di Lorenzo Spurio
Il linguaggio è solo una convinzione arida e bastarda (91)
Se non ci si ritaglia del tempo per comportarsi da folli, si finisce sempre col diventarlo davvero. (136)
Questo di Chiara Abbatantuono è un libro che va letto almeno due o tre volte prima di poter pensare di averlo capito, perché nei tanti temi che affronta, nelle forme di disagio, nelle profondità della coscienza, è un libro che interroga il lettore, lo punzecchia, lo infastidisce (nel senso proprio del termine, senza accezione di sorta), affinché maturi in lui una sorta di risposta, positiva o negativa che sia, un riscontro vagliato da un’attenta critica nei confronti di sé e del mondo[1] –di cui questo libro non è pieno, ma è traboccante- o una forma di protezione da quel mondo dove le mancanze, le storture, i difetti, le infelicità sembrano dominare:
La realtà è questa, quella delle battaglie private e delle guerre mondiali, degli stupri, delle puttane e degli omicidi. Il mondo giusto esiste solo nelle storie di fantasia e, probabilmente, sotto le lenzuola. (97).
Non ci si sbaglierebbe, dunque, di molto nell’affermare che Doppio cieco è una sorta di post-modernizzazione del romanzo del flusso di coscienza, dove la protagonista (che non darà nessuna festa nella sua casa) è una sorta di Mrs. Dalloway[2] dei poveri, una donna che vive la sua quotidianità fatta di accadimenti insensati ed inezie, di pesi da sopportare che gravano su un animo tormentato, addirittura dissociato e in certi punti ossessivo. Chiara Abbatantuono si inserisce con questo suo libro in una fase letteraria nuova che fa dell’analisi della coscienza (non il culto di essa, ma piuttosto l’auto-critica per mezzo anche del paradosso) la chiave di volta nella rappresentazione di esistenze che possono sembrare marginali o attribuibili a persone strambe, fuori dalla pesante “normalità” della quale ci riempiamo la bocca senza sapere in che cosa, concretamente, consista. Perché poi, siamo noi, figli del secolo che tanto ha dato all’uomo in termini di scoperte, miglioramenti scientifici, tecnologici e di altra natura, ma anche custode del disinganno di una società debole, fondata sull’ego, sul denaro e sui rapporti dove meschina domina l’ipocrisia.
Con un linguaggio attento e meticoloso nei confronti di ciascun ambito della narrazione e con una mai pedissequa precisione nei confronti delle indicazioni che concernono la terminologia medico-farmaceutica[3], Chiara Abbatantuono descrive la realtà da dentro, come se in fondo sia lei stessa la protagonista delle due storie. La scrittrice, infatti, non sembra far difficoltà nello stendere sulla carta una trama ricca di curiosità, incongruenze che poi si risolvono, colpi di scena (non si immagini niente di romantico) e situazioni che rasentano il surreale. Tutto, però, è reso perfettamente all’interno di una cornice romanzata dalla forma impeccabile che invita il lettore, pagina dopo pagina, a fagocitare il libro con un’insaziabilità che non aveva mai provato prima.
Esistenze frustrate, dissociate, problematiche, piene di manie e tendenti alla paranoia sono i personaggi di questo libro, di un mondo alienato e represso dove la psiche viene tradita e si ricorre talvolta alla medicina, senza molto successo, tal altra ad atteggiamenti personali, privati, anche strambi che vanno a determinare i personaggi per condotte e comportamenti sui generis. Con abilità Chiara Abbatantuono descrive la vita di chi “[non ha] nessuna novità [e vede] intorno [a lui che tutto è] perfettamente ordinato. Tutto, ad eccezione dei [suoi] pensieri”. (65). Ma i personaggi, che vengono più e più volte equiparati a degli psicopatici, hanno sempre i loro momenti di lucidità: Ester tenta il suicidio, sì, ma ingerendo un flaconcino intero di mentine, fatto che denuncia un’intenzione egocentrica di indubbia rilevanza; Chris, tra i tanti pensieri e azioni bislacche che lo contraddistinguono, a volte è anche in grado di fermarsi, come se venisse messo in Pause, e di osservare lo scorrere degli eventi da fuori, senza la sua implicazione: “proprio allora mi resi conto di aver perso davvero il senso della misura” (82), una sorta di “voce” interna che lo fa ragionare e, come uno sprizzo di sana consapevolezza, gli fa vedere le cose per quello che realmente sono, senza esser influenzate dalle sue manie, deformazioni e parossismi.
L’apatia e il senso di noia che sembrerebbe caratterizzare Imma per lo meno nella prima parte del racconto, lascia poi il posto a una consapevolezza diversa (non saprei dire se maggiore o no) che la porterà a prendere delle decisioni importanti: licenziarsi e ingaggiare un rapporto con un ragazzo, tra la probabile insicurezza di lui e la celata voglia di lei. Si parla anche di alcolismo e si accenna a disturbi psichiatrici descritti dal DSM, che pure viene citato da Chiara Abbatantuono, a confermare ancora una volta il suo profondo interesse e padronanza di tematiche che navigano tra la psicoterapia e la psichiatria. La scrittrice pone attenzione anche nei confronti della possibile eziologia di comportamenti e traumi e la loro genesi azzardando a volte considerazioni che hanno riferimento diretto in traumi maturati a causa della famiglia (“Non sorprende che le mie relazioni in famiglia fossero sempre state morbose, frustranti, viziose e viziate”, 68). Continui e pertinenti i richiami al desiderio di togliersi la vita, idee che maturano nella mente di Imma, ma che non vengono mai prese troppo in considerazione (“Sarei tornata volentieri a casa solo per farla finita. E’ buffo pensare a quante volte ci abbia seriamente pensato in quell’atmosfera squallida quanto funerea”, 112) e il tema del suicidio ritorna nella figura di due persone che vengono citate: Seneca e Kurt Cobain che, con intenzioni e in tempi diversi, decisero di ammazzarsi.
Chris, nella seconda storia, ha 42 anni ma sembra essere molto più giovane della sua età, sia fisicamente (ed è questo il commento che fanno gli altri su di lui), sia per il suo animo inquieto che ci fa pensare a un ragazzo scontento della vita. E’ continuamente perplesso sulla sua esistenza, insoddisfatto dell’inefficacia di una terapia comportamentale prescritta dal suo analista in sedute collettive e private. Quando il medico gli diminuisce la quantità di psicofarmaci in vista di una riduzione progressiva nel tempo fino a farglieli sospendere, il personaggio si sente ulteriormente dislocato da sé e prova paura:
Spesso guardo fuori dal finestrino della metro e penso che la mia condotta sia arrivata al capolinea. Poi rivolgo l’attenzione ai passeggeri. So che loro vivono immersi nei loro problemi, eppure stanno meglio di me. (60)
Anche gli spazi che la Nostra tratteggia sembrano avere i connotati del degrado e trasmettere una dimensione psicotica, ai limiti della realtà, quasi sospesa, come fossero delle città all’interno della città che hanno vita propria, un può fuori dalla convenzionalità, dove la vita sembra scorrere in maniera diversa: non stupirà, dunque, sapere che la camera di Imma in realtà non è che un attico claustrofobico e che la città viene da lei vista come “alienante e oscenamente bucolica” (67) in un mix speziato di contraddizione che nutre la nostra fantasia e contorna la narrazione in una cornice che è quella del nostro hic et nuc, ma che può anche non esserlo.
Ad ispessire il contenuto psicologico del libro è il significato stesso del titolo, apparentemente enigmatico e che, invece, ha molto di filosofico.[4] Filosofia che si ritrova in varie citazioni in esergo come quella del celebre esistenzialista Kierkegaard che, saggiamente e al contempo lapalissianamente, recita: “Alle volte da cause enormi e poderose viene un effetto minuscolo e senza importanza, alle volte addirittura nulla; alle volte una piccola causa produce un effetto colossale” (27) che racchiude un po’, se vogliamo, la filosofia o forse si dovrebbe dire per essere più precisi l’ontologia, dell’intero libro. Il principio di causa-effetto e di consequenzialità da sempre studiato dalla filosofia viene qui reso da Abbatantuono nella quotidianità degli accadimenti dove mai si parla di casualità o sorte (secondo una interpretazione fatalista) né di ricompensa, condanna o provvidenza (com’è nel pensiero cristiano). Ogni evento (pur piccolo), produce una conseguenza (pur insignificante o invisibile) dalla quale, però, può scaturire un effetto devastante, spropositato o impensabile.
Un romanzo[5] sull’oggi, ma anche su un tempo che cambia come ogni epoca. Se ci si soffermasse sullo studio del tempo della storia di questo libro, però, dovremmo osservare che le temporalità che Chiara Abbatantuono descrive sono due, diverse tra loro: il 1993 (nella prima storia ambientata Treviso) e il 2002 (nella seconda storia ambientata a Roma). Due date che, pur non troppo lontane tra loro, la scrittrice tiene molto a riportare in ogni capitolo del libro dove i due racconti sono sezionati in porzioni che si incastrano alternativamente tra loro.
Ma il libro si può leggere anche in un altro modo: prima ci si dedica alla lettura dei vari capitoli della prima storia e, solamente una volta completato il primo racconto, si passa all’altro. Ed è questo il modo in cui ho letto il libro per la terza volta, riuscendo a capire cose che, invece, nelle altre letture, a intervalli, mi erano sfuggiti. Ma un libro, si sa, è un amico e questi può essere un fedele compagno oppure un semplice conoscente, sicché sta a noi decidere quale tipo di rapporto instaurare con esso, come conoscerlo, come padroneggiarlo. Devo confessare che io mi sono letteralmente e letterariamente innamorato di questo libro, perché in fondo, oltre a configurarsi come un tipo di lettura di quelle che a me piacciono, ha una serie di peculiarità che lo rendono intrigante, a tratti incomprensibile e che richiedono una seria compartecipazione da parte dell’autore.
Un libro da leggere e da rifletterci su, da domandarsi, ma anche un libro di studio e di ricerca perché mi ha fornito molti elementi legati al disagio da investigare e approfondire.
L’ho letto e riletto per tre volte. L’ho fatto mio.
Non so neppure se questa possa definirsi una recensione, ma so benissimo che io e Doppio cieco siamo diventati grandi amici.
LORENZO SPURIO
Jesi, 22-01-2014
[1] Il riferimento al mondo del lavoro è continuo nel corso della narrazione. Si legga ad esempio questo estratto: “In una realtà in cui tutti si ergono a maestri di vita e speculatori senza poi riuscire nemmeno a guardarsi allo specchio, c’è qualcosa che non va” (84).
[2] Citare Mrs. Dalloway non mi sembra inappropriato dato che il suo nome viene fatto dalla stessa autrice nel racconto di Imma quando, stanca di Dan, il suo pseudo-ragazzo che la vorrebbe diversa e secondo lei più bella, cita il personaggio woolfiano come espressione della donna borghese educata, piacevole, seria e pragmatica.
[3] Non a caso è la prima volta che in un libro trovo una citazione di Paracelso che, insieme a Galeno, viene considerato uno dei padri della medicina naturale.
[4] Esso è indicato in apertura al libro e la descrizione della definizione Doppio cieco è tratta direttamente da Wikipedia. In essa leggiamo: “Un esperimento in cieco o doppio cieco è in termini figurativi un modo per definire un esperimento scientifico dove viene impedito ad alcune persone coinvolte di conoscere informazioni che potrebbero portare a pregiudizi consci o inconsci, così da invalidarne i risultati”.
[5] Le due storie proposte nel libro, seppur indipendenti, finiscono per proiettarsi l’una nell’altra tanto che è possibile per il lettore considerarle come una materia narrativa unica giocata su due plot differenti, intrecciati tra loro, amalgamati e costruiti volutamente con una chiara intenzione di rimando e riflessione tra le due storie. In questo senso il libro può essere concepito come un romanzo.
LA SPIRALE DELLA PERFEZIONE
DI RITA BARBIERI
Recentissima l’uscita di un brano, composto dalla rock band femminile “Le rivoltelle”, che affronta nel testo il tema dell’anoressia e dei disturbi alimentari.
Il titolo, di per sé, è già una provocazione: “Taglia 38”, l’obiettivo-ossessione di molte, troppe donne.
La canzone si ispira alla vicenda della ballerina solista Maria Francesca Garritano (in arte Mary Garrett) che, dopo aver rilasciato un’intervista all’Observer in cui parlava dei problemi alimentari legati al mondo della danza, è stata licenziata dal Teatro La Scala con la motivazione che le sue dichiarazioni avevano leso l’immagine del teatro: «il Teatro si è visto costretto a risolvere il rapporto di lavoro con la signorina Maria Francesca Garritano in seguito alle interviste e dichiarazioni pubbliche da lei rilasciate ripetutamente in un ampio arco di tempo; dichiarazioni nelle quali si è concretizzata una lesione dell’immagine del Teatro e della sua Scuola di Ballo, nonché la violazione dei doveri fondamentali che legano un dipendente al suo datore di lavoro, facendo venir meno il necessario rapporto fiduciario che è alla base di tale legame»
Maria Francesca aveva raccontato semplicemente la sua storia e quella di molte altre sue colleghe: donne per le quali il corpo è il principale mezzo di espressione, almeno sul palco. La danza, oltre che un’arte o una passione, è una disciplina ferrea che impone ore e ore di allenamento intenso, una cura ossessiva di sé e del proprio fisico che deve arrivare quanto più vicino possibile, in un infinito e perverso asintoto, alla perfezione.
Ho studiato danza anch’io per un periodo e, se c’è una cosa che ricordo bene, è la frustrazione vulnerabile del non essere perfetta. In mezzo a quegli enormi stanzoni completamente disseminati di specchi che riflettono e proiettano ovunque immagini e pezzi di te, con indosso nient’altro che un misero body pensato appositamente per rivelare il più possibile centimetri di muscoli, fibre, pelle. Vicino a altre ragazze costituzionalmente più adatte, a un’insegnante votata alla danza letteralmente anima e corpo. Ballare con movimenti innaturali, perfino dolorosi a volte, sotto gli occhi esigenti di maestre e colleghe che da te si aspettano sempre il massimo e anche di più.
Fintanto che gli occhi più esigenti, alla fine, diventano i tuoi. Giudici severi e assolutamente parziali, sono lì per registrare ogni fallimento, imperfezione, mancanza. In questo, ancora, non c’è nulla di patologico ma il passaggio può essere davvero molto breve.
“Sogno la perfezione
le mie ossa un manifesto
il mio corpo un’ossessione
questo mondo mi sta stretto
come quel vestito addosso
devo essere perfetta
perfezione maledetta”
Così recita il testo della canzone, mentre la protagonista del video si scruta e si misura di fronte allo specchio. E dentro lo specchio, anche se non ce ne accorgiamo, c’è tutto un coro di voci che urla.
Sono le voci dei nostri echi passati: gli scherzi da bambini, le battute poco divertenti degli amici, le critiche affilate dei fidanzati e dei datori di lavoro, i commenti poco gentili dei passanti per strada. Tutte voci che ci sembra di non udire, ma che ci entrano in testa come una musica orecchiabile che torniamo a canticchiare quasi inavvertitamente.
E in più ci sono le immagini: corpi magnifici, scultorei, mozzafiato. Pelli che non rivelano nessun segno: né dell’età, né della stanchezza, né di nessun tipo di espressione. A volte mi sono chiesta come facciano certe attrici, modelle e anche ragazze comuni a sorridere senza che si formino segni… Sarò strana io ma a me, quando sorrido, il viso cambia completamente e diventa una cartina fatta di fossette, rughe agli angoli degli occhi e delle labbra e, per di più, mi si notano tutte quante… Sempre in tema di stranezza: io quando sono stanca, ho le occhiaie come i panda, la pelle spenta e la faccia tesa. E mi chiedo perché mai dovrei vergognarmene o nasconderlo. Sono un essere umano qualunque: mi emoziono, piango, rido, mi stanco, mi arrabbio e mi indigno. E tutta questa umanità mi si disegna sul viso come un quadro che tutti possono osservare e, eventualmente, interpretare.
Se analizziamo il linguaggio pubblicitario dei prodotti di bellezza restiamo colpiti da quanto spesso troviamo parole come ‘nascondere’, ‘coprire’, ‘mascherare’ e addirittura ‘eliminare’ o ‘cancellare’. Termini che, di fatto, rimandano linguisticamente a concetti come magagne, errori, sbagli da correggere e colpe da emendare.
Colpe. Da quando la stanchezza, la gioia, la fatica, l’età sono colpe socialmente perseguibili? Da quando e perché devo coprire, mascherare, correggere ciò che non è sbagliato ma semplicemente umano e normale?
Pochi giorni fa, in uno di quei giorni che definire ‘non certo dei migliori’ risulta un vano tentativo di sdrammatizzare, il barista da cui prendo il caffè ogni tanto ha disegnato con la cioccolata un cuore sul mio solito macchiato. “Si vede signorina che è triste oggi…” Ho ringraziato: il mio stato d’animo era evidente persino a un perfetto sconosciuto. Probabilmente dovrei cambiare correttore. O forse stato d’animo, ma per quello un caffè non basta, anche se aiuta…
In un sorprendente studio degli anni ’30 Kracauer osserva che : “la corsa ai numerosi istituti di bellezza è anche determinata da una preoccupazione per la propria esistenza, l’uso dei cosmetici non è sempre un lusso. Per la paura di essere dichiarati fuori uso come merce invecchiata le signore e i signori si tingono i capelli, e i quarantenni praticano lo sport per mantenersi snelli. Come devo fare per diventare bello?”
Siamo ormai abituati a sentirci consumatori, più o meno critici, di una globale società di consumo; siamo abituati anche a sentirci target di un meccanismo di marketing sempre più pervasivo che innesta volutamente (o, a seconda dei casi, esaspera) un senso di colpa, di inferiorità per spingerci a comprare sempre di più, dando il nostro contributo al proliferare di mercati e giri di affari che coinvolgono settori come quello della cosmesi, della moda, della chirurgia.
Ma quali conseguenze ha tutto questo nel nostro quotidiano? Almeno una: il senso di disagio. L’idea di avere delle lacune, delle mancanze che possono essere colmate a suon di diete, palestre, trattamenti, cosmetici e affini. Questo può portare da un lato a un processo costruttivo di miglioramento di sé, dall’altro però, nel peggiore dei casi, anche a un processo distruttivo: la pericolosa spirale della perfezione, un labirinto di specchi nel quale perdersi è fin troppo facile.
“Devo essere perfetta. Perfezione maledetta”. La perfezione non esiste, verrebbe da dire. In realtà la perfezione esiste in quanto perfetta strategia di mercato che ci vede non solo consumatori (acritici) ma anche merce: un prodotto che deve essere il più possibile capace di acquisire clientela e creare domanda, sfruttando competitività e concorrenza.
Di tutto questo, troppo spesso, ne siamo passivamente inconsapevoli. E, alcune volte, vittime.
Servono nuovi occhi per guardarsi allo specchio: occhi che non siano solo giudici pronti a condannare, metri con cui misurare, magazzini e depositi di immagini preconfezionate ad arte.
Servono occhi vigili e allo stesso tempo benevoli. Per essere belle non bisogna soffrire. E non bisogna soffrire per essere belle.
Rita Barbieri
QUESTO ARTICOLO VIENE QUI PUBBLICATO PER GENTILE CONCESSIONE DELL’AUTRICE.
LA PUBBLICAZIONE E’ SEVERAMENTE VIETATA SENZA IL PERMESSO DA PARTE DELL’AUTRICE.
Annalisa Soddu è medico-psichiatra e scrittrice. Entrambe le due componenti a cui dedica ampio spazio nella sua vita sono racchiuse nel suo primo libro, “Il fuoco di Lorenzo” pubblicato nel 2011 con ilmiolibro.
Quello che il lettore si appresta a leggere aprendo questo libricino (le pagine non sono molte, ma di contro i contenuti sono ampi) è una fotografia sul mondo che ne rivela dettagli fastidiosi, a tratti sconvenienti e in via generale dolorosi. Si parla di patologie, ma più che di malattie concrete e riscontrabili all’occhio, di malattie insidiose, invisibili perché della mente umana. Nella silloge di racconti si spazia tra comportamenti problematici (l’anoressia, l’alcolismo, la perversione sessuale) che possono dar vita a episodi ulteriormente allarmanti e che sono sanzionati dalla Legge.
L’esperienza letteraria di Annalisa Soddu è interessante perché questi racconti, privati di toponomastiche e di riferimenti precisi, sono frutto della sua esperienza diretta di psichiatra con persone deboli, sofferenti o apparentemente sane ma che secernono i semi della follia.
Non c’è spazio per il giudizio e la morale: la Soddu presenta la realtà per come è, senza mitigarla, inserendosi in quelle lacune delle mente, negli inceppamenti del normale raziocinio, per vedere come gli affetti dalla patologia reagiscono se sottoposti a cure, i motivi dell’insorgenza del problema –nel caso sia possibile indagarne- e il clima familiare/sociale che circonda il malato.
Nella gran parte delle storie qui contenute, infatti, si osserva una struttura tripartita dei personaggi, di coloro che intervengono attivamente sulla scena:
Annalisa Soddu conduce il lettore mano nella mano nelle pieghe tortuose della psiche, tra gli sbalzi d’umore, le azioni violente e sconsiderate, l’indifferenza che spesso la società (il mondo esterno) ha nei confronti del ‘diverso’, tra intervalli di euforia e depressione che arrivano a manifestarsi come un vero e proprio annichilimento dell’anima e del corpo.
La convinzione che il lettore si va facendo leggendo questa raccolta è che se una patologia esiste, se un personaggio ha una certa condotta, al di là dell’eziologia della patologia, ha di certo a che vedere con una realtà pregressa dove, pure, può trovarsi annidato un trauma, un episodio sconcertante che l’individuo non ha mai superato da solo e che lo ha portato poi a una sorta di autodifesa, adottando gesti/comportamenti sbagliati. Ma come si legge nel primo racconto, la Soddu sembra andare oltre le motivazioni di carattere prettamente psicologico, scienza che pure spesso non riesce con accuratezza a svelare le ragioni di siffatte anomalie della mente (“le cause di queste malattie maledette non si conoscono”, p. 11) per osservare invece quasi sull’onda di un convincimento popolare che “Quando si nasce con la sfortuna addosso, è difficile scollarsela” (p. 9). Dunque intervengono anche delle ragioni che rispondono a un pensiero di tipo fatalista, idea che ritorna anche nel secondo racconto in cui nell’incipit viene nominata la “malasorte” (p. 13).
Il tormento può essere la conseguenza di uno stato di una condizione di solitudine dovuta a lutti e all’isolamento dominato da stati d’alternanza tra depressione ed euforia come avviene nella seconda storia narrata; la pazzia, l’incontrollabilità delle azioni, può essere motivo di preoccupazione ulteriore quando si è madre e si deve supervisionare la crescita dei propri figli e proprio per questo la donna de “La signora G.” finirà per essere allontanata dalla sua famiglia con un TSO. Quello che si configura come un gravissimo disturbo alimentare può essere spiegato a livello psicologico ricorrendo a un episodio di violenza sessuale subito in tenera età. Episodi clinici quali l’incesto e la pedofilia sono spesso i più difficili da trattare all’interno dell’ampio panorama delle deviazioni sessuali, perché frequentemente la vittima si sente colpevole di quanto successo e si rifiuta quindi di denunciare l’uomo o di raccontare l’accaduto (“Si divertiva a farla sentire una puttana, per tenerla in pugno e indurla a stare zitta; ecco perché in lei c’è la più totale confusione, perché lei ha attribuito a se stessa la colpa di tutto, quando invece era una bambina, e lui un porco”, p. 25).
Il mondo che circonda chi ha subito un grave danno psichico o fisico (la famiglia, le amicizie, la società) può apparire spesso insensibile nel sondare un malessere nell’aria che consenta la confessione del malato, più spesso si denota una difficoltà da parte della società –anche nei familiari- nel “diagnosticare”, ossia nell’individuare dei segnali che andrebbero colti. In altre circostanze è la stessa società, per mezzo delle sue istituzioni e strutture, che sembra essere incapace di dare giusta accoglienza a chi ne avrebbe bisogno perché il sistema sanitario è debole: “Il Comune non ha soldi per trovargli una casa popolare; il servizio psichiatrico non lo può tenere che per pochi giorni, le case di cura qualche giorno in più, ma poi lo devono mandare via” (p. 35). C’è una velata polemica nei confronti dello Stato, che è tanto più dura per il fatto che l’autrice, psichiatra, conosce in prima linea tutto ciò che concerne il sistema d’accoglienza di menti pericolose.
Ma in queste fasi di blackout della mente, di sinapsi interrotte, di atteggiamenti deviati e condannabili, ciò che preme sottolineare è la sperimentazione da parte del malato di una realtà altra da quella odierna, a volte onirica, altre volte utopica. In tutti i casi il paziente malato si eclissa dalla realtà sana per costruire un suo mondo dove, però, finisce per essere lui/lei l’unico abitante. In simili circostanze la malattia, oltre a portare al deperimento del corpo (come nel caso dell’anoressia), conduce alla sperimentazione di una realtà finta, surrogata, ricreata, di quel microcosmo indotto dal trauma e dalla patologia stessa.
Doloroso il racconto “La moglie di Pietro” in cui la voce narrante è quella della povera Luisa uccisa dal marito perché geloso in maniera ossessiva e violento che in un raptus di follia arriverà ad uccidere la sua donna. La storia riecheggia i tanti casi di femminicidio che la Cronaca riporta e per i quali sembra che la legislazione italiana si stia finalmente movendo –sebbene con gravoso ritardo- ai fini di una maggiore salvaguardia della libertà della donna nei casi in cui l’ex marito o fidanzato dimostri atteggiamenti ossessivi e denigratori.
Annalisa Soddu con una prosa spigliata ed essenziale, senza ridondanze né descrizioni pedanti, riesce a cogliere l’essenza di ciascuna storia e lo fa in maniera sorprendentemente vivida perché l’autrice osserva il mondo del disagio psichico in almeno quattro modi diversi:
1) quello dello psichiatra, del medico curante, di colui che deve intravedere terapie e un sistema di controllo della patologia;
2) quello della cittadina italiana che si indigna nei confronti di episodi di emarginazione o che denuncia senza peli sulla lingua l’insoddisfacente legislazione e organizzazione nel gestire fasce della popolazione con patologie psichiche che necessitano di assistenza e monitoraggio continuo;
3) quello della donna sensibile che non rimane impermeabile alle sofferenze degli altri, ai disturbi e al clima di desolazione che aleggia intorno a queste persone; ed infatti la psichiatra nei vari racconti fa quasi difficoltà a scindere il privato dal pubblico, il suo coinvolgimento emotivo dalla sua professione tanto che lei stessa in “Aveva la SLA” ricorda un simpatico invito di un dottore sotto il quale aveva fatto il tirocinio: “Giovincella, devi dominare le emozioni, i pazienti si spaventano!” (p. 40);
4) quello della scrittrice che utilizza le vicende da lei sperimentate nella realtà per trasporle sulla carta cercando le giuste parole per far arrivare con schiettezza e senza tanti formalismi il suo pensiero su quanto narra.
Il risultato è sconvolgente: drammi, patologie, deliri, ossessioni, violenze subite e perpetuate, allucinazioni auditive e fenomeni di perdita d’identità campeggiano tra queste pagine. Il lettore dovrebbe tenere a mente, come si diceva all’inizio di questa recensione, che questi racconti sono anche e soprattutto delle cronache fedelissime di quanto avviene ogni secondo in ogni parte del mondo.
“Tu che ne sai/ […] / Di un certo tipo di vita/ Tu che ne sai./ Della vita del cuore. Che ne sai”, conclude la scrittrice nella lirica dal titolo “Dedicata a loro”.
Jesi, 28 Agosto 2013
Parlami così. Come risulta il mondo alle domande Quando alla fine non diventano parole. (p. 43)
Ho conosciuto Margherita Rimi lo scorso giugno a Palermo durante un reading poetico da me organizzato all’interno delle attività della rivista “Euterpe” che dirigo dal tema “Disagio psichico e sociale” e solo in un secondo momento, grazie al dono del suo libro, ho potuto leggere e conoscere di più sulla sua scrittura.
Il volume antologico della poetessa, intitolato Era farsi, contiene una raccolta di poesie scritte in un periodo di tempo abbastanza esteso che va dal 1974 al 2011 e si apre con una pertinente nota critica a cura di Daniela Marcheschi. Essendo un’opera antologica, sono qui presenti liriche estratte da vari sillogi precedenti, tra cui alcune – quelle contenute nella sezione dal titolo “Carta nivura”- in dialetto siciliano.
La prima domanda che mi sono posto prima di iniziare la lettura di questo libro è stata: “ma cosa significa il titolo?”. Ho intuito nel “farsi” un processo di crescita e cambiamento, di costruzione del sé e di maturazione intellettuale, quale lenta metamorfosi dell’io giorno dopo giorno. La nota critica iniziale, che si centralizza sul tema dell’infanzia nel libro, tematica cara alla poetessa, mi ha in parte dato ragione. Mi ha incuriosito poi notare tra i vari riferimenti e citazioni in esergo o no che la poetessa utilizza, un riferimento a Davide Dettore, psicologo presso l’Istituto Meyer di Genova e docente del Dipartimento di Scienze della Salute presso l’università di Firenze che ha dedicato una intensa attività saggistica sulla sessualità deviata e aull’abuso sessuale in età infantile. La cosa mi ha incuriosito poiché nei mesi scorsi, quando ancora non avevo ricevuto il libro di Margherita Rimi, ho contattato il professor Dettore per chiedergli se era interessato e disponibile a intervenire alla presentazione del mio nuovo libro, La cucina arancione (TraccePerLaMeta Edizioni, 2013 – con prefazione di Marzia Carocci), che tratta di disagio psichico e sociale e di atteggiamenti sessualmente devianti. Una casualità, mi sono detto.
Ritornano al libro in oggetto, ciò che mi sento di dire è che la poetica di Margherita Rimi, che si contraddistingue spesso per un verso breve e un ritmo incalzante, è fortemente intimista e profondamente vissuta (questo lo denota anche una serie di dediche a cui le poesie sono direttamente, ispirate e dedicate). Il linguaggio evita l’utilizzo di una sintassi particolareggiata ed ostica per prediligere, invece, un vocabolario semplice ed evocativo; le costruzioni che la poetessa elabora con i versi sono prevalentemente singolari ed anomale e richiedono una seria ed approfondita interpretazione, quasi come se la Nostra iniziasse un discorso, ci desse una traccia, e poi dovessimo noi continuarlo. Questo a livello esegetico è di certo un esercizio molto allettante e curioso che raramente si presenta al lettore quando si approssima alla lettura di poesie.
Come già detto, il tema dell’infanzia predomina indiscusso su questa ampia antologia ed esso è affrontato secondo vari paradigmi: l’abusato, il solo (“io sono il bambino trasparente”; “i grandi hanno grandissimo da fare”, p. 20), chi necessita di aiuto, chi anela affetto e tanto altro. Ne fuoriescono delle immagini abbozzate in maniera indistinta che, però, fanno riflettere su una problematica tanto estesa e seria. Ed è proprio la poetessa che con la lirica che si trova nella posizione iniziale, “Era farsi”, svela –in maniera mai troppo clamorosa- la realtà di quel “farsi” da me inteso come ‘costruire’, ‘crescere’, ‘evolvere’ e ‘maturare’. La poetessa, infatti, in questa lirica dedicata al fratello gemello scrive:
Ai piedi del letto il tempo non passava
Era farsi grande raccontare una storia
E la storia non era più una storia
era farsi padre (p. 15)
Quel “farsi”, dunque risiede nella crescita dell’uomo, tanto fisica quanto emotiva e morale, e la si ritrova anche nell’allarmante “Quando l’albero era l’albero”: “Non so perché l’hanno fatto. Non si doveva./ Distratta la nostra infanzia/ nel farsi grandi” (p. 27). L’attenzione all’emarginato, nei confronti di colui che è ritenuto diverso dal resto della società solo perché sfortunato nell’aver sperimentato un doloroso trauma psicologico o perché porta sulla sua pelle i segni del deforme è di particolare interesse della Nostra; in “Su due rotelle” leggiamo: “Ancora penso a quanti anni hai/ se mai faremo in tempo/ […]/ -Se puoi guarire-/ Dicono che puoi guarire” (p. 34).
L’antologia è arricchita da numerose citazioni tratte da testi di grandi autori della letteratura europea che intessono il pregevole ordito della trama che la Rimi ha previsto assieme a liriche dedicate ad esponenti del mondo culturale siciliano quale Leonardo Sciascia, Lucio Zinna e le liriche “Palermo” e “Da intitolare” dedicata alla cara Trinacria.
-scrittore, critico letterario-
Jesi, 18 Agosto 2013
Saranno presenti i poeti/scrittori: Franca Alaimo, Anna Maria Bonfiglio, Alfonsina Campisano, Luigi Pio Carmina, Mariella Caruso, Francesco Paolo Catanzaro, Antonino Causi, Rossella Cerniglia, Palma Civello, Franco Concetta, Giusi Contrafatto, Valentina D’Agosta, Miriana Di Paola, Giovanni Dino, Monica Fantaci, Emanuele Insinna, Gaetano Interlandi, Serena Lao, Nicola Lo Bianco, Rosalia Lombardo, Francesca Luzzio, Emanuele Marcuccio, Vincenzo Nicolao, Maria Rita Orlando, Giuseppe Palermo, Guglielmo Peralta, Teresa Riccobono, Margherita Rimi, Michela Rinaudo La Mattina, Nicola Romano, Giovanni Sollima, Lorenzo Spurio.
La sessualità di molti esseri umani di sesso maschile contiene un elemento di aggressività –un desiderio di dominare, che la biologia sembra mettere in relazione con la necessità di superare la resistenza dell’oggetto sessuale con mezzi differenti dalla seduzione. Così il sadismo non sarebbe altro che una componente aggressiva dell’istinto sessuale divenuta indipendente ed esasperata, e che, spostandosi, ha usurpato la posizione di guida.
(Sigmund Freud, Tre Saggi sulla sessualità, 1905)
Non sono un appassionato del genere erotico, ma ho deciso di leggere Cinquanta sfumature di grigio perché se ne è parlato tanto negli ultimi tempi e, nel bene o nel male, è diventato uno dei più grandi best seller. Purtroppo, bisognerebbe aggiungere, almeno per una serie di motivi che cercherò di tratteggiare in questa recensione.
La storia contenuta nel romanzo, prima parte di una trilogia scritta dall’autrice nel corso di un anno è mezzo, è semplice al punto di apparire ripetitiva, poco originale e ridondante. La ventiquattrenne Anastasia Steele è una studentessa di letteratura inglese che sta preparando una tesina su Tess dei d’Urbervilles, romanzo di Thomas Hardy con il quale l’autrice E.L. James credo abbia voluto costruire un rimando: la protagonista, Tess, viene stuprata dall’uomo del quale poi sarà costretta a sposare, un certo Alec, un’unione forzata che animerà nella mente di Tess l’omicidio e che la condurrà essa stessa all’esecuzione. Chi conosce la narrativa di Thomas Hardy sa che lo scrittore vittoriano ha sempre dato una grande peso alla concezione fatalistica della vita secondo la quale le cose succedono non perché conseguenza di altre o perché qualcuno le ha decise, ma semplicemente perché debbono accadere e dunque essere accettate così come si presentano, ineluttabilmente. E’ ciò che avviene alla giovane Tess che, ferita nell’onore e in condizioni disagiate dopo la morte del padre è costretta ad accettare di vivere con l’uomo che la violentò convertendosi in sua moglie, ma chi ben conosce il romanzo sa che questa situazione è impossibile da essere trasportata e genererà la tragedia. Eros e Thanatos che si incontrano.
Ritornando alle Cinquanta sfumature di grigio, l’altro personaggio centrale della narrazione è Christian Grey chiamato semplicemente Mr. Grey, un uomo spavaldo, egoista, che gestisce una grande azienda. I due personaggi non potrebbero essere più diversi: studiosa e in cerca di lavoro lei, ignorante e imprenditore lui, di modeste condizioni economiche lei, ricchissimo lui, sensibile e vergine lei e opportunista e perverso lui. L’occasione d’incontro dei due personaggi è il momento dell’intervista che Kate, l’amica di Anastasia, avrebbe dovuto fare a Mr. Grey ma che, a causa di un’influenza non può fare e per questo viene sostituita da Anastasia. L’intervista va bene, ma subito tra i due si crea un’attrazione particolare che porterà poi Mr. Grey a re-incontrare Anastasia, corteggiarla e riempirla di regali. C’è inizialmente una vera infatuazione di Anastasia nei suoi confronti: è allettata dai regali e dalle attenzioni di lui e affascinata dalla sua bellezza tanto che si lascia andare dagli eventi, convinta che quella è una occasione proprio da non lasciarsi perdere.
Ma le cose non tardano a mostrarsi essere diverse quando Mr. Grey, pur attratto ed interessato a lei, si mostra schivo e freddo, sprezzante e autoritario: Anastasia crede di poter “far l’amore con lui”, ma lui subito l’avverte che “non fa l’amore, ma fotte”. A partire da questo punto in Anastasia nasce una sorta di risentimento o dubbio che la logora: da una parte è attratta da quell’uomo e vorrebbe buttarsi a capofitto in quella storia, dall’altro lui è a tratti enigmatico, ha comportamenti bipolari, attuando a volte in maniera dolce altre in maniera sgarbata: “E’ un uomo così imprevedibile, sensuale, intelligente e spiritoso. Ma i suoi sbalzi d’umore… e la sua voglia di farmi del male. Dice che terrà conto delle mie riserve, ma mi fa paura lo stesso. Chiudo gli occhi. Cosa posso dire? Dentro di me, vorrei solo di più, più gesti affettuosi, più giocosità, più… amore” (cap. 20).
Alla fine Anastasia deciderà di accettare il suo brutto comportamento e tutto ciò che questo comporta accettando un po’ per amore un po’ per abnegazione le sue condizioni sebbene non arrivi mai a sottoscrivere il contratto che Mr. Grey ha preparato per lei. Il contratto è una scrittura preoccupante nella quale Mr. Grey ha previsto una serie di diritti-doveri delle parti che garantiranno il loro rapporto sessuale, un rapporto di tipo sadomasochistico tra Dominatore e Sottomessa. Lì, inoltre, sono previste le modalità, le tempistiche e l’elencazione delle pratiche che verranno portate avanti all’interno di questo perverso gioco. La Stanza Rossa o Stanza delle Torture sarà la stanza della casa di Mr. Grey appositamente dotata di bende, funi, divaricatori ed altri strumenti per queste pratiche devianti. Anastasia è affascinata e impaurita allo stesso tempo, galvanizzata e tormentata, eccitata e dibattuta, ma alla fine deciderà di accettare tutto questo un po’ alla volta, convertendosi in una serva silenziosa e pronta a tutto.
La narrazione, come si diceva, è abbastanza ripetitiva nelle scene che vengono fornite e, benché la varietà delle perversioni e degli atteggiamenti sessuali sia abbastanza eterogenea, nella lettura si ravvisa una certa piattezza nel tono. Il linguaggio, pure, è semplice e colloquiale –nel corso del romanzo i due protagonisti parlano spesso attraverso il linguaggio della posta elettronica- ma di certo consono per una storia di questo tipo: arcaismi o elementi retorici avrebbero di gran lunga appesantito la lettura che già di per sé è pesante. La scrittrice avrebbe benissimo potuto tagliare alcune parti –e quindi un’abbondante numero di pagine, se non di capitoli- senza mutare granché il senso del libro. Perché in fondo in un libro un senso c’è sempre, vero? E allora quale dovrebbe essere il significato di questo atlante delle perversioni sessuali? Non mi è chiaro.
In questo clima di profonda soggezione e tormento che provoca nella protagonista sensazioni completamente contrastanti c’è spazio per un momento di riflessione: l’utilizzo della violenza fisica in un rapporto bondage dà o sembra dare la convinzione alla protagonista che con quel mondo ha chiuso e che quindi ne verrà fuori a testa alta. Ma dato che il lettore sa che la storia non è che una trilogia siamo giustamente portati a pensare che la protagonista ricada in questo tunnel di sesso e violenza, apparentemente senza sbocco. C’è però uno spiraglio di luce in questa narrazione perversa: Anastasia, pur assoggettata completamente, è consapevole che l’ossessione per il sesso e per le pratiche BDSM di Christian sia segno di malattia, di un disturbo psichiatrico da fronteggiare ed è lei stessa che pensa di poter essere la sua ancora di salvezza: “Quest’uomo all’inizio mi sembrava un eroe romantico, un ardito cavaliere bianco dall’armatura scintillante, o un cavaliere nero, come dice lui. Invece non è un eroe; è un uomo con gravi, profonde lacune emotive, e mi sta trascinando nel buio. Non potrei, invece, essere io a guidare lui verso la luce?” (cap. 20).
Freud nei famosi “Tre saggi sulla sessualità” aveva avuto modo di parlare di come nascono le perversioni a partire dalla giovane età dal soggetto e da cosa sono animate o motivate. Parlando del sadomasochismo, oltre a definirne il peculiare atteggiamento di dominazione e sottomissione aveva osservato che spesso il sadomasochista ha come genesi del suo comportamento deviato un trauma pregresso e la stragrande maggioranza delle branche psicologiche che da essa dipartono sono di questo avviso: “Stoller ritiene che l’essenza della perversione sia la “conversione di un trauma infantile in un trionfo adulto”. I pazienti sono spinti dalle loro fantasie di vendicare umilianti traumi infantili causati dai loro genitori. Il loro metodo di vendetta è quello di disumanizzare ed umiliare il loro partner durante la fantasia o l’atto perverso”.[1]
L’idea che si potrebbe azzardare è che l’accecante perversione di Mr. Grey, il suo cieco sadismo e la sua voglia indomabile di dominare sugli altri (al lavoro, come nella vita privata) non solo sia frutto di un atteggiamento narcisistico, ma ha chiaramente una genesi nel periodo infantile che, come l’autrice narra, è di certo stata difficile e traumatica: ha subito maltrattamenti dalla madre che era violenta e si ubriacava ed è stato poi dato in adozione ad un’altra famiglia, episodi che fanno dire a Christian “ho avuto una dura introduzione alla vita”.
Pure non è da sottovalutare il fatto che da ragazzo abbia avuto rapporti sessuali con una donna più grande di lui, una certa Mrs. Robinson, esperienza che probabilmente l’ha traumatizzato similmente a quanto avviene ai personaggi nei romanzi di John Irving. Si tratterebbe qui di capire se questo rapporto gerontofiliaco[2] (di differente età tra i partner) sia avvenuto consensualmente, ossia con il tacito e innocente consenso dell’allora ragazzo o se, invece, abbia presupposto una certa violenza e coercizione da parte della donna tanto da diventare un atteggiamento pedofilico come Anastasia nel romanzo pensa che sia stato.
A questo punto mi viene in mente una domanda che in un certo modo ha animato la mia intera lettura del romanzo. Ma ne avevamo realmente bisogno? C’è qualcuno che ha letto il libro che possa rispondere affermativamente per qualche ragione? Trovo pressocchè banale e semplice rispolverare De Sade con il mero scopo di “far parlare di sé”. Perché se questo romanzo è uno di quelli di cui “basta che se ne parli”, allora lo scopo è di sicuro stato raggiunto. Ma perché se ne parla? Semplicemente perché il proibito affascina, l’erotico esalta e fa risvegliare sogni latenti nell’immaginario dell’uomo. C’è da augurarsi, allora, che questo non avvenga, per la salvaguardia dell’umanità tutta e soprattutto dell’archetipo femminile ampiamente degradato con questa narrazione.
Jesi, 28-01-2013
BIBLIOGRAFIA
Berra, Ludovico, Le perversioni sessuali, Edizioni Libreria Cortina, Torino, 1999
De Sade, Donathien Alphonse, Le 120 giornate di Sodoma, qualsiasi edizione
Freud, Sigmund, Tre saggi sulla sessualità (1905), qualsiasi edizione
James, E.L., Cinquanta sfumature di grigio , Mondadori, Milano, 2012.
[1] Ludovico Berra, Le perversioni sessuali, Edizioni Libreria Cortina, Torino, 1999, p. 20.
[2] In realtà il termine è usato in maniera inappropriata perché la gerontofilia prevede che una persona giovane ricerchi il rapporto sessuale con un anziano e sarebbe proprio la presenza di caratteristiche senili del corpo quale malattie, affaticamento o scarsa mobilità gli elementi ricercati ed eroticamente eccitanti.
E’ SEVERAMENTE VIETATO DIFFONDERE E/O PUBBLICARE LA PRESENTE RECENSIONE IN FORMATO DI STRALCI O INTEGRALMENTE SENZA IL PERMESSO DA PARTE DELL’AUTORE.
Carissimi amici,
Sto organizzando un volume antologico tematico di racconti dal titolo “Obsession”, concessomi dalla direzione della Limina Mentis, che verrà da me curato e pubblicato nel 2013.
Il tema della raccolta di racconti è “Fobie, manie e perversioni”. Il volume sarà dedicato principalmente a scritti nei quali la componente intimistica e psicologica – biografica o inventata- ricopra un interesse particolare ai fini del racconto.
Il volume sarà composto da una determinato numero di racconti che risulteranno selezionati.
Chi fosse interessato a partecipare a questa iniziativa, di seguito si riportano tutte le informazioni:
1. La partecipazione alla selezione dei materiali per l’antologia di racconti è totalmente gratuita. Agli autori presenti in antologia non verranno date copie omaggio, né verrà obbligato l’acquisto del volume che, comunque, è consigliato.
2.Verranno accettati solamente testi nella forma del racconto e questi dovranno avere una lunghezza non superiore ai 50.000 caratteri (spazi inclusi).
3.Ogni autore può presentare un solo racconto.
4. I materiali devono essere inviati rigorosamente in formato Word, con il sistema di pagine numerate e dovranno essere dotati di un titolo. Invii di materiali con altri formati diversi da Word non saranno presi in considerazione. Si richiede di non inserire nel file immagini né di adottare caratteri colorati, grassetto o corsivo e si consiglia di utilizzare il carattere Times New Roman, punti 12, interlinea 1,5 paragrafo giustificato.
5. Si richiede di inviare, insieme al testo, un file contenente i dati personali (nome, cognome, indirizzo di residenza, e-mail, telefono, cellulare) e un curriculum bibliografico (facoltativo).
6. L’invio dei materiali deve essere fatto esclusivamente per e-mail a questo indirizzo: lorenzo.spurio@alice.it riportando nell’oggetto “Obsession” entro e non oltre il 20 Dicembre 2012.
7.Limina Mentis comunicherà a tutti i partecipanti -selezionati o no- l’esito della selezione e le informazioni circa la pubblicazione/acquisto del volume.
Si richiede, inoltre, la gentilezza di far circolare questa notizia tra scrittori, esordienti e amanti della scrittura in modo da allargare al massimo il range di collaborazione, fino a includere tutt’Italia (o l’estero di lingua italiana).
Sperando di fare cosa gradita, invio i miei
Cordiali saluti
Collaboratore Limina Mentis Editore