Ricevo con grande piacere dai fratelli Carmelo e Michele Miano il volume 16 (anno 2022) del repertorio letterario “Alcyone 2000 – Quaderni di poesia e di studi letterari” che dà in apertura la notizia della morte del loro genitore, il poeta ed editore Guido Miano[1], che, nel corso del tempo, ha pubblicato numerosi e pregevoli libri, volumi di poesia, saggistica, antologie, repertori letterari e non solo.
Al padre sono dedicate un cospicuo numero di pagine della prima parte che si apre con l’accorata e affettuosa lettera del figlio Michele che dal genitore ha ricevuto gli influssi positivi non solo dell’amore filiale e dell’affetto intimo, anche l’amore per la poesia e la letteratura in genere, divenendo anche lui un apprezzato “promotore culturale” (definizione che lo stesso Guido Miano impiegava per definirsi) oltre che poeta (ricordo la sua opera Deltaplano del 2014 di cui alle pagine 84-86 sono riproposti dei testi poetici oltre che un mio – ormai datato – intervento critico su questa sua plaquette). Alla pari è testamento culturale che Guido Miano ha lasciato all’altro figlio, Carmelo, che da anni cura l’attività redazionale, di stampa, di grafica e di divulgazione delle opere.
Michele Miano nella lettera mescola il dato bibliografico del padre ai ricordi di vita vissuta in sua presenza: la fondazione di una rivista letteraria importante (eppure colpevolmente dimenticata nella manualistica della letteratura italiana) dal titolo “Davide, rivista sociale di lettere e arti”[2], dal taglio tradizionalista d’impronta cattolica[3], fondata da Alessandro Miano (1920-1994)[4] nel 1951 e alla quale il fratello Guido, giovanissimo, prese a collaborare attivamente. Su questa rivista trovarono pubblicazione inediti di poeti e scrittori di primo piano della nostra letteratura nazionale (alcuni di loro allora ancora alle primissime armi e non ancora affermati nell’ambiente). Per ricordare solo qualche nome di autore, ricordiamo: Pier Paolo Pasolini, Leonardo Sciascia, Giorgio La Pira e Mario Luzi[5]. Dopo aver curato alcuni volumi monografici, Guido Miano fondò la casa editrice omonima nel 1955 (esattamente il 18 giugno di quell’anno) specializzata in filosofia, poesia e critica letteraria (la sede iniziale di Catania sarebbe stata ben presto sostituita per quella canonica e ancora attiva nel capoluogo meneghino). Le collane editoriali e le pubblicazioni (in particolare per la poesia e il giornalismo[6]) esplosero in quantità e accuratezza formale e contenutistica oltre che pregio e autorevolezza degli autori da allora sin ai nostri giorni, grazie al suo importante “magistero” reso possibile da scelte editoriali rigorose e vincenti che hanno saputo fare la differenza e imprimere anche nell’attualità il vero senso del “fare editoria”.
Guido Miano (dx) con Maurizio Cucchi (sx) durante un evento culturale negli anni ‘90
Tra i maggiori autori che hanno visto pubblicate le loro opere con la Casa Editrice Guido Miano vanno senz’altro citati Lina Montessori, Franco Loi, Marco Danese, Cristanziano Serricchio, e, tra i più recenti, Nazario Pardini, Francesca Luzzio, Floriano Romboli, Sergio Camellini (ma la lista sarebbe oltremodo lunga, non adatta per un articolo di pochi paragrafi come questo).
A completare il ricco ricordo sulla figura di Guido Miano sono due contributi critici di due intellettuali e saggisti: Enzo Concardi (presente con un intervento dal titolo “Storia di un’amicizia e di un feeling culturale ed umano”) e Franco Lanza (presente con la premessa che scrisse per il libro Lamento dell’emigrante di Guido Miano pubblicato nel 2017[7]). Entrambi i contributi, pervasi da un’intuizione volta all’approfondimento, si prestano a conoscere ancor meglio la versatile e poderosa statura di Guido Miano quale uomo di lettere propriamente inteso.
Da sinistra il prof. Bruno Maier, n.d., il prof. Franco Lanza e Guido Miano
In Lamento dell’emigrante, che è strutturato in cinque sotto-sezioni, ritroviamo una scelta di testi lirici dedicati al ricordo soave e saporito degli aromi e dei colori vividi della sua terra natale, la Sicilia tanto amata, come avviene nel pregevole testo “Isola sempreverde”, due strofe di cinque versi l’una, in cui nella prima stanza, con una nettezza visiva senza pari e grande partecipazione dell’io lirico (come un piacevole viaggio a ritroso, “alle origini”), leggiamo: “Cogli un ramo d’ulivo saraceno, / il gelsomino bianco d’Arabia, / il mirto umile e sereno / nei giardini d’infanzia sempreverde / nella ridente isola del sole”.
LORENZO SPURIO
NOTE – E’ severamente vietato pubblicare questo articolo in formato integrale o di stralci su qualsiasi tipo di supporto senza l’autorizzazione da parte dell’Autore.
[1] Guido Miano era nato a Palazzolo Acreide (SR) nel 1931 ed è venuto a mancare a Milano il 18 giugno 2022.
[2] Il repertorio letterario “Alcyone 2000” al quale ci riferiamo nel presente articolo è da considerarsi come la naturale prosecuzione della pionieristica rivista “Davide” degli anni ‘50.
[3] Di quel cattolicesimo lucido e onesto, lontano da dogmatismi e intransigenze di sorta, in grado (e saggiamente abile) nell’accogliere anche idee e considerazioni dal “fronte” laico, dando spazio anche a esponenti di questa tendenza.
[4] Il sottoscritto ha avuto modo di occuparsi della figura di Alessandro Miano (Noto, SR, 1920 – Milano, 1994), poeta, scrittore, giornalista ed editore, avendo deciso di attribuire alla sua figura e impegno un Premio Speciale “Alla memoria” in seno alla VI edizione del Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi” organizzato dall’Associazione Euterpe di Jesi (AN) nel 2017. La motivazione di questo conferimento è stata pubblicata, oltre che nell’antologia contenente le opere dei vincitori al concorso, sul sito dedicato al Premio: https://premiodipoesialarteinversi.blogspot.com/2023/09/alessandro-miano.html
[5] Il poeta ermetico fiorentino dedicò all’amico ed editore Guido Miano la poesia “Cosmografia improvvisa” che si apre con i versi “La purità dell’essere – ne aveva / e non ne aveva / lui barlumi / di prereminiscenza…”, pubblicata all’interno di questo numero della rivista “Alcyone 2000” a pagina 11.
[6] Non secondaria né collaterale all’attività editoriale fu quella dell’impegno giornalistico che nel 1957 lo portò a istituire il Corso Biennale di Orientamento Professionale di Giornalismo presso il Centro Sperimentale italiano di giornalismo. Da quell’intuizione i corsi, le lezioni, le conferenze, i convegni e le pubblicazioni curate sulla storia e gli arnesi del giornalismo (tra cui i ricchi manuali a firma di Giorgio Mottana, divenuti testi d’adozione anche in ambito accademico) mai vennero meno.
[7] Ricordiamo, altresì, che il professore Gualtiero De Santi, docente dell’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo” e saggista, collaboratore assiduo di iniziative della Casa Editrice Miano editore, in quell’occasione scrisse la prefazione al volume Lamento dell’emigrante.
La casa editrice milanese Miano Editore ha recentemente dato a conoscere l’uscita del volume Liriche scelte della poetessa ravennate Ada Negri – omonima della nota poetessa accademica lodigiana del Secolo scorso – all’interno della prestigiosa collana “Analisi Poetica Sovranazionale del Terzo Millennio”. Il volume è arricchito dalle prefazioni di Enzo Concardi, Michele Miano e Mario Santoro.
Nella dotta e particolareggiata prefazione del critico letterario Concardi leggiamo: “Se vogliamo fare un tuffo nel passato, ma un passato di grande valore, possiamo seguire Ada Negri nel suo amore per la classicità, che è l’argomento, lo stile, il sogno di questa prima sezione del libro. Sono testi d’altri tempi, nel senso che tale genere di poesia non è propria dei contemporanei e costituisce un viaggio comunque di scoperta per l’autrice, catturata e incantata dal mondo greco-latino.
La lirica è descrittiva e neoclassica, raffigurando, in modo quasi classificatorio, le conquiste artistiche e civili di quelle culture, la cui grandezza è per la poetessa eterna e universale. È altresì una lirica oggettiva, che lascia poco spazio ai sentimenti personali, in quanto, forse, l’intento della scrittura è didascalico e rivolto a trasmettere il vero e il bello secondo i parametri antichi. I tesori ellenico-romani sono cantati per il mito che rappresentano, il fascino che ancora emanano, la forza epica delle opere.
Anche la scelta di scrivere quasi sempre con l’uso di strofe tradizionali, costituite da quartine in rima, fa parte del canone neoclassico riesumato per l’occasione. Fanno eccezione alcune composizioni, come ad esempio la Parodia della tragedia greca. “Antigone” di Sofocle, che ha una struttura dialogica tra Ismene, Antigone e il Coro; e Il classicismo nella poesia di Giosuè Carducci, che invece d’avere le quartine con rima a-b / c-d si sviluppa con un rimare a-c / b-d. Così troviamo in Crociera in Grecia,strofe di questo tipo: “…Aleggiava una vaga atmosfera / trepidante tra sogno e chimera. / Ci sembrava di vivere ancora / con Omero una fulgida aurora”. Mentre nell’omaggio al Carducci: “…Nelle ‘Elleniche’descrisse, / con profonda competenza, / gli elementi che rivisse / con piacevole frequenza…”.
Il suo percorso culturale-classico inizia proprio dai banchi di scuola. Ricordando quel periodo formativo scrive: “Per me il classicismo è innato …// A scuola mi fu sviluppato / con notevole risultato: / mi piacquero Greci e Romani / coi loro costumi lontani…”.
Qui accenna anche alle opere immortali dei classici, all’origine della nostra lingua dagli etimi greco-latini, allo splendore di quelle civiltà che coltivarono scienza, filosofia e le arti. Continua poi con un viaggio in Grecia per toccare con mano ciò che aveva studiato sui libri: rimane colpita da zone archeologiche mai viste, a cui seguono altre mete, come Rodi con l’Afrodite, Olimpia, Delfi, Sparta, Micene, l’Acropoli, ove immagina le abitudini care a Socrate. Indi tutti i monumenti e i colonnati di Atene storica, l’Attica e il Peloponneso. Un’altra lirica è dedicata a La parola, alla sua funzione nella vita della comunicazione, alla sua importanza come mezzo per trasmettere pensieri, messaggi, stati d’animo, sentimenti tra le persone e lessico in cui il popolo si riconosce. Troviamo nel libro anche una lunga composizione riservata a Il classicismo nella poesia di Giosuè Carducci, dove ripercorre le tappe della sua esistenza riferite al propugnato ritorno al classicismo e al suo patriottismo.
Ora scomodiamo un grande della letteratura per attestare assonanze d’interessi neoclassici. Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) pubblica nel 1795 le Elegie romane, venti pezzi poetici in esametri e, nella prima elegia esalta la grandezza di Roma: “… Sì, qui un’anima ha tutto, fra queste divine tue mura, / eterna Roma!…// Tuttor chiese e palagi, rovine contemplo e colonne…// In vero, o Roma, un mondo sei tu; ma pur senza l’amore / non saria mondo il mondo, e nemmen Roma, Roma” (da Elegie romane, Giusti Editore, Livorno 1896, Traduzione di Luigi Pirandello). Ada Negri scrive una lunga Ode a Roma in cui risuonano anche questi versi: “… Palazzi e templi, archi e colonne, / attestan l’opera davvero insonne, / livelli alti di vita civile, / il culto del bello e un tipico stile”.
Quindi “Roma caput mundi”esercita in ogni epoca e su chiunque un fascino indiscutibile: nel nostro caso l’autrice rimane integralmente legata al classicismo, mentre Goethe inserisce nel giudizio finale l’elemento sentimentale dell’amore e si proietta verso il Romanticismo, creativo e non imitatore di poesia”.
Ada Negri è nata a Conselice (RA) e residente a Ferrara, laureatasi in lettere classiche a Bologna, ha insegnato per oltre trent’anni greco e latino nei Licei. Ha pubblicato le raccolte di poesie: Viole del pensiero (1993), …E la luce fu (1994), Il mare della vita (1996), Paesi e città del cuore (1997), I girasoli (1998), Opera Omnia (1999), Realtà e fantasia (2000), Verso il terzo Millennio (2001), Il fascino di Ferrara (2002), La bandiera italiana (2002), La Vita Umana (2003), Arcobaleno (2004), Nuova stagione poetica (2010); i testi di saggistica: Litterarum latinarum fragmenta (1999), Il kommós delle «Coefore» di Eschilo (2000), Limpide voci (2001), Saggi classici (2003), Saggi ferraresi (2003), Sintesi storico-letteraria dell’età ellenistica e greco-romana (2006), L’Età Classica della Grecia antica (2009), L’età Jonica della Grecia antica (2017). La biografia e l’attività letteraria di Ada sono trattate in due monografie curate da Fulvio Castellani: Dentro e attraverso la quotidianità (2003), Il racconto di una vita (2006).
Nel corso degli ultimi anni il poeta, scrittore e critico letterario prof. Nazario Pardini di Pisa ha collaborato costantemente e in maniera continuativa con pubblicazione di suoi testi, tanto poetici che critici, su questo spazio, «Blog Letteratura e Cultura» e in particolar modo con la rivista di poesia e critica letteraria «Euterpe». Personalmente ho avuto il piacere – oltre a leggere varie sue sillogi di cui mi ha fatto generosamente dono – di intervistarlo qualche anno fa; quel testo venne pubblicato, assieme a una serie di altre interviste a grandi poeti italiani della nostra età e con una prefazione di Sandro Gros-Pietro in La parola di seta. Interviste ai poeti d’oggi (PoetiKanten, Sesto Fiorentino, 2015). Alcuni mesi fa ho avuto il piacere di leggere e recensire (clicca qui per leggere) quella che – in quel momento – era l’opera più recente di Pardini, ovvero Il colloquio con Thanatos(Guido Miano, Milano, 2019), compimento di una preziosa trilogia poetica. Ricevo in data odierna, dall’Ufficio Stampa della Miano Editore, il comunicato stampa che dà notizia di una nuova pubblicazione di Pardini dal titolo Dagli scaffali della biblioteca, per la collana “Alcyone 2000” di Miano Editore, che si apre con una ricca prefazione di Marco Zelioli. Proprio da questo testo critica d’apertura citiamo alcuni pregnanti estratti: «La prima parte della raccolta è intitolata Ricordi che pungono. È una rassegna di affetti familiari che il poeta presenta al lettore con la delicatezza di sentimento di chi contempla la fuggevole realtà come segno di qualcosa che non si comprende appieno, ma che inevitabilmente c’è, e perciò va riconosciuto come vero al di là di ogni ragionevole dubbio. […] La seconda parte dà il titolo all’intera raccolta: Dagli scaffali della biblioteca. Vi sono raccolte, semplicemente contraddistinte da un numero romano, trenta poesie di varia lunghezza. Sono immagini, momenti catturati al tempo [con] accenni a vari scrittori, non solo poeti come Baudelaire, Dante, D’Annunzio, Saba, Pavese, Cardarelli, Ungaretti, Francesco Pastonchi, Attilio Bertolucci, Giuseppina Cosco, Giorgio Caproni […] Ecco cosa “vive” negli scaffali della biblioteca del Pardini, e cosa egli ci fa rivivere, ponendocelo dinanzi: uno stuolo di poeti, ma anche un critico come Carlo Bo ed illustri filosofi, da Platone a Nietzsche. […] Le Dieci poesie d’amore, che costituiscono la terza ed ultima parte della raccolta, sono un inno alla vita. Vi si trovano immagini leggere, fresche, spontanee […], vi sono tratti paesaggistici accostati al sentimento personale, quasi a far partecipare la natura delle vicende umane. […] C’è un che di foscoliano nel verseggiare del Pardini, il quale sa ammantare lo spirito romantico tipico della “rimembranza” (che è anche leopardiano) con quello stile dolcemente neoclassico, che riecheggia la nitidezza dei versi catulliani (come non ricordare, in proposito, la foscoliana A Zacinto in parallelo ai versi di Catullo sull’amata Sirmione?). Eppure non c’è alcuna dipendenza dai modelli di riferimento, perché lo scrivere del Pardini spazia liberamente nei campi già arati da tanti illustri predecessori, il cui studio si avverte bene».
Il presente testo è stato scritto a partire dal comunicato ufficiale di pubblicazione del nuovo libro diffuso da Miano Editore opportunamente modificato e ridotto e con l’inserzione del paragrafo introduttivo.
La casa editrice milanese Miano Editore segnala la recente pubblicazione del libro Tutto fu bello qui dello scrittore veneziano Maurizio Zanon. Il libro è uscito nella prestigiosa collana “Alcyone 2000”.
Maurizio Zanon (Venezia, 1954) si è laureato in Lettere Moderne, ha insegnato nella Formazione Professionale. Scoperto dal poeta Mario Stefani, la sua attività letteraria ha avuto inizio a venticinque anni con la pubblicazione del libro Prime poesie (1979), cui sono seguite molte altre raccolte. Ha conosciuto vari poeti famosi tra i quali Diego Valeri, Giovanni Giudici, Ignazio Buttitta, Andrea Zanzotto, Maria Luisa Spaziani e Paolo Ruffilli. Significativa è stata anche la lunga amicizia con il pittore Guido Baldessari (Venezia, 1938-2016), le cui opere hanno ispirato talune sue poesie.
Così si è espresso il critico letterario Enzo Concardi nella prefazione al nuovo volume di Zanon, Tuttofu bello qui: “Questa silloge contenente poesie di Maurizio Zanon ha le caratteristiche di un compendio lirico elaborato dalla Casa Editrice e dal critico letterario autore della prefazione, per offrire al lettore una scelta antologica basata sul criterio – ovviamente soggettivo – dell’unità tra estetica e contenuto, come già auspicava l’autorevolissimo Francesco De Sanctis nel secolo diciannovesimo: in soldoni, quelle che a noi sono parse le poesie più belle e significative del poeta, scritte durante tutta la sua esistenza. E, altresì, vi è stata l’opzione del criterio cronologico di pubblicazione delle composizioni, senza quindi suddivisioni tematiche, onde consentire eventualmente l’individuazione di un’evoluzione stilistica dell’autore (…). Maurizio Zanon è fondamentalmente un poeta dell’interiorità che, nella riflessione e nella meditazione, va alla ricerca continua del senso della vita. È un poeta che ama le dimensioni del silenzio, sia per un suo bisogno personale che per un’inclinazione naturale. In modo particolare è vivo in lui il sentire la precarietà dell’avventura umana e consegna le sue attese alle prospettive metafisiche ed escatologiche. Dunque egli intuisce acutamente l’effimero del tempo, al quale contrappone il sentimento dell’amore come sale della vita, poiché il panta rei ci consuma: la memoria di noi sarà cancellata, rimpiangeremo giovinezza e bellezza, lasceremo anche gli amori che ci fecero vivere. L’innamoramento verso l’amore è essenza costitutiva dell’esperienza umana, con una visione totalizzante dell’eros: vale la pena amare nonostante tutto”.
Dietro segnalazione[1] della casa editrice Guido Miano Editore di Milano a continuazione viene pubblicato un estratto significativo della prefazione, stilata da Enzo Concardi, alla recente silloge poetica della siciliana Rossella Cerniglia, dal titolo Ipostasi di buio, edita sulle pagine della nota collana editoriale “Alcyone 2000”.
Rossella Cerniglia è nata a Palermo e vive a Marsala. Laureata in Filosofia è stata a lungo docente di materia letterarie nei Licei di Palermo. Poetessa, narratrice, saggista, ha pubblicato i libri di poesie Allusioni del Tempo (1980), Io sono il Negativo (1983), Ypokeimenon (1991), Oscuro viaggio (1992), Fragmenta (1994), Sehnsucht (1995), Il Canto della Notte (1997), D’Amore e morte (2000), L’inarrivabile meta (2002), Tra luce ed ombra il canto si dispiega (2002), Mentre cadeva il giorno (2003), Aporia (2006), Penelope e altre poesie (2009), Antologia (2013), Mito ed Eros. Antenore e Teseo con altre poesie (2017), Il retaggio dell’ombra (2020); i romanzi Edonè…edonè (1999), Adolescenza infinita (2007); il libro di racconti Il tessuto dell’anima (2011) e il libro di saggistica Riflessioni, temi e autori (2018).
Quest’ultima fatica letteraria di Rossella Cerniglia prosegue il discorso della precedente pubblicazione Il retaggio dell’ombra (2020). Le tenebre che dominano il mondo contemporaneo si fanno, secondo la poetessa, ancora più fitte e giustificano etimologicamente il nuovo titolo: Ipostasi di buio. La sostanza e la personificazione dell’oscurità occupa tutta l’estensione della silloge: infatti, delle tre parti di cui si compone il libro, la prima porta il titolo dello stesso, la seconda quello eloquentissimo di Profondo inferno; la terza quello doloroso di Amore amaro. Culturalmente le prime due sezioni hanno diversi riferimenti nella storia del pensiero e della letteratura, mentre oggi rappresentano tematiche meno visitate; invece la terza sezione è universale, interculturale e metastorica. Nella prima parte si possono individuare alcune liriche più significative e chiare come immagini e lessico del “buio”. L’azzurro esiste ma è rinchiuso “…nel sarcofago ardente / dove una tenebra alta / si leva…” (poesia “Sono pronto”). Una creatura angelica appare in un’oscura dimora dove “…il respiro del tempo / una soglia spalanca / nel suo Nulla più nero” (poesia “Silenti trombe”). Uomini alla deriva con ponti tagliati alle spalle in una buia foresta erano soli, senza “…nessun rifugio / nessuna compagnia…” (poesia “Per elidere”). In “Barche” non si apre nessuna via d’uscita nel “Day After” l’Apocalisse che sembra essere intervenuta: “…barche / piene di buio // senza navigatori…” attraccarono a spiagge desolate dove “…nacque un vortice / che non era luce”. In una delle ultime poesie di questa parte appare l’immagine del Divino, ma è raffigurata come irraggiungibile e pare che siamo stati abbandonati a noi stessi: “…era il volto di Dio / oscuro // la sua Ombra / piantata / nella zolla” (poesia “Il giardino)”. Nasce infine nel suo animo un forte desiderio di speranzae di luce, ma tutto appare come un incubo, un atroce sogno e le è negato il “riveder le stelle” di dantesca memoria (si leggano le liriche “Vaporose ali” e “Sostanza di un sogno”). Viviamo quindi avvolti “Nella notte nera”. Qui il colore dominante della poesia è il “nero”: nere sono la notte, l’oscurità e la tenebra; neri sono il buio e il Nulla, quest’ultimo scritto con la “N” maiuscola, ad indicare il concetto filosofico. La simbologia di tutto ciò è chiara: la morte interiore e sociale regna sovrana nelle nostre anime e nelle nostre relazioni. La solitudine e l’incomunicabilità spadroneggiano in questa civiltà rantolante, anche se nei quadri lirici creati molto appare nel vago, nell’indefinitezza, nelle dimensioni oniriche e surreali: angosce e incubi si sovrappongono a momenti di lucidità e razionalità”.
ENZO CONCARDI
[1] L’editore ha autorizzato il curatore del blog a pubblicare il presente testo senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. Eventuali riproduzioni del presente testo dovranno essere autorizzate dall’editore Miano di Milano e il curatore del blog, in nessun modo, sarà ritenuto responsabile per eventuali riproduzioni, parziali o integrali, su qualsiasi supporto avvenute, operate da parte di terzi. L’utilizzo del grassetto nel corpo del testo è del curatore del blog. Le note biografiche dell’autrice, esulano dal commento critico di Concardi e sono, invece, prodotte dalla casa editrice.
L’ufficio stampa della nota casa editrice Miano Editore di Miano ha recentemente reso noto che è stato pubblicato il quarto volume (ben quattrocentosettantasei pagine!) della terza edizione del prestigioso progetto editoriale costituito dai volumi che vanno sotto il titolo di Contributi per la storia della letteratura italiana. Dal secondo Novecento ai giorni nostri. I quattro volumi di questa opera sono costituiti da una lunga serie di saggi, in cui è comune il proposito di una trattazione chiara, completa, esauriente. Si tratta di un’opera unitaria e organica; la quale mira a prospettare nei suoi lineamenti generali e nei suoi lati particolari, anche geograficamente, regionalmente rilevanti, la storia letteraria dal nostro secondo Novecento ai giorni nostri.
Sul precedente I volume il critico Franco Lanza ha osservato (nella nota di introduzione): “La presente iniziativa editoriale ha richiesto anni di studi e ricerche di contributi storiografici alla letteratura dell’ultimo mezzo secolo. Tali percorsi ospitano nomi noti e meno noti, autori affermati ed in via di consacrazione: troveranno posto anche le voci “ultime” cui potrà forse non toccare il seguito in termini di fortuna, ma che sarebbe ingiusto trascurare dal momento che anche il più cauto dei critici-lettori ammette oggi che un minimo di hazard è necessario se si riconosce alla storiografia letteraria, tra le innumerevoli sue prerogative, anche quella di formulare delle previsioni”.
Silvano Demarchi, invece, nella premessa del IV volume ha scritto: “Confrontando la produzione dei tre ultimi decenni con quella trascorsa, ci si può porre la seguente domanda: cos’è rimasto del ‘900 così ricco e vario nelle sue tendenze e realizzazioni poetiche? Cos’è rimasto della ritrovata purezza lirica dell’Ermetismo, del canto intimistico e isolato di Saba, della poesia-racconto di Pavese, della tendenza epigrammatica di Penna, o di quelli ancora da valorizzare, noti solo agli addetti ai lavori, per citare solo alcuni dei nomi più significativi? La poesia successiva ha più seguito le vie indicate da Montale, Saba, Pavese con uno sviluppo della discorsività, spesso prosastica, rispetto alla vibrante poesia essenzializzata di Ungaretti. Un discorso più attento alla vita reale anziché incline ai voli della fantasia. Esaurito l’ingegnoso sperimentalismo che nel secolo scorso ha riscosso più critiche che consensi, e che tuttavia è passato alla storia letteraria come dirompente dichiarazione di poetica senza esiti apprezzabili, ci si attende ora qualcosa di veramente innovativo e insieme di indubbia poeticità o il poeta che segni il tempo”.
Rita FulviaFazio è nata a Imperia, ove risiede. Ha svolto l’impiego lavorativo nel settore pubblico e privato. Ha sempre coltivato il suo spiccato interesse per l’arte e la cultura. Nata anacoreta nell’azzurro della meditazione contemplativa, depone la traccia dell’esistenza nel seme poetico poiché, dice “è in me, con me, semplice, eterno”. Condivide, infatti, pienamente, quanto scrive Platone nel Simposio a proposito del legame tra arte e conoscenza: “Individua un qualcosa che è sempre, che né cresce, né decresce […] ma in se stesso, con se stesso, semplice, eterno.” Ispirata dai riflessi caleidoscopici delle sorprese, offerte dal gioco della vita; e dal desiderio di trascendere l’animo umano per ricongiungersi nello spirituale azzurro, il suo omaggio va alla libertà. E perciò ricorda qui le celebri parole dell’Ulisse Dantesco: “Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e conoscenza.” (Inferno, XXVI, 118). È stata inserita, con il racconto “Desiderio”, nell’antologia Raccontare IMPERIA (2017); con tre poesie nell’antologia poetica Riflessi di Ponente (2018). Ha pubblicato la raccolta poetica Metamorfosi e sublimazioni (2019) e, per la narrativa, Echi di luce (2019). Ha conseguito vari premi di poesia tra cui il Premio speciale “Ossi di seppia”, il Premio speciale “La nuova poesia”, sezione poesia religiosa (2019), il Premio speciale silloge “Formigine e il suo castello 2020”. È collaboratrice del Blog Alla volta di Lèucade. È stata recensita con varie letture, saggi da Nazario Pardini, Rossella Cerniglia; Sandro Angelucci, Elio Caterina, Mario Santoro, Anna Castrucci, Francesca Luzzio, Ester Monachino, Enzo Concardi e Mattia Leombruno.
La riproduzione del presente testo e dei brani poetici riportati (dietro consenso dell’autore), sia in forma di stralcio che integrale, non è consentita in qualsiasi forma senza il consenso scritto da parte dei relativi autori.
Il nome di Nazario Pardini, poeta, scrittore e critico letterario, docente di Letteratura Italiana, ben noto anche sulle pagine digitali da anni, meriterebbe una descrizione che forse un pamphlet non sarebbe sufficiente, tanto è estesa e prolifica la sua produzione letteraria. Non solo di poesia, per la quale ha pubblicato decine di titoli, tra sillogi più o meno ampie, veri e propri repertori dell’anima che condensano esperienze e fasi del suo vissuto, canzonieri, poemetti, raccolte meticolose, elogi, canti, e tanto altro ancora. Senza dimenticare il suo costante e fondamentale contributo alla critica letteraria mediante lo studio attento, approfondito e umano – in una sola parola “dotto” – che ha riversato verso autori più o meno noti della scena letteraria nazionale e non solo. I suoi contributi critici, oltre a permettere a vari autori di fregiarsi delle sue considerazioni ermeneutiche in opere proprie nella forma di prefazioni, postfazioni e note di lettura, sono diffusi un po’ ovunque ma anche ben raccolti nella nutrita vetrina online di scritti, Alla volta di Lèucade, (che porta il titolo di un suo fortunato libro di poesia edito nel 1999, arricchito da una prefazione di Vittorio Vettori)[1] dove il professore, con cadenza quasi giornaliera, dà diffusione ai suoi scritti, vere e proprie esegesi sempre così ricche e particolareggiate, attentissime allo stile e ai linguaggi adoperati, alle segnalazioni dei volumi e tanto altro ancora.
Se è vero che la rete consente di abbattere tempi, distanze e qualsiasi altro tipo di barriera tra un emittente e un ricevente, è anche vero che spesso può risultare dispersiva nel poter fornire una corretta e utile table of contents, per andare a ripescare testi, far riemergere saggi (magari per trarne una citazione e renderne merito nella bibliografia) o, in qualche modo, recuperare in forma agevole e sicura quel materiale critico che nel tempo, come la stratificazione di una roccia sedimentaria, si è andato accumulando descrivendo striature cromatiche diverse e, al contempo, a rendere ancor più inscalfibile la materia. A favorire questo approccio sono giunti, in tempi recenti, quattro mastodontici volumi editi da The Writer Edizioni rispettivamente nel 2014, 2016, 2018 e 2019 dal titolo Lettura di testi di autori contemporanei, seguiti dalla loro normale numerazione dei tomi, nei quali il professor Pardini ha convogliato la gran parte dei suoi scritti – vere e proprie gemme – tra recensioni, saggi, interviste a lui fatte e concesse ad altri, note di lettura, approfondimenti e tanto altro ancora. Dei cataloghi ricchissimi non solo nei loro contenuti (vale a dire le opere contemplate, gli autori letti, approfonditi, analizzati con onestà e grande scavo nel loro lessico) ma anche negli approcci di approfondimento al punto che possono di certo essere considerati come dei testi fondativi, immancabili, di lettura e avvicinamento al testo per chi, scantonando il lettore qualunquista, voglia davvero poter impiegare gli arnesi del critico, scoprendone quella che è senz’altro un arte del mestiere. Testi di critica, dunque, ma anche sulla critica, che possono indirizzare degnamente chi, amante dei libri, abbia esigenza di immergersi in quel panorama magmatico che è il campo dei significati, delle allusioni, dei segni nascosti, dei richiami, delle (epidermicamente) insondabili forme con le quali si può dire senza svelare né determinare in maniera perentoria.
Numerosi e costanti anche i suoi contributi sulla rivista di poesia e critica letteraria Euterpe nel corso dei suoi quasi dieci anni di attività continuativa tra i quali mi piace ricordare alcune poesie di grande impatto comunicativo i cui motivi si dispiegano nelle oscure trame di una memoria dai contenuti ignobili e dolorosi come in “Carso” (n°14, dicembre 2014) e “In memoria delle foibe” (n°29, luglio 2019) o, di contro, improntate a seguire liberamente di volta in volta i possibili temi di rimando proposti dai vari numeri come il saggio “Puccini o il tempo della Turandot” (n°16, giugno 2015) e “Percy Bysshe Shelley e i suoi peregrinaggi marini” (n°22, febbraio 2017) a testimonianza della vastità degli interessi e della completa e approfondita padronanza di una materia non solo classica e letteraria, bensì di ordine sociale e riferita a ogni possibile campo dello scibile, tra umanismo e tematiche di attualità. Senza dimenticare, tra i contributi più incisivi, utili e di alto pregio, gli approfondimenti critici sulla poesia propriamente detta, motivo trainante della sua intera esistenza, ravvisabili, ad esempio, in “Lingua, linguaggi e poeti” (n°24, agosto 2017) e nell’avvincente “Società, filosofia dell’utile, ruolo dei personaggi e difesa della poesia in Chatterton di Alfred De Vigny” (n°23, giugno 2017).[2]
Nazario Pardini
Alcune note bio-bibliografiche, però, prima di poter parlare della sua ultima opera poetica, I dintorni della vita (2019), risultano necessarie. Nazario Pardini (Arena Metato, Pisa, 1937) si è laureato in Letterature Comparate e successivamente in Storia e Filosofia, è stato ordinario di Letteratura Italiana. Prolifica e di alto livello la sua attività di instancabile poeta, saggista e critico letterario, per la poesia ha pubblicato Foglie di campo. Aghi di pino. Scaglie di mare (1993), Le voci della sera (1995), Il fatto di esistere (1996), La vita scampata (1996), L’ultimo respiro dei gerani (1997), La cenere calda dei falò (1997), Sonetti all’aria aperta (1999), Paesi da sempre (1999), Alla volta di Lèucade (1999), Radici (2000), D’Autunno (2001), Dal lago al fiume (2005), L’azzardo dei confini (2011), A colloquio con il mare e con la vita (2012), Dicotomie (2013), I simbolidel mito (2013), I canti dell’assenza (2015), Cantici (2017), Di mare e di vita (2017), Cronaca di un soggiorno (2018), I dintorni della solitudine (2019), I dintorni dell’amore ricordando Catullo (2019) e I dintorni della vita. Conversazione con Thanatos (2019). Molti i premi vinti fra cui il “Città di Pisa” (2000) nella terna Baudino, Mussapi, Pardini con Alla volta di Lèucade, i premi alla Carriera (“Le Regioni” di Pisa nel 2000, “CinqueTerre” di Portovenere nel 2012; “Portus Lunae” di La Spezia nel 2012, “Ponte Vecchio” di Firenze nel 2014) e la prestigiosa “Laurea Apollinaris” nel 2013 conferita dalla Facoltà di Scienze della Comunicazione Sociale dell’Università Pontificia Salesiana. Su di lui hanno scritto, tra gli altri, Mario Luzi, Vittorio Vettori, Paolo Ruffilli, Ninnj Di Stefano Busà, Giuseppe Giacalone, Luigi Filippo Accrocca, Antonio Piromalli, Silvio Ramat, Vittorio Esposito, Antonio Nazzaro, Antonio Spagnuolo, Giorgio Bàrberi Squarotti, Neuro Bonifazi, Franco Campegiani, Fulvio Castellani, Pasquale Balestriere, Giuseppe Vetromile, Rodolfo Vettorello, Carmelo Consoli, Umberto Vicaretti, Ugo Piscopo, Liana De Luca, Floriano Romboli.
Poeta legato alla tradizione classica e alla poetica naturalistica (inesauribile nel suo panismo vegetale e nella comunione con le acque) ma anche alla tradizione decadente e simbolista (poeti maledetti, D’Annunzio, gli scapigliati[3]) non può non essere avvicinato, per alcuni suoi componimenti, anche all’esperienza crepuscolare, così distante dalla prosa lirica o dal frammentismo d’inizio secolo scorso essendo il suo poetare sempre sorretto da un estetismo metrico, da una ricerca di costruzione formale attenta e con richiamo della classicità.
Se si prendono in esame i titoli delle ultime opere poetiche pubblicate dal Nostro ci si rende conto di un continuo e progressivo avvicinamento a temi pervasi da introspezione, considerazione filosofica, finanche melanconia e ripiegamento emotivo. Non si allude a nessun tipo di pietismo, vittimismo e pessimismo dal momento che l’intera produzione di Pardini è tesa a innalzare il bello, a celebrare la vita, a focalizzarsi sugli aspetti di luce piuttosto che nelle normali e ineliminabili zone d’ombra, asperità, situazioni angosciose e di vero e proprio derelizione. Tuttavia, come dimostra il lavoro del 2015 incentrato sul tema dell’assenza, ci rendiamo conto di una progressivo avvicinamento a un colloquio con un’alterità indistinta perché nelle sue vesti immateriali, incorporei e vacue. Sono “dialoghi della possibilità”, vale a dire forme comunicative impiegate dal Nostro con le quali, di rimando e indirettamente, interroga se stesso, permettendo a noi lettori di appropriarci delle sue riflessioni sulla vita, delle considerazioni, inquietudini, perplessità che il poeta, dopo aver attraversato un’esistenza ricca di episodi, è in grado di porre perché, diversamente, con molta probabilità, non riuscirebbe a vivere. Sono i dilemmi comuni che, in diversa forma e in fasi diverse della nostra vita, siamo portati a porci, eppure in questi interrogativi o labili convincimenti nei quali viene a ritrovarsi, il Nostro esplica se stesso: dà senso alla poesia che è forma di vita per mezzo della confessione intima con il suo cosciente. In queste circostanze hanno trovato la loro concettualizzazione i tre volumi della fortunata e filosofica trilogia poetica del 2019 pubblicata in rigorosa e autentica veste grafica dallo storico – una delle ultime poche garanzie editoriali italiane – Guido Miano Editore di Milano, uscita dopo la speziata Cronaca di un soggiorno nel 2018.
Primo volume della trilogia è I dintorni della solitudine alla quale ha fatto seguito I dintorni dell’amore ricordando Catullo e, infine, I dintorni della vita. Conversazione con Thanatos che è oggetto di studio di questa analisi. Si dovrebbe partire dalla spiegazione – o dal tentativo di avvicinamento – al lemma impiegato nei tre titoli di questa trilogia ovvero “i dintorni”.[4] Il poeta di lungo corso – classicista, ma anche estimatore degli ermetici – sa bene che compito della poesia non è parlare della noce, semmai del mallo screpolato che la ricopre. Vale a dire non è un discorso illustrativo né argomentativo l’impegno poematico, l’atto ispirativo che dà seguito a una creazione lirica, ma allusivo, collettaneo, approssimativo, cangiante, multiforme e polisemico, stratificato. Impossibile cercare di intuire certezze e verità inoppugnabili, il linguaggio poetico adombra un concetto, lo circoscrive in nebulosa, lo vaporizza, ne estende i principi rendendoli in diffusione – per quanto la letteratura sia figlia e specchio della vita (sugli insegnamenti di Sciascia, Calvino e tanti altri ancora, citerei anche la dissociata Sylvia Plath de La campana di vetro) esse non potranno mai essere eguagliate. Ecco perché Pardini parla dei “dintorni della solitudine” vale a dire affronta il tema della solitudine cercando di approcciarla, di avvicinarsi ad essa, fornendone forse dei tratti che la distinguono secondo la sua inclinazione, un’approssimazione, una possibile lettura, formula: non ne dà mai il ragionamento esatto, la lettura sillogica inconfutabile. Non è un discorso “su” ma “circa”, “attorno”, che lambisce, percorre, si aggira, conduce un periplo attorno alla materia, la osserva, se ne occupa, la fa sua come tema, senza mai fagocitarla con la razionalità perigliosa dell’uomo. In tutto ciò – e se così non fosse non darebbe gli alti esiti che, invece, riscontriamo – non può venire meno quel senso di “chiarezza, [quella] capacità espressiva [ricca] di indizi, lemmi straordinariamente efficaci per stabilire variazioni sul tema, evoluzioni di una cifra ermeneutica di sicura originalità”[5] come ebbe ad osservare Ninnj Di Stefano Busà.
De I dintorni dell’amore ricordando Catullo, con prefazione di Rossella Cerniglia, il critico romano Cinzia Baldazzi aveva riferito con particolare attenzione alla “Lettera ad una amica mai conosciuta”, testo incipitario della silloge, sostenendo che Pardini “dichiara che il dolore – il tormento – può purificare, però l’appello non coincide con il sopportare o gestire un’assorta, inerte contemplazione. Al contrario, nella guerra perpetua, nell’ostinato conflitto dei contrari al cui interno viviamo, il ruolo a noi destinato è comunque di combattere”.[6] E questo può essere utile, quale trait d’union, per collegarci al tema e ai motivi che muovono alla costruzione del volume successivo di Pardini, interamente dedicato alle conversazioni con Thanatos. Pardini non manca di mostrarsi, anche nella complicatezza del tema del quale ha deciso di occuparsi, di essere “così effusivo e così straripante”[7] per dirla con Vittorio Vettori. Il volume si apre con una precipua e utilissima nota critica del docente pisano Floriano Romboli (assiduo commentatore dell’opera poetica di Pardini) che anticipa la trattazione del volume attorno alla “insistenza e sistematicità alla “Morte” […] L’antitesi vita/morte pervade da sempre il pensiero e le forme dell’arte degli uomini […] Seneca raccomandava di familiarizzarsi [con la morte] progressivamente […] Nazario Pardini non ignora di certo la presenza dolorosa e disorientante della morte, la sua azione distruttiva e deprivante” (9-11).
Le poesie di Pardini sono colloqui con “la sagoma di Thanatos protesa/ come l’ombra di sera” (15)[8], la signora con la falce che nel corso della silloge è simbolo della fine delle illusioni, del dolore, della bieca cattiveria (“ci furono sottratti dalle fauci/ di un essere insaziabile”, 15) che in senso generale prende la forma delle più aberranti violenze (“ovunque sei/ c’è male e distruzione”, in “Morte”, 65), crudeltà, catastrofi e le stragi che concernono l’uomo: “terremoti,/ guerre fratricide senza fine,/ barche sperdute in mari indifferenti,/ innocenti caduti in primavera”, 15). Dal primo componimento si evidenzia l’intenzione del poeta di non voler rendere il tema della morte in forma generale, come concetto al quale riferirsi, bensì di darne nome e foggia: di distinguerla, di rappresentarla nelle sue tante forme e voluttuosità. Significativo il riferimento – che ritorna nella lirica “E quella imbarcazione?”[9] – alle ecatombe nel Mediterraneo che fanno seguito ai tanti naufragi di disperati in cerca di un futuro migliore.
Squarci di conversazione con l’Eterna compagna che prendono la forma di avvertimento: “E anche tu, morte,/ non tentare l’accesso, non ti è concesso” (in “È ingolfata la strada”, 17), di reproba denuncia: “Menefreghista,/ insaziabile carnivoro volatile/ si prende il meglio della mia giornata,/ della mia storia. Senza alcun rispetto” (in “Il tempo”, 22) con eco shakespeariano: “Quando penso che ogni cosa che nasce/ resta perfetta solo per brevi istanti,/ che questa immensa scena ci offre sol fantasmi/ […]/ mentre il Tempo distruttore cospira con la Morte/ per cambiare il tuo fresco giorno in fetida notte” (Sonetto n°15)[10]; di vero scherno: “E maledetta pure tu, morte” (in “Morte bianca”, 30); “Vai al diavolo!”[11] (in “Vai al diavolo!”, 40), c’è anche il tentativo di riconciliazione: “Non essermi nemica/ […]/ Tu che sei grande, eccelsa, immarcescibile,/ tu che tutto puoi” (in “Conversazione con la morte”, 32), e l’accoglimento della proposta: “Spero che tu mi colga nel momento/ che sto guardando il mare;/ […]/ meno duro sarà,/ meno pesante il giorno dell’addio” (in “Conversazione con la morte”, 35), continuamento di un dialogo ininterrotto: “Mi è presa la mania di parlare/ con te” (in “Conversazione con la morte”, 37).
E poi la serie di poesie dedicate, a partire da quella che ha come destinatario il “Fratello scomparso” deceduto così giovane, che il poeta anela a rincontrare (“Spero che la fortuna mi sia amica/ e che mi faccia avere il tuo sorriso/ quando verrò a trovarti, ad abbracciarti,/ caro fratello mio” in “Lettera al fratello scomparso”, 18), quella dedicata a un’anziana madre che regge a malapena la sedia a rotelle per portare in giro la figlia malata: “t’immagini morisse quella donna,/ che fine mai farebbe quell´inferma./ Perché, trucida morte, non le assisti:/ […]/ questo è il caso/ che tu intervenga ed io sono d’accordo./ Ma tutte e due insieme in un bel volo/ a sorseggiare il blu; a respirare/ aria di libertà; assieme unite/ in un abbraccio eterno, meritato” (in “Ogni giorno”, 25), lirica angosciante e di grande attualità come tema: quando è (umanamente, eticamente, civilmente, giurisdizionalmente) giusto porre fine alla propria esistenza, in uno stato di letargia e di impossibile cura? Temi che ritornano, quelli della legittimità e del diritto alla morte, in “Oggi ti approvo, morte” in cui si legge: “sono d’accordo con te, questa volta./ Soffriva da tant’anni; il male lo rodeva./ […] senz’altro/ ha smesso di patire” (41). Una poesia è dedicata a due genitori che hanno perso prematuramente il proprio figlio (“Ai suoi lati/ padre e madre abbracciati disperati”, in “Ho visto”, 36) e un’altra a un uomo che è rimasto ucciso dal trattore che “ha sbranato l’uomo” (in “Senza rimorso”, 39), finanche la lirica dedicata a Dante, “uno dei pochi/ a vincere la morte” (in “A Dante”, 51) sulla sua tomba a Ravenna. In “Dialogo con la morte”, quest’ultima contraddistinta per essere “macilenta, scheletrita” (26), senza tergiversare Pardini annuncia il tragico appello “Lo sai che prima o poi faremo i conti/ […] preparati alla fine/ […] fissa bene/ quello che ti è dintorno” (26), parole alle quale l’io lirico risponde con dignità e fermezza implorando di lasciarlo stare: “Lasciatemi in pace!/ È inutile tu venga anguicrinita/ a disturbare i giorni che mi restano./ Voglio viverli senza pensamenti” (27).
Questo volume di Pardini fa venire alla mente ad alcune delle opere più struggenti e affascinanti della letteratura mondiale che hanno posto il tema della morte al centro delle disquisizioni dell’io lirico: dalla debolezza e inettitudine dei crepuscolari immersi in tanto grigiore e aria malata che li porta di continuo a riflettere sulla morte, al decesso dei romantici e alla mania cimiteriale, finanche alla morte come slancio, dei ribelli d’animo, dei bohémien, dei maledetti, degli scapigliati, di coloro che non hanno mancato di progettare un volo ardimentoso. Più propriamente, però, sembra di respirare il linguaggio cauto e investigativo di Leopardi del Dialogo della Moda e della Morte dove rifletteva attorno – nei dintorni, appunto – alla Morte che – personificata – così esordiva nella conversazione: “Aspetta che sia l’ora, e verrò senza che tu mi chiami”.
C’è, indirettamente il Pavese straziato di “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, poesia scritta il 22 marzo 1950[12], (“Verrà la morte e avrà i tuoi occhi/ questa morte che ci accompagna/ dal mattino alla sera, insonne,/ sorda, come un vecchio rimorso/ o un vizio assurdo.// […]/ Per tutti la morte ha uno sguardo.// Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”) e, nell’humus di questa poesia di Pardini che battaglia con la morte facendo prevalere la vita, il desiderio e l’amore, anche Emily Dickinson, Federico García Lorca, Pablo Neruda, solo per citarne alcuni. Si rivela anche Giovanni Testori che, nell’opera teatrale Conversazione con la morte, dialoga con la “cara, dolce ed eterna ombra” che di volta in volta assume sembianze diverse, a volte fascinose altre terrificanti. Nelle trame della poesia di Pardini che affronta in siffatta forma il tema della morte, la transitorietà dell’umano, la spavalderia del tempo assassino e la denuncia del male, c’è anche la presenza massiccia della poesia elisabettiana: la dark lady di shakespeariana memoria e la sfida beffarda alla morte (che si ritroverà in S.T. Coleridge) nella poesia “Morte, non essere orgogliosa”[13] del metafisico John Donne. Qui si legge: “Morte, non andare fiera, se anche qualcuno/ ti ha chiamata terribile e potente- tu non lo sei;/perché quelli che tu pensi di travolgere, non muoiono/ povera morte, né tu puoi uccidere me./ […]/ Tu sei schiava del fato, del caso, di re e di disperati,/e dimori col veleno, la guerra e le malattie,/ […]; Morte tu morrai”.
La morte – inquietudine e controversia interiore – viene a suo modo esorcizzata e allontanata dall’ordinario come il poeta fa in “Non scriverò di certo, morte” dove si legge: “Scriverò, al contrario, della gioia/ che zampilla dattorno per i prati/ […]/ Mi piace tutto quello che si oppone/ all’impertinenza della tua presenza,/ morte” (23). La morte si offusca con la supremazia del bene e il dominio della luce; il Bardo inglese scrive: “Al tempo contrasterai la tua eternità:/ finché ci sarà un respiro od occhi per vedere/ questi versi avranno luce e ti daranno vita” (Sonetto n°18) e l’americana Emily Dickinson “Chi è amato non conosce morte…”. A loro fa eco Pardini che annota “Amare è quello che faremo,/ senza indugi e senza reticenze,/ sarà la nostra fiamma,/ il fuoco che ci incendia/ a tradire la foga dell’eterno,/ dell’eterno mistero della morte” (in “Andiamo insieme, Delia”, 31); “Ma la natura vuole che l’amore/ vinca su tutto a costo di morire” (in “Un ramo secco a terra”, 49). Questa via salvifica di luce e di completa comprensione dell’umana natura, nel rispetto del limite della Creazione e nella fiducia in una alterità eterna, sono ben custoditi nella lirica di chiusura del volume, così ricca di bagliori e di riflessi: “La luce incoronò valli ed abissi,/ e tutto fu chiarore./ […] Si aprirono le tombe,/ la morte si redense in cherubino./ Dovunque fu un abbraccio/ di fratelli, madri, padri;/ […]/ nacquero fiori/ […]/ ci furono romanze/ […]/ E tutto fu sereno,/ e tutto illuminato dalla luce del cielo./ […]/ non fu più notte/ […] Fu gioia. Fu luce attorno, accecante,/[… ]/ fu luce nelle anime/ che vollero l’amore/ […]/ Tutto fu largo, immenso/ […]/ Vinse l’amore, e nella notte/ si accese la lampada divina,/ grande, enormemente forte,/ più che d’agosto la calura estiva./ Più che di giorno la gloria del Signore” (67-68). Ed è proprio in questo percorso di auto-rassicurazione e di rinata speranza che si procede nel vivere ordinario, scantonando impervie vie e ombre che s’allargano a macchia d’olio perché, proprio lì dove, come sostiene il Nostro, “I dintorni riprendono il colore,/ aprendosi in segno di speranza” (in “Mi sembra che il vento”, 20).
Lorenzo Spurio
Jesi, 27-01-2020
[1] Particolarmente bella la risposta datami in un’intervista di qualche anno fa nella quale chiedevo al professore il motivo di questo titolo per uno dei suoi libri e poi per il blog letterario. Anche se un po’ lunga mi piace riportarla per intero per permettere ai lettori di apprezzare questo testo così sapiente, ricco, persuasivo, degno della più alta critica letteraria: “Leucade è l’isola del sogno. Della dimenticanza. Della rupe da cui si gettavano, in mitologia, i grandi, compresa Saffo abbandonata dal suo Faone, per dimenticare appunto le pene d’amore. Ma qui rappresenta il culmine di una ascesa lirica e formale. Il viaggio tormentato di una memoria che dal ventre della terra riesce a proiettarsi in mondi di onirica bellezza non per dimenticare, ma per rivivere i grandi e i piccoli fatti della vita. Ed io ne sono uscito dal salto con tutto il mio bagaglio esistenziale. Potrei riportare citazioni di tutto il mondo classico, ma una in particolare [(Dum loquimur fugerit invida aetas (Quinto Orazio Flacco)], credo sia la più vicina al senso di fragilità della vita, terriccio fertile per la poesia. A cosa mi sono rifatto? Alle memorie di quella cultura assorbita al liceo, e decantata nell’anima fino a farsi attuale, esistenziale, autobiografica, e decisa ad uscire a nuova vita. Mi sono rifatto alla mia storia, alla realtà di ieri e di oggi, aiutato da una natura fattasi simbolo coi suoi squarci di luce, colle sue corse di dune e ginestre, con le sue fughe e i suoi ritorni, coi suoi profumi e le sue ombre, a concretizzare segmenti d’anima. Leucade riguarda il mio credo poetico. Che cosa sia la poesia è certamente uno degli interrogativi più annosi della storia dell’uomo. La sola certezza comunque è che necessita, volenti o nolenti, di realtà individuali, di singole esperienze, di vicissitudini ed emozioni personali, per aprirsi dal memoriale all’immaginario, dalla vita al gran senso. E questo volume io credo trovi la sua compattezza partendo dal sapore della realtà, da ciò che conserva di primitivo per ampliarsi sempre più verso prospettive di largo respiro, tese a farci aspirare a qualcosa che svincoli, sleghi. E si fanno avanti il sogno, la fantasia, l’immaginario che non riescono comunque mai a liberarsi del tutto dal bagaglio del memoriale che ci portiamo dietro sempre più vago e nostalgico, ma vera vita, vita che resta, filtrata dal tempo, scampata e per questo degna di esistere in noi nel bene e nel male. E quello che ci tormenta è proprio il pensiero del suo destino. Chi lo affida ad una fede religiosa, chi al puro sogno, chi ad una fede poetica e chi laicamente ad un’isola quale potrebbe essere quella di Leucade, tentativo foscoliano come terapia al morbo del dubbio. E Leucade rappresenta la purezza laica, la bellezza, l’isola dell’equilibrio classico, della realizzazione del supremo su questa nostra problematica terra; il tentativo di elevarci laicamente al sapore del durevole. È Ulisse che riprende la sua navigazione: “Ancora salperemo / oltre colonne, questa volta mitiche / d’impedimento ai sogni. Là più lucido / e più eguale all’eterno sarà il liquido / dell’Oceano aperto” (Il ritorno di Ulisse, vv 43-47). Il linguaggio stesso subisce un’evoluzione di adeguatezza diacronica. Si insaporisce di termini arcaici, tende sempre più alla plasticità del distacco marmoreo. Ed è sullo scoglio di Leucade che si raggiunge il colmo di una scalata lirica che permette sia la dimenticanza degli affanni esistenziali, la ripulitura per così dire del vissuto, che l’amore del tutto, ora veduto con altra dimensione umana, direi quasi ebrietudine dell’immagine che si fa poesia. La circolarità si compie nei canti arcaici. Dove tutto il mondo prepericleo, in cui secondo me immensi erano i presupposti immaginativi e creativi, irripetibili per liricità poetica, dipana una visione superlativa di amor vitae che si fa plenitudine di canto e di filosofia laica dell’esistenza”, in Lorenzo Spurio, La parola di seta. Interviste ai poeti d’oggi (2012-2015), PoetiKanten, Sesto Fiorentino, 2016.
[3] Non a caso come ha rivelato in un’intervista da me fatta alcuni anni fa il libro da lui maggiormente amato è Fosca di Igino Ugo Tarchetti da lui descritto in questi termini: “È un libro della Scapigliatura lombarda. E parla dell’amore per il brutto, per ciò che si differenzia da quello che comunemente appare bello. Mi piace soprattutto l’arte della parola dell’autore. La capacità di rendere semplici certi concetti di per sé astrusi. E poi ci ho trovato, nella sua contrapposizione al Romanticismo, all’ultimo Romanticismo piagnucolone del Prati e Aleardi, una forza di reazione letteraria che sa tanto di nuovo. […] Quel libro l’ho letto, la prima volta, assieme alla mia ragazza nei tempi dell’università. Magari in quei tempi tutto poteva apparire affascinante”, in Lorenzo Spurio, La parola di seta. Interviste ai poeti d’oggi (2012-2015), PoetiKanten, Sesto Fiorentino, 2016.
[4] Floriano Romboli nella prefazione a I dintorni della vita. Conversazione con Thanatos (2019) scrive: “[Il poeta] concentra l’attenzione sui “dintorni” di determinate, capitali situazioni spirituali, ne focalizza gli aspetti problematici, ne sonda la profondità sentimentale e intellettuale” (7).
[5] Prefazione a Nazario Pardini, L’ultimo respiro dei gerani, Lineacultura, Milano, 1997.
[6] “Cinzia Baldazzi legge I dintorni dell’amore ricordando Catullo di Nazario Pardini, Alla volta di Lèucade, 1 settembre 2019.
[7] Prefazione a Nazario Pardini, Si aggirava nei boschi una fanciulla, ETS, Pisa, 2000.
[8] La poesia che apre il volume, senz’altro una delle più incisive, s’intitola “Doloroso il viaggio”.
[9] Qui si legge: “E il mare è grande,/ immenso quanto te che tieni addosso/ le vite dei mortali./ […] ha inghiottito senza alcuna pena/ le cento e più persone alla ricerca/ di una terra fraterna/ […]/ Ora son li distese in un salone/ le cento bare; fra tante mi ha commosso/ quella in legno bianco di un bambino/ che conosceva il mare dell’estate,/ magari quello azzurro di una fuga” (60-61).
[10] Le citazioni dai Sonetti shakespeariani sono tratti dalla edizione di Garzanti anno 2003.
[11] Sono le stesse parole che la Morte consegna alla “sorella” Moda in Dialogo della Moda e della Morte di Giacomo Leopardi: “Vattene col diavolo. Verrò quando tu non vorrai”.
[12] Si sarebbe suicidato qualche mese dopo, esattamente il 27 agosto 1950.
[13] Titolo originale “Death be not proud” identificato come Sonetto X.
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Il titolo della silloge, Metamorfosi e sublimazioni (Guido Miano Editore, Miano, 2019), racchiude in sé gli effetti che la poesia è solita generare nell’anima di chi ad essa affida la propria anima, il proprio sentire.
Passione e amore, solitudine e sofferenza, serenità e gioia, insomma l’anima umana nel suo poliedrico sentire vive la metamorfosi e la sublimazione che la poesia nel momento in cui incide sulla carta il nostro sentire, concede. “Poesia in re”, come diceva Anceschi a proposito di Sereni, poesia che morde il reale sentire con l’intransigenza del pensiero e l’urgenza della parola.
Una proustiana “recherche” che diventa sequenza d’immagini, di vita vissuta, oppure un repertorio di possibilità interscambiabili: “… il grido d’entusiasmo…/…/… conservalo / per un nuovo bagliore di speranza…” (Nel dialogo taciuto, pag.46), ma spesso anche senza rinvio a nessuna compiutezza: “… Ogni volta si muore / ma non solo tu sei … / ma non solo io sono … / Insieme alla vita di qua / è frammista la vita di là…” (Ambra d’oro, pag.17).
Microstorie che narrano in versi una vita non tanto nella sua esteriorità effettuale, quanto nelle ripercussioni esistenziali che, grazie all’ispirazione poetica, subiscono una metamorfosi catartica e perciò una sublimazione nella quale anche la fugacità del tempo, nel momento stesso in cui con amarezza viene rilevata, perde consistenza. La levità affabulatoria, la forza icastica dei versi favoriscono l’oggettivazione lirica, la resa delle emozioni che, nude, vengono fissate nel fermo-immagine delle parole.
Francesca Luzzio
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Rita Fulvia Fazio al suo esordio letterario, è ospite di Guido Miano Editore nella collana Poesia Elegiaca del Maestri Italiani dal ‘900 con l’opera Metamorfosi e sublimazioni (2019).
Questa autrice va letta con estrema attenzione. In Ritmo tra sogno e realtà alla pag. 55 l’autrice con semplicità ed estrema grazia pare offrirci il suo programma poetico. Dichiara insomma di cosa sia fatta la sua Poesia, che essenzialmente si nutre di natura, traendo però misura e ritmo dall’immaginazione. In una poetica così intesa c’è tutta la vita di Rita Fulvia Fazio. Attraverso la Poesia, la natura ispiratrice le invia i suoi messaggi ed attraverso la poesia l’autrice risponde alla natura, facendosi canale di trasmissione e recezione di poetiche missive.
Ella utilizza il mezzo poetico, per chiedere agli elementi della natura stessa di esprimere la loro essenziale perfezione poiché solo così ha senso per l’autrice, la sua stessa esistenza: “Esisto, eppure / non per me vorrei / chiedere al tempo / d’esistere… vorrei /…/ ma per… chiedere / alla fonte d’essere viva, / sempre; / alla rosa di crescere, / perfetta; / al mare di avvolgersi / nell’onda dal sapore / di salsedine…” (Scintilla d’eternità).
Ma vi è sicuramente di più. È senza dubbio un occhio innamorato a guidare il senso poetico di Fulvia Fazio e le sue liriche si possono ben considerare figlie della poesia elegiaca contemporanea, soprattutto quando nel prevalere degli aspetti soggettivi, ella si ripiega in se stessa e osserva il suo io, la sua anima o quanto di intoccabile e invisibile possa esistere nel processo di cambiamento e metamorfosi in un essere umano.
Le liriche di Rita Fulvia Fazio, hanno proprio questo pregio specifico: condurre il lettore lungo il percorso di vita fatto dalla sua stessa anima, curiosa e per taluni versi impavida. Una strada che, al pari dell’autrice, con l’aiuto della Poesia, ognuno di noi può compiere.
I temi e i motivi della sua ispirazione sono molteplici e tra loro sovente intrecciati. Spaziano dalla condizione umana vera e propria alla sua personale sensibilità amorosa. L’amore che ella sente e descrive, è a volte infelice e a volte fonte di gioia e di felicità.
È nell’incontro con la sofferenza però, che questo sentimento diviene, nell’espressività di Fulvia Fazio, esclusivo e totalizzante. In alcune sue liriche, a poetessa evidenzia un cuore continuamente senza pace, il sentimento sembra portatore di angoscia più che di serenità, tanto che in una incessante azione selezionatrice, esso diviene quanto mai strumento di altissima elevazione spirituale. Di pari, si innalza la sua ricerca poetica a speculare i temi dello spazio, del tempo e del proprio Sé, introducendo il lettore in atmosfere spazio temporali davvero rarefatte e talvolta dal sapore metafisico. È questo il modo che la poetessa predilige per agire una vera e propria fuga dalla realtà.
Ciò nonostante appaiono sublimi le sue evasioni in un mondo di sogni, dove lo spirito si rasserena e rinfranca e i problemi quotidiani, i desideri irrisolti, le aspirazioni deluse, immersi in paesaggio idilliaco, fatto di pace gioia e serenità, sembrano perdere consistenza perché è proprio in quell’onirico mondo in cui Rita Fulvia Fazio vuole nel tempo ritrovare, oltre se stessa, anche chi di più le è caro: “Tre affetti / e li porto con me / ma, aspettatemi, perché / se rinasco, lì vi voglio trovare…” (Trucioli).
Siamo di fronte ad una splendida autrice dalla plurima sensibilità da cui derivano anche i molteplici significati, taluni apparenti, altri volutamente nascosti, che il suo messaggio poetico reca. Immergersi tra le liriche di Fulvia Fazio è come trovarsi in una fantasmagorica sala degli specchi dove l’anima, in mille modi riflessa, tenta di risolvere l’enigma e il mistero della sua esistenza temporale. A noi dunque solo resta “… con mani di calce bianca /…/ intonacata /…tra cielo e mare, / la meraviglia!” (Accordi) e con la sua arte concordare.
ANNA CASTRUCCI
L’autrice della recensione acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere a seguito di riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.
La prima impressione che si ricava dalla lettura delle poesie di Rita Fulvia Fazio è che non si ha a che fare con una neofita della scrittura poetica che appare controllata ed attenta, misurata e, quasi sempre puntuale, nel suo fluire morbido, senza scosse, urti e fratture e non cede alle tentazioni autolesionistiche dell’attardamento e del compiacimento anche quando sembra, rarissimamente, voler indulgere e cedere all’iterazione di taluni termini. I versi, se non puntano decisamente alla verticalizzazione, salvo qualche volta per una sorta di bisogno interiore, non cedono mai alla cosiddetta ‘orizzontalizzazione’ e mantengono, per scelta consapevole, la delicatezza pensosa del tono, risultando, al tempo stesso, intensi e votati alla sinteticità dei concetti che richiamano situazioni esperienziali e ripropongono sentimenti veri perché vissuti e sensazioni significative e personali. Si tratta di un vissuto che risulta sostanzialmente sereno, pur con dati di sofferenza e con qualche nota di rimpianto, in una visione positiva se non anche appagata.
L’autrice è abile nel non dire né troppo, né troppo poco, lasciando al lettore non solo la possibilità di ritrovare, nei versi e in certi flash, elementi di condivisione, sia pure parziali e di comunione talvolta – cosa importante considerato che il successo della poesia, almeno per metà, stando ad alcuni intenditori, è dovuto al lettore – ma anche la possibilità di originare una pluralità di percorsi possibili in accordo con la sensibilità di ciascuno.
Il linguaggio, prevalentemente intimistico ed elegiaco, come sottolineano alcuni interventi critici e come indica Guido Miano nel suo rimando puntuale alla modalità poetica in questione, tende sempre a una certa levigatezza nella linearità intenzionale, e quindi senza forzature, e sa mantenere il carattere di equilibrio conservando il giusto grado di ‘ambiguità’; inoltre fa sì che le parole siano il connubio felice tra significato e significante, tra denotazione e connotazione, come annota Enzo Concardi nella prefazione al libro, consentendo la pluralità dei riferimenti e richiamando sensazioni, impressioni ed emozioni capaci sempre di alludere ad altro e di indicare un oltre, indispensabile in poesia.
C’è un certo rigore a guidare la poetessa, pur nel fluire libero dei pensieri e nelle cesure, non mai rigide nel chiudere i versi e tali da non scorciare il flusso delle emozioni, sia quelle presenti ed attuali, sia le passate e recuperate per memoria, sia infine, in certe prospettazioni future, con ponti a più campate, appena accennate e in talune figurazioni che vanno nella direzione dell’al di là.
Risulta evidente, anche se l’autrice tenta di mascherarlo schernendosi non apertamente, tutt’intera la sua anima con l’interezza del candore, il tremore dinanzi a certe situazioni, il desiderio-bisogno di rimettersi sempre in gioco, lo stupore e la meraviglia dinanzi ad alcuni aspetti del creato, la disponibilità a sperimentare nuove situazioni non in contrasto con quelle passate, e sempre alla base, una tensione latente, ma neppure poi tanto, a voler superare i limiti sempre delle angustie della terrestrità per sollevarsi sulle punte ed elevarsi in alto quasi ad annusare il senso del mistero e dell’eternità.
E c’è ancora la suggestione spirituale dei sentimenti con al di sopra, a campeggiare, l’Amore che viene riportato con l’iniziale maiuscola e che è presentato in una gamma piuttosto vasta di manifestazioni e rimane comunque salvifico.
Il discorso poetico si apre sulla linea della memoria e del rimando al passato con l’accumulo enorme di ansie sottili, timori palpabili, paure vere e proprie, palpitazioni intermittenti con il cuore a far capriole ma anche con silenzi carichi di sottintesi, sofferenze vive, senso della disperazione a volte, ma anche sorrisi aperti, gioie serene, appagamenti pieni come testimonia l’immagine efficace delle “mani di calce bianca / intonaca / tra cielo e mare” che pone su tutto la possibilità concreta della speranza che risulta essere in qualche modo una sorta di filo conduttore.
La poesia si muove così nell’aggancio, almeno come aspirazione, tra terra e cielo sulla linea dell’amore e con la positività che il canto intreccia tra “perse stagioni / fra dubbi e speranze” delusioni e senso di solitudine, “anche oggi / è una giornata morta: / il cuore è spento” con la sensazione dell’abbandono e della rassegnazione dal momento che l’anima dell’ autrice sembra definitivamente relegata in “una prigione senza confini” ma al tempo stesso lascia trapelare la volontà di smetterla col pianto e coi sorrisi non conditi di tenerezza e quindi non autentici e alimenta sicuri ancoraggi. Lo sguardo spazia intorno e sembra, a momenti, perdersi nello spazio circostante e fondersi con la natura per dichiarazione esplicita e diretta dell’autrice: “Per me è / poesia /…/ e mi commuove pensarlo.”
La tensione emotiva è talmente forte da spingerla a piangere “di gioia e di bellezza” e poiché le corde del suo core vibrano, in quanto “creatura di preghiera” sa incantarsi, sorpresa e rapita, nello “scintillìo di luna e stelle” sicché ella sente di cedere del tutto alla “cascata di luce” che “riverbera sull’acqua azzurrata” ma anche nel curioso “avvicendarsi delle nuvole / nel giocare a rimpiattino.” E questo accade finanche nella città eterna di Parigi dove la vita è frenetica. Ma la capitale francese resta sempre città del sogno, dal fascino antico eppure nuovo. E così torna per memoria – ed ha quasi una funzione catartica – l’immagine romantica e suggestiva di Montmartre con il suono dei passi e sempre il proposito di raccordare la mente con il cuore.
Fortemente sentito è pure il richiamo al sole “gioia tonda, leggera, esplosiva che / abbraccia l’eterea fresca giovinezza” dotato di funzione vitalizzante; di qui l’augurio affinché esso non attenui il suo splendore anche se a sera, inevitabilmente, la mimosa, assetata di luce, avvizzisce. Tutto questo non spegne o attenua l’entusiasmo della poetessa che si augura che anche nelle occasioni di disperazione il dolore possa essere stemperato proprio dai benefici effetti del sole.
Nella quotidianità dell’esistenza qualche cruccio subentra ad assillare in uno con la monotonia delle ordinarie incombenze noiose e per le inevitabili incomprensioni che affaticano nel rimando, con il senso del paragone alle “nuvole / lassù, a reggere il peso / di tutti i giorni.” Malgrado tutto ciò non c’è il senso della resa ma una sorta di accettazione accompagnata sempre da un evidente “esangue / tormento delle speranze.”
In altre circostanze Rita Fulvia Fazio sottolinea il piacere di godere uno spettacolo della natura come dinanzi ad una distesa marina: “Cascata di luce / riverbera sull’acqua azzurrata. / Tu, imprigionata oscurità / dell’ansia e della distrazione, / vivi ipnotizzata ascesa / al magnetismo solare / in calma affettività.” Talvolta l’autrice sembra incantarsi dinanzi alle meraviglie del creato, dalle più piccole cose alle più grandi, tese entrambe a testimoniare il senso dell’eternità: la rosa che cresce perfetta; il mare con le sue onde contro la riva; i voli liberi ed eleganti dei gabbiani; la luna che rischiara la notte nel suo silenzioso percorso; le stelle tremule, quasi “bottoni di madreperla” di cui parla Campana. E poi le tante sfumature della luce coi toni diversificati che realizzano “trionfali colori dell’arcobaleno” e ancora i tramonti, ora infuocati, ora sbiaditi, i fiocchi di neve, il bisogno del tempo da vivere nella dilatazione dello stesso, e tanto altro ancora.
E l’amore lo si può ritrovare quasi ovunque, a far capolino, prima di nascondersi, a mostrarsi nella sua bellezza e forza, a velarsi di malinconia, a riproporre situazioni lontane, a palpitare, a sperimentare sensazioni nuove e delicate, quasi fanciullo indomito, oppure è nascosto nei dialoghi taciuti, nelle parole non dette, nei gesti, negli sguardi nella reciprocità di certi segnali. Ed è amore forte anche quando promette “lacrime / … come stelle cadenti” o quando sa testimoniare, magari in maniera tacita e senza fare rumore, sfumature di affetto “la mia emozione più riposta / tra teneri trucioli / che il vento solleva / nell’anima di fanciulla” e finanche quando sembra perdere il vigore, quasi un affievolimento del cuore che smette coi sobbalzi e coi capitomboli e cede, senza resa, alla ragione. Resta sempre tema presente e ritornante e, seppure muta forma, sa conservare intatto ed intero il suo incanto e la meraviglia: “Ora che io ti guardo, / il tuo sguardo è, per me, / dolce incanto riflesso, / nel tempo di te.”
La reciprocità del sentimento risulta evidente e pare avere in sé un che di stilnoviano, per la pulizia, la forza incantevole della comunione pur nella condizione riflessa che rimanda l’autrice indietro nel tempo e le fa dire: “Una volta mi amavi.” Ed è manifesta una sorta di pacata rassegnazione nella ripetizione plurima dell’affermazione che si carica di dolcezza strana e di una vaghezza di positività che si ritrova in tutti i versi e soprattutto nella chiusa della lirica Nel e fuori dal tempo: “Una volta di noi, / noi che al tempo / restiamo nel sapore di sé.” Sovente compare il velo della malinconia non disgiunta da una sensazione di tristezza e quasi di gelo: “È proprio inutile / che io sia / qua a sperare.” L’inutilità della speranza è segnata da “un presente” che “non ha / ritorno” e da un futuro sbiadito e come votato alla delusione. Eppure in fondo al cuore sembra affiorare timidamente una speranza che addolcisce e una sorta di trepida intesa che lega il passato al presente: “E l’attesa / fu Amore / per l’amore che ora è qua.”
Altrove l’amore si connota come forza vitale e prorompente con manifestazioni diversificate e capaci di originare emozioni forti e taglienti come lama. E così può avere “occhi di vento” ma può anche essere “taglio di lama affilata / che va dritta al cuore” e per altri versi può sollevare “tempeste di sole” o, in altre circostanze, può offrire “veli di baci sopiti” e può limitarsi ad accarezzare delicatissimamente “la mia anima / rullante / di tamburi in festa” o ancora penetrare dolcemente e invadere “la calma di questo / cuore furente d’Amore per te.” E come a completare il quadro appare una sorta di cornice fatta di “ciliegi in fiore” quasi a ricordare le note di una bella antica canzone nel comune rimando alla primavera che è anche primavera di vita.
Ma il cuore, che a volte fa capitomboli e lancia bolle per l’aria carica di sole, altrove sembra votato a chiudere le sue porte per cercare consolazione nell’isolamento. Subentra così un bisogno di meditazione accompagnato da un velo di rimpianto e tristezza che tende ad imporsi e quasi a scacciare la dolcezza dell’amore e, a tratti, forte è la tentazione di “spalancare, finalmente / la porta della paura”; tale sensazione è racchiusa efficacemente nel titolo della poesia Purtuttavia con la doppia avversativa. Non manca nella Fazio il senso malinconico e problematico dello scorrere inevitabile del tempo con la sua ineluttabilità che costringe quasi ad una febbrile corsa per sfruttarlo al meglio nell’idea che da un momento all’altro esso possa mancare: “Ho fretta, ho fretta di vivere / poiché ogni istante che segue / potrebbe più non esserci.” L’autrice, pur non subendo eccessivamente la sensazione spiacevole del passaggio terreno, sente il bisogno di andare oltre e di precisare la sua ansia di agire: “Ho fretta di sguardi avidi di luce / a sorprendere luminosità svelate / nei labirinti più intricati / di parole e immagini.”
Altre volte compare un senso di solitudine che, tuttavia non stanca, o almeno così sembra, e quasi precede il corroborante silenzio con la sua voce delicata e con certe apparizioni anche contrastanti in un canto misterioso nella pluralità dei suoni e sull’immagine concreta dei panni distesi, forse a sciorinare, al sole che è sole di verità: “Panni distesi, umidi, / al loro dondolarsi, / tra luce e oscurità, / chiudono e aprono porte / nel divenire dell’oggi.”
Talvolta l’autrice si lascia andare al godimento della buona musica che ha il potere di farle perdere la cognizione del tempo, non più frettoloso, di vivere uno spaccato irripetibile che fa bene allo spirito: “Estasiata, assapori / estate e poesia, / dolcemente assuefatta / alla bellezza / profonda e impalpabile.” Allora la poesia tende ad innalzarsi, a farsi raccoglimento e preghiera o, più propriamente, invito ad interrogarsi: “E io prego / senza voce che risuoni nell’aria / di ascoltare la melodia del tuo cuore.” Si tratta di dialogo intimo, sincero, vero, di un colloquio con un ‘tu’ che non ha il carattere dell’impersonalità o dell’indeterminatezza, anche se può appartenere a chiunque. Il raccoglimento non solo è astrazione dalla realtà e dalle miserie della ordinaria quotidianità, ma ripropone immagini della lontana infanzia fanciullezza con tutto il cario di tensione emotiva conseguente. Si crea una sorta di magia come nella poesia Shiatsu dedicata a Lauricella nella quale la poetessa sperimenta, per miracolo terreno, l’attimo di leggerezza e la sensazione di librarsi in volo: “Indossai ali di farfalla / per raggiungere orizzonti lontani, / senza perdermi.”; già, senza il senso dello smarrimento e quasi nel pieno della consapevolezza e ciò dà al miracolo maggior valore. Per questo ella può tranquillamente aggiungere: “Libera da ogni peso, / fui onda spumeggiante al cielo, / felicità piena. / E in quella dolce solitudine / consumai / l’ebbrezza della notte incantata.” E, se la “notte incantata” è irripetibile, l’autrice non disdegna di abbandonarsi qualche volta al sogno, magari ad occhi aperti, nella ricerca, a levante della luna “nella sua falce tranquilla” che resta sempre misteriosa e ambigua e chissà che essa stessa non si conceda al sogno e non sperimenti il senso della malinconia, del vuoto, della solitudine, in contrasto con la luminosità che sprigiona. Ed è una luna tutta umana e terrena se si presta al dialogo con la poetessa. Talora il sogno, compagno inseparabile dei poeti nelle più diverse forme, ripropone la rivisitazione dell’infanzia, con qualche punta di amaro come nel rimando al “bambino dalla mano tesa /…/ per la stretta mai compiuta.” Altre volte è richiamo alla realtà ed invito alla pace e alla fraternità contro le cattiverie, l’odio, il male dilagante che sembrano dominare e che l’autrice respinge decisamente:“ma io, mondo, ostinata e fiera, / ti consegno una preghiera saggia, / libero germoglio circolare / che non conosce rimpianto. / Pace!”
Non manca il tema della diversità, i petali di nardo, le fioriture primaverili, il sogno nel contrasto con la realtà, il rimando alla sublimazione, il richiamo a certe tenerezze infantili come nella poesia dedicata a Nazario Pardini: “Allor fanciulli / ci incontrammo / Nazario, / … / l’anima colse / scintillio / dal cuore.” E sempre, ritornante, carezzevole, tentatrice, la speranza sa farsi consistente ed allusiva, tacitamente confortando l’autrice: “Ad abbrivi sogni dolci, / reifici e riparatori / mi concedo / per rinascere / … / abbracciata al nuovo giorno.”
E sull’idea della possibilità di un giorno nuovo ci piace chiudere il nostro percorso nella convinzione che torneremo a leggere ancora Rita Fulvia Fazio che crediamo abbia ancora tanto da dire e magari tenterà modalità nuove e diverse.
Chissà!
Mario Santoro
L’autore del presente testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere in relazione ai contenuti del testo e a eventuali riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.
È di recente uscito per i tipi di Guido Miano Editore – Milano, il Numero 11 dell’Alcyone 2000, Quaderni di studi letterari e d’arte editi a partire dal 1999, racchiudono l’esperienza editoriale della casa editrice con pubblicazione di testi monografici di autori e inserti di artisti del Secondo Novecento. La pubblicazione a-periodica rappresenta la prosecuzione ideale dello storico bimestrale “Davide, rivista sociale di lettere e arti” fondato nel 1951, e da cui si è sviluppata la casa editrice diretta dalla famiglia Miano.
I vari numeri monografici oggetto di collezionismo contengono saggi e contributi critici di docenti universitari e critici militanti .
In questo numero, presenze poetiche:
Maria Cristina Casa, Vittorio Cesana, Pasquale D’Alterio, Roberta Fava, Francesca Luzzio, Maria Elena Mignosi Picone, Lavinia Napoli.