Lorenzo Mele: inediti da “Casa mia non ha le ringhiere” e altre poesie

Segnalazione di Lorenzo Spurio 

 

POESIE DI LORENZO MELE

 

Hanno chiamato il mio nome,

mamma papà e io entriamo.

Siamo soli in questo branco di sedie,

il magistrato ho paura che mi porti via.

E piango sulle gambe di mia madre,

ho paura tra le braccia di mio padre,

me ne sto con la faccia mani nelle mani,

mi consolo in un pianto che non so dire.

Orfanotrofio – diceva –

L’istituto dei bimbi sperduti. 

Ma io non ero sperduto, 

avevo una madre e un padre:

due mani calde a carezzarmi la testa.

 
*

 

Un giorno ti sei presa cura di me

e non mi conoscevi nemmeno:

una chiamata nella notte, uno sbaglio

forse, che ti ha stravolto la vita.

Non sapevi l’amore di esser madre

nell’attimo in cui mi prendesti in braccio,

e io non mi sapevo figlio di qualcun altro 

 – se non tuo – proprio nell’attimo in cui,

per forza di cose, ho imparato il tuo nome. 

 

 (inediti, dalla raccolta Casa mia non ha le ringhiere)

 

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Lorenzo Mele

 

Anche il silenzio mi parla al posto tuo,

quel silenzio che ti è caduto giù dalla tasca.

Dice che ti sei persa come si perdono i folli,

tu, che folle non lo sei affatto.

Anche io come te

mi sento una gioia martoriata

che aspetta una parola sana

davanti al camino.

 

*

 
Io, nel ricordo

di una strada bucata

mano nella mano con un padre

che non è mai stato il mio.

 

Sul dito un moccolo verde

e nell’occhio un’immagine

di una bici senza freni

che mi aspetta impaziente

come un cane gioioso

pronto a farmi le feste

nel cortile di casa.

 

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Ma non abbiamo più paura,

noi figli appesi a un filo,

noi che la morte

l’abbiamo vista in faccia

e la chiamavamo Madre.

 

(da Dove non splendi, Controluna, 2019)

 

Lorenzo Mele (Burgwedel, Germania, 1997) è cresciuto a Lecce. Attualmente vive a Roma. Ha pubblicato Tu mi abbandoni (La gru, 2018) e Dove non splendi (Controluna, 2019). Suoi versi sono apparsi su Atelier, ClanDestino, Inverso e altre riviste. Dirige il blog di poesia “Il visionario”. 

 

La riproduzione del presente testo e dei brani poetici riportati (dietro consenso dell’autore), sia in forma di stralcio che integrale, non è consentita in qualsiasi forma senza il consenso scritto da parte dei relativi autori.

“La mia isola” di Antonietta Langiu. Recensione di Lorenzo Spurio

La scrittrice di origine sarda Antonietta Langiu, da molto tempo nelle Marche, ha recentemente dato alle stampe una silloge poetica dal titolo La mia isola per i tipi di Grafiche Fioroni. A campeggiare nella copertina di questo volume è una foto del fratello del marito, Sergio Pierleoni, che ritrae uno scorcio suggestivo della brulla terra sarda con un primo piano di una vegetazione esile e spinosa, simile al cardo.

La-mia-isola-Antonietta-Langiu-203x300Antonietta Langiu, nata a Berchidda (Sassari) nel 1936, ha alle spalle una intensissima attività letteraria, con particolare attenzione alla narrativa. Seguiamone alcuni tracciati per comprendere la fitta trama delle sue scritture. Lasciata la Sardegna (alla quale è sempre ritornata per periodi più o meno lunghi, nel corso del tempo) si è laureata in Sociologia all’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”; vive a Sant’Elpidio a Mare (Fermo) assieme al marito Ottorino Pierleoni, noto pittore e incisore, autore di un libro-testimonianza, cronaca della nostra Italia del XX secolo, Tracce di un percorso. Aspettando una nuova primavera (2018).

Particolarmente legata alla sua terra natale, della quale vi è vivida e continua testimonianza nei suoi scritti (“Corre la penna/ e il mio foglio bianco/ si trasforma/ in un paesaggio/ multiforme”), la Langiu ha pubblicato varie opere, tra le quali raccolte di racconti, opere critiche di approfondimento, studio e ricerca e studi monografici: Sa contra – Racconti sardi (1992; riedito nel 2014); il libro per ragazzi con schede didattiche Dietro la casa (1993), Sas paraulas – Le parole magiche (1999; riedito nel 2008, con la traduzione a fronte in sardo); L’amica Joyce (1999), libro d’arte dedicato alla celebre scrittrice e difensora dei diritti civili di cui fu grande amica, Joyce Lussu (nata col cognome di Salvadori a Firenze nel 1912, sposa del politico e scrittore Emilio Lussu, deceduta a Roma nel 1998) da lei frequentata nella sua casa signorile di San Tommaso alle porte di Fermo e con la quale viaggiò insieme in Sardegna; il saggio, un libro di ricerca e storia orale, dal titolo Maestre e maestri in Italia tra le guerre (2003) scritto assieme a Liduina Durpetti, Immagini lontane (2005), Lettera alla madre (2005), ancora sulla Lussu l’intenso lavoro di ricerca confluito in Joyce Lussu. Bio e bibliografia ragionate (2008) scritto assieme a Gilda Traini, Lungo il sentiero in silenzio – Dalla Sardegna all’Europa: diario di vita, di viaggi e di incontri (2008), La linea del tempo (2014), Tessiture di donne (2017). Diversi racconti, corredati da incisioni e inseriti in libri d’arte, si trovano presso raccolte pubbliche e private a Fermo, Fabriano, Urbania, Ancona, Venezia, Aachen e Copenaghen. Saggi, racconti e altri testi sono stati pubblicati sulle riviste letterarie NAE, l’immaginazione, nostro lunedì, Proposte e ricerche, Sardegnasoprattutto, Euterpe, La Donna Sarda, El Ghibli. Sulla sua produzione si sono espressi, tra gli altri, il critico Giorgio Barberi Squarotti, il poeta e critico sardo Angelo Mandula, Silvia Ballestra, Maria Giacobbe, il critico e docente universitario Franco Brevini, studioso di dialetto.

 

La recensione integrale è stata pubblicata sulla rivista online Oubliette Magazine il 05/02/2020. Per leggerla è possibile cliccarla qui.

 

L’autore del presente testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere in relazione ai contenuti del testo e a eventuali riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.

 

Il critico Lucia Bonanni esce con la monografia “Linee esegetiche attorno all’opera narrativa di Lorenzo Spurio”

copertina saggio bonanni su triade narrativa_frontale.jpgIn questo studio monografico il critico letterario Lucia Bonanni studia e approfondisce alcune delle tematiche nevralgiche che legano le tre opere di narrativa (racconti brevi) dell’autore jesino Lorenzo Spurio pubblicate nel corso degli ultimi anni: La cucina arancione (TraccePerLaMeta, Sesto Calende, 2014), L’opossum nell’armadio (PoetiKanten, Firenze, 2015) e Le due valigie e altri racconti (Waugh, Viterbo, 2018). Il volume, dal titolo Linee esegetiche attorno all’opera narrativa di Lorenzo Spurio è edito da Photocity Edizioni (disponibile qui e nelle prossime settimane su tutte le Librerie online) e si focalizza su tutti quei mondi inusuali, realtà scaturite da situazioni patologiche, forme di inerzia e abbandono psicologico, luoghi emotivi dove è il paradosso a fare notizia e accelerare il cedimento comportamentale, di cui Spurio parla a livello di fiction. Con grande maestria, senso critico, impegno e competenza culturale l’autore dei racconti indaga fenomeni sociali e di costume, facendo prevalere il complesso di quelle funzioni psichiche, caratterizzate da sintomatologie anomale, disturbi della personalità, relazioni interpersonali e atteggiamenti che determinano fenomeni morbosi. Senza mai scadere di tono e con l’uso di un linguaggio mai futile e banale, ma sempre coerente e pertinente al rigore concettuale e alla temperanza, anche là dove le tematiche trattate sembrano assumere caratteristiche suscettibili di connotazioni avverse e dispregiative, Spurio offre una raccolta riassuntiva, destinata ad enucleare e informare circa la complessità delle reazioni emotive.

 

Lucia Bonanni (Avezzano, 1951) poetessa, scrittrice e critico letterario, ha pubblicato articoli, saggi e raccolte di poesie oltre a recensioni e prefazioni per testi poetici e narrativi. In volume ha pubblicato le sillogi Cerco l’infinito (2012) e Il messaggio di un sogno (2013); ha all’attivo varie pubblicazioni in antologie poetiche, raccolte tematiche e riviste di letteratura. 

Lorenzo Spurio (Jesi, 1985), poeta, scrittore e critico letterario. Per la poesia ha pubblicato Neoplasie civili (2014), Tra gli aranci e la menta (2016) e Pareidolia (2018). Per la narrativa tre raccolte di racconti, qui analizzate. Fertile nella critica letteraria ha pubblicato vari saggi in volume, rivista, siti e in collettanee, principalmente sulla letteratura straniera, prestando attenzione anche alla letteratura regionale per la quale ha pubblicato Convivio in versi (2016, 2 voll.).

“Cerchi ascensionali” di Francesca Luzzio, recensione di Lorenzo Spurio

Cerchi-ascensionali-220x300.jpgLa nuova opera della poetessa palermitana Francesca Luzzio è stata recentemente pubblicata per i tipi di Il Convivio Editore di Castiglione di Sicilia e porta il titolo di Cerchi ascensionali.  Le motivazioni e le finalità della tetra-ripartizione dell’ampia opera poetica – che raccoglie gli inediti della più recente produzione, compresi alcuni testi apparsi su riviste e antologie – sono ben chiarite negli apparati critici introduttivi al volume a firma, rispettivamente, del professore Elio Giunta e di Angelo Manitta, critico letterario e responsabile della casa editrice Il Convivio. Nella progressione di questo percorso per “cerchi” che, come Manitta rivela, ricordano i canti di dantesca memoria,l’animo poetico della Nostra è tratteggiato a trecentosessanta gradi, esponendosi la poetessa tanto su questioni di carattere etico-sociale[1] (“La mia terra è piena di crepe,/ sofferente, come tanta gente che nulla ha”, 39), quanto su riflessioni personali ricollegati alla rievocazioni di memorie felici e veri e propri flussi di coscienza.

 

La recensione completa è stata pubblicata su “Oubliette Magazine” il 22-02-2019. Per poterla leggere cliccare qui. 

 

Quando il narratore è… interno. “Nel guscio” di Ian McEwan, recensione di Marco Camerini

Recensione di Marco Camerini

Alla fine deve ad Amleto meno di quanto sia stato fin troppo evidenziato (fra gli altri da un entusiasta Antonio D’Orrico su “La lettura” del 30 aprile) l’ultimo romanzo di Ian McEwan Nel guscio (Einaudi 2017), noir anomalo e intrigante scritto con sarcasmo, genialità, sguardo attento al nostro complesso presente: il tutto tanto più sorprendente in quanto il punto di vista narrativo non è quello di un colto e navigato intellettuale come il tono farebbe, sin dall’incipit, supporre.

Lei è Trudy (Gertrude): può contare su una bellezza piena ed indiscutibile – capelli “biondo grano di una guerriera sassone che si inanellano lucenti sino al bianco polpa di mela delle spalle e naso piccolo come un bottone di perla” (chi la descrive ha nel DNA una spiccata vena lirica ed è…di parte) – e su una formazione in pillole maturata ascoltando radio, audiolibri divulgativi, podcast eterogenei, dalla bachicoltura nelle Ardenne alla strategia attuata dal Führer nella medesima regione. Particolare non trascurabile nell’economia dell’intreccio, è al temine di una gravidanza. I “lui” sono due fratelli: il marito e padre del protagonista, John Cairncross – poeta misconosciuto idealista e premuroso, disposto a subire umiliazioni, sconfitte, delusioni in nome di un sonetto, accomodante al punto da accettare la “pausa di riflessione” impostagli dalla moglie a seguito di una mai ammessa crisi matrimoniale e lasciarle il sontuoso edificio georgiano di famiglia in Hamilton Terrace – e Claude, suo attuale convivente (Shakespeare, certo: se è per questo compare persino lo spettro), agente immobiliare a corto di inventiva e fantasia, ottuso, insulso, senza nemmeno il fascino del “mascalzone sorridente, conchiglia priva dell’ospite e, come cospiratore, più cretino di lei”.

61Obc59f4-L.jpgA riferire/giudicare/deprecare l’intento dei cognati di uccidere il legittimo genitore e ad accompagnarci nei meandri di menti adulte di volta in volta appassionate e/o disperate, edotto, suo malgrado, nelle perverse dinamiche degli amanti (“arrivano al primo bacio pieni di cicatrici, oltre che di voglie” e “non si amano in dicembre come si amavano a maggio”) non meno che nei meccanismi della vendetta (“può essere consumata cento volte in una sola notte insonne”), è la più precoce voce narrante del romanzo post-moderno che ci sia dato ricordare: un feto, ormai non più fluttuante nella bolla sognante dei propri pensieri – come…da giovane – ma pronto ad affacciarsi alla vita e spirito critico già pienamente consapevole che “l’esistenza cosciente coincide con la fine dell’illusione di non essere”…Chi legge dovrà abituarsi, il narratore si esprime così ed è merito dello scrittore aver evitato i rischi di un gioco cerebrale ed artificioso grazie ad una massiccia dose di provvidenziale, godibile ironia. Testimone suo malgrado – silenzioso sino ad un certo punto – dell’avvincente plot, su cui nulla sveliamo, amerebbe nascere in Norvegia per la munifica assistenza pubblica; l’Italia è una seconda scelta (“rovine e cibo”) che, comunque, batte la Francia, con l’autostima dei suoi abitanti e il Pinot nero, del quale è in grado di indovinare il vitigno attraverso il semplice bouquet decantatogli da una placenta in buona salute. In ogni caso predilige il Borgogna e il Saucerre Chauvignol con il suo “sentore gentile di pietrisco siliceo” (tutto la madre). Prematuramente afflitto da un senso di tedio esistenziale e non esente da tendenze suicide pre/neonatali di fronte alla disperazione per il progettato omicidio – “nascere morti”, che ossimoro – ricorre spesso al francese e ad un lessico forbito (non origine ma eziologia, non pallida, chiaro, follia comune ma diafana, epidittico, folie à deux…felicità? Meglio citare la pakistana Valle di Swat). Tutto il padre. Non si commuove ascoltando una lirica moderna (“troppo ripiegate in se stesse, vitree e sdegnose nei confronti dell’altro”), apprezza Owen e Keats, Poggio Bracciolini e l’Umanesimo italiano, Lucrezio e l’Ulisse (che fa addormentare l’adorata genitrice, Joyce non è Omero), si esprime spesso per metafore (solida comunque la conoscenza dell’intero apparato retorico) e ha confidenza, per accorata empatia con lui, dell’aubade, del pirrichio[1], del trimetro giambico e delle più recenti acquisizioni della linguistica. Esperto di filosofia – del resto “i nascituri sono stoici imperscrutabili, Budda sommersi accettano che le lacrime siano nella natura delle cose…sunt lacrimae rerum”; Hobbes, Platone, Kant, Cartesio e Confucio tornano utili per le citazioni quotidiane – lo è altrettanto delle emergenze globali sia da un punto di vista politico (tensioni sociali, strategie belliche e progettualità imperialiste di Cina, Medio Oriente, Russia, USA e Califfato islamico) che socio-economico e tecnologico: pannelli solari, parchi eolici, abbassamento del livello dei ghiacci e crisi dei mercati non hanno segreti per lui. Pacifista convinto, ecologista (stavamo per scrivere militante), antiamericano viscerale (“un popolo irritabile di obesi, dal grilletto facile e governati da una Costituzione insondabile come il Corano”…piccolo caro), sinceramente afflitto dalla prospettiva che “nove miliardi di eroi non riescano a risparmiarsi cortesie nucleari” (squadre fatte: India/Pakistan, Israele/Iran, USA/Cina: “aggiungere liberamente altre formazioni, affluiranno i giocatori dei non-stati”), si professa tenacemente ottimista (scelta troppo facile il pessimismo, “cimiero di intellettuali di ogni latitudine”) e, tutto sommato, fiducioso nelle umane sorti e progressive[2] di un pianeta abitato da esseri ingegnosi ed infantili che devono, alla fine, scontare “il complicato dono di una coscienza” ipertrofica, per dirla con un altro strenuo estimatore di se stesso rintanato nel sottosuolo – meno accogliente, certo, del liquido grembo materno – in tempi non sospetti.

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Ian McEwan. Foto tratta da: http://www.artspecialday.com/9art/2017/06/21/ian-mcewan-scrutatore-realta/ 

Con un’intensità assoluta e devota che manderebbe in estasi Freud, il nostro ama – sempre timoroso di non essere corrisposto – la “bellissima, amorevole, assassina” madre, titolare del dolore anche fisico che lui stesso inizia ad avvertire, ormai conscio di quello interiore per il quale (benedetto Heidegger) verrà gettato nel mondo. E di lei è in grado di percepire “nel rallentamento del battito cardiaco un’incrostazione di noia a livello retinico” (per le poesie che un marito ostinatamente innamorato le recita) e nel “disagio/danneggiamento di granulociti e piastrine gli accessi di rabbia” (per l’esistenza stessa del medesimo): una sorprendente ottica narratologica la sua, confinata “in un guscio di noce, in due pollici d’avorio (perché no, quando la letteratura tutta, e l’arte, e ogni impresa umana altro non sono che puntini nell’universo del possibile, puntino esso stesso in una moltitudine di universi possibili”) che lo costringe – risvolto tecnicamente inevitabile ma poco felice – ad “uscire” anzitempo dall’utero per descrivere/commentare scene e colloqui in esterno. Non incline alla chiacchiera – “espediente da adulti (!) per scendere a patti con il tedio e la malafede – possiede, come accennavamo, un raffinato senso dell’umorismo (si leggano i passi dedicati ai rapporti intimi che “lo zio verme” impone a Trudy e “buona creanza, se non buon senso clinico, sconsiglierebbero”), senz’altro una delle cifre di questo libro spiazzante e convincente. Come (quasi) tutta l’opera di un indiscusso maestro della narrativa contemporanea.

MARCO CAMERINI

 

NOTE

[1] Invitiamo il lettore a non dare soddisfazione al futuro neonato, decisamente saccente e presuntuoso, andando a cercare sul vocabolario il significato dei due termini che riguardano strutture e metri della lirica classica e trobadorica: fate finta di nulla e tirate dritto.

[2] La citazione, come la seguente, è dell’estensore di questa recensione…tanto per non sfigurare.

 

L’autore del presente testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere a seguito di riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.

Recensione di “Cetti Curfino” di Massimo Maugeri a cura di Gabriella Maggio

Recensione di Gabriella Maggio

Andrea Coriano, protagonista del romanzo, è un trentenne giornalista free-lance che stenta ad  affermarsi perché ancora non ha trovato la storia da raccontare. Intanto vivacchia in casa della zia Miriam che l’ha amorevolmente accolto sin dalla nascita, assumendo il ruolo della  madre morta di parto. La  sua vita  scorre  monotona, scandita dalle modalità di gestione della casa amorevolmente imposte dalla zia, che, sebbene accettate, lo avviliscono, finché non s’imbatte nella storia a lungo cercata, quella di Cetti Curfino, rea confessa di un grave delitto, adesso in carcere.

La storia ha avuto  una immediata eco mediatica, ma poi è stata dimenticata. Andrea decide di incontrare la donna in carcere, di parlare con lei per portare alla luce quello che ancora non è stato rivelato, l’elemento di mistero, l’enigma  che si nasconde dietro al crimine.

download.jpgDal primo incontro Andrea resta affascinato non soltanto dalla bellezza sfolgorante della quarantenne, ma dall’incanto ferale che emana. Cetti potrebbe essere una donna fatale, ma le manca la consapevole perversione del ruolo, perché, al contrario, lei cerca di sminuire e occultare la sua bellezza, di cui conosce il pericolo. Ha fatto esperienza  di quanto sia difficile mantenersi salda su onesti  principi. Cetti, facciamo le cose regolari, Cetti, che chi non le  fa poi la piglia in quel posto, le diceva sempre il marito prima che morisse. Ma non è facile per Andrea portare avanti il progetto del libro anche se condiviso da Cetti, perché La donna è il negro del mondo….è la schiava degli schiavi dice J. Lennon in Woman is the Nigger of the world, canzone  citata nell’esergo del libro e  indicata dall’autore come colonna sonora del romanzo.

La narrazione scorre fluida lungo i trentasette capitoli che alternano la  lingua italiana di Andrea e zia Miriam e altri personaggi al dialetto siciliano, che aspira a un’italianizzazione precaria e scorretta, usato da Cetti nel  suo inconsapevole percorso di autoanalisi nelle lettere scritte al  commissario Ramotta per racconta tutta la sua storia. Cetti si fa scudo delle sue esperienze per migliorarsi, per uscire  al più presto dal carcere, attuando una condotta irreprensibile, per imparare ad esprimersi correttamente con la speranza di riabbracciare il figlio e costruirsi una vita migliore. In questa sua scelta è autentica e determinata.

La storia di Cetti, che come s’intuisce da un solo indizio è ambientata a Catania, viene contestualizzata in temi di forte attualità, quali la condizione femminile, la situazione carceraria, la difficoltà dei giovani a trovare una condizione economica adeguata, la delinquenza, il lavoro in nero. La lotta della donna per trovare uno spazio vitale in una società maschilista appare ancora lontana dal successo, ma è guardata con interesse dallo scrittore che con chiarezza esprime il suo sostegno.

La storia di Cetti  ha già attratto Maugeri che l’ha raccontata in “Ratpus”, pubblicato nella raccolta Viaggio all’alba del millennio edita da Perdisa; ma la ripresa in forma di romanzo matura quando il regista Manuel Giliberti traspone il testo in un monologo interpretato da Carmelinda Gentile. Si può cogliere un una linea di continuità del romanzo Cetti Curfino con la precedente prova narrativa di Maugeri Trinacria Park, edita da e/o nel 2013 nella tema siciliano, lì affrontato in maniera esplicita dal punto di vista dell’immobilismo dell’isola: E vui, biddizza mia, durmiti ancora, canzone siciliana che fa da colonna sonora alla narrazione; mentre in Cetti Curfino la Sicilia appare in maniera più sfumata, non soltanto per la focalizzazione su un  personaggio, ma per una volontà di dare alla storia un significato più ampio in cui ogni lettore può riconoscersi.

GABRIELLA MAGGIO

 

L’autrice della recensione acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere a seguito di riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.

“Declinano l’amore i racconti (straordinari) di Jeffrey Eugenides, a cura di Marco Camerini

A cura di Marco Camerini  

Che Eugenides sia uno degli scrittori più schivi, originali e talentuosi degli ultimi vent’anni è confermato dalla recente silloge dei racconti Una cosa sull’amore (Mondadori 2018, copertina felice), imperdibile per ben “cinque ragioni” secondo quanto ha scritto in un appassionato, bellissimo intervento su “La lettura” del Corriere Alessandro Piperno, ammiratore confesso del suo “talento mimetico che sfiora l’orecchio assoluto”.[1]

41+vZwX0JCL._SX323_BO1,204,203,200_.jpgNel deserto rovinoso di un presente segnato da solitudine, incomprensioni, sconfitte, fra gli spettri opprimenti di una vecchiaia mai ammessa né accettata, naufragi matrimoniali drammaticamente (o penosamente) negati, rimpianti e rinunce, ciniche rivalse e frustranti derive economiche, alienati e lancinanti smarrimenti, è certamente il “tema ossessivo dell’inadeguatezza”[2] il legame che unisce tutte le storie, ma anche, ci sembra, la tenace e irrinunciabile fiducia in un sentimento che salva e redime dall’angoscia, se non dal fallimento più o meno annunciato. È l’amicizia senile tutta femminile di Della e Cathy, insoddisfatte Brontolone[3] in eterno sovrappeso, anticonformiste e umorali che perdono mariti, figli “pallidi, sinistri, circospetti come gli assassini di un film di fantascienza” ma non se stesse, risolute – proprio nel momento in cui la più anziana precipita nel gorgo invalidante di una “violenta e aggressiva” demenza – a disseppellire “l’ascia” per uccidere insieme le avversità. O l’attrazione per l’assoluto flusso energetico dell’Universo (om cosmico, musica delle sfere, perpetua capacità di rigenerazione terrestre) del protagonista di Posta aerea il quale, alla ricerca di un’identità perduta nello scialo della propria esistenza, la ritrova nel panico, trasfigurante abbraccio di una fascinosa natura esotica (Bangkok, Bangalore, Calcutta) alla percezione di “un trillo”, sorta di pirandelliano “fischio del treno” che lo proietta al di là di ogni coordinata familiare, sociale, umana. È l’insopprimibile istinto materno di Tomasina (Siringa per ungere la carne), 40 anni 1 mese e 1 giorno, sontuosa dimora in Hudson Street, lavoro appagante, disposta –  fallito “il piano A” (“improbabile armata di adulteri e perdenti, gli uomini”) – a ripiegare sul meno romantico, più solitario e triste ma anche coraggioso e creativo piano B: un figlio “senza lui”, o meglio “con tutti i lui” della sua disincantata vita di rimorsi (comunque l’amore si impone grazie a chi innamorato lo è veramente, l’ex Wally Mars, donatore mai domo e figura vincente in uno spiazzante, struggente finale) o la passione musicale di Rodney (Musica barocca), jocyana “piccola nube”, razionale e un po’ rigido maestro di clavicordo (“bordura dorata e giardino geometrico dipinto, famiglia del clavicembalo”) travolto – dopo una fugace bohème giovanile vissuta fra Berlino, Heidelberg, Kurt Weil e gli amati Bach “père et fils” – dalla squallida marea di polizze, conti in rosso, rate inevase, “cifre atroci sulla carta di credito”, (in)adempienze domestiche avvilenti di un quotidianità prosaica e assai poco artistica. Sono la nostalgia di un’America democratica, rurale, libertaria e tollerante di Kendall (Great experiment), poeta fallito non per incapacità, “intelligente ma non ricco”, costretto a fare i conti con la deriva tecnologica di una plutocrazia fondata su software personalizzati, malversazioni e “delitti fiscali di broker ludopatici” nella quale la frode bisogna saperla pensare e perpetrare alla grande, non con remore letterarie (altrimenti meglio restarsene in uno squallido loft dove piove dal soffitto a riflettere sulla Democrazia in America di Tocqueville) e il tentativo di Charlie – architetto separato, vittima di ordinanze restrittive più o meno d’urgenza che si aggira patetico intorno alla vecchia casa “a distanza di 50 piedi” – di riaccendere “il tizzone” di un rapporto nel quale nessuno dei due deve Trova(re) il cattivo, scappare o inseguire l’altro, ma accoglierlo e dire “eccomi”. Facile come “colorare un arcobaleno”, perché una “cosa” nell’amore che tiene unite le coppie “non sono i soldi, i figli o una visione condivisa della vita, ma avere cura uno dell’altra. Sono le piccole gentilezze reciproche, chiedere come è andata la giornata fingendo che ti interessi”. Soprattutto, alla fine, è l’intima necessità di sentirsi vivi e di giocarla comunque la partita con la disperazione: può essere sufficiente un pasto miracoloso a base di carciofi per metterla in fuga, come accade in Giardini volubili, il racconto forse più riuscito della raccolta. Al lettore il piacere di scoprirlo, come anche di fare la conoscenza del prof. Luce, endocrinologo/anglo-irlandese/episcopale non praticante/amante di Bruegel, strepitoso protagonista di un’ironica  proto-versione del mitico Middlesex.

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Una foto dell’autore, Jeffrey Eugenides, tratta dalla rete. – Fonte: https://www.whiting.org/awards/winners/jeffrey-eugenides

Lo stile di Eugenides, per citare ancora Piperno, “è un manufatto superbamente rifinito […] le frasi sono tornite al punto da non mostrare alcuna asperità. Dovendo fare due nomi: Nabokov e Salinger”.[4] Necessario, essenziale, strutturato sui dialoghi, privo di lirismo e per lo più nominale (minime le sequenze aggettivali), è capace di delineare fulminanti, efficaci ritratti come la Prokrti di Denuncia tempestiva (squarci di vita indiana ricordano J. Lahiri)[5] e solo in quest’ultimo racconto (il più recente insieme a Le brontolone, 2017) cede alla (troppo) diffusa tendenza della narrativa contemporanea di inserire brani non letterari, mail ed sms in caratteri tipografici differenti. Semmai andrà sottolineata l’intrigante “struttura aperta” delle storie, con splendidi finali che suggeriscono, non chiudendola, un’evoluzione extra-testuale della vicenda per lo più angosciosa e non consolatoria (cfr. Multiproprietà), insieme alla magistrale capacità dello scrittore di ricorrere – anche se non è certo simbolico il suo modello di scrittura – ad oggetti epifanici catalizzatori del significato più profondo del testo: l’ascia e i carciofi citati, guanti spaiati, un giocattolo, preziose statuette di giada e orwelliani…topi.

 MARCO CAMERINI

NOTE:

[1] Cinque ottime ragioni per leggere Jeffrey Eugenides, “La lettura”, 26 agosto 2018. Brevissima recensione nella recensione: l’articolo citato conferma (non che ve ne fosse bisogno) l’autorevolezza di Piperno critico e saggista militante. Raffinato, acuto e, insieme, piacevole alla lettura, mai pedante o accademico. Raro.

[2] A. PIPERNO, art. cit.

[3] Vengono riportati in grassetto i titoli dei singoli racconti.

[4] A. PIPERNO, ivi.

[5] “leggins neri, scarponcini Timberland, calzettoni viola da escursionista, volto da miniatura indù, occhi di un colore sorprendente che poteva esistere solo in un dipinto in cui l’artista avesse mescolato verde, blu e giallo indiscriminatamente che la facevano assomigliare a una ballerina gopi o a una santa bambina venerata dalle masse”

 

L’autore della recensione acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere a seguito di riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.

Esce “I figli di Asac. La profezia delle tre scimmie” dell’autrice Serena Maffia

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Uscirà nei prossimi giorni per i tipi di Historica Edizioni di Roma il nuovo libro della nota poetessa e scrittrice Serena Maffia, “I figli di Asac. La profezia delle tre scimmie”.

LA STORIA

Quattro generazioni si riuniscono nella casa in cui vivono la bisnonna Mimma con la figlia Rose e il marito Dane. Ad arrivare sono le loro tre figlie: Stella, Lana (con il marito Claud) e Faith (con l’amica belga Aline). La miscela dei loro caratteri esplode in discussioni pretestuose e divertenti che ravvivano il non semplice menage familiare, quando i tre piccoli scoprono di avere uno speciale potere, grazie al quale possono sentire e vedere un piccolo fantasma che si è smarrito nel mondo dei vivi. Dopo l’iniziale spavento, i “figli della casa”, con la complicità di Stella e del fantasma della Mimma (morta a seguito di un incidente domestico), si impegnano per farlo tornare nella luce.
Scoprono così che il bambino-fantasma altri non è che…

 

L’AUTRICE

Serena Maffia è giornalista, autrice, sceneggiatrice. Ha lavorato per la Medusa Film RTIMediaset e per la RAI. Oltre a racconti pubblicati in varie miscellanee, tra le sue pubblicazioni si ricordano i romanzi “Meglio grande” (2012), “Le passioni di Ginevra” (2010), “Sveva va veloce” (2009); i racconti lunghi “Edith Piaf, la leggenda dell’amore” (Roma 2013), “Giangurgolo” ( 2011); le sillogi di poesia “Roma mi somiglia” (2017), “Blu” (2016), “Le carte volano” (2011), “Sradicherei l’albero intero” (2006), “Il ragazzo di vetro” (2005); e i drammi “Adele Alba” (2014), “Ostinato e contrario su Fabrizio De Andrè” (2012), “Peace frog su Jim Morrison” (2011), “Processo a Jim Morrison” (2009).

Dario Fo ha detto di lei: “C’è chi la conosce come scrittrice, chi come pittrice, chi come poetessa, chi come regista, chi come drammaturga o sceneggiatrice e chi come comunicatrice o docente universitaria. Ma Serena Maffia è una artista, niente di più”.

Intervista a Cinzia Perrone, autrice del romanzo familiare “L’inatteso”

Si propone a continuazione l’intervista rilasciata dalla poetessa e scrittrice partenopea da vari anni attiva a Jesi, Cinzia Perrone, che nel 2017 per i tipi di Marco Del Bucchia ha pubblicato il romanzo breve L’inatteso. Su tale opera ho avuto modo di scrivere una recensione che è possibile leggere cliccando qui.

 

INTERVISTA A CINZIA PERRONE

A CURA DI LORENZO SPURIO

 

LS: Da che cosa nasce la storia di questo romanzo? Ci sono elementi in qualche modo autobiografici?  

CP: Ho iniziato a scrivere questo romanzo concependolo come un racconto corale di più personaggi che attraversasse molti anni della nostra storia, per far rivivere attraverso la storia di questa famiglia e dei suoi membri un po’ tutte le problematiche che hanno interessato il nostro Paese. Per quanto riguarda l’aspetto propriamente emotivo, questo mio lavoro è nato come omaggio al concetto di famiglia in generale e alla mia in particolare, in quanto alcune storie dei protagonisti sono liberamente ispirate alle vicissitudini di alcuni miei parenti stretti o meno.

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L’autrice del romanzo, Cinzia Perrone

 

LS: Perché hai deciso di esaminare l’intera storia di una famiglia nel corso di tre generazioni?

CP: Come ho detto prima, volendo omaggiare la famiglia come punto fondamentale nella nostra società, è in essa che più si possono cogliere i più intimi aspetti delle problematiche personali e sociali che possono investire ogni individuo. L’ho vista attraverso lo scorrere degli anni, proprio per mettere in evidenza quanto conti la società del tempo per quei personaggi, nonché la differenza generazionale.

 

LS: Con quale personaggio e perché simpatizzi di più?

CP: Credo di aver posto l’accento su due personaggi in particolare dell’intero romanzo, perché rappresentano quell’indomita lotta contro il destino che alberga in ogni essere umano; sono Antonio, il primo a comparire sulla scena, e Antonia, l’ultima discendente omonima che chiude la narrazione. Entrambi rappresentano la fenice che risorge dalle sue ceneri.

 

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LS: Nel corso della narrazione fai uso di tecniche stilistiche molto diffuse quali l’ellissi, l’accelerazione, analessi (retrospezione) e prolessi. In quest’ultimo caso la prolessi consente di anticipare qualcosa, pur in maniera velata o allusa, che di lì a poco prenderà piede. Quali tra queste figure consideri più efficace nell’atto della lettura del libro per accentuare interesse verso il narrato?

CP: Sono tutte tecniche importanti che ogni autore usa, ed ognuna ha la sua funzione narrativa utile per uno specifico momento. Le adopero quasi tutte al momento opportuno per trarmi anche d’impaccio, come nel caso dell’ellissi o dell’accelerazione. L’analessi, detta anche all’anglosassone flash-back, è utile sia all’autore che al lettore, magari per ragguagliarlo su aspetti ed eventi passati di alcuni personaggi, necessari al proseguimento della narrazione. Forse la tecnica più accattivante per creare aspettative e curiosità nel lettore, in modo tale che cresca in lui la voglia di proseguire il racconto, è la prolessi; quel dare una piccola anticipazione può essere assimilato a quel che fa un buon trailer cinematografico.

 

LS: I contenuti del volume, a livello sociale, sono molti e permettono di affrontare varie tematiche che coinvolgono il nostro mondo attuale. Qual è il messaggio principale del libro che hai inteso veicolare con questa storia

CP: Le tematiche sociali affrontate nel romanzo sono davvero tante, per dare al libro un ampio respiro e al lettore un quadro di insieme sui vari aspetti della vita; ma essi ruotano intorno ad un perno principale, che come anticipato dal titolo del libro, è quello dell’imprevedibilità della vita che spesso sconvolge i nostri piani. Da qui nasce anche l’analisi di quelle che possono essere le più svariate reazioni umane a questi sconvolgimenti.

 

LS: Narrazioni come queste, tese a delineare le fortune e gli accadimenti meno felici di un ceppo familiare col trascorrere del tempo, che potremmo definire “saghe familiari”, si prestano a una prosecuzione della storia per andare a tratteggiare gli esponenti più giovani o, al contrario, riprendere più da vicino un dato personaggio e dedicargli una narrazione tutta a parte, più approfondita e circoscritta alla sua figura. Personaggi come Francesco o il fratello Vittorio morto in guerra potrebbero spalancare la possibilità a una trattazione delle loro vicende. Che cosa ne pensi di questo? È qualcosa che può incontrare il tuo interesse o navighi su altri progetti di scrittura?

CP: Quando ho terminato il romanzo non nascondo di aver pensato ad una eventualità del genere, vista più come un proseguimento della vita dei due protagonisti finali, che nel finale del libro si lanciano verso un nuovo inizio; il racconto in questo modo dei due fratelli, in tempi attuali, avrebbe coronato idealmente il messaggio di lotta e speranza già presente nel romanzo. Ma per il momento ho accantonato la cosa, e oltre ad aver appena terminato una raccolta di racconti e poesie, mi sto dedicando a un nuovo romanzo, che potrei definire di formazione; infatti è la storia di un ragazzo che cresce tra disagi, sogni, risentimenti ma sempre con tanto ottimismo dentro se stesso. 

 

Jesi, 10-06-2018

  

“Una grazia di cui disfarsi. Antonia Pozzi: il dono della vita alla parole” di Elisa Ruotolo. Recensione di Lorenzo Spurio

Elisa Ruotolo, Una grazia di cui disfarsi. Antonia Pozzi: il dono della vita alla parole, Illustrazioni di Pia Valentinis, rueBallu, Palermo, 2018.

Recensione di Lorenzo Spurio

Sorrido senza in fondo goderne.

Pratico ed essenziale il volume di Elisa Ruotolo recentemente pubblicato da rueBallu di Palermo sull’ampia e pluri-evocata figura della poetessa lombarda Antonia Pozzi (1912-1938). Nel libro, curato nei dettagli grafici e compositivi in maniera pregevole e stampato su Materica (carta naturale realizzata con fibre di cotone riciclate di pura cellulosa provenienti dalla gestione responsabile delle foreste), la scrittrice ci propone un percorso intimo e amicale con una delle più grande poetesse del secolo scorso.

Il piccolo compendio finale del volume è dedicato a raccogliere una manciata di poesie di Antonia Pozzi tra cui la stupefacente lirica “Canto della mia nudità”: un canto soave di svelamento e di denuncia della propria disagiata condizione esistenziale. In essa, infatti, la vulnerabile poetessa di Pasturo (LC), annotava: “pallida è la carne mia/ […]/ E un giorno nuda, sola,/ stesa supina sotto la troppa terra,/ starò, quando la morte avrà chiamato”. La Ruotolo affida al lettore curioso e insaziabile l’intera vicenda personale della Pozzi, dell’Antonia in quanto donna, figlia e amante, ben più che quale poetessa sebbene, com’è noto, sia piuttosto impossibile adoperarsi a un’operazione di scissione tra le due componenti.

8564331_3129674.jpgLa caratteristica di questo volume è quella di accompagnare il lettore in un percorso umano, che è appunto quello della Pozzi, con precisione e grande rispetto delle vicende altrui. Gli apparati grafici e iconici che sono stati impiegati (opera dell’artista udinese Pia Valentinis) si delineano come pregnanti e insostituibili in un progetto che risulta essere lodevole – come già accennato – non solo per i contenuti – densi e nevralgici – ma per la cura editoriale, degli inserti, dei disegni, della composizione dei capitoli e di ogni minuzia che è studiata ad arte per compendiare al meglio un progetto che è vivo, multidisciplinare, interattivo e, pertanto, assai coinvolgente.

Non un saggio accademico, neppure un approfondimento monografico sulla grande penna lombarda che nel maledetto anno delle leggi razziali (1938) decise di trapassare la dimensione reale, piuttosto un pamphlet colorato e avvincente, un itinerario curioso e trattato con sapienza e profonda conoscenza della materia, reso, però, in forma appetibile, d’ampio approvvigionamento in un pubblico che non è di nicchia, ma trasversale, compreso quello giovanissimo che potrà trovare particolare giovamento anche dai notevoli inserti grafici.

S’inizia il percorso sulle pagine tinte da una cromia decisa e pulsante, quella dell’arancione, sebbene sia piuttosto vicino anche a una possibile sfumatura del cachi. Sono le pagine contrassegnate dal titolo “Tu con me, su questa terra nuda”. Sono pagine incipitarie, di fondamentale significazione per l’autrice del volume, che dettano le motivazioni-fondamenta di un’operazione editoriale di questo tipo. La Ruotolo, infatti, ci narra della sua conoscenza con la poetessa, di come avvenne, e del grande potere della parola della Pozzi che, da subito, l’affascinò notevolmente. Da lì nacque la sua esigenza di approfondire “La vicenda umana di questa straordinaria poetessa, che aveva consumato rapidamente i suoi anni agli inizi del Novecento”. Bella la definizione che la Ruotolo dà di questo tempo breve della Pozzi da lei “consumato rapidamente”: con impeto e desiderio, con voluttà e voglia d’amore che poi, dinanzi ai limiti imposti dai tempi e dalla morale, trovarono una fine diversa, impetuosa ed eclatante, definitiva e struggente, eppure voluta e creata. Difatti la Ruotolo non manca di parlare del grande amore per la vita tipico della Pozzi: “Antonia amò come di rado si riesce nella vita, fino a donarsi completamente, a svuotarsi, a sfinirsi”. La sua morte viene così richiamata, in queste prime pagine, quale atto ultimo di un processo fisiologico dettato dalla consunzione, dalla dissipazione del proprio animo interiore. Quello che oggi definiamo ‘suicidio’, parlando della sua persona, in realtà non sarebbe che il punto di limite della fine di quella vita felice, vissuta nella pienezza della totalità e del logorio per l’impossibilità di poterla continuare nel tempo. La consumazione di sé, che sembra ben diversa da una vera e propria fuga dal mondo e dunque ad un atto sovversivo portato alle estreme conseguenze, è più un gesto altruistico dettato dalla consapevolezza e dalla lucidità dinanzi all’incapacità di una prosecuzione nel reale.

La Ruotolo, con questo testo, ci consente di percepire quella stessa “angoscia del riporsi interni nelle mani altrui” che lei stessa ha sperimentato leggendo e approfondendo il percorso umano della Pozzi. Risulta importante anche sottolineare come la scrittrice abbia messo in luce, con impareggiabile resa e grande apertura, quanto la Pozzi fosse una donna viva e ardente (“non fu mai capace di tiepidezza, ma sempre e solo d’incendio”) abbattendo quella che può essere una facile e comune convinzione nel vedere nella poetessa di Pasturo una donna sottomessa e ritirata, sfiduciata e inetta, fredda, disinteressata alla vita. Le sue poche foto che circolano ce la trasmettono come un’anima trafitta da un disagio difficile da spiegare, dall’espressione mesta o preoccupata e, comunque, raramente è ritratta in uno stato di vera pace o equilibrio. La Ruotolo tiene a sottolineare in questo volume anche quegli aspetti che, nel trascorso di anni tesi a studiare la sua figura di intellettuale, hanno marcato molto sulla sua insofferenza, solitudine e istinti di morte. La scrittrice, infatti, ce la descrive fortemente attaccata alla vita, smaniosa di diventare madre, affettuosa con gli amici (meno con la famiglia, con eccezione della nonna), passionale e focosa, in cerca di quella libertà che le avrebbe concesso di vivere nella pienezza dei suoi desideri. “Antonia amava vivere, ma il suo era un amore straziante, che non s’adatta ai compromessi, né s’accontenta delle briciole”, scrive la Ruotolo in queste primissime pagine. In altre parole: un amore impossibile, di cui ha consumato gli esordi, vissuto platonicamente, agognato e nutrito privatamente, sino a che – dinanzi agli impedimenti irremovibili – s’è degradato lentamente, privandola di quell’energia autentica che le era propria e che l’aveva caratterizzata in quanto donna aperta, affettuosa, capace di credere in un rapporto d’amore.

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Uno scatto di Antonia Pozzi alpinista

Il capitolo che segue, “Io, Antonia. Il tempo bambino”, è ben speso a fornire il contesto generazionale nel quale la Pozzi è collocata con particolare attenzione alla sua fase infantile nella quale sperimenta forme di scollamento e solitudine (che poi la fagociterà) a partire da un sentimento di nutrita diversità. La scuola, con insegnanti suore, sembra essere il luogo che sente maggiormente in sintonia, ed è anche piuttosto brava, ma anche lì non disdegna quell’innata solitudine che la fa “una cosa di nessuno”. L’istituto scolastico è percepito dalla Pozzi e ricordato dalla Ruotolo come positivo non in funzione di un ampliamento di conoscenze con persone terze e dunque in termini sociali, amicali ma semplicemente perché è il luogo che le permette di raggiungere ciò che cerca: la conoscenza. Per tutto il suo breve percorso di vita, infatti, la Pozzi sarà una grande studiosa di letteratura e non solo, arrivando a intrattenere importanti relazioni con noti esponenti della letteratura dell’epoca, quale il critico Dino Formaggio (1914-2008) o il poeta Vittorio Sereni (1913-1983). Già da ragazza la Pozzi sente che lo studio e, più in generale, la conoscenza sono ingredienti insostituibili, mezzi dei quali, seppur in dose e forme diverse, non potrà più farne a meno.

Segue così il capitolo che la Ruotolo ha voluto indicare in maniera netta e distintiva “Gli anni dell’obbedienza”; tale periodo fa riferimento a una trattazione in cui la scrittrice, calata negli occhi e nella persona di Antonia, descrive se stessa soprattutto in ambito familiare quale una presenza che “non fac[eva] rumore”. Ricorda così della dolcezza controllata della madre e della severità del padre, uomo mite ma austero, deciso e padrone, finanche insensibile: “Ogni suo sguardo mira a giudicare le mie mancanze”. Eppure, circondata da un contesto non così partecipe e costruttore dell’entusiasmo della giovane, che scopre la sua più grande amica, la poesia: “Le parole mi hanno vestita e poi abitata”. Paradossalmente sono le parole, che non hanno una vita propria e che sono creazione di qualcuno, che dànno alla Pozzi motivo, forma, ragione e senso alla sua vita. Un po’ come quei versi che Neruda diceva che lo toccavano al punto tale che era la poesia che lo chiamava, la Pozzi via la Ruotolo è un corpo nudo, un’entità vuota, un campo d’assenza che trova identità e significazione solo con l’atto di copertura, di vestizione, offerto dalla poesia. Abiti che sono versi, tessuti che sono parole allineate, copertura che è l’anima arricchita: “Ogni parola aggiungeva senso, sottraeva spazio al niente e lo riempiva”. La poesia per la Pozzi non è erudizione o sofisticazione retorica ma richiamo e necessità: forma di scoperta di sé e completamento, distruzione di quella penuria devastante, arricchimento e costruzione interiore e, al contempo, dialogo con la propria anima che si scorge, riaffiora, e ci scoperchia chi siamo. Ecco perché il pensiero che la Ruotolo pone, ovvero l’ossessione di Antonia che qualcuno la obblighi a smettere di scrivere, si configura come uno svilimento personale, un denudamento che la renderebbe vuota, debole, priva di quel senso intimo che ha scoperto nell’essenza della scrittura. “La poesia adesso mi guarda e mi completa”, scrive la Ruotolo poco dopo, a sottolineare ancora una volta quanto la parola, da entità vacua e astratta, possa avere una grande capacità materica da compenetrare, completare, vanificare quelle assenze, cucire quelle fenditure che fanno il corpo leso, indistinto e lacunoso.

Seguono le pagine dedicate ad Antonio Maria Cervi, l’insegnante del quale la Pozzi s’innamorò e dedicò varie poesie; è il tempo in cui si sente ormai lontana dall’infanzia di Pasturo, sebbene serbi il ricordo di ogni dettaglio dell’ambiente (“potrei dire quante foglie ha perduto il tiglio”) e sboccia quell’amore folgorante verso il professore, forse l’unico che, per citare Virginia Woolf nella sua lettera d’addio indirizza al marito Leonard, avrebbe potuto salvarla. Difatti il professore è la valvola di una sorta di rinascita in Antonia, la svolta luminosa che sembra riportarla alla leggerezza e al colore dei tempi andati; se in casa si respira pesantezza, verticismo e dunque inadeguatezza, col professore, col semplice avvicinamento alla sua persona o al colloquiare con lui, in Antonia si rafforza la speranza e nasce l’amore verso l’altro. È l’inizio di un cambiamento che, prima era stato cercato e voluto e ora avviene spontaneo, nella sua forma più bella, quella di un amore viscerale, inspiegabile eppure necessario, quel sentimento vorticoso e incircoscrivibile che le fa maturare l’idea di un nuovo cominciamento alla vita, di una primavera inaspettata. Con Cervi, la Pozzi rinasce e ritrova se stessa, l’amore e la poesia sono balsami a disagi e solitudini pesanti che ora sembrano relegati a un tempo lontano.

La sezione successiva, anticipata da una colorazione carta di zucchero, ha come tematica “La separazione” ed è, se vogliamo, l’esordio della nuova decadenza emozionale di Antonia. La Pozzi, via la Ruotolo, dice “durò un anno appena e andasti via da me”. Siamo nella presa di coscienza di un rapporto che è finito e nel clima di profonda nostalgia e rimpianto per i pochi bei momenti trascorsi insieme. Qualcosa è accaduto e le condizioni preesistenti, quelle che avevano visto il riaccendersi del desiderio alla vita di Antonia, sono venute meno: la loro relazione è stata bandita e tra di loro s’è imposta una distanza che non sarà più coperta. La figura autoritaria del padre di Antonia, con amicizie significative con esponenti del Regime, ha relazione con il trasferimento lavorativo del prof. Cervi? Non lo sappiamo con indubbia sicurezza ma, vista la sua posizione privilegiata, è possibile avanzare un’idea di questo tenore. La conclusione, comunque, è amara per la giovane Antonia: l’unica blanda concessione sarà la possibilità di conservare la relazione con l’insegnante a mezzo epistolare. “La vita prese a debordare da me, incapace com’ero d’abitare lo spazio breve della mia campana di vetro”.

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Antonia Pozzi

Ripiomba così il tempo della solitudine, un’età amara priva di un varco di speranza che invece può essere configurata nei tempi dell’attesa. Antonia non attende né spera in un ritorno del prof. Cervi e in un loro congiungimento perché sa che ciò non potrà avvenire. Avendo elaborato questa impossibilità d’amore, questa lontananza che elude ciascun tipo di rapporto, la Pozzi scriverà: “Io ti porto con me dovunque io vada”. Si tratta di un autoconvincimento importante che ha il sapore amarognolo della sconfitta, il loro amore da reale passa a platonico per consumarsi poi in un niente dopo che avrà elaborato con lucidità la messa al bando dello stesso[1], in quel clima di sottomissione e divieti così naturale e caro all’augusto genitore, che tutto dispone come crede illudendosi che anche il sentimento possa essere delimitato da volontà e intransigenze personali. Vacilla anche l’affetto che ha sempre nutrito per i genitori e che ha dato per naturale e scontato: “So bene di amarvi, ma so per certo che l’amore non dovrebbe nutrirsi di paure e soggezioni; dovrebbe essere fiducia e confidenza, e io non ne ho mai avute al vostro pensiero” scrive la Ruotolo ricalcando fedelmente l’oppressione e la riluttanza della Pozzi dinanzi alla famiglia, in particolar modo il padre.

Ecco che nelle parti narrative che seguono la Pozzi via la Ruotolo non manca di esprimere il suo senso d’inadeguatezza al mondo familiare, la sua nullità, la sua insofferenza dovuta alla lontananza coatta dal suo amante che comincia a vagheggiare immagini di una precoce dipartita: “Sono ossessionata dal senso della fine e da questa emorragia di ore che mi vuole vecchia anzitempo”.

La speranza della nuova relazione con Dino Formaggio, pure osteggiata dal padre della Pozzi, produrrà un episodio grossomodo analogo rispetto a quello vissuto dalla ragazza con l’insegnante Antonio Maria Cervi e contemporaneamente s’inasprisce l’opposizione della donna nei confronti dello spadroneggiante fascismo, fautore di drammi e protagonista di lì a poco di una ecatombe paurosa.

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Ci approssimiamo così alla stazione ultima di questa laica via-crucis, cammino di un sacrificio completo di Antonia Pozzi posta in un contesto socio-familiare vetusto e bigotto, destrorso e pieno di pregiudizi che in breve tempo l’hanno fatta sfiorire. Il riferimento al cammino cristologico della Passione è significativo e ricalcato dalla stessa Ruotolo che, tramite la Pozzi, dice “Ormai non conto più i tagli e so cosa vuol dire essere crocifissi in questa vita”. Ed è così, conscia che non è più in grado di sostenere tutto ciò che accade intorno a lei che esce di casa, abbandonando quelle “stanze nude in cui ancora si dorme” dileguandosi da questo “tempo breve” a lei concesso. A testimonianza del suo percorso lascerà scritti e poesie nei cassetti della sua camera ma, ancor più spavaldamente, il padre deciderà di distruggerne in grande quantità o di modificarli a suo modo; quelle “parole tenute sotto il bavaglio” di cui parla la Ruotolo in queste pagine ultime, di commiato di Antonia, che ha già ben in mente il volo che si appresta a compiere. Ultimo perché irreversibile. L’ultima chiamata è stata lanciata, ma non è un appello, forse ha più a che vedere con una sfida o una condanna.

“Sono stanca di pagare con l’obbedienza una felicità che non arriva. Stanca di questo disagio d’avere ciò per cui gli altri mi dicono fortunata e che mi pesa addosso come una lapide. Stanca per tutto l’amore che ho dato. Adesso sì, il cuore può sostare. […] E mentre la Nena[2] guarda altrove, anima mia, da questo fosso in cui il cielo s’è fatto lontano, io ti lascio andare”.

Lorenzo Spurio

Jesi, 10-05-2018

 

NOTE

[1] Poco dopo la Pozzi, via la Ruotolo, scrive “Possibile mai vivere queste due vite senza impazzire, o morire?”

[2] Si tratta della nonna di Antonia Pozzi, la persona della famiglia a lei più cara in assoluto alla quale la lega ore di spensieratezza e giochi verbali.

“Tre donne. Una storia d’amore e disamore” di Dacia Maraini, recensione di Gabriella Maggio

di Gabriella Maggio 

9788817096966_0_0_0_75.jpgTre donne, Gesuina la madre, Maria la figlia, Lori la nipote, vivono nella stessa casa, ma ciascuna chiusa nei propri desideri e insoddisfazioni. La madre, già attrice di teatro ma ora infermiera occasionale per vivere, insegue con apparente leggerezza il gioco dell’amore non ostante i sessant’anni. Maria regge la casa e provvede ai bisogni della famiglia con un intenso lavoro di traduttrice dal francese. Lori è una ragazzina temeraria, una diciassettenne alla ricerca di una vita autonoma, studentessa svogliata, impegnata a proteggere i suoi pensieri intimi dalla curiosità della nonna.  La storia ha come centro l’amore nelle sue varie vicende ed è raccontata attraverso il  diario di Lori, le registrazioni di Gesuina e  le lettere che Maria scrive a François,  un fidanzato bello e misterioso che vive in Francia e che lei incontra soltanto nei periodi di vacanza. La quotidianità di queste tre donne, che talvolta stride per la contiguità degli spazi, viene interrotta dall’arrivo di François nel periodo natalizio. Da allora niente sarà più come prima. Il romanzo prende una piega drammatica che farà crescere sia l’attempata Gesuina che l’irruenta Lori attraverso l’esperienza della cura di Maria di cui diventano madri, assumendone consapevolmente il ruolo dopo una ininterrotta esperienza filiale. Dacia Maraini narra con levità, con un sorriso di profonda comprensione, la storia di tre generazioni di donne, già prima provate dalla vita con la perdita prematura del marito e del padre. Se l’amore è indubbiamente il tema principale del romanzo grande importanza ha anche la letteratura non vista come fuga dal mondo, ma come educazione ai sentimenti e alla sensibilità per orientarsi nel mondo. Gesuina, che da giovane ha interpretato Mirandolina in La locandiera di Carlo Goldoni, è rimasta fedele al suo personaggio, è intraprendente, amabile, ma attenta a non infrangere gli equilibri, anche quando spinge al massimo il suo gioco seduttivo con i corteggiatori.  Sarà lei che ricomporrà la famiglia alla fine del romanzo. Maria, madre svampita ma coltissima, traduttrice di Madame Bovary di Flaubert come Emma non vive nella realtà, ma evade scrivendo lettere all’ambiguo François, proiettandosi nei ricordi dei viaggi già fatti con lui o in quelli futuri. La realtà è goffa, come il povero Charles del romanzo, e non l’appaga. Vive come se soltanto la letteratura desse ordine e senso alle approssimazioni del mondo. Più letterariamente restia è Lori che affronta le situazioni con immediatezza e talvolta con inconsapevolezza; soltanto alla fine della storia prenderà un libro in mano e darà  tregua all’insofferenza, lasciando il grugnito rabbioso per il sorriso e il garbo. In questo mondo di donne gli uomini sono meteore, morti giovani o frutto di una attrazione momentanea. Fanno eccezione con la presenza continua  nel romanzo il fornaio Simone che propugna con tenace coerenza la sua filosofia dei baci e François che è il motore dell’azione. Intorno alla casa delle tre donne l’insensatezza della città. Gli incendi dolosi, appiccati per puro divertimento da giovani che non sanno come trascorrere le loro giornate, per un momento annuvolano la scena, ma la scrittrice attraverso le parole di Gesuina afferma la sua fede nella ragione e con leggerezza le fa  volgere lo sguardo ad altro: “ mia nipote Lori sembra rinata assieme al suo bambino”.  Ecco la vita continua e porta anche cose belle, un bambino sano e forte che ha voglia di crescere, i tulipani olandesi che attecchiscono e mettono foglie e fiori, la solidarietà e la cura degli altri. E questo conta. Le cose belle della vita sono soltanto quelle semplici ed essenziali e a queste si deve guardare con fiducia. Grande prova narrativa ed esistenziale di Dacia Maraini, fedele sempre ai suoi temi e al suo stile asciutto e ritmato sul carattere dei personaggi.

GABRIELLA MAGGIO

 

L’autore del presente testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere a seguito di riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.

“Un figlio dimenticato: Giuseppe Gerini”, articolo di Stefano Bardi

Monte San Vito è un piccolo paese dell’entroterra marchigiano con appena 6.887 abitanti. La sua economia si basa principalmente sulla produzione dell’olio e del vino. Uno dei suoi figli più illustri, sebbene sia per lo più dimenticato, è il poeta Giuseppe Gerini, qui nato nel 1895. Non si conosce il luogo e la data della sua morte; per poter avere maggiori note biografiche è necessario riferirsi alla storica Sandra Cappelletti[1] che riferisce che il poeta fu sempre legato al suo paese natale dove spesso ritornava durante i periodi estivi, per poter godere della calda affettuosità della gente ritrovandovi la sua interiore spiritualità.

Per mezzo delle ricerche condotte dalla Cappelletti emerge il “Gerini ardito” far part, nel Primo conflitto mondiale, al Reparto d’Assalto delle leggendarie “Fiamme Nere” e in seguito aderire al nascente Partito Fascista di cui – pare – condivideva le finalità. Di certo della sua vicenda umana si ricorda del suo insegnamento presso la scuola media di Fiume dove poi, da giornalista, fonderà, nel 1935, la rivista Termini. Presidente dell’Istituto di Cultura Fascista della Provincia del Carnaro, allo scoppio della Seconda guerra mondiale lo si vedrà lasciare l’incarico per arruolarsi, di nuovo, nel Reparto d’Assalto delle “Fiamme Nere”.

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Un’opera di Giuseppe Gerini

Come poeta Gerini ha lasciato numerose opere: Bonae manus (1928), Alanda (1929), In ascolto (1932), Nel mio eterno (1940), Armonie velate (1943), Motivi e canti (1944), Dentro celeste sponda (1949), Alba migliore (1952), Tre pietre (1956), Canti di Boccadasse (1959), e l’opera omnia Poesie 1928-1962 (1963).[2]

Poeta che può essere definito come vate lontano dalle canoniche ombrose tematiche della poesia italiana; le sue liriche siano colme di dolcezza, musicalità e trasparenza. I suoi sono versi dove traspaiono ansiose problematiche e interrogazioni al mistero che trasformano la sua lirica in una poesia atavica e immanente.

La sua produzione poetica ha origine dagli affetti familiari, in particolar modo esaltati ricordando con riferimento alla madre; nella poesia “Il pulcino” la figura materna viene concepita come una donna buona, generosa, spiritualmente straziata per la morte dei suoi quattro figli.[3] Madre, vista dal poeta di Monte San Vito, con gli occhi di un bambino, anzi di un pulcino, nel quale egli si riconosce e s’immedesima. La perdita materna, assieme a quella della figlia Magda[4], è ricordata nell’opera omnia Poesie 1928-1962, nell’ultima sezione dal titolo Elegie per Magda.

Accanto ai temi familiari, anche il tema della terra natia è presente nella poesia geriniana. Se ne ha conferma attraverso la poesia “Terra marchigiana”, dove la terra natale è vista dal poeta come un luogo magico in cui nascono fantastiche storie, che volano fino al firmamento celeste trasformandosi in nuvole, dalle forme familiari.[5] È nella poesia “Ridiscendo la costa” che il poeta, attraverso il potere magico della pioggia, rivede i suoi luoghi natali (campagne e campi di grano), come i luoghi dell’infanzia[6], nei quali egli stesso si sente protagonista sotto la forma di nuvola creata dal dolce suono di zufolo[7].

Famiglia, terra natia, natura, tutto questo si riscopre attraverso le poesie: “L’albero, il fiore”, “All’usignolo”, e “Il sole prigioniero”, quest’ultima dai toni futuristici come poi vedremo nel susseguo dell’analisi. Nella prima lirica questi due elementi naturali, sono concepiti dal poeta come delle creature con un’anima che, al pari degli Uomini, sono sottomesse all’amore che è gioia, bontà, fratellanza, ma anche lacrime, strazi, dipartite e, come gli Uomini, anche questi figli di Madre Natura, si godono attimi di quiete e consumano esistenze senza lacrime.[8] Nella seconda lirica c’è un forte rimando alla poesia “Il passero solitario” di Leopardi. In entrambi i poeti il meraviglioso canto degli uccelli viene messo in risalto poiché il loro canto, da sempre, conserva la sua trasparente, dolce musicalità. Niente di questo, però, è paragonabile al maestoso canto della natura costituito dal silenzio, che neanche il canto umano osa spezzare[9]. La terza e ultima lirica può essere considerata come una poesia futurista poiché, al pari della poetica marinettiana, la natura geriniana è una natura meccanica e bellica, dove i suoi uccelli d’acciaio, portatori di morte, sono dotati di un’oscura anima capaci di esaltare violenza, strazio, innocenti pianti.

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Uno scorcio di Monte San Vito, piccolo centro dell’Anconetano dove il poeta nacque.

Altri due temi sono trattati dal nostro poeta, ossia quello di Dio e quello sulla morte. Per quanto riguarda il primo, dobbiamo riferirci alle poesie “E, se ritorni” e “Siamo la tue messe”. Nel primo testo Dio è concepito dal poeta marchigiano come l’unico e vero “padrone” di tutti noi poiché, solo Egli, può comandare ogni nostra intenzione e solo Lui è capace di fermare ogni nostra mala azione.[10] Più precisamente un padre, che ci farà risorgere dopo la nostra dipartita, per vivere assieme a Lui un’eterna esistenza.[11] Nella seconda poesia, invece, gli Uomini sono paragonati a dei chicchi di grano in mano a Dio che saranno da Lui seminati per poi crescere in nuove Terre, senza che nessun vento oscuro li possa scalfire[12]. Per quanto riguarda il tema della morte o dell’eterno sonno dobbiamo prendere in considerazione la poesia “Cimiteri”. Luoghi, questi, dove l’unico linguaggio usato dal poeta è quel silenzio che a volte all’improvviso spezzato dal demoniaco canto del merlo, fa di conseguenza sanguinare il firmamento, accompagnando le anime che camminano sugli andini sacri dei cimiteri.[13]

STEFANO BARDI

 

Bibliografia di Riferimento:

Antognini Carlo, Scrittori marchigiani del Novecento, Ancona, Bagaloni Editore, 1971, 2 vol., Tomo II – Poeti.

Calcaterra Carlo, Scrittori dell’Ottocento e del primo Novecento, Torino, Società Editrice Internazionale, 1936.

Cappelletti Sandra, Monte San Vito: castello terra comune, Monte San Vito, Comune di Monte San Vito, 1999.

De Robertis Giuseppe, Scrittori del Novecento, Firenze, Le Monnier, 1958.

Gerini Giuseppe, Poesie 1928-1962, Parma, Guanda, 1963.

Spurio Lorenzo, Convivio in versi. Mappatura democratica della poesia marchigiana, Sesto Fiorentino, PoetiKanten, 2016, 2 vol., Tomo I-Poesia in lingua italiana

 

                       

[1] Sandra Cappelletti, Monte San Vito: castello terra comune, Monte San Vito, Comune di Monte San Vito, 1999, p. 312.

[2] Lorenzo Spurio, Convivio in versi Mappatura democratica della poesia marchigiana, Sesto Fiorentino, PoetiKanten, 2016, 2 vol., Tomo I-Poesia in lingua italiana, p. 435; C. Antognini, Scrittori marchigiani del Novecento, Ancona, Bagaloni Editore, 1971, 2 vol., Tomo II – Poeti, p.120.  

[3] Giuseppe Gerini, Poesie 1928-1962, Parma, Guanda, 1963, p. 25 (“[…] or che degli otto folletti / quattro ti dormono in fila nei letti / del cimitero […].”)  

[4] Ivi, pp. 155-175.

[5] Ivi, p. 13 (“[…] La seta dei miei versi, / perché tessa nell’aria / care forme.”)

[6] Ivi, pp. 8-11 (“[…] Ridiscendo la costa, / anni belli, / zufolo / a quella stria di nuvole leggere.”)

[7] Zufolo = strumento a fiato tipico della Sardegna costruito in legno, che emette il suono di un fischietto.

[8] Giuseppe Gerini, Poesie 1928-1962, Parma, Guanda, 1963, p. 37 (“Creature, senza parole / schiavi d’amore e morte / anch’essi, / colgono l’ora serena, / l’attimo senza pena, […].”) 

[9] Ivi, p. 67 (“[…] lo spirito notturno delle valli / non la gola dell’uomo ti risponde.”)

[10] Ivi, p. 111 (“[…] a Lui che tiene  il mondo, tiene tutto, / regola il ritmo delle vene ai polsi: / regola e ferma […].”)

[11] Ibidem (“[…] Sarà per sempre tuo penso, / quanto ne avrai: e ciò che è tutto. / Si, tutto. Veramente.”)

[12] Ivi, p. 112 (“[….] E quali, lo sai tu che ci raccogli / e ci riposi. Siamo la tua messe, / Signore. E di noi / forse seminerai tutt’altri campi / al d là degli spazii oltre il tempo / per fioriture nuove e senza morte.”)

[13] Ivi, p. 147 (“[…] Segui le nere spole / che suonando improvvise / rigano l’aria e si occultano / nelle verdi dimore. / Odi il canto del merlo / lungo i mesti viali. / Adàgiati, se puoi / ad ascoltare come stanno i morti.”)

 

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