIETATA LA RIPRODUZIONE E LA DIFFUSIONE DI STRALCI O DELL’INTERO ARTICOLO-INTERVISTA SENZA IL PERMESSO DELL’AUTORE.

Nasce un nuovo stato, il Sud Sudan

Siamo nel 2011 e il mondo continua a cambiare. E’ in un continuo ed inarrestabile processo di metamorfosi. Non solo quello legato all’universo fisico-chimico, ambientale, orografico ma anche quello geopolitico. E così che solo un giorno fa, si sono riscritti i confini nazionali in Africa dopo che è nato un nuovo paese, il Sud Sudan, in inglese South Sudan. Anche se sulle cartine che vengono mostrate sembra una piccola superficie bisogna tener presente che ha un’estensione che è il doppio di quella italiana.

Dopo un referendum elettorale infatti è stata dichiarata l’indipendenza dal governo centrale di Karthoum (capitale del Sudan) da parte di quella che in precedenza era considerata una regione autonoma. Il Sudan perde cosi circa un terzo del suo territorio originale ma soprattutto alcuni importanti centri petroliferi. Il nuovo stato, che nasce da una grande battaglia dei diritti del popolo sud-sudanese, nasce però con una serie di gravi problemi, essendo una delle realtà più povere di tutto il pianeta. Il paese è povero e arretrato, senza sbocchi sul mare, con una popolazione per maggioranza analfabeta e in cui le vie di comunicazioni sono molto precarie. Tra tanta povertà però i sud-sudanesi festeggiano la fine dell’oppressione di Karthoum che per ben due guerre ha provocato un gran numero di morti. Ora il paese ha una sua bandiera, un suo motto, un suo stemma, un suo presidente e un suo governo, come ogni stato di diritto. Gli Stati Uniti d’America hanno subito riconosciuto la nuova realtà politica.

Un fatto non di poco conto se si tiene in considerazione che in Sudan esistono altre realtà separatiste e che da sempre reclamano la loro indipendenza , prime tra tutti la regione settentrionale del Darfur, anche questa nota per una sanguinosissima guerra.

Scheda tecnica del nuovo stato:

NOME: Sudan del Sud (South Sudan)

SUPERFICIE: 619.745 kmq

POPOLAZIONE: 8.260.490 (stima del 2008)

CAPITALE: Juba (1.120.000 abitanti)

LINGUA: Inglese

E così, dopo le recentissime indipendenze di Timor Est (capitale Dili) nel sud Est Asiatico riconosciuta nel 2002 e del Kossovo (capitale Pristina) nei Balcani nel 2008, alla lista si aggiunge questa nuova realtà politica.

LORENZO SPURIO

10-07-2011

La guerra degli Scipioni, di Luca Rachetta

La guerra degli Scipioni di Luca Rachetta

L’Autore Libri, Firenze, 2009

Recensione di Lorenzo Spurio

A dispetto del titolo il romanzo breve di Luca Rachetta, professore di scuola secondaria con varie opere alle spalle, non tratta di guerra, né di storia e neppure ha niente a che fare con Scipione l’Africano. Il libro narra invece le vicende dell’inquieto animo di Giovanni Scipioni, professore in una scuola della sua città, riferimento autobiografico del Rachetta. Altro riferimento autobiografico presente in Giovanni Scipioni è il fatto che sia un amante della cultura, viene detto che progetta romanzi e che in gioventù era un «aspirante poeta» (33). C’è una particolare attenzione nel dipingere i vari personaggi che ci vengono presentati non solo nel loro aspetto fisico e come appaiono agli occhi degli altri ma anche negli scandagli della personalità, facendo riferimento alle loro ossessioni, frustrazioni o debolezze.

La scelta di un narratore onnisciente in terza persona, che tutto sa della storia, può apparire inizialmente un po’ fastidioso e rimandarci alla lettura di romanzi ormai antiquati ma grandi classici della letteratura, dove pure il narratore interveniva direttamente per anticipare o informare il lettore di ciò che si apprestava a leggere. Non è un vizio di forma, ma la tecnica che il Rachetta fa sua per questa narrazione suggestiva, che non cade mai nella banalità e che riesce a mantenere alto il coinvolgimento del lettore.

Attraverso il personaggio di Giovanni Scipioni siamo in grado di vedere il mondo della scuola, delle lezioni e dello studio non tanto attraverso gli occhi di un giovane insoddisfatto ma attraverso quelli di un docente capace, stimato, il cui unico difetto, forse, è quello di essere un po’ troppo all’antica. Così, dopo una breve descrizione della sua giornata lavorativa alla scuola, il primo giorno dell’anno scolastico e l’attentissima caratterizzazione dei colleghi (tra cui l’affascinante docente di storia dell’arte e la tremenda direttrice) veniamo catapultati nella sua famiglia: la moglie Elsa e la figlia Beatrice, adolescente che sta crescendo troppo velocemente agli occhi del genitore e che, com’è tipico nella nostra società, è assoggettata dalle “mode” più in voga. C’è una scena curiosa nelle primissime pagine del libro in cui Giovanni si sente attratto da una ragazza appariscente che vede per la strada e poi entrare nel suo stesso condominio e, solo in un secondo momento, si accorge che si tratta di sua figlia. Forse è presente in Giovanni Scipioni un qualche lieve e vago riferimento a un altro Giovanni della letteratura italiana, ossia Giovanni Percolla, protagonista di Don Giovanni in Sicilia di Vitaliano Brancati, autore quest’ultimo che Rachetta ha studiato attentamente e di cui ha pubblicato un’opera di critica letteraria dal titolo Vitaliano Brancati. La realtà svelata (Maremmi Editore, Firenze, 2006). Come nel personaggio di Brancati, Giovanni Scipioni è affascinato dal gentil sesso, pur avendo in questo caso una famiglia e addirittura una figlia ed entrambi i Giovanni non mancano di guardare affascinati ragazze e donne in giro per la città.

Tra gli altri personaggi troviamo i due fratelli di Giovanni, diversissimi tra loro ma, ad ogni modo, ognuno affetto da qualche problema. Antonio è celibe ed è sempre propenso a parlare di politica, della necessità di meritocrazia e dei mali della società contemporanea. L’altro fratello, Paolo, sta invece facendo i conti con un matrimonio che sta finendo perché è diventato semplicemente un insieme di rituali che vengono ripetuti. E’ però a Giovanni che tutti ricorrono per parlare dei loro problemi come se in realtà lui fosse scevro da ogni inquietudine. E così pian piano su di lui si riversano tutte queste preoccupazioni («Ci si erano messe anche quelle due zavorre dei fratelli», 32), che gli altri, nell’intenzione di alleviare, gli hanno esposto e vanno a sommarsi alla pesantezza del suo essere docente. Non è però un romanzo di adulti carichi di problemi ma una narrazione che potremmo definire “generazionale” o, per utilizzare un linguaggio più accademico, di formazione in quanto sono descritti sia fisicamente che psicologicamente gli studenti, in maniera particolare alcuni ragazzi un po’ ambigui nel contesto scolastico: il secchione sempre ansioso e il taciturno pensieroso.

L’insofferenza di Antonio nei confronti di alcuni colleghi non così ligi al loro lavoro come lui lo porta a barricarsi direttamente nella stanza del primo cittadino, dove cerca di far valere le sue ragioni basate su idee nevrotiche ma la sua azione finisce per ridicolizzarlo e, ormai bollato da tutti come pericoloso e pazzo, si congeda dal suo lavoro. Non soddisfatto della sua condizione e ormai chiaramente fuori di senno, tenta di mettersi in contatto con altre sfere del potere pubblico avanzando sempre le stesse pretese: scrive una lettera al presidente della Repubblica e incontra un vescovo. Entrambe le situazioni non sortiscono nessun effetto e, anzi, l’incontro con il vescovo si configura come un grottesco siparietto e noi, in qualità di lettori, ci rendiamo conto, mai come in precedenza, che Antonio ha ormai superato il limite della ragione ed è pericoloso per la società. Per suo fratello Giovanni non è che un ulteriore fardello e preoccupazione di cui occuparsi.

Si fa viva nel corso del romanzo la convinzione che ogni personaggio sbagli, o perlomeno confonda, il vero destinatario delle sue inquietudini: il nevrotico Antonio più che appellarsi al sindaco, al presidente della repubblica o al vescovo avrebbe, forse, bisogno di un consulto psicanalitico o addirittura psichiatrico; Paolo riversa la sua titubanza e sofferenza circa la decisione o meno di lasciare sua moglie sul fratello Giovanni piuttosto che confrontarsi direttamente con la moglie e anche Giovanni, appesantito dall’eccessivo rigorismo della scuola e intimorito dall’austera figura della direttrice finisce per non avere mai la parola sulle sue inquietudini. Rachetta ci fornisce un attentissimo e vivido spaccato tutto contemporaneo di una famiglia che apparentemente sembrerebbe fuori dagli schemi ma che, a una rilettura più attenta, si configura invece come una realistico labirinto di sofferenze, pensieri, inquietudini e comportamenti maniacali. Molti sono i personaggi-tipo che tratteggia con particolare cura: il professore sposato, forse un po’ snobbato e che deve fare i conti con la figlia adolescente con la quale spesso è in disaccordo («Doveva accettare i cambiamenti della figlia, della società, dei costumi. Erano finiti i tempi del Dolce Stil Novo. Restava solo di farsene una ragion», 58), l’uomo ossessionato dalle sue convinzioni che agli occhi di tutti si configura come pazzo, l’uomo un tempo innamorato e ora vacillante nei suoi sentimenti, indifeso e tra i personaggi femminili quello che meglio è tratteggiato è sicuramente Beatrice, la figlia trasgressiva secondo il bigottismo paterno mentre Elsa e Eleonora sono personaggi un po’ sfocati.

Un curiosissimo intrico di pensieri che va di pari passo a una certa passività dei personaggi che fa quasi pensare ai famosi indifferenti dell’omonimo romanzo di Moravia ma che mettono in luce le problematiche e le inquietudini tutte contemporanee dell’uomo nel dover vivere la vita di tutti i giorni.

LUCA RACHETTA è  nato a Torino ma risiede oggi a Senigallia (An) dove lavora come insegnante in una scuola media. Ha studiato con particolare attenzione l’opera narrativa di Vitaliano Brancati e ha pubblicato nel 2006 il saggio Vi­taliano Brancati. La realtà svelata con la Maremmi Editore di Firenze.  Con la stessa casa editrice ha pubblicato sillogi di racconti: Dove sbiadisce il sentiero (2006), La teoria dell’elastico (2008), il racconto lungo La torre di Silvano (2008) e il romanzo La guerra degli Scipioni (2009). Per settembre prossimo è prevista l’uscita del nuovo romanzo dal titolo La setta dei giovani vecchi. L’autore ha un suo sito personale:  www.lucarachetta.it 

LORENZO SPURIO

09-07-2011

Pensieri senza pretese, di Christian Lezzi

Pensieri senza pretese di Christian Lezzi

Arduino Sacco Editore, Roma, 2011

Recensione di Lorenzo Spurio



Christian Lezzi, scrittore ed opinionista milanese, mi ha proposto l’idea di scrivere una recensione per la sua raccolta di poesie. Non mi sono tirato indietro perchè il ruolo di recensore mi aggrada e perché questa silloge poetica dal titolo curioso ha richiamato da subito la mia attenzione. Mi piace molto soffermarmi sui titoli delle opere prima di proseguire nella loro lettura. Pensieri senza pretese è una raccolta di poesie che tratta temi diversi fra loro ma ogni lirica è accomunata da questo desiderio del Lezzi di presentare uno spaccato semplice, comune, senza orpelli, senza tante pretese per l’appunto. Ed anche nella prefazione, con una forma di diminutio tutta contemporanea, l’autore cerca in un certo senso di scusarsi per non essere in grado di riconoscersi un poeta propriamente detto. Preferisce definirsi opinionista ma è un dato di fatto che chiunque scriva una poesia, sia praticamente un poeta. Christian Lezzi non fa sicuro eccezione. La lirica che apre la raccolta, “Inchiostro nelle vene”, è una singolarissima sintesi della poetica del Lezzi, un prototipo di poesia personale che può essere poi riscontrato in tutte le altre: «un demone che si impossessa di te, questo è scrivere».

Il tema dell’amore è spesso presente in maniera esplicita o allegorica mediante alcuni immagini ricercate e interessanti ma spesso questo tema è minacciato dall’idea della morte o anche dalla nostalgia per i tempi andati. Le immagini che ricorrono maggiormente sono le risate, gli sguardi, labirinti, volti di donna ma, in via generale, la silloge si caratterizza per un’atmosfera grigia e cupa dovuta alle tematiche crepuscolari che affronta: il ricordo, il dolore, la guerra, l’esilio, la nostalgia e la solitudine. Un senso di sofferenza del protagonista aleggia intorno alla lirica “Resa” in cui il poeta invoca a lasciarsi andare per porre fine alle sofferenze terrene, è una dolce invocazione al suicidio: «Chiudi la partita senza aspettare un domani diverso che non sia solo l’estensione di ieri e di oggi con gli stessi pensieri tristi solitari e morenti», ma subito dopo si cambia registro ed è la vita a prevalere:  «oggi non è tempo di morire». In “Guerra” il Lezzi ci fornisce una fine lirica pacifista che, più che sottolineare gli aspetti più crudi degli scontri bellici, fa riferimento alla violenza e alla spietatezza del genere umano, incapace di evitare tragedie di inaudita gravità.

In “Cenere alla cenere” il macigno di un ricordo che immaginiamo doloroso e connesso, forse, alla perdita della donna amata si conclude però con la riappropriazione della propria vita, con la forza di ragione che riesce addirittura ad allontanare da sé quel momento del passato, quasi a voler ricordare che la forza della ragione può tutto, anche cancellare i momenti vissuti: «Come polvere alla polvere disperdi al vento il suo ricordo ti liberi del ricordo e finalmente torni a vivere».

Curiosissimi riferimenti al mondo dell’arte figurativa trapelano in “Incontri”: una donna che spicca fra i presenti «come una macchia di colore su una tela del Boccioni». Di Boccioni e del futurismo nella poesia è presente la tecnica della multi prospettiva e della immagini seriali. Un ottimo modo, a mio vedere, per celebrare un grande pittore e sculture poco ricordato. Il futurismo ritorna in maniera indiretta anche in “Metavita” dove il poeta fa riferimento all’uccisione del chiaro di luna che non può non farci pensare l’omonimo manifesto marinettiano del 1909.  In “Concetti spaziali” ritorna il tema dell’arte, in questo caso plastica, nell’atto di tagliare la tela con una lama, esperienza artistica che ci fa pensare direttamente all’opera di Lucio Fontana: «Afferri la lama e con gesto deciso ferisci il supporto aprendo un mondo nuovo creando una nuova dimensione». Una particolareggiata analisi nello scandaglio dell’io, nei recessi della personalità, è presente nella poesia che porta il titolo “Psiche” che sembra essere un vero e proprio omaggio al padre della psicanalisi.

Il tempo è il grande protagonista della raccolta mediante episodi della vita che fanno riferimento ad esso: l’infanzia o i ricordi del passato, il presente liquido e difficile, il futuro inconoscibile e apparentemente precario. Nella poesia “Tempo” è proprio quest’ultimo il vero sovrano, descritto mediante una serie di costruzioni metaforiche di particolare impatto poetico: il tempo si dilata e si comprime descrivendo quindi anacronismi che sono estranei al canonico scorrere del tempo.

Sono numerose le liriche contenute nella silloge e ciascuna meriterebbe un’analisi attenta ma posso concludere che la raccolta, pur non seguendo un ordine tematico come ha riconosciuto lo stesso Lezzi nella sua prefazione, finisce paradossalmente per avere una grande compattezza. La poliedricità dei temi trattati non è fastidiosa e l’interesse nella lettura è incentivato da questo continuo cambio di temi e di immagini evocate. L’unico cruccio, forse, risiede nella limitata musicalità delle liriche e nella trascuratezza metrica ma neppure questi aspetti sono capaci di minare l’ottima impostazione del Lezzi nel presentare squarci lirici talvolta drammatici, altre volte altamente romantici.

LORENZO SPURIO

Jesi, 4 Luglio 2011

Sempre ad Est, di Massimo Acciai

Sempre ad Est di Massimo Acciai

di prossima pubblicazione presso Faligi Editore

Recensione di Lorenzo Spurio[1]

Che cos’è un surypanta? E’ la prima domanda che il lettore del nuovo romanzo di Acciai si fa immergendosi nella lettura. Non ci sono particolareggiate descrizioni di questo tipo di animale, sappiamo che è di piccole dimensioni, che miagola e che trova particolare piacere nell’essere accarezzato sulla testa. Non è un gatto. E’ inutile indagare a quale animale possa avvicinarsi perché stiamo parlando di un romanzo fantastico, quindi in ciascun modo vi figurate questo animale, non avrete sbagliato.

Il romanzo non è altro che la storia della ricerca difficile e disperata dei surypanta che sono stati rubati da un potente mago. L’intera narrazione ci informa delle varie peripezie che l’ “eroe” deve sopportare per riappropriarsi ciò che è suo e in questo andamento non è difficile scorgere il canonico schema proppiano della fiaba. Siamo in grado infatti di individuare almeno sei delle trentuno unità fondamentali dello schema compositivo proppiano[2]: 1. la situazione iniziale ( [i] ), 2. l’allontanamento (e), 3. la partenza (­), 4. la presenza del donatore o aiutante magico (D), 5. la lotta (L), 6. la vittoria (V). La conclusione del romanzo non è però affidata alle canoniche funzioni del ritorno dell’eroe nella sua terra (¯) o delle nozze finali (N), ma andiamo per gradi.

Il recente romanzo di Acciai, Sempre ad est, è una narrazione affascinante che ci fa viaggiare attraverso terre intricate ed oscure, ricche di mistero e sulle quali domina la magia nera di un potente mago noto come il Raccoglitore. Per sfidare questo potente wizard che con le sue doti oscure è riuscito a rubare tutti i surypanta della zona ci vengono narrate le gesta di Hynreck che, più che un valoroso guerriero, ci viene presentato come un viandante sfortunato, inetto e particolarmente istintivo, «una di quelle persone che si arrabbiano due volte la seconda per essersi arrabbiati» (53). Nella sua vorticosa ricerca del suo surypanta Saj, Hynreck è accompagnato dal cavallo Frumgar che, diversamente da quanto ci si aspetterebbe, non è un cavallo parlante.

L’impresa particolarmente ardua prenderà una piega diversa nel momento in cui Hynreck incontrerà Sara, una ragazza che è stata appena depredata del suo esemplare di surypanta. L’iniziale divinazione del mago buono Sering e la conoscenza degli oracoli da parte di Sara permetterà alla coppia fortuita di trovare la fortezza dove risiede il potente mago Raccoglitore. Così Hynreck, Sara e Linda, un’altra donna che Hynreck inizialmente credeva implicata nel furto dei surypanta, si imbarcano su una grande nave diretta al piccolo porto di Ladymirail, dall’altra parte dell’oceano vivendo momenti di panico per le condizioni sfavorevoli del mare. Ma la storia non è aliena a colpi di scena: nella tormentata rotta in mare infatti Hynreck crede che il capitano sia il padre del ragazzino che ha precedentemente ucciso per legittima difesa. Così, nella notte i tre fuggono su di una scialuppa approdando all’isola di Falbroth.

L’isola ha una lunga storia alle spalle e si trova praticamente divisa in due parti che rispondono a due diverse dominazioni, ha due città-capoluogo, due porti, due popoli e la cosa curiosa è che ha anche una dimensione sotterranea, un mondo sommerso altrettanto vitale e attivo. L’altra parte dell’isola invece, che risponde alla città di Perio, si è sviluppata in maniera completamente opposta: ci sono dei palazzi molto alti come dei grattacieli che si stagliano verso l’alto, pensati per sopperire alla limitata superficie di quella metà dell’isola. Acciai è un maestro nel generare una sorta di spaesamento che deriva dal cambio improvviso degli spazi (città, bosco, osteria, nave, città sotterranea) e questo contribuisce ad accrescere un senso di claustrofobia che incrementa quella suspense che nella storia è sempre mantenuta. Dopo alterne vicende lo sfortunato trio riesce ad arrivare alla fortezza di metallo nella quale vive il mago Raccoglitore dove seguono una serie di duelli a spada. Inizialmente la sorte è sfavorevole a Hynreck che pure rimane ferito ma poi i tre riescono ad uccidere il potente mago e a mettere in salvo centinaia di surypanta, tra cui quelli loro.

Nella storia ci sono le premesse anche per la nascita di un amore che invece non si svilupperà e nell’epilogo del romanzo, Acciai sembra voler dare una nuova grande svolta alla storia parlandoci di navicelle spaziali e di colonizzazione della galassia, temi che non possono non farci pensare all’ampia produzione fantascientica di Asimov.

Se da una parte alcuni nomi dei protagonisti ci richiamano personaggi anglosassoni leggendari (Hynreck, Hykrion, Hydorn fanno pensare a Hygelac e a Hydg, rispettivamente re e regina dei Geati nel poema epico Beowulf) i nomi delle donne, Linda e Sara, richiamano invece direttamente un’origine tutta mediterranea. Gran parte dei toponimi sono anglicizzati pensati forse per darci l’idea di trovarci in territori leggendari scandinavi o tipicamente tolkieniani. Il toponimo di Gaweeck, città d’origine di Hynreck, fa pensare per assonanza a Gatwick, piccolissima città del Surrey e il nome di un importante aeroporto londinese. Il nome del cavallo, Frumgar, è un chiaro riferimento ad uno dei personaggi di Tolkien,  quarto Lord di Éothéod, nipote di Forthwini mentre il mago Sering fa molto pensare a un druido, al simpatico e sbadato Merlino e addirittura al celeberrimo Albus Silente della saga di Harry Potter. In ciascun caso è un mago buono che fornisce all’eroe gli strumenti necessari per vincere e per guarirsi nei momenti in cui viene ferito.

Acciai fonde sapientemente in questo romanzo gesta epiche, fantasiosi scenari folklorici nordici, ed elementi chiaramente favolistici che creano un’atmosfera affascinante e curiosa, così com’è nell’avventuroso e asfittico viaggio per mare di Hynreck, Linda e Sara. Sono molti e improvvisi i momenti epifanici che contribuiscono a sostenere l’intere gesta narrate e a rendere questo viaggio intricato e pericoloso un percorso surreale ma che vorremmo non finisse mai. Un percorso tutto indirizzato verso est.

LORENZO SPURIO

30-04-2011


[1] Recensione pubblicata sulla rivista Segreti di Pulcinella n° 34, Giugno 2011.

[2] cit. in Angelo Marchese, L’officina del racconto, Milano, Mondadori, 1990, pp. 14-19.

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