“Perdonate il bianco e il nero” di Federica Sabbatini

Perdonate il bianco e il nero
di Federica Sabbatini
Onirica Edizioni, Milano, 2012
ISBN: 978-88-96797-43-3
 
Il libro si può acquistare direttamente dal sito della casa editrice cliccando qui
 
 
001Un percorso di donna, arduo, fatto di scelte difficili, di dolori inconfessabili, di ricerca della propria libertà e della propria dimensione. Un libro che aiuta chi non ce l’ha ancora fatta e in cui si potrà riconoscere chi invece è riuscito a ritrovare (o a scoprire) il vero “se stesso”. Tra poesia e prosa poetica, Federica Sabbatini, si destreggia con abilità, magia, tensione lirica e quotidianità. Il suo è un perfetto esempio di storia con tratti autobiografici che si fa storia universale, in cui tutti possiamo rimanere coinvolti, oltre ad avere il privilegio di assaporare una scrittura poetica intensamente vibrante.”
 
Daniela Cattani Rusich

CHI E’ L’AUTRICE?

Federica Sabbatini nasce ad Arcevia nel 1978, un piccolo paese in provincia di Ancona, dove tutt’ora oggi vive insieme a sua figlia.
Inizia a scrivere giovanissima, principalmente poesie, prosa poetica e riflessioni ma solo da poco tempo ha iniziato a comprendere l’importanza della condivisione, da quando un poeta contemporaneo le ha aperto gli occhi spiegandole che “la poesia diviene tale solo dal momento in cui la si condivide”.
Negli ultimi due anni ha iniziato a rendere pubblici i suoi scritti partecipando a concorsi letterari e conseguendo alcuni riconoscimenti tra i quali il secondo premio al premio letterario “San Benedetto nel cuore” nella sezione narrativa, prima classificata al premio letterario “Spiragli” di Altamura e una menzione d’onore al concorso letterario “Leggiadramente” della associazione “Carta e Penna” di Torino.
Le sue poesie appaiono in varie antologie di concorsi.
A dicembre 2012 pubblica il suo primo libro di poesie dal titolo “Perdonate il Bianco e il Nero” edito da Onirica Edizioni.

“Re Giorgio”, poesia di Lorenzo Spurio

Re Giorgio

 poesia di LORENZO SPURIO

 
A Giorgio Napolitano
presidente di tutti
 
 
Il presidente avrebbe lasciato
il tempo aveva fatto il suo corso;
tronfio del suo operato
si riposava su una poltrona
del colle più Alto
ascoltando le breaking news
in attesa della proclamazione
d’un nome d’altri.
Troppe incongruenze
e infausti segnali all’orizzonte
insicurezza e sfinimento
conditi da episodi di degradata moralità.
Voci
dicerie
accuse
polemiche
grida
proclami
vendette,
noie roboanti
e verdi marce romane,
delusioni di cristallo scalfito.
Il presidente era diventato re.
  
 
Jesi, 22-04-2013

  

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LORENZO SPURIO (C)

E’ SEVERAMENTE VIETATO DIFFONDERE E/O PUBBLICARE LA PRESENTE POESIA SENZA IL PERMESSO DA PARTE DELL’AUTORE.

“Il pentagramma di Venere” di Alessandro Moschini, recensione di Lorenzo Spurio

Il pentagramma di Venere

di Alessandro Moschini

con prefazione di Gloria Vettori

con postfazione di Carmine Valendino

LunaNera Edizioni, Milano, 2013

ISBN: 9788898052066

Pagine: 114

Costo: 10€

 

Recensione di Lorenzo Spurio

 

$(KGrHqR,!lQFEG-(Vj-bBRJRWkhIF!~~60_35Che questo libro parli, o meglio evochi, sensazioni sonore e che faccia riferimento spesso al mondo della musica, ce ne rendiamo subito conto a partire dal titolo, Il pentagramma di Venere, che quasi ci fa pensare alla celebre divinità della Natura e della prosperità che tiene in mano un pentagramma arzigogolato mentre la natura ai suoi piedi suona le note da lei dettate. La natura e la musica sono i temi cruciali del libro, affrontati secondo le più varie angolazioni e in questo percorso è necessario ricordare che l’autore, Alessandro Moschini, si definisce bassista-poeta, una definizione congiunta della sua arte che abbraccia, appunto, l’arte di far poesia a quello di far musica. E’ notorio come musica e poesia erano agli albori unite tra di loro tanto che la recitazione delle liriche veniva fatta meticolosamente con l’accompagnamento di strumenti quali l’arpa o la lira, pratica che poi, per una serie di ragioni, si è persa, anche se la poesia ha conservato la musicalità mediante lo studio metrico o l’utilizzo di forme quali l’onomatopea, la rima e le assonanze.

Moschini fa della poesia l’elemento per accordare strumenti e il suono del basso una vaporosa pagina bianca, incontaminata, nella quale stendere i suoi versi. Versi che sono principalmente, se non esclusivamente, d’amore tanto che la sua poetica viene spesso associata all’erotismo. Si tratta di una catalogazione questa a mio modo di vedere appropriata che, però,  non deve finire per  etichettare il poeta a questa categoria; va detto, infatti, che è solo una delle tante sfumature delle sue poesie d’amore.

Le liriche parlano di amore concreto che si realizza materialmente nell’amplesso, di desideri totalizzanti e a volte ossessivi che conducono l’io lirico a non celare la sua carica di ossessività, dominio e possesso sulla donna amata. L’amore è dolcezza e baci rubati, l’amore è il semplice guardare la natura che ha in sé rimandi che nella mente del poeta fanno pensare alla sua donna, l’amore è un sogno, ma anche un desiderio, l’amore è attesa e speranza, l’amore è voglia di appagamento di desideri fisici, ma in ogni caso, in ogni sua manifestazione, esso non è che frutto di un sentimento inteso alla massima potenza.

Moschini abbatte le banalità e gli aspetti retorici che possono riguardare chi fa una poesia carica di sentimentalismo, di intimità e di sublimazione delle insaziabili voglie di congiungersi all’amata: niente è scontato né tanto meno frivolo o inopportuno. Anche le liriche che più propriamente rimandano al tema della sessualità non mancano di rispetto né al destinatario della lirica né al lettore, ma scivolano via velocemente con un cocktail di leggerezza, maestria e ricerca della giusta espressione per celebrare significati che lambiscono la metafora; interessanti questi versi: “canvas of passion and luxury” in “Portrait of my madness”, p. 32 o i più incisivi “Le impronte dei miei denti/ lasciati sulla tua pelle di ninfa”, in “Il cuore ubiquitario”, p. 57.

La struttura stessa della silloge è pensata per organizzare il materiale lirico secondo una dimensione musicale, tra note tratte da pentagrammi seguiti poi da liriche in lingua inglese di grande impatto e altamente evocative.

In questo lodevole percorso di analisi e di confidenza che Moschini fa con il lettore risulta centrale la figura della donna, dell’amata, dell’essere che motiva in un certo senso l’effluvio dei sentimenti del poeta, come pure la sua ragion d’essere e il suo scopo. La donna, che per fortuna è il più possibile lontana ad ogni forma di “angelizzazzione” e alla celebrazione melensa della sue virtù, è una donna d’oggi, contemporanea, impegnata e sbarazzina, aperta di mente, amante del romanticismo, ma anche di esperienze di trasgressione: “Lasciando il tuo rossetto/ sul mio petto,/ perverse preghiere di piacere/ tra le tue gambe/ di geisha compiacente/ piegata al mio volere” (in “Il gioco”, pp. 26-27). Così Moschini non fa altro che individuare la natura (intesa in senso ampio) nella figura della sua amata e così è rintracciata nell’aria (“Ti respiro” in “Respiro”, p. 44), nella benzina (e per la sua infiammabilità e per il suo valore: “Preso tra le tue maglie/sei benzina” in “La lima di vetro”, p. 45), in una sostanza drogante (“Solo la tua voce/ narcotizza i dubbi”, p. 47), nell’emblema della dolcezza (“Tu che sei miele/ e che nascondi al mondo/ il nettare scandito”, in “Tu che sei miele”, p. 87) e addirittura nell’elemento che più di ogni altro richiama la rinascita e la purezza, l’acqua (“Sei acqua/ che fluisce alle mie tempie”, in “Nelle tue mani”, p. 69).

L’accezione del cibo legato alla donna si ritrova nella lirica inglese “Chocolatefall” dove un curioso e coinvolgente sexual play prevede un miscuglio della quinta essenza della dolcezza: cioccolata e miele tanto da fare della donna una inusuale “cake to be eaten” (in “Chocolatefall”, p. 86).

Ma un’analisi completa deve pur sottolineare che la donna è spesso collegata anche ad altre immagini, questa volta turbinose e capaci di incutere timore: la donna è una sorta di polipo che con i suoi tentacoli afferra e stritola (“Tutto ha travolto/ risucchiandomi nel vortice/ tentatore e vorace/ delle tue gambe” in “Madida mente”, p. 94), nonché assume sembianze vampiresche (“mordendo il mio collo/ e succhiandomi il sangue/ rosso vivo come la cupidigia”, in “Madida mente”, p. 94). In ogni modo la donna fuoriesca da queste pennellate liriche, da queste armoniche vibrazioni sonore, è un essere vivido e pulsante, carico di energia e d’intraprendenza tanto da esser definita una sirena delle mie perverse fantasie “Mermaid/ of my perverse fantasies” (in “The last chorus”, p. 97). Ma è lo stesso poeta a chiarire in una lirica che la sua donna è dappertutto, in ogni dove, poiché è il pensiero di lei ad essere costantemente nella sua testa, a sottendere quasi una sorta di panteismo amoroso: “Sei in ogni millimetro” scrive in “In ogni dove”, p. 98.

L’amore a volte può manifestarsi in maniera violenta e deflagrante come ci insegna Moschini nella poesia “Erotica cuspide” (p. 15) della quale riporto i versi finali:

 

Mazzate d’amore
senza pietà
sono i baci e la pelle
che nel buio mi dono.
ed io ti amo rapito
immune
da schegge remote
in un attimo esplose
protetto
dalle taglienti minacce
sotto di te.

 

In varie liriche il poeta utilizza delle strofe contenute all’interno di parentesi tonde quasi sia una spiegazione più chiara di quanto ci sta “narrando” con i suoi versi, o come una doppia voce appartenente all’io lirico che si dispiega su piani differenti come quando in “Organigramma di un amore” non può far a meno di scrivere:

 

(Non vuole regole
la costruzione di un amore,
schemi balordi,
e false priorità).

 

Alessandro Moschini è, inoltre, molto consapevole della fruibilità al presente di quell’amore totalizzante, perché vi sono varie liriche che prendono in considerazione il tempo, il dio Chronos, che seduto su una roccia guarda da lontano quasi beffandosi delle gioie momentanee degli umani. L’eternità, ossia il tempo infinito, è un’idea che per Moschini si sposa con quella di un amore oltre ogni confine:

 

L’importante
È che le voci nostre
Rimangano attaccate alle pareti
Per il tempo che rimane.
(in “Cantami il tempo che resta”, p. 21).

 

Come si diceva all’inizio, il tutto è dolcemente aromatizzato dall’uso magnanimo, variegato e intelligente di suoni, dissolvenze, “giochi armonici”, pentagrammi, melodie, trame sonore e qualsivoglia altra “fragranza uditiva” prodotta dalla Natura vivente o dagli strumenti musicali che consentono di creare un ordito piacevole, a tratti pacato, a tratti altisonante, dove è la stessa musica a fondersi e a identificarsi essa stessa con la donna:

 

This music
Has your shape
Materialized,
Alive,
Transformed
In emotion.
(in “Joy”, p. 75).

 

 

Lorenzo Spurio

(scrittore, critico-recensionista)

 

Jesi, 08-04-2013

E’ SEVERAMENTE VIETATO DIFFONDERE E/O PUBBLICARE LA PRESENTE RECENSIONE SENZA IL PERMESSO DA PARTE DELL’AUTORE.

Franco Campegiani intervista la poetessa Ninnj Di Stefano Busà

IL RUOLO DELLA POESIA NELLA SOCIETA’ ODIERNA

Intervista alla scrittrice-poetessa Ninnj Di Stefano Busà

a cura di Franco Campegiani

D. Lei è una poetessa notevolmente affermata, come giudica l’impoeticità dei tempi attuali? Si sta forse realizzando la funesta previsione della morte dell’arte, o al contrario la poesia è un bisogno insopprimibile dell’animo umano e la sua assenza nell’arido mondo telematico non fa che evidenziarne per contrasto l’indispensabile valore?

R. La poesia non sarà mai obsoleta, possiede quel fascino strano, tra il magico e l’esoterico che fa la differenza, la distanzia dalle altre espressioni umane. Comunicare con la poesia è un evento irripetibile, quasi soprannaturale, l’incipit lo suggerisce un Ente superiore sconosciuto, il resto lo scrive il poeta con la sua umanità, la sua sensibilità, analizzando e scrutando quel suo mondo interiore fatto di deterrente stratiforme, che accompagna questa sorta di messaggio sulle ali del vento, lo fa vibrare, lo trasferisce agli altri come “dono” intermediario tra sé e l’ignoto, tra il sé egoistico e insincero e la voce dell’umanità che ascolta, che interloquisce attraverso la lingua del poeta ad un incanto primordiale di cui nessuno sa dare spiegazione. Sarebbe come dire che il messaggio della Poesia proviene dal profondo, dall’incognita genetica di un destino umano che non è stato creato per deludere la forma, ma per creare armonia e bellezza  -tra le forme stesse-. Perciò non resterà mai ai margini di un processo culturale in evoluzione se si vuole continuare a istruire il concetto di progresso intellettuale, umano e storico dell’umanità. Dico sempre che : finché ci sarà un poeta sulla terra, la poesia vivrà e verrà diffusa nel cuore e nella mente come suprema bellezza del creato, supremo elogio dello spirito contro la materia.

D. Purtroppo, alla superficialità telematica si aggiunge la sciattezza del linguaggio televisivo, contribuendo al totale degrado della comunicazione. Come considera l’innesto del linguaggio letterario in quello mediatico, in particolare l’inserimento di momenti poetici all’interno dei programmi televisivi? È meglio porre a contatto o tenere separati i due linguaggi, che interagiscono e sono tra di loro alternativi?

imagesCAZWROO7R. Se è vero che in Italia esistono, secondo sondaggi Data-Media,  dai 13 milioni ai 15 milioni di scrittori di poesia (o pseudo tali), è anche vero che come minimo si dovrebbero prevedere 60 milioni di lettori (per pareggiare quei famosi 4 lettori di manzoniana memoria). Ma nessuno di noi poeti immagina di avere quattro lettori, a dire il vero, è già tanto, se ci legge anche uno solo. Riguardo l’introduzione di programmi poetici così estemporanei e rarefatti nei format televisivi è un pessimo esempio di cultura, questo sta a significare che l’ascolto dei programmi culturali è sottovalutato e disatteso. In Italia non c’è la cultura lirica, (che è l’essenza della Cultura con la C maiuscola, il suo antefattto, l’humus), non c’è preparazione a capire la Poesia e a renderne partecipe il pubblico, si ritiene (a priori, e a torto) che la cosa non interessi nessuno. Perciò la espongono in ore inconsuete, a notte fonda, o quando non hanno di meglio da proporre. Se qualche dirigente RAI la propone è perché ne è sensibilizzato individualmente, non perchè ritiene abbia “audience”. La cosa sorprende, perché a interessarsi di poesia sono parecchie migliaia di autori, e con un apparato editorialistico da indotto, che lascia intravvedere un mercato gonfio di lauti guadagni da parte di Editori, ma si ritiene (e ripeto a torto) che la Poesia interessi solo un pubblico d’elite, lasciando intendere che c’è una grande massa di utenza che non gradisce e non capisce. Non è affatto così, ma l’emarginazione coatta dei canali mediatici monopolizzati da soubrettine, veline, passaparoline e dirigenti-mercanti senza eccessiva cultura ci hanno  ormai abituati a livelli di arretratezza tali da essere considerati cavernicoli.

D. Come percepisce il pubblico la poesia? La sente vicina, o piuttosto come la voce di una classe elitaria, lontana dalla realtà e dalla vita popolare?

R. La poesia tra il pubblico medio è bene accolta, perché non vi può essere nel genere umano chi non la sappia apprezzare. La poesia è parte dell’esistente di ognuno, la parte più nobile e subliminale della storia spirituale, la più vicina a Dio, la più dotata di bellezza e di fascino, perché sa parlare al cuore e alle menti, sa dare un’accelerazione al vuoto che incombe, alla solitudine che attanaglia, al male che pervasivamente affrontiamo nel quotidiano. La poesia lenisce, rende il progetto d vita più intenso, più ricco, più accettabile dal lato intellettivo e umano.

D. Si può dire dunque che il ruolo della poesia sia di scoprire la vita più intima? Quale impatto può avere tale scoperta nell’odierno assetto sociale?    

R. I tempi che viviamo non sono i più favorevoli alla poesia, non ci orientano verso episodi di luce e di conciliazione interiori. Sono portatori d’inquietudine, di malcontento, di disagio sociale e morale. Il tessuto umano è lacerato da troppe incongruenze, inadeguatezze, assenze, distrazioni, corruzioni. Ognuno vive il suo malessere come qualcosa di ineluttabile, quasi con rassegnazione e passività. Bisognerebbe amarsi di più, invece. Amare ciò che di bello ci circonda, anche la Poesia ad esempio, perché ci porta un minimo di conforto e di compensazione che gratifica il nostro stato d’animo così martoriato e in perenne afflizione. La poesia equivale alle note alte di un violino,  come la musica non può essere ignorata, perché tocca le corde sensibili dell’io, che ci fanno partecipi della cosmogonia, della vastità del nostro essere “cellula” dell’infinito, esuli temporanei in una terra che non ci appartiene. Il ruolo della Poesia dunque è di primaria importanza perché interagisce con un extraterreno, con un ultramaterico che è la condizione -sine qua non- della nostra essenza, della nostra esistenza.

D. Secondo lei, il mondo giovanile è interessato alla poesia, oppure insegue sogni di potere e di successo immediato, ammaliato da prospettive di guadagno facile? Cosa amano di più i giovani, l’Essere o l’Apparire?  

R. Tocca un ganglo scoperto della società di oggi. Una società fatta a immagine di celluloide, di interessi spiccioli, di principi valoriali depauperati e miopi, da bisogni interiori quasi primordiali, caratterizzati da finalità predatorie, mal si addice alla poesia. Per fortuna, i giovani non sono tutti così. Mi capita spesso, durante i vari incontri nelle Scuole di ogni ordine e grado, alle quali vengo chiamata per introdurre il tema poetico, di trovare giovani molto interessati alla Poesia, qualcuno di essi addirittura dotato di talento e pronto per dare il meglio di sé, certo con un po’ di tirocinio e di buone letture. Il bisogno di Poesia è inversamente proporzionale alla necessità del guadagno. Vi sarà sempre chi preferirà il vile denaro ad una bella poesia, ma in ogni modo il mondo delle scuole è salvo, i nostri ragazzi sono migliori di quanto loro stessi sanno. Non sono marci dentro, vi è in loro la coscienza di un futuro migliore, il desiderio forte del cambiamento che li ispira e li proietta all’alba di un giorno che verrà e non sarà di spregevole pecunia, ma di meravigliose armonie sulla terra dei padri. Non è perduta in loro la speranza. Non spegniamo la luce nei loro occhi, sottovalutando i loro immensi patrimoni intellettivi, esortiamoli e incoraggiamoli a sviluppare forze positive, interessi intellettuali e propositi umani più degni.

D. Si nasce o si diventa poeti? La poesia è il frutto della crescita intellettuale o è una qualità dell’anima che prescinde in un certo senso dalla cultura?

R. La poesia è altro persino da se stessa. La poesia non la crea l’intelletto a tavolino, a freddo, attraverso il cerebralismo tout court, non la crea l’intellettualità astratta e aliena dal sentimento, è parte integrante di un patrimonio, intellettivo, sì,  che definirei <percettivo> perché accoglie su di sé le maggiori, le più intense e ricche suggestioni, le più alte e meno abiette virtù dello spirito. Vi è una parte dell’intelletto, detta: “Area di Broca” (dal suo scopritore) che è deputata al linguaggio. Ragione questa che la mette al riparo da scempi di natura estranea alla poesia stessa, che è armonia, sinergia con i fattori interni all’essere, che sono la fonte dell’ispirazione “perfettibile”. In poche parole, lo spessore intellettuale vi è coinvolto, ma in minima parte, per il resto è un occhio vigile sul mondo, una finestra aperta nel nostro immaginario, nel panorama delle nostre indagini interiori che qualifica e rende unica e irripetibile la buona Poesia. Si può nascere poeti, ma si può scoprire di esserlo in più tarda età, bisogna solo essere dotati e sensibilizzati al poiein, cioè al fare in poesia. Bisogna riscoprire il valore dell’anima, l’eccellenza di una virtù al di fuori dalla mediocrità e del banale, per allargare gli orizzonti visibili della celebrazione dell’essere umano e del ruolo della Poesia.    

La ringrazio, Professoressa, a nome mio personale e dei lettori de “I fiori del male”.

                                                                                                          Franco Campegiani

 

 QUESTA INTERVISTA VIENE QUI PUBBLICATA PER GENTILE CONCESSIONE DELLA POETESSA NINNJ DI STEFANO BUSA’.

LA RIPRODUZIONE E/O DIFFUSIONE DELLA STESSA E’ VIETATA SENZA IL PERMESSO DA PARTE DELLA POETESSA.

“Amore e psiche”, poesia di Liliana Manetti

Amore e psiche…
di LILIANA MANETTI
 
Come nascondere il proprio amore
ad un mondo indifferente?
Perché farlo?
Perche’ chiedere di parlare d’amore a te?
 
A te che con il tuo sguardo di ghiaccio
distruggi e allontani dalla mia anima
la mia bruciante passione
polverosa e trepidante
come una mandria
di cavalli selvatici
in fuga dal loro persecutore…
 
 
La passione
che brama la tua rosea bocca
dai lineamenti sottili
dai leggiadri riflessi scarlatti..
I tuoi occhi
come pietre marine
smeraldi
diamanti
incastonati
nel teschio gentile
del tuo bel viso….
 
 
Al mio amore impossibile:
“Oui,par toute l’eternite’ tu sera mon merveilleuse amour…!”.
 
                                                                       LILIANA MANETTI
 
QUESTA POESIA VIENE QUI PUBBLICATA PER GENTILE CONCESSIONE DELL’AUTRICE.

“Gli steccati della mente” di Fausta Genziana Le Piane, recensione di Lorenzo Spurio

Gli steccati della mente
di Fausta Genziana Le Piane
con prefazione di Italo Evangelisti
Edizioni Penna d’Autore, 2009
ISBN: 978-88-6170-060-4
Pagine: 37
Costo: 9 €
 
Recensione di Lorenzo Spurio

 

Poeta
visita con me
antiche brughiere,
per scoprire nuovi sentieri
e creare nuovi paesi.
(in “Resta, poeta”, p. 18)

 

9788861700604Una silloge di poesia che consegna al lettore immagini nitide, a tratti forti e dolorose, a tratti volutamente scarne. Fausta Genziana Le Piane raccoglie in Gli steccati della mente poesie dal gusto diverso che spaziano da un’evidente e cara fascinazione verso la tradizione pre-cristiana con vari riferimenti al folklorismo celtico e medievale (la figura del falconiere, la “pietra celtica” (p. 15), “l’isola di Saint Kilda” (p. 17), “la collina di Tara” (p. 16) e ambientazioni che possono rimandare a scenari da Camelot: “l’isola selvaggia” (p. 17), “il bosco sacro di querce” (p. 17), “il cerchio magico” (p. 19), a liriche più intimiste come quella ispirata e dedicata alla madre.

Non mancano, però, anche poesie più impegnate come “Beslan” che in versi semplici e dall’aggetivazione pacata ricorda il tragico attentato in una scuola dell’Ossezia del nord avvenuto nel 2004;ciò che è rilevante in questa poesia è come la poetessa sia capace di istituire una polarità dolorosa di prima e dopo: da una parte il “primo giorno di scuola”, introduzione alla vita sociale, rito di passaggio e concretezza del bisogno dell’uomo della cultura, dall’altra “l’ultimo viaggio”, ossia il primo giorno che paradossalmente diventa l’ultimo. Morte, dolore e puzza d’esplosivo sono idee che la lirica non fornisce direttamente, ma che è in grado di evocare con un misto di tristezza e voglia di vendetta per chi ricorda il tragico accaduto.

Nel libro si nota un certo percorso concettuale della poetessa che si realizza a partire dall’utilizzo di termini-tematiche quali la solitudine, la segretezza, la chiusura: Fausta Genziana Le Piane parla, infatti, di “barriere” e di “steccati” come il titolo dello stesso libro suggerisce. Italo Evangelisti nella ricca nota di prefazione sottolinea l’importanza della figura del labirinto, sinonimo di mistero e di perdita del sé.

In “La falce, stanotte”, la poesia che apre la silloge, la poetessa utilizza un linguaggio acuminato: “La falce, stanotte/ ha crudelmente reciso/ greggi di pensieri/ allo sbando/ nei recinti della mente” (p. 9). A sopperire nella lotta con la “falce insanguinata” è la coscienza dell’essere: i suoi pensieri, le sue idee, i suoi sogni. In altre liriche si respira un’accentuata carica materica nella figura di pietre e rocce come nelle varie liriche dedicate a Stonehenge, in “Pietra tombale”, “Un sasso” e “Conosce l’equilibrio, la pietra” dove la poetessa con una sintesi mista a un’impeccabile purezza delle immagini, osserva: “Le ere affettano la roccia:/ fu tempo di granito rosso/ poi di lichene/ fino all’erica viola”. Bellissima l’immagine della natura che si riappropria dei suoi spazi, lentamente ed inesorabilmente. E quella stessa Natura porta con sé una forza inarrestabile che è origine motrice della Dea Madre:

 
Anche un sasso è consumato
da una pioggia troppo forte.
(in “Un sasso”, p. 20).

 

LORENZO SPURIO

(scrittore, critico-recensionista)

 

Jesi, 31-03-2013

 

 

Fausta Genziana Le Piane, (Nicastro), poeta, traduttrice, vive a Roma. Laureata in Lingue, ha insegnato francese e ha vinto una borsa di studio per la Romania. Ha curato le schede di lingua francese per la grammatica italiana comparata di Paola Brancaccio e adattato classici francesi per la scuola superiore. Già iscritta all’Ordine dei giornalisti, dopo aver scritto per il “Il Giornale d’Italia”, per la rivista “Poeti e Poesia” diretta da Elio Pecora ed essersi occupata di gastronomia francese per la rivista “Real Pizza”, ora collabora con “Rello”, “Il Giornale del Lazio”, “Calabriaonline” e “E’ tempo di cultura”. Cura una rubrica d’arte per la Consulta delle donne di Wanda Montanelli (“Parliamo d’arte”) e una pubblicazione bimestrale – Kenavò – distribuita a Roma e in Sabina, diario delle attività culturali che si svolgono in Casa Duir, a Casperia (Rieti). Si occupa di critica letteraria.

Ha diverse pubblicazioni al suo attivo: Incontri con Medusa (2000, poesia, prosa, foto, colleges), La notte per maschera (2003, poesia), La luna nel piatto (2004, poesia, prosa, collages, contiene il fascicolo Omaggio alla pittura di Pinella Imbesi), Due per tre (2005, poesia, prosa, collages, co-autore Tommaso Maria Patti), Al Quantarah bridge. Un ponte lungo tremila anni tra Scilla e Cariddi (2007, poesia, prosa, saggistica, co-autore Tommaso Maria Patti), Enrico Benaglia, il pifferaio magico (2009, strumenti interdisciplinari), Artisti calabresi a confronto (2009, strumenti interdisciplinari), Non di solo pane… ma anche di poesia! (2009, antologia), Gli steccati della mente (2009, poesia).

E’ SEVERAMENTE VIETATO DIFFONDERE E/O PUBBLICARE LA PRESENTE RECENSIONE SENZA IL PERMESSO DA PARTE DELL’AUTORE.

“Sbarco clandestino” di Dante Maffia, recensione di Ninnj Di Stefano Busà

SBARCO CLANDESTINO
di Dante Maffìa.
Edizioni Tracce, 2011
Pagine: 150
 
Recensione a cura di Ninnj Di Stefano Busà

imagesUn tema di grande attualità, una problematica che trova ostracismi e contraddizioni in termini, mentre si delinea l’umiliante vetrina di un mondo spaurito, allarmato davanti a fenomeni di così profondi mutamenti etnici, apocalittici, vere trasmigrazioni di popoli, e di così imponenti investiture morali, sociali, politiche. Un mondo, quello di oggi, sprovveduto e disorientato dinanzi a fattori ontologici che proprio per l’essere grandemente vaste, trova incerta e perplessa, nettamente contrariata e incapace l’opinione pubblica, i governi in un contesto di umanità reproba e inerte, inadatti ad opporvisi, a registrare il fenomeno e regolarlo nella giusta dimensione, disorientati e quindi spiazzati a padroneggiare il destino di molti.. E infine, larghe sacche di oppositori ad oltranza che volutamente ignorano o lasciano trasparire repulsione con atti di miseria morale e intolleranza razziali, tali da innescare un processo di dissociazione intellettuale fatalistica e discriminatoria. Volutamente inconciliabile si mostra la desolazione alla domanda di aiuti umanitari che da questi fenomeni originano.. La poesia di Dante Maffìa va a toccare i nervi scoperti e dolorosi di un scoperchiamento di pensieri e di azioni, di travisamenti e soprattutto di fatalismo che ingenera una catastrofica forzatura delle regole, una condotta maldestra, un’opposizione omologante e inquietante per quelle genti (una moltitudine vagante), private del diritto d’asilo, svilite da sospensioni di libertà, dissociazioni d’identità, oppressioni e frustrazioni nei diritti umani e civili, defraudate e umiliate. Lo spettro della miseria morale di coloro che dovrebbero sostenerli si fa in molti casi segno inquietante di una deprivazione di coscienza, che appare non salda, non matura e annaspa nell’ondivaga emergenza di un piano tempestivo di aiuti, tentando di sottrarsi alla propria responsabilità di cristiani civilizzati, declinando quei paradigmi di accoglienza e di indulgenza al . Diverso da chi? si dovrebbe poi obiettare? ma è l’umanità stessa che di fronte allo strazio primordiale, quanto universale della diaspora così massiccia, arretra nella sua posizione di deserto arido e informe. Il massimo della solidarietà intellettuale va dunque rivolto a questo poeta integerrimo che dalla sua vocazione di immaginario collettivo, sa estrapolare commoventi e limpide suggestioni, emozioni che costituiscono deterrente per molte e più proficue riflessioni. La diaspora è stata da sempre considerata un filone parallelo alla morte dei diritti umani, qualcosa che disorienta e coglie impreparato il fatalismo storico dell’intera umanità. Siamo portatori sani di “nequizie”, il male si aggrava e diventa pandemia quando a respingere ai loro destini è l’ottusa ipocrisia, il collasso della solidarietà nel non voler accettare e considerare di questi diseredati, umiliati e offesi in una visione cosmogonica, che si manifesta in toni edonistici, quasi dissacratori e sempre impotenti in prossinità di eventi e avvenimenti di portata biblica che disorientano l’altro, “il diverso”, l’esiliato dal pianeta, l’afflitto, il senza volto, il diseredato, l’escluso: Non dovremo dimenticare che anch’essi sono fratelli in Cristo, ma l’universo mobile, cangiante, variegato di un disincanto e di una spregiudicatezza collettivi, li fa apparire transeunti della storia, virgole precarie di un dato storico irreversibile, “circostanze circostanziali” li definirei per antonomasia, (non uomini e donne) ma solo depositari di sventura. È difficile, se non impossibile, trovare un poeta che rappresenti così bene il travaglio degli sventurati musulmani succubi di lotte tribali per l’ascesa al potere di governanti-boia, in balìa di dittatori-terroristi, sanguinari che esercitano i loro poteri totalitari e senza regole su popoli indifesi, siano essi etiopi, o siriani, arabi, o algerini, magrebini, marocchini etc, i perseguitati sono sempre loro, a subire le angherie dell’esilio, la mano devastante e inquietante della fame, della sete, ad addentrarsi in clandestinità, a rivendicare diritti negati, identità perdute in una necessità impellente portata a scegliere tra sopravvivenza outside, ai limiti dell’indecenza o morte. Dante Maffìa è un veterano di tematiche che altri respingono, fa spesso sue le problematiche delle minoranze senza voce, degli esclusi dalla storia dell’esistenza, quasi ectoplasmi. A questi esseri umani egli presta la sua voce, ne ascolta il loro tormento.

Dante-Maffia_Ritratto-di-Paolo-Quaranta-270x300Il suo cuore di poeta traboccante di pietà si muove a compassione per uomini come Mahmud, Omar, Alì, Mamadou, Brahim, Kaddour. Vi sono alcuni brani di questa raccolta che commuovono per l’intensità degli episodi descritti come Gada ad es: “ Sono un fiato di vento / e vaga nell’indifferenza, / vado verso terre sconosciute/ dove troverò una radura dolce/ in cui riposarmi?” (pag.32) e poi ancora: “adesso non puoi ascoltarmi, langui/ in tristi luoghi comuni dell’Occidente/ che credi tu sia solo rabbia e vuoto/. Io invece so che verrà l’aurora/ a ridarmi l’azzurro del deserto, / la sconfinata libertà di Dio / che ha la tua voce e il tuo passo.” (idem) “Nomade, straniera, mendicante,/ che importa. Ormai sono un rifiuto/ che vaga senza meta/…/Non potevo restare /nella casa dove ogni cosa è sfiorita./ Sono ferita in ogni poro, la morte/ mi tiene lontano da sé per non essere infettata.”(Khadouj) pag 35. Maffìa redige le storie di ognuno registra le loro pene, il tremore dei loro turbamenti, le paure, le angosce, che prolificano da uno sfilacciamento di mente e corpo che subisce traumi di dissociazione inimmaginabili, avverte gli urli dei loro cuori trafitti, delle trasmigrazioni respinte, e dove la ricerca di pace e di perdono si trovano distanti anni-luce da essi, piccoli mucchietti di stracci sporchi, maleodoranti, in balìa di correnti impetuose, in preda a deliri di deprivazione e di malessere, di malattie, denutrizioni. Dante Maffìa coglie appieno l’allarme per questi derelitti, si fa tesimonial di un dolore rappreso tra la sorte e la morte, ne fa una questione di principi e di orfica desolazione: epigrafici appaiono questi versi: “Ci dicono che siamo sbarcati in Calabria Saudita! Il destino è perverso, beati i morti in mare!.” (Driss) pag.24 Vi è da un lato la miopia che confuta e procede a tentoni, non indulge e non dialoga: L’Europa “ditta”… dall’altra la moratoria umana, l’esigenza di una remora morale di universalità. Quella dei nostri giorni è una diaspora epocale, senza precedenti che antropologicamente ci costringe a prendere atto di un processo umano che s’interseca, ci obbliga ad indulgere sull’”altrui”: brutto, nero e cattivo che ci mette davanti allo specchio concavo di noi stessi, riflettendo quello che non vogliamo vedere. Ma il binocolo ha due lenti: si tratta di stabilire una corrispondenza di immagini adeguate, di coordinare regole di accoglienza, attingere al patrimonio genetico della razza umana, per estrapolare quel minimo di convergenza che d’improvviso diventi: dialogo, vita, estrema salvezza per tanti diversi da noi “gli altri”: lo scopo è guardare in fondo alle cose, prefiggersi un imperativo categorico che dell’emergenza-necessità deve fare virtù, per costituire l’obiettivo fondamentale di un mondo migliore, una confutazione di orgoglio senza pregiudizi, una coesione che sia in linea con la e restituisca credibilità e uguaglianza al pianeta così fortemente attraversato da sventure. C’è l’auspicio che si compia il miracolo che faccia dire come a Orhan: “Sarò trattato prima o poi/ come una persona che possiede/ un nome e l’anima?” pag.59

NINNJ DI STEFANO BUSA’

QUESTA RECENSIONE VIENE QUI PUBBLICATA PER GENTILE CONCESSIONE DELL’AUTRICE. LA DIFFUSIONE E LA PUBBLICAZIONE DELLA STESSA E’ VIETATA SENZA IL PERMESSO DA PARTE DELL’AUTRICE.

“Un bosco in festa”, poesia di Liliana Manetti

Un bosco in festa 

Di LILIANA MANETTI

 

imagesCAKD6AYEFiori bianchi
fiori viola
fiori gialli
fiori di campo.
Farfalle gioiose danzano
la melodia
del dolce canto
degli uccelli…
 
Caldo tepore,
la Natura ostenta
la sua vanita’
e i colori della sua allegria..
 
Un bosco in festa
dimentica
la malinconia
di giornate uggiose
e saluta il grigiore
del passato inverno.

LILIANA MANETTI

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Lorenzo Spurio su “Le rime del cuore attraverso i passi dell’anima” di Annamaria Pecoraro

Le rime del cuore attraverso i passi dell’anima
di Dulcinea (Annamaria Pecoraro)
Lettere Animate Editore, Martina Franca (Ta), 2012
ISBN: 9788897801467
Pagine: 178
Costo: 12€
 
Recensione di Lorenzo Spurio
Tra strade da percorrere,
ascoltando ancora,
con energia il cuore, correre,
con in tasca, l’autenticità.
 
(Da “Liberamente Viva”, p. 50)

 

6297685La prima cosa che va detta è che la poesia di Dulcinea, pseudonimo di Annamaria Pecoraro, è pervasa da immagini edeniche e suadenti dalle quali si esaltano valori importanti (si noti, ad esempio i continui e mai banali riferimenti alla religione cristiana) e ancor più ai sentimenti puri: amore, amicizia, ma non solo. La poetessa è un’anima sensibile che non può far a meno di tracciare sulla carta quello che vive, quello che spera o, addirittura, quello che teme. Non si censura mai, non ci sono limiti a questa poetica che, infatti, non conosce ostacoli né zone d’ombra. La poetessa con un linguaggio pacato e dolce permette al lettore di imboccare un percorso in territori quasi mitici per il loro essere talmente pacificanti e godibili, in un mondo come il nostro dove, invece, domina la frenesia e l’invidia o quello che la poetessa definisce “un mondo/ dove l’ipocrisia avvolge”, in “Diversi e complementari”, p. 46).

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“Col peso della Tua croce”, poesia di Monica Fantaci

Col peso della Tua Croce

POESIA DI MONICA FANTACI

preghiera

Su quei Passi
affannati e forti, pieni di Speranza e Amore Scrivi il Tempo dell’Amore
Eterno nei pensieri e nei gesti,
sguardi amorevoli,
sorrisi gioiosi.
Col peso della Tua Croce
trascini Vita lungo il Sentiero dell’Amore
e così che gira l’Amore,
fermandosi su un punto
chiamato Anima,
per risollevarsi sempre più forte.
Il peso della Tua Croce
brucia anche oggi
senza neppur un fil di voce,
il Cuore batte,
il Passo combatte,
segni di un Tempo che non c’è,
marcato da ribellioni non ascoltate,
da volgarità di gesti,
da insensibilità,
perchè l’uomo questo è
e Tu col peso della Tua Croce
a insegnar che Amore c’è,
nel credere a Speranza e a Gaiezza,
Pace e Saggezza.
Adesso con un fil di voce
son dinnanzi alla Tua Croce
a pensar a questo mondo atroce
che spara
e dall’Amore non impara,
ma ancor la speranza ha un seme
se si prende la mano del mondo e si cammina insieme.


MONICA FANTACI

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“Infezione” di Sunshine Faggio, recensione di Lorenzo Spurio

Infezione
di Sunshine Faggio
prefazione di Luciano Recchiuti
Arpeggio Libero Edizioni, 2012
ISBN: 9788897242246
Pagine: 104
Costo: 12 €
 
Recensione di LORENZO SPURIO

 

Dall’altezza della tua perfezione
non è facile capire me
che agonizzo
nel mio guscio d’inadeguatezza.
(Da “Guscio d’inadeguatezza”, p. 49)

 

Fronte InfezioneLe poesie di Sunshine Faggio, toscana emigrata a Londra, funzionano come un pugno allo stomaco per la loro carica di energia e il loro linguaggio violento, crudo, e a tratti anche ossessivo. O forse si dovrebbe dire che funzionano come una pugnalata alle spalle, perché producono sì violenza e vanno dritte al sodo, sviscerando formalismi o qualsivoglia orpelli della poesia “barocca”, ma arrivano improvvise e certi versi “dolorosi” e spietati arrivano proprio mentre meno ce l’aspettiamo.

La poetessa è una narratrice del disagio, del senso d’in-appartenenza al mondo, della scissione continua del suo io e un’anima alla continua ricerca di sensi, significati ed emozioni. E’ in questo percorso cupo e a tratti angosciante in cui il vitalismo sembra essere il peggior nemico che Sunshine Faggio ci parla di violenze, rapporti sessuali feroci, sadomasochismo e ipotesi di suicidio (“Dall’alto/ ho guardato le rotaie,/ erano accoglienti,/ invitanti”, in “Contemplazione”, p. 15). C’è, infatti, una lirica dedicata alla grande Sylvia Plath, celebre scrittrice americana che si diede la morte all’età di trenta anni.

Il titolo, incisivo quel tanto che basta ad incuriosire il lettore a sfogliare questo libro, è la summa dei contenuti delle varie liriche che ci mostrano un mondo caduto nei suoi stessi recessi, quasi allucinato e degradato non tanto a causa dei drammi della società (non si parla di povertà, di violenza sociale), ma in quanto il singolo è portato a prendere narcisisticamente e quasi in maniera nolente decisioni su comportamenti discutibili e per se stesso traumatici.

E’ una poesia intimistica e non intima, personale, e sofferta che fa utilizzo di un linguaggio urlato per dar voce a sevizie e inganni del presente. Non sono, però, urla in cerca di un aiuto, né tentativi di appello; sembrano essere, invece, grida di liberazione, di scaricamento delle troppe energie accumulate, come un doloroso rito di passaggio.

Chi urla lo fa o per intimare al pericolo, o per richiamare l’attenzione.

Ci sono, però, anche persone che come la Faggio, urlano per se stesse. Per riaffermare al presente di “esserci” e di ristabilire un rapporto con il tutto.

E se il prefatore , Luciano Recchiuti, parla di dark side per riferirsi a questa componente carnale e morbosa presente nella poetica della Faggio, a me piace poter parlare di deviant art: la poetessa si spinge ai margini dei limiti, sfiora l’abisso, conosce l’oltre, ma alla fine decide sempre di rinunciare a quel passo estremo verso l’altro (mondo), perché forse, anche se non si penserebbe, un briciolo di vitalismo è presente in lei.

Dalle liriche fuoriesce violenta un’esasperata lotta tra Eros e Thanatos, la convinzione che il male (inteso in senso esteso) sia ormai componente inscindibile dall’uomo, ancor più del suo contrario, come osserva nella lirica che apre la raccolta: “L’essere umano/ ha bisogno/ di farsi del male” (p. 11). Ma perché il bisogno del dolore e della violenza, dei soprusi e degli odi? Forse perché è la componente animalesca ed egoistica dell’essere umano che padroneggia sulle nostre sfere emotive, sui nostri comportamenti e, come nel più cupo pessimismo, anche nell’azione più bella, spensierata o goliardica, c’è immancabilmente qualcosa che tende all’infelice, all’inumano, al viziato.

Per citare Pavese, “le parole sono pietre”, ma nel caso della Faggio bisognerebbe dire “le parole sono lame” e molto acuminate, anche. L’intera silloge è sostenuta da sprazzi di inaudita violenza (non solo dei comportamenti umani, ma anche delle manifestazioni atmosferiche) quasi che ogni cosa, vista dagli occhi della poetessa, debba per forza accadere nella sua forma iperbolica, smisurata, violenta ed esasperata; ed è per questo, forse che il sole è “bruciante” (p. 13), la speranza non è altro che un “massacro” (p.13), le immagini sono “distorte” (p. 13) cioè allungate,  deformate, perché è la realtà ad essere allucinata, e ancora scrive di “lemmi lancinanti” (p. 17), “sinestesie del non ritorno” (p. 17) e di “roventi stelle” (p. 65)

Immagini di violenza subita, di percosse date e, immaginiamo, di liti tumultuose nelle quali le mani fanno seguito alle parole urlate sono presenti in vari versi: “Aborro/ quest’ombra scura/ insediatasi sul mio viso,/ le macchie sanguigne/ che non danno tregua” (in “Anima ed anima solo”, p. 41), “spina dorsale frantumata” (in “Colonna rotta”, p. 45), i “lividi neri sul collo” (in “Messa di Natale”, p. 61).

Linguaggio incisivo, acuminato, che si dispiega sul foglio come spastici fendenti, come mosse inconsulte dettate da irragionevolezza, istinto brutale e forse anche un po’ di vigore giovanile.

Ed è sicuramente la sfera semantica che fa riferimento al mondo del sesso che la Faggio utilizza spesso nei modi più vari per intendere materialmente quello che la parola, anche scurrile, suggerisce, ma per evocare significati anche più estesi che concernono il bisogno dell’io poeta di rapportarsi al mondo: “Mi sono svuotata/ affinché il mondo/ possa riempirmi,/ inseminarmi dei suoi colori” (in “Lisbon Story”, p. 27).

L’atto sessuale si configura così come un senso di supremazia e onnipresenza che consente alla poetessa di illudersi di poter gestire tutto e allo stesso tempo di sapersi perdere nei sentimenti, quasi ad annullarsi: “Vorrei possederti per sempre./ Fino ad aver schifo di te.” (p. 29): in questa poesia l’atto sessuale apparentemente sembra privato di una qualsiasi connotazione erotica dell’amore, e questa intuizione viene poi riconfermata dal secondo verso in cui il troppo amore finisce per diventare noia, ribrezzo e fastidio. Pensieri che in un’altra lirica rivolta all’amato fanno dire alla poetessa con un linguaggio viscerale e quasi nauseante: “Ti voglio vomitare” (p. 31).

Ma è normale e direi non scontato che una poetessa giovane del nostro periodo storico utilizzi il tema del sesso nella sua poesia, sviscerando immagini anche forti delle quali non sente il bisogno di vergognarsene o di mitigarne la descrizione: in “Catarsi” si parla di un “incesto [che] non è mai stato così dolce” (p. 53) mentre in “Silent Room”, l’amplesso tra due amanti (che in un’altra lirica viene definito come “Apocalisse d’odori e gemiti”, p.57) ha luogo sotto gli occhi di tutti mettendo in luce, dunque, una qualche vena voyeuristica: “ e la folla attorno/ esaminandoci/ come fossimo nulla più/ di una performance” (p. 55), quasi ad intendere che l’atto del movimento meccanico e la gratuità delle immagini facciano delle due persone, degli attori di una scena da impersonare.  In “Messa di Natale” la poetessa descrive un rapporto odioso, perché violento e traumatico nel quale lei si paragona a una “bambola malleabile” (p. 62), ma allo stesso tempo di questo rapporto distorto non può farne a meno e lo ama, lo desidera.

Ciò che pervade nella lirica è la convinzione che ci sia il bisogno di cambiare perché questa vita monotona e stancante che spesso fa i conti con un passato doloroso e sempre presente è invivibile. Le persone e i posti attuano su di noi un cambiamento e noi, giorno dopo giorno, siamo chi gli altri vogliono che siamo. C’è un pizzico di desolazione misto a un senso di sfruttamento che, amalgamati insieme, “regalano” all’uomo d’oggi l’insofferenza e l’inadeguatezza nel condurre la propria vita senza sentirsi malato, infetto, degradato, usurpato, battuto o sfidato:

 

Dopo che tutto è filtrato
in profondità,
bisogna avere ogni giorno di più
per tornare a percepire la realtà
con tanta forza (p. 83).

LORENZO SPURIO

(scrittore, critico-recensionista)

JESI, 14-03-2013

E’ SEVERAMENTE VIETATO DIFFONDERE E/O PUBBLICARE LA PRESENTE RECENSIONE SENZA IL PERMESSO DA PARTE DELL’AUTORE.

2013 - Infezione di Sunshine Faggio

 

“La riva in mezzo al mare” di Monica Fantaci, recensione di Pierangela Castagnetta

LA RIVA IN MEZZO AL MARE
SILLOGE DI POESIA DI MONICA FANTACI
TRACCEPERLAMETA EDIZIONI, 2012
 
COMMENTO DI PIERANGELA CASTAGNETTA

cover-frontQualche mese fa la nostra Monica  mi ha raggiunta ad un recital di poesie, organizzato in maniera sublime dal Prof. Giuseppe Palermo, e mi ha regalato il suo libro di poesie, fresco fresco di stampa, dal titolo “LA RIVA IN MEZZO AL MARE” con la dedica. Questa diceva:
”Il caso regala sempre cose piacevoli. Io ho conosciuto te e, poi, per un commento che hai fatto a Lorenzo Spurio, ho allacciato contatti anche con lui. Vedi che catena! Penso che se non fosse stato per Lorenzo non avrei scritto adesso questo libro, ma lo avrei scritto più in là”

Monica è giovane, ha appena 28 anni. Laureata in Scienze della Formazione primaria  ha scelto l’arte della scrittura per comunicare e farsi conoscere ai “più”. La scrittura – come le altre forme di arte quali la musica, la pittura, la scultura – aiutano la nostra anima, i nostri sogni a venire fuori, la nostra essenza a diventare tutt’uno con la creatività.

Monica è anche vice-direttore della rivista di letteratura “Euterpe”, musa a cui la stessa dedica una sua lirica che porta proprio questo nome e dato che la poetessa è un’artista a tutto tondo, ama la musica, il ballo e tutto ciò che può essere “comunicazione”, musica anche i versi che scrive abbinandone le parole a brani di vari autori (V. il blog “Intingendo d’inchiostro…”

La riva in mezzo al mare. Perché questo titolo?

Non ci avevo pensato ma Monica mi spiega che nel moto del mare la sabbia tende a salire. Il movimento delle onde indica le varie tappe della vita, la striscia di sabbia indica l’approdo dove l’anima si va ad arenare dopo la turbolenza degli stati d’animo, dei sentimenti. La riva è in mezzo al mare – dice Monica – perché questo è in continuo movimento; cresce, si perfeziona. La riva, di contro, vive tra le onde, tra folate di venti e animali marini. La natura tutta fonde il suo essere e pervade l’anima della poetessa che, così bene, la descrive nei suoni della natura. Infatti invita il lettore a visitare la sua anima con viaggio verosimile attraverso questa natura, i suoni, i colori, la città natia, i monumenti che rappresentano la nostra storia, il percorso dell’uomo e della sua anima, la nostra cultura, la nostra civiltà e che ci fanno riflette su che cosa è stata e cosa è, ancora oggi, per noi la nostra città, la nostra identità, e rappresenta il percorso dell’uomo e della sua coscienza, perché questa non perda di vista il fatto che oltre a ciò che è “materiale” c’è un ulteriore valore che porta ad una armonia cosmica indispensabile per il compimento della vita terrena in vista di quella successiva, se ci crediamo.

L’uomo è consapevole di essere un tutt’uno con la natura circostante e proprio attraverso questa sensibilità costruisce un ponte tra ciò che è materiale e ciò che penetra l’anima, i sentimenti, la purezza del cuore, in sostanza… l’interiorità delle coscienze.

Parte così dalla poesia che ne porta il titolo dedicata alla musa della musica (Euterpe) e continua con “Gote rosse” e “Nella sagoma del tuo silenzio”. In quest’ultima il frusciare della pioggia è un dialogo tra le parole  ed i suoni della natura: pioggia, tuoni, vento… tutto è pervaso da amore, quell’amore che si fissa nello sguardo della poesia “Nei miei occhi” e che percorre i sentieri dell’anima con “Passi liberi” sino ad arrivare “Nell’utero della vita”, nel parto del pensiero sospirato su astri lucenti.

E, ancora, la poesia di Monica è pervasa da spiritualità, da dolci melodie quasi arcaiche, primordiali nel “Primigenio inchino” e in un gioco di ultrasuoni che fondono natura e artificio in “Libera la realtà”. E’ l’anima, sempre, che riempie la protagonista delle liriche; è l’anima che diventa spirito d’amore ubriaco – quasi paragonato ad un vino – frizzantino, che si riempie di Arte e descritta così bene, con poche parole, in “Grandezze”, ma anche nell’arte dei circensi in “Circo”, arte che vive anche di sevizie agli animali così lontani dal loro ambiente e che stanno lì a soffrire come clown mostrando, ad un pubblico inerte, il volto di un Pierrot che soffre per far ridere la gente.

Molto bella ed intensa la poesia “Poggiando la penna” e approda a “Euterpe” e “Le risate della Musa”, musa della danza che sogna, nelle poesie a venire, la musicalità dei versi con i suoni, i colori e le sensazioni della natura tutta (“Ai fianchi di un fiume”), dell’amore carnale e spirituale (“Per amare” ed “Effervescenze”) viaggiando per un “cantico” dove “… fiamme s’inchinano alla neve” in “Etna” e dove l’ “… infinito percuote l’animo” in “Ampie vedute” per arrivare “…all’apice dell’esecuzione” (Apice) e chiudere “… Come una notte stellata”.

E ancora musica nelle note accordate in “Salsedine” e “La musica cade nel cuore” pregna di note che si posizionano nell’aria o sulla carta per terminare con “La scena reale”. Qui il tema della natura ed il disinteresse dell’uomo è un tutt’uno.

PIERANGELA CASTAGNETTA

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