“Tempo Innocente” di Rosa Salvia. Recensione di Fabrizio Bregoli

Recensione di Fabrizio Bregoli  

Affrontare di petto il tema del tempo, di come esso avvenga e interagisca, spesso problematicamente, con il trascorrere delle vite, per loro stessa natura fragili e provvisorie, è sicuramente impresa ardua, che Rosa Salvia, fin dal titolo del suo libro, sceglie di intraprendere, con la volontà di restituire il concetto di tempo a una prospettiva – come dice il titolo della raccolta – di “innocenza”, che non vuole però essere una dimensione idilliaca o ingenuamente rassicurante, quanto invece una riappropriazione della sua dimensione più autentica, messa al riparo dal “tempo che soffre”, con la sua “andatura vacillante / che alcuni chiamano    Doxa”. Ritorno dunque all’Essere compiuto contrapposto alla mistificazione del Divenire. È in questo tempo innocente – ci dice l’autrice – che la poesia trova casa, sapendosi tuttavia “eterna e povera”: qui però la poesia può radicare e farsi spazio, anche se solo “un filo sbeccato diventa il” suo “canto. /” (e, oltre tutto) “Nella cecità.” All’idea quindi di un tempo che “come un fanciullo” “gioca ai dadi” (riassunto emblematico del polemos eracliteo), un tempo imperscrutabile di cui non si può se non prenderne coscienza fattuale, Rosa Salvia contrappone  – strumento possibile la poesia – l’opportunità che compete all’uomo di vivere questo tempo con equilibrio interiore e consapevolezza (perché come sosteneva  Einstein  “Dio non gioca a dadi con l’Universo” – “Lettera a Niels Bohr” del 1926), non quindi da vivere nel modo “protervo” a cui ci obbliga la contemporanea società dell’usa-e-getta per cui diventa “festa della malvagità”. Ecco dunque l’immagine chiave del “tempo innocente” come “ragno” che “cuce la notte senza luce / su una lavagna bianca”: l’idea di una luce dunque che può essere sradicata dal buio, ricucita per sanare la “ferita” dell’essere, “l’invisibile / frangia che tutto separa”.

rosa-salvia-tempo-innocente-copertinapiattaCome si sarà ben capito da questi primi accenni, la poesia di Rosa Salvia è filosofica, dominata da una profondità di pensiero che ne governa la costruzione con un approccio argomentativo, ma evita di essere intellettualistica perché si fa concreta di figure e di situazioni: si pensi alle poesie sulla sposa bambina, sulla madre, sulla top model che nella vasca da bagno si interroga sul trascorrere del tempo, alle poesie che trattano di temi di assoluta attualità come la guerra siriana, il crollo del viadotto Morandi a Genova, fino alla riflessione divertita su “spelacchio”, l’albero di Natale posto di fronte al balcone del duce che “di ramo in ramo” “morendo” ci ricorda che “non c’è che la ricerca, il silenzio e la notte / e la scura infinità della pioggia”.

La concezione del tempo che pare prevalere è quindi squisitamente interiore, da misurare nella solitudine che ci consente il confronto con noi stessi, “ove il presente s’affaccia all’angolo del nulla”, e dunque – a noi sembra – è in definitiva una percezione del tempo che, al netto dei riferimenti prevalenti alle fonti classiche, è drammaticamente moderna, di matrice prevalentemente bergsoniana con intrusione heideggeriane, in quanto scandita su una lavagna dell’io che solo la nostra natura più profonda è capace di scrivere. Anche per questo, probabilmente, le poesie sono così varie nella loro estensione (dai pochissimi versi – tre – di riflessioni fulminanti modellate sull’haiku fino alla misura ampia della pagina nelle poesie più narrative o descrittive): l’intensità del tempo che governa la scrittura deve potersi estendere secondo il raggio d’azione corretto per svilupparne la forza centrifuga, perché diverso è il grado di concentrazione dell’ispirazione che prende la forma di una durata interiore più o meno espansa o contratta – poesia-pensiero o improvvisa illuminazione rimbaudiana agli estremi del suo arco – ma in ogni caso con la responsabilità di saper imprimere la sua “impronta profetica” “fra sillabe mute e silenzio”.

Rosa Salvia sembra voler reagire a questa consapevolezza irrevocabile di precarietà e di nudità dell’uomo rispetto al tempo (“e tutto sarà / come se non fosse stato”) attraverso due strade apparentemente divergenti: la filosofia, cioè il controllo ragionante del pensiero che prende la forma di “infinitesimi di logos” da ricomporre in “mosaico” di senso, e l’eros, specchio ed “eco della nostra essenza” come si dice nell’esergo da Hegel, o “l’inafferrabile dell’amore”, usando le parole dell’autrice. Rosa Salvia ci restituisce così, nella sezione “Infinitesimi di logos”, una serie di ritratti e di pseudo-citazioni (riscritture a tutti gli effetti) dei maestri del pensiero antico e contemporaneo – passando per Eraclito, Plotino, Epicuro, Parmenide, Hume, Spinoza, Heidegger – in una galleria di figure e riflessioni ad esse collegate che permettano di derogare dal tempo a favore di  “un altrove anteriore / alla vita”, “soglia di senso in cui  / l’universo sia la sua scia… / Dio la sua ombra…”. La ricerca di questa autrice non si arrende ad accettare l’evidenza bieca della materia, chiede alla sua poesia di scansare l’ostacolo, per pervenire al “punto in cui tutte le cose / s’incontrano”.

Non è quindi sentimentalismo quello che, nella sezione finale del libro, porta l’autrice ad affidarsi all’amore come luogo dove “conservare un senso / alla parola là dove giace la deriva”, approdo traumatico ma necessario. La poesia degli affetti, dei riferimenti personali e biografici sottesi, è il mezzo per amplificare la conoscenza, “mescolando memoria e desiderio” (con evidente cripto-citazione da The waste land di T. S. Eliot), portarli alla dimensione compiuta della “custodia dell’istante” – saper “durare oltre quest’attimo” (per dirla con Mario Luzi).

FABRIZIO BREGOLI

 

L’autore del presente testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere in relazione ai contenuti del testo e a eventuali riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.

Paolo Ragni sul libro di poesie “Pareidolia” (The Writer, 2018) di Lorenzo Spurio

Recensione di Paolo Ragni

Chiaramente la prima cosa che si fa, quando si ha in mano questo libro di poesie (Pareidolia di Lorenzo Spurio, The Writer, Marano P., 2018), è correre su un dizionario tradizionale o su un motore di ricerca e indagare subito sul significato del titolo. Scopertolo (ma non stiamo qui a dirvelo, è meglio che ve lo cerchiate per conto vostro), può darsi vi subentri una certa inquietudine: il web è pieno di citazioni strane e misteriose, mentre la spiegazione psicologica, a portata di tutti, lascia comunque qualche cosa di amaro.

Eppure, quant’è bello guardare le nuvole e scoprirvi disegni, immagini, figure umane!

Ecco, quest’opera di Lorenzo Spurio rimanda più spesso agli incubi che ai sogni. La sua capacità onirica qui diventa realmente e tragicamente visionaria e si lascia andare, pur in una scrittura sempre ricercata ed attentissima, a immagini di un mondo che giusto non è, sano non è, privo di equilibrio.

Qoyaanisqatsi era un film di quasi 40 anni fa, privo di trama e di dialoghi, difficilmente catalogabile se non come “documentario”. Il titolo significa, grosso modo, che “non c’è più equilibrio”. E qualche cosa di analogo, pur nella ricchezza delle ascendenze che un libro colto come questo di Spurio (come tutti quelli di Spurio) si porta dietro, si ritrova nelle pagine aspre, attonite o rabbiose dell’autore.

Spurio lo conoscevamo preferibilmente come narratore, e aveva dato già buona prova di sé, ad esempio, ne La cucina arancione e in Ritorno ad Ancona e altre storie (con Sandra Carresi). Ottimo addirittura il lavoro da lui svolto, con grande passione ed altrettanto puntiglio, sulla poesia marchigiana oggi, vero e proprio caposaldo di un amore verso la sua terra; riesce ad andare nel profondo e ad evitare le critiche cui invariabilmente si va incontro quando si fa una selezione di autori e di testi.

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Queste poesie di Spurio, non certo le sue prime, del resto, vista la sua militanza in questo campo già da vari lustri, sono però qualche cosa di totalmente nuovo.

Già l’originale citazione di Magrelli coglie nel segno: in definitiva alla vita si deve pur partecipare, alla poesia pure. E il poeta Magrelli sorprende non solo perché, già giovanissimo, in un panorama un po’ rumoroso, preferiva stare appartato e distillare siluri di ghiaccio sparsi tra le cose immutabili. Ma perché Magrelli stesso, come lui stesso si è scherzosamente definito bastian contrario, in periodi di caduta libera di valori civili, si è messo a manifestare, dignitosamente ma ad alta voce, la sua protesta contro un mondo ormai troppo freddo e convenzionale, schiacciato com’è dal fuggi fuggi delle immagini televisive o del web; lui, abituato a scorrere per anni i grandi classici, è quindi un Virgilio che ci introduce in queste pagine che molto spesso sono non dichiaratamente ma obliquamente e con ancor più forza esplosive.

Già l’enigma si apre, incerto, con il primo testo, e la sua inquietante conclusione che dà il titolo alla poesia: “ora qui, ora là”, vero e proprio passepartout che indica al lettore che non deve aspettarsi verità, ma la sola ricerca della verità (e non è poco! specie in un’era in cui tutti hanno da insegnare qualcosa, magari dicendolo in inglese: counseling); non certezze a buon mercato, ma casomai, obiezioni, contestazioni, ribellioni.

Non conoscevamo Spurio ribelle. Ma tant’è. Spurio rifugge saggiamente da ogni facile retorica, gelido e iracondo insieme, preso com’è da sacro furore davanti alla ferocia della vita (e della morte). Quante poesie abbiamo dovuto leggere, dagli anni Novanta a oggi, sulle innumerevoli stragi via mare, dai naufragi dall’Albania sulla costa adriatica e ionica fino a quelli sul mar di Sicilia. Ma mai avevamo letto frasi così taglienti, che reggono il punto esclamativo senza alcun punto di caduta: “non chiudete quei sacchi spazzatura!“. Mai avevamo notato, in questo silenzioso ghiaccio che addolora, questa contemplazione gelida e tragica di “noi che abbiamo osservato afoni“.

Questa linguaggio ha il coraggio di usare il tono del rimprovero e della sfida vera e propria, ricalcando in qualche modo le invettive dantesche o certo linguaggio veterotestamentario, dove alla profezia mi mischia lo strazio del presente: Quel “provate voi” in “L’acqua rossa di Aleppo” è un insulto alle nostre tiepide coscienze, è un vivere in perpetua vigilanza, senza sentimentalismi e lacrime facili.

Questo si ha perché Spurio, caso raro nella poesia odierna, sa descrivere, sa mettersi obiettivamente a fotografare cose, oggetti, parlandone ora con furia ora con quell’aria così apparentemente distaccata che invece è più potente dei più trepidi accenti: “Questo mare ha succhiato il tempo / e lo ha portato disgiunto da me /, oggi che quest’arsura di memorie/ lacera una soglia d’acqua / che prima sapevo riconoscere / e oggi si è sciolta” (in “L’acqua indocile”).

In realtà, l’Autore insiste nel rimescolare le carte, le immagini, dando loro contorni diversi, diverse prospettive, e, talora, come nelle migliori pareidolie, perfino un senso.

Difficile trovare un senso alle guerre, le violenze, le fughe, alle domande che rimangono appese (“Risposta di liquidità”) agli oggetti inutili e corrosi dal male umano (la gialla ruota del divertimento”, in “Primavera a Prypiat”). Difficile è rimanere indifferenti davanti alla cattiveria umana, che da qualunque parte provenga è comunque sempre in grado di compiere scempi.

E così, l’insipienza, da Cernobyl ai terremoti in Centro Italia, dall’Iran al Pakistan, dall’Ungheria all’Iraq e alla Siria, si presenta crudele e sempre uguale a se stessa: si è detto che il bene è creativo e sempre nuovo, il male, invece, è sempre il solito. Ed è vero perché il male, comunque lo si rigiri, merita sempre l’appellativo di inutile, di ripetitivo, qualunque sia la sua latitudine. Mentre il bene, adombrato spesso dallo sdegno, trova sempre nuovi accenti, con quell’aria di sfida e di provocazione che riscontriamo sempre molto volentieri:

Spiegatemi perché (…) Ditemi perché la vita si rovina (…) Oggi la ruggine ha vinto, signori e comari” (da “Trittico del fuoco”).

Non vogliamo però dare di questo volume un’idea unilaterale. Del resto, le poesie più acide (accompagnate spesso da versi più lunghi) si alternano, talvolta, a improvvisi sprazzi colloquiali, dove il tu non è un avversario da contestare o un ipotetico colpevole del male del mondo. Uno dei casi più belli è l’incipit di “La notte mi tocca”, vera pausa si silenzio, come càpita di ascoltare nell’altalenare dei movimenti di un concerto barocco: “Pure stasera non sai (…) Eccola trapunta di sogni, / lambisce i fiori della riva; / pare che il profumo / sia dissolto ovunque“. Attimo di pace, momento di apparente armonia che si riallaccia a tutti i “tu” amichevoli che il nostro Novecento ha saputo darci. È anche curioso che, nella trepida ansia dell’ultimo testo, sappiano coesistere sia immagini concrete, vivide, sia affermazioni taglienti, dialettiche, che non danno pace: “la lotta si consuma tra l’erba e / il sospiro che brilla e riparla“. Ed è anche bello osservare l’invito a questo tu, con cui terminano, in modo non desolato ma fiducioso, la poesia stessa e il libro tutto.

Infine, da notare l’interessante prefazione di Michela Zanarella, specie nell’osservazione che “non è possibile voltarsi dall’altra parte”, sia la nota di lettura di Nazario Pardini, che ribadisce quanto “è più facile sperdere la nostra identità che scoprine l’essenza”. Del resto, osserva, “la poesia (…) è soprattutto riflessione etica“. E questo è un grande regalo che, in questi spenti tempi di risolini, svaghi e rilassamento, Spurio ci ha saputo donare.

PAOLO RAGNI 

Firenze, 16-01-2020

 

L’autore del presente testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere in relazione ai contenuti del testo e a eventuali riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.

 

 

Premio alla Carriera a Márcia Theóphilo, la motivazione del conferimento avvenuto il 16/11/2019

A continuazione viene riportata la motivazione di conferimento del Premio Speciale “Alla Carriera” attribuito alla poetessa, scrittrice e saggista brasiliana Márcia Theóophilo conferitole in data 16 novembre 2019 a Jesi (AN) presso la Sala Maggiore del Palazzo dei Convegni in seno alla premiazione della VIII edizione del Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi”, ideato e presieduto da Lorenzo Spurio e organizzato dall’Ass. Culturale Euterpe di Jesi:

Márcia Theóphilo, poetessa, scrittrice, saggista e antropologa di origine brasiliane, vive da molti anni a Roma dove ha conosciuto ed è stata amica di intellettuali di prim’ordine tra cui Alberto Moravia, Dario Bellezza, Amalia Rosselli, Rafael Alberti e tanti altri ancora. Ha conosciuto, tra gli altri, Ferlinghetti, Corso, Ginsberg, esponenti centrali della stagione beat e di controtendenza nella letteratura. Ha dedicato i suoi interessi, ricerche, studi e approfondimenti all’Amazzonia della quale – a ragione – può essere definita come una delle sue voci più distinte. Ha narrato i riti della foresta, ci ha descritto specie animali e arboricole particolari, dal nome difficile e intraducibile nel nostro idioma, per il semplice motivo che qui da noi non esistono. Ha espresso pensieri, inquietudini e percorso dilemmi della comunità indigena, affrontando l’ampio tema sia da un punto di vista antropologico, sociologico, sociale e ambientale. Candidata al Premio Nobel e vincitrice del noto premio Letterario “Città di Vercelli” (attribuito negli anni anche ad Adonis, Evthushenko) per la poesia civile, Márcia Theóphilo è uno degli esempi più vividi nella nostra contemporaneità di connubio inscindibile tra poesia e impegno, tra cultura e denuncia sociale. Le sue battaglie per la difesa ambientale, per la salvaguardia della biodiversità, per i diritti civili delle popolazioni indigene, il suo animalismo e preoccupazione per la situazione ambientale globale la fanno una poetessa seriamente schierata e risoluta il cui verso fluido è stato prodotto in portoghese, italiano e, in traduzione, in inglese, spagnolo, svedese e numerose altre lingue. Testimonial di prestigio delle questioni inerenti alla sostenibilità, il suo ricco e apprezzato repertorio di testi poetici, narrativi, saggistici e di critica sociale ne fanno un’intellettuale unica nel suo genere e di cui la nostra società ha bisogno. È un onore poterla avere oggi in questa circostanza e riconoscerle il Premio “Alla Carriera”.

Lorenzo Spurio

Presidente del Premio 

 

 

Una scelta di testi poetici dell’autrice sono stati pubblicati nella antologia del Premio assieme alla summenzionata motivazione del Premio e alla nota bio-bibliografica che segue.

 

Marcia Theóphilo (Fortaleza, Brasile, 1941) è poetessa e antropologa, scrittrice e giornalista. Dal 1986 rappresenta l’Unione Brasiliana di Scrittori in Italia (U.B.E.).

Come si legge dal suo sito personale: “la sua infanzia è stata influenzata dalla nonna paterna – che viveva in Acre, Amazzonia – che è stata la prima persona che le ha raccontato i miti della foresta, le grandi visioni del fiume, le voci del vento, le metamorfosi della luna, mettendola in sintonia con la polifonia delle voci della natura”.

Ha eseguito gli studi in Brasile e a Roma dove si è laureata in Antropologia. Nel 1972 ha lasciato il Brasile per sottrarsi, alla dittatura militare in corso che impediva di studiare, scrivere ed esprimersi sperimentando la condizione di esule per diritti civili. Ritornerà nel suo paese d’origine a dittatura terminata, vivendo a intervalli tra Rio de Janeiro e Roma.

Ha dedicato il suo studio, i suoi interessi e il suo lavoro a dipingere la situazione naturalistica, ambientale e socio-antropologica dell’Amazzonia alla quale ha dedicato numerosi volumi, sia in italiano che in portoghese, tra poesia, racconti brevi e saggi di approfondimento.

A Roma, grazie all’amicizia col poeta brasiliano Murilo Mendes (1901-1975), conosce Rafael Alberti (1902-1999) con il quale stringerà un forte rapporto, testimoniato anche da una serie di lettere, scritti critici e note di accompagnamento vergate da Alberti (che con lei condivise l’esperienza dell’esilio) alle sue opere stampate.

Partecipa a recital e incontri collettivi di scrittori e artisti e conosce, tra gli altri, Lawrence Ferlinghetti (n. 1919), Evgenij Evtušenko (1932-2017), Allen Ginsberg (1926-1997), Gregory Corso (1930-2001) e l’ermetico Mario Luzi (1914-2005).

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Numerose le conferenze, gli incontri e i programmi di interscambio tra Brasile e Italia dove risulta importante la figura dell’autrice, come co-organizzatrice o partecipanti, tra di essi si ricordano l’esposizione di artisti italiani e brasiliani “Per la democrazia in Brasile” che si tiene al Museo Sant’Egidio di Roma nel 1982 e i recital “Incontro con la poesia brasiliana” a Roma nel 1983 e la manifestazione della Biblioteca Centrale di Roma “Voci di vita” nel 1989.

Ha pubblicato numerosi libri tra i quali Os convites (1969), Bahia terra marina (1980), Catuete curupira (1983), O Rio, O Passaro (1987), Io canto l’Amazzonia (1992), Amazon Sings (2003), Amazzonia respiro del mondo (2005), Amazzonia madre d’acqua (2007), Ama + Zonia, Ogni Parola un essere… (2018),…

Alcune sue poesie figurano su alcune riviste di cultura e letteratura tra cui Euterpe e sono state pubblicate in numerose antologie tra le quali: Quel dio che non avemmo – 20 poeti dell’Europa e del mondo (1999), Poesie d’amore. In segreto e in passione (1999), Antologia de Poetas Brasileiros (2000), Antologia da Poesia Brasileira (2001), Per amore (2002), …

Nel 2011 al Salone del Libro di Torino ha tenuto una Lectio magistralis presso lo stand del Senato della Repubblica dal tema “Natura e nuova economia”. E’ stata presente nel giugno dello stesso anno all’Expo di Rio de Janeiro con il suo libro Ama+Zonia e conseguentemente, nel 2015, all’Expo di Milano.

Testimonial dell’iniziativa “Per una Cultura della Biodiversità”, promossa dalla Commissione Nazionale Italiana UNESCO nell’ambito della campagna di educazione allo sviluppo sostenibile (DESS). Ha ricevuto da Fulco Pratesi il “Panda” come testimonial biodiversità del WWF Italia. È candidata al premio Nobel.

Fra i numerosi premi ricevuti: “Nactional de Contos Editoria” (1969), “Minerva” (1983), “Città di Roma” (1992), “Premio Fregene per la Poesia” (1996), “Nuove Sant’Egidio” (2000),  “Premio Nazionale Histonium” (2003), “Carsulae: Prix international E.I.P. Jacques Muhlethaler” (2005), “I diritti umani e la natura”, “Leggere per conoscere-Un libro per la Scuola, un Autore per domani” (2006), “Un bosco per Kyoto” e “Comitato Foreste Per Sempre” (di quest’ultimo dal 2009 ne è membro della giuria), “Premio Green Book” (2010), Premio alla Carriera “Il senso di una vita”, Premio alla Carriera al “LericiPea” (2011), “Premio Montale Fuori porta” (2012), Premio alla Carriera al “Festival Internazionale di poesia civile – Città di Vercelli” (2015).

Sulla sua produzione hanno scritto: Rafael Alberti, Mario Luzi, Grazia Francescato, Ruggero Jacobbi, Armando Gnisci, Saverio Tutino, Dante Maffia, Dacia Maraini. 

 

BIBLIOGRAFIA

 

In doppia lingua portoghese/italiano

Poesia

Siamo pensiero, Cooperativa Guado, Milano, 1972

Basta! Que falem as vozes / Basta! Che parlino le voci, Roma 1974

Bahia terra marinha/Bahia terra marina, Roma 1980

Catuetê Curupira, La Linea, Roma, 1983

O Rio o passaro as nuvens / Il fiume l’uccello le nuvole, Rossi & Spera, Roma,1987

Io canto l’Amazzonia / Eu canto Amazonas, Edizioni dell’Elefante, Roma 1992

I bambini giaguaro/Os meninos jaguar, Edizioni De Luca, Roma 1995

Amazzonia respiro del mondo, Passigli, Firenze, 2005

Amazzonia madre d’acqua, Passigli, Firenze, 2007

Ogni parola un essere, Iride, Roma, 2018

Amazzonia è poesia, Alpes Italia, Roma, 2018

 

Teatro

Arapuca – “Poemateatrodocumento” (Trappola), I manoscritti del Ciclope, Roma 1979

 

In lingua portoghese

Narrativa

Os convites, Universidade de São Paulo, San Paolo, 1969

 

In lingua italiana

Poesia

Kupahúba, Albero dello Spirito Santo, Tallone Editore, Torino, 2000

Foresta mio dizionario, Edizioni Tracce, Pescara, 2003

 

Saggistica

Il massacro degli indios nel Brasile d’oggi, Eunno, Enna 1977

Gli indios del Brasile, Nuove edizioni romane, Roma 1978

 

Teatro

Dica a quelli che è da parte di Dulce, Franco Valente, Roma 1981

 

In altre lingue

Poesia

Canções de Outono / Canzoni d’autunno, Il Manoscritto, Roma 1977 (portoghese/spagnolo)

Amazônas canta / Amazon Sings, Abooks, São Paulo, Brasile, 2003 (portoghese/inglese)

Pjesme/Poemas, P.E.N. CENTRE, Zagreb, Croazia 2006 (portoghese/croato)

Amazonas världens andetag, 2 Kronors förlag, Höör, Svezia, 2009 (portoghese/svedese)

 

Nota: La riproduzione del presente testo, in forma di stralcio o integrale, non è consentita in qualsiasi forma senza il consenso scritto da parte dell’autore. 

“Semplicemente, la mia storia” di Barbara Colapietro, recensione di Lorenzo Spurio

Recensione di Lorenzo Spurio

Poesia del nostro tempo, quella contenuta in Semplicemente, la mia storia (Bertoni, Perugia, 2018), opera della poetessa Barbara Colapietro, estimatrice della grande poesia lirica del poeta spagnolo Federico García Lorca. Questo volume si compone di varie sotto-sezioni che, volutamente, tramite i titoli anticipatori, tracciano un po’ il segno del percorso (significativa, a tal riguardo, è l’evocativa immagine di copertina) che la Nostra si appresta a compiere e ci invita a raccogliere. Poesie che si nutrono della propria interiorità e che attraversano il tempo con lucidità, senza nessuna remore di mostrarsi allo sconosciuto lettore.

semplicemente-la-mia-storia.jpgLa prima parte “Apocalisse del cuore” ben mostra il sistema di contrasti che dominerà per tutto il corso del libro. Quello degli ossimori e degli opposti è uno dei sistemi più efficaci messi in campo da Barbara Colapietro per evidenziare lo scarto che esiste tra una realtà attuale desolante e caotica al contempo e una società improntata al bene e alla solidarietà che appare come ideale e irraggiungibile. In realtà con la sua poesia l’autrice chiama a un’analisi di questa condizione asfissiante e alienante nella quale siamo immersi. Si rimarcano, nei vari versi che appartengono a questa prima parte della silloge, gli aspetti più gravi e deleteri di una società asservita al Male: “In una sola notte/ hanno estirpato/ tutti i fiori” (18); “Hanno messo/ la passione nella bara/ per uccidere/ il ventre di una madre” (18). Per tali ragioni la Nostra si trova inserita in un contesto nel quale cerca di individuare una possibile strada di semplicità, una via nella chiarità che possa in qualche modo dare compimento alla nostra ricerca continua di una verità. Si percepisce un piano evidentemente spirituale, sorretto da un pensiero religioso che nutre l’esistenza della Nostra e ne corrobora i pensieri, anche quelli apparentemente più grevi. La giustizia (dall’omonima poesia) si tinge di quel monito sentito e di quell’impegno furente che ha la sembianza di una lotta per la verità.

Si parla di cattiveria, ipocrisia, di situazioni di marginalità, povertà economica quanto morale. Nella poesia “Apocalisse del cuore”, un po’ come il celebre poeta granadino, partidario de los que no tienen nada, la poetessa parla di persone “affamat[e],/ deris[e],/ calpestat[e],/ depredat[e],/ violentat[e]” (21).  Netto e chiaro è il grido di dolore di cui la poetessa si fa testimone nella dolente poesia “La voce della storia”, quadretto amaro di una realtà dove dominano il vizio, il peccato e il crimine. “Hanno strappato le mie radici con la violenza/ penetrando/la sopraffazione del prepotente” (22).

La falsità prende la forma non solo di atteggiamenti menzogneri improntati, furbescamente, a sovvertire la mente degli altri, ad uso e consumo, ma anche di veri e propri cambi d’abito e mascheramenti come sono quelli a cui si allude in “La chiave”: “Demoni travestiti da santi” (31) ed è questo, nella diffusa promiscuità di bene e male, tra falsità del bene, che è opportunismo e strumentalizzazione, e male atavico, che la società disillusa galleggia. Viene a mancare la possibilità di una speranza nei confronti dell’altro. Minacciata in maniera irriguardosa è la fede verso il gruppo umano, il senso di comunità, la possibilità di un’azione coesa e responsabile. In “Amico fuoco” dove la Colapietro ritorna ampiamente su tema della “falsità imperante/di questi giorni,/sempre in maschera” (33) si parla anche di tradimento che è forse, a qualsiasi livello e forma esso venga compiuto, la più bieca e offensiva azione che un uomo può commettere verso un suo simile.

La sardonica “Lettera alla società perbene” recepisce tutti questi motivi e li indirizza, senza mai cadere nell’uso di un linguaggio becero che cade nel populismo, a un possibile indirizzario. Non è un indice puntato verso qualcuno, né un tentativo – pur vago – di metter sotto processo qualcuno, piuttosto di marcare ancor più distintamente l’aspetto bifido dell’uomo: tra apparenza e intenzioni, tra forma e sostanza, tra veste che ricopre e interiorità celata. Si capisce che non è semplice mettere per iscritto la sofferenza che si prova, giorno dopo giorno, nell’apprendere e sperimentare sulla propria pelle di una società disattenta e sorda, indifferente e cinica nella quale, pur malvolentieri, siamo calati. Ciò comporta un ripiegamento dell’animo che fa seguito all’evidenza della vulnerabilità dell’uomo solo, solitario, immerso nei suoi pensieri: “Ho il cuore/ pieno di lacrime…” (37), scrive in “Le tue lacrime”.

La seconda sezione del libro, “Gocce di luce”, sembrerebbe aprire a una stagione meno fosca, caratterizzata da quella luce che, pur in forma distillata, riesce comunque a contaminare in senso positivo il mondo.  Sono liriche pervase da quel sentimento cristiano di cui si diceva, dove si allude spesso a una dimensione altra che non facciamo difficoltà a leggere come l’io lirico in rapporto con la dimensione religiosa, in cerca tanto di un conforto, che di una promessa. La poesia che apre la sezione s’intitola non a caso “Giuramento” e si parla di “Eterno presente” e di “armonia degli opposti” (41). C’è una rinata speranza che riaffiora: “Oggi canto il sole” (42) recita la Nostra che qui si dedica a tracciare momenti felici del passato, incontri amorosi, momenti di affetto e di dolcezza che neppure il tempo ha diminuito nella loro forte carica in termini di pathos e emozione. Seppure siano sempre presenti quelle “nebbie/ che accecano la Verità” (48) sembra che la poetessa abbia risalito la china rispetto alla foschia che contraddistingueva la prima parte del libro. La rinata consapevolezza di un mondo che, pur brutto e degradato, non annulla completamente la speranza del bello e del raggiungimento della felicità, si può collocare proprio in queste liriche che occupano la parte mediale del volume. Una sorta di rito intermedio, di passaggio, da una visione allucinata e criticamente lucida del vivere e una predisposizione alla levità (che si vedrà nella terza sezione), che passa immancabilmente in questo stadio intermedio, in questo anello comunicante, che è la riattualizzazione felice del passato, la riscoperta del colore, l’esigenza di un’alterità e il sentimento religioso a conforto. Alla domanda “Chi sono io?”, che almeno una volta nella vita tutti ci siam posti, Barbara Colapietro si auto-risponde: “Una voce vera/ nel deserto dell’uomo senza Dio” (49). Si procede con una apprezzabile poesia religiosa, potremmo dire quasi un poemetto data la sua lunghezza, dal titolo “Il Vangelo di Chiara” dove la poetessa liricizza l’esperienza errabonda e filantropica di Chiara di Assisi: “Emozioni espresse di una donna/ che ha vestito la sua carne/ col manto nudo/ del colore del vento/ per Amore” (50). Il senso di bellezza insito nella semplicità e nella povertà vissuta quest’ultima non come motivo di autocompiacimento o lamentazione, ma come motivo esso stesso di ricchezza, poiché motiva e arma l’uomo al fare. La vicenda della mistica è in qualche modo riecheggiata anche nei versi di “Oasi” dove si legge: “Sono una mendicante nel deserto./ […]/ e vago/ alla ricerca della mia oasi” (55).

La parte conclusiva del volume, “Il colore del vento”, è formata da diciotto componimenti, alcuni dei quali molto brevi e posti in coppia nella stessa pagina. Alcuni dei titoli chiarificano il percorso intrapreso nella precedente sezione, di matrice etico-religiosa, che qui si prosegue: “Il mio pane”, “Sui sentieri di Chiara e Francesco”, “Chiara di Dio”, “Viandante dello spirito” e così via. Sono poesie che sono testimonianza di un percorso iniziato e nel quale ci si è introdotti. Un tragitto di conoscenza interiore e del mondo, sostenuti dalla dottrina cristiana che è custode dell’anima dell’uomo. La poesia conclusiva del volume, “Sulle orme del tempo”, ben si coniuga anche alla foto scelta per la copertina nella quale non vi è una presenza umana in forma diretta, ma in forma indiretta vale a dire mediante le orme che attestano un passaggio, una presenza nel passato prossimo. Queste orme sono i segni distintivi di un attraversamento e, dunque, di una presenza vera vissuta, concreta e documentabile. Qui, in questa poesia, si parla di tracce di un amore che restano indelebili nel cuore e che, neppure il passare del tempo, ha la capacità di sbiadire: “Il tuo cuore di madre/ è stato bruciato/ sulla pira del potere.// […]/ Vivi la vita” (71). È un messaggio di speranza e di ritrovata tranquillità. Quella pace con noi stessi e col mondo – spesso friabile – che si può ottenere forse solo con un vero percorso di analisi, ricerca, approfondimento e lettura di sé, e di sé in relazione con gli altri.

Lorenzo Spurio

29-10-2019

La riproduzione del presente testo, in forma di stralcio o integrale, non è consentita in qualsiasi forma senza il consenso scritto da parte dell’autore.  

XXX Concorso di Poesia “Città di Porto Recanati – Premio Speciale Renato Pigliacampo”, il verbale di giuria

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XXX Edizione del Concorso Internazionale di Poesia “Città di Porto Recanati – Premio Speciale Renato Pigliacampo”

 

Verbale di Giuria
La Commissione di Giuria della XXX edizione del Concorso Internazionale di Poesia «Città di Porto Recanati», composta da Lorenzo Spurio (Presidente), Rosanna Di Iorio, Emilio Mercatili, Loretta Stefoni e Rita Muscardin, dopo attenta operazione di lettura e valutazione delle 266 opere presentate a concorso, ha stabilito la graduatoria finale dei vincitori e dei premiati a vario titolo.

Inoltre, per ricordare degnamente il prof. Renato Pigliacampo e come previsto dal bando di partecipazione, si è conferito il “Premio Speciale Renato Pigliacampo” a un’opera particolarmente meritevole per tematiche, aspetti, elementi o rimandi all’opera e alla vita di Renato Pigliacampo, fondatore di questo Premio. Contestualmente, vengono consegnati Diplomi Speciali “In memoria di Renato Pigliacampo” per opere poetiche significative su tematiche relative all’universo della sordità, delle minoranze sensoriali o dell’impegno civico.

VINCITORI ASSOLUTI (targa, motivazione e premio in denaro: 1°: 500 €; 2°: 300 €; 3°: 200 €)

1° Premio: FRANCO FIORINI di Veroli (FR) con la poesia “Non dirmi dell´inverno”
2° Premio: STEFANO BALDINU di San Pietro in Casale (BO) con la poesia “Alice e la sua meraviglia”
3° Premio: UMBERTO VICARETTI di Luco de’ Marsi (AQ) con la poesia “Montaliana”

PREMIATI (targa)

4° Premio: TULLIO MARIANI di Molino di Quosa (PI) con la poesia “Ballata dei vecchi ricordi”
5° Premio: CARMELO CONSOLI di Firenze con la poesia “La città che non esiste”
6° Premio: ALFREDO RIENZI di Venosa (PZ) con la poesia “La questione del Nibbio”
7° Premio Ex-Aequo: NUNZIO BUONO di Casorate Primo (PV) con la poesia “Se rimani”
7° Premio Ex-Aequo: VALERIA D’AMICO di Foggia con la poesia “Ode al figlio morto”
8° Premio: ROBERTO RAGAZZI di Trecenta (RO) con la poesia “L’ultimo volo”
9° Premio Ex-Aequo: SARO MARRETTA di Spiegel – Berna (Svizzera) con la poesia “Qui non ci manca il pane”
9° Premio Ex-Aequo: DAVIDE ROCCO COLACRAI di Terranuova Bracciolini (AR) con la poesia “I girasoli”
10° Premio: VALERIA GROPPELLI di Crema con la poesia “Nevica Annetta”

MENZIONE D’ONORE (diploma)

GIOVANNI TROIANO di Trebisacce (CS) con la poesia “Rrgjërí Kaìnit”
STEFANO VITALE di Torino con la poesia “Chiudere i porti…”
ALESSANDRO INGHILTERRA di Genova con la poesia “Fiore d’inverno”
GIULIO REDAELLI di Albiate (MB) con la poesia “Alice dei desideri”
ANNA ELISA DE GREGORIO di Ancona con la poesia “La leggerezza dei vecchi”
FRANCA DONÀ di Cigliano (VC) con la poesia “Tra queste quattro nuvole”

PREMIO SPECIALE DEL PRESIDENTE DI GIURIA (targa e motivazione)
IDA CECCHI di Barberino di Mugello (FI) con la poesia “Troviamoci adesso”

PREMIO SPECIALE “RENATO PIGLIACAMPO” (targa e motivazione)
MARIATERESA LA PORTA di Venafro (IS) con la poesia “Nel lento divenire”

DIPLOMI SPECIALI “IN MEMORIA DI RENATO PIGLIACAMPO” (diploma)

ROSANNA GIOVANDITTO di Pescara con la poesia “L’ultimo viaggio del genio incompreso”
LUIGI ANTONIO PILO di Messina con la poesia “Il grido del silenzio”
CRISTIANA FILIPPONI di Jesi (AN) con la poesia “Lascia la culla del silenzio”

PREMIO SPECIALE “ALLA CARRIERA” (fuori concorso)
LUCIANO PELLEGRINI di Spoleto (PG)
PREMIAZIONE
Tutti i vincitori e i premiati a vario titolo sono invitati a partecipare alla Cerimonia di Premiazione che si terrà sabato 14 settembre 2019 alle ore 17:00 presso la Pinacoteca “Moroni” all’interno del Castello Svevo (Piazza Fratelli Brancondi) di Porto Recanati (Macerata). In apertura all’evento si terrà la presentazione al pubblico di Non oltre le porte del sole (2018) il romanzo postumo del prof. Renato Pigliacampo.

Si evidenzia che i premi in denaro saranno consegnati solamente in presenza del vincitore o eventuale delegato e non saranno spediti. La delega dovrà pervenire esclusivamente a mezzo e-mail all’indirizzo: poesia.portorecanati@gmail.com entro il 10/09/2019. Gli altri premi, qualora non vengano ritirati il giorno della premiazione, potranno essere spediti, dopo pagamento delle relative spese di spedizione.

Durante la premiazione sarà presente una lettrice che darà lettura alle opere vincitrici. Si richiede una comunicazione di conferma sulla propria presenza entro e non oltre il 07/09/2019; nella stessa comunicazione si dovrà indicare se la poesia verrà letta dall’autore o se si preferisce che venga letta dalla lettrice.

LORENZO SPURIO – Presidente di Giuria
MARCO PIGLIACAMPO – Segretario del Premio
Porto Recanati, lì 23 Agosto 2019

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“L’estate prima della Guerra” di Helen Simonson, recensione di Vittorio Sartarelli

Recensione di Vittorio Sartarelli

9788865595367_0_0_626_75.jpgRecensire un libro di una scrittrice britannica è, per me, una nuova esperienza letteraria anche perché questa autrice non appartiene al novero, per altro numeroso, di scrittori inglesi di una certa rilevanza. Questo, infatti, è per lei il secondo romanzo ad essere pubblicato. Lo scenario nel quale si svolge L´Estate prima della Guerra (2016) di Helen Simonson è il Sussex, dove Rye, una piccola cittadina pedemontana del territorio britannico è un promontorio allocato nella zona costiera prossima alla Francia. Accingendomi a questo mio compito, non certo facile, il fatto di trovarmi di fronte ad un volume di circa 500 pagine certo non costituisce un incentivo favorevole che mi spinga con eccessivo interesse a intraprendere il mio lavoro ma, tant’è, questo è il mio obbligo assunto e cercherò di adempierlo nel modo migliore.

La prima impressione che si ha, cominciando e seguitando a leggere questo libro, anche se non si sapesse chi è l’autore dello scritto, apparirebbe evidente che si tratta di una donna e di una donna inglese. Il suo periodare ed il suo fraseggio, pur essendo corretti e in bella forma, sono morbidi, delicati e di natura domestica e familiare oltre che, letterariamente, irreprensibili.

Il suo fervente amore per l’ambiente naturale che la circonda, descritto amabilmente, si identifica con le sue origini britanniche e la descrizione attenta e precisa del tessuto sociale nel quale la vicenda si svolge, non è altro che la connotazione di una società classista e stratificata in concetti umanitari che appaiono come pervasi da un retaggio ancora medievale e discriminatorio che contraddistingue, appunto, il tessuto socio economico britannico del tempo descritto all’inizio del ´900.

I personaggi principali del romanzo sono la signorina Beatrice Nash un’insegnante di Latino, giunta da poco a Rye, che dovrà prendere servizio nell’istituto scolastico del paese, raccomandata da una sua zia appartenente ad una famiglia nobile del circondario regionale, la Signora Agatha Kent e suo marito John esponente di spicco del Servizio Diplomatico britannico, anch’essi appartenenti alla classe abbiente del luogo, il giovane chirurgo Hugh e il giovane poeta Daniel entrambi nipoti dei coniugi Kent, l’adolescente Richard Sidley detto Snout di origine zingaresca. Poi ci sono altri personaggi secondari che interverranno saltuariamente nel corso della narrazione come lo scrittore famoso americano Tillingam, che si è stabilito a Rye, il Sindaco e la moglie di Rye, un amico di Daniel, Crhigmore e suo padre Lord North. Mentre l’insegnante Beatrice incontra una certa ostilità ambientale da parte del Sindaco e della moglie, la famiglia Kent ne assume la tutela ambientale e fra il giovane chirurgo Hugh e Beatrice sorge, in forma quasi segreta, un sottile sentimento amoroso che costituisce una sorta di siparietto sentimentale che si inserisce con favore nell’ordito narrativo.

La narrazione si snoda stancamente per buona parte del romanzo con scene familiari, descrizioni paesistiche, fitti e banali colloqui amichevoli sempre informali, senza molta importanza che hanno configurato la caratteristica interlocutoria del romanzo senza che avvenga niente di nuovo. A questa lunga pausa di eventi fa eccezione l’arrivo in paese, assieme ad altri profughi belgi, di un professore e della figlia giovanissima Celeste.

Siamo nell’estate avanzata del 1914, la Germania ha invaso il Belgio compiendo razzie, stupri e nefandezze varie sulla popolazione, è iniziata la I Guerra Mondiale e il piccolo centro di Rye comincia, unitamente a tutta la Gran Bretagna, a partecipare al fatto bellico che li coinvolge. Inizia tutta una serie di iniziative di solidarietà popolare e nazionale di preparazione alla guerra, centri di reclutamento e associazioni di cittadini che preparano il paese alla guerra con parate, cortei e feste inneggianti alla partecipazione belligerante. Una caratteristica, abbastanza nota, dell’Inghilterra è sempre stata, infatti, la sua partecipazione a tutte le guerre avvenute in Europa e nel Mondo e dalle quali essa ha sempre ottenuto dei vantaggi e delle posizioni di potere nei confronti di altri stati meno potenti e meno capaci di interessi politici preminenti. Tutti i giovani maschi in età maggiorenne si arruolano nelle forze armate britanniche e vengono convogliati nella parte settentrionale della Francia dove si svolge il fronte bellico. Anche i cugini Hugh e Daniel si arruolano, entrambi con il grado militare di tenente, il primo farà parte dell’ospedale da campo mentre Daniel, al quale è morto l’amico Crhigmore in un incidente aereo, farà parte dell’esercito inglese in prima linea. Anche il giovane adolescente Snout, anche se non ancora maggiorenne, con il permesso dei genitori, sarà arruolato come soldato semplice e inviato al fronte. 

A questo punto bisogna fare delle considerazioni che appaiono importanti e giuste nella valutazione critica di questo romanzo. Le prime trecento pagine hanno avuto il compito di illustrare principalmente il bellissimo paesaggio bucolico che circonda e ingloba il piccolo centro di Rye e poi, come ho avuto modo di dire, la descrizione particolareggiata della vita e degli aspetti sociali di questo ridente borgo britannico del Sussex. Soprattutto la scrittrice si è soffermata, alquanto lungamente, nell’illustrare i comportamenti degli abitanti del luogo, evidenziando per quelli più rappresentativi e importanti dal punto di vista sociale, in un ambito classista e rigidamente organizzato in strati sociali con competenze valutazioni e capacità diverse.  Una piramide sociale alla base della quale c’erano i contadini e i proletari mentre al vertice, illuminati e dispositivi, emergevano i nobili e i benestanti con notevoli proprietà immobiliari ed ampie disponibilità finanziarie.

La Simonson ha evidenziato il carattere, i rapporti e le prerogative soprattutto delle donne più importanti della società, soffermandosi spesso in un chiacchierio banale e fine a se stesso tra di loro, rischiando di annoiare il lettore. Per fortuna, l’autrice, nelle ultime cento pagine di questo libro, si riscatta ampiamente e, finalmente, sorprende il lettore con le sue ampie capacità espressive, mettendo in mostra il suo innegabile talento di narratrice di rango. Ci troviamo, quasi improvvisamente di fronte ad eventi e situazioni particolari spesso drammatiche, come la scoperta, purtroppo negativa e socialmente emarginante è il fatto che la giovane Celeste, durante l’invasione bellica del suo Paese, poiché ha subìto delle violenze a causa di uno stupro, si trova in stato interessante. Questo evento la fa diventare per la comunità che l’ha ospitata, una specie di appestata con la quale nessuno vuole più avere a che fare, rischiando l’espulsione dal suo attuale contesto sociale. La minacciata e crudele emarginazione di questa innocente fanciulla ci dà il senso e l’immagine rappresentativa della società gretta e classista esistente in quel borgo britannico, in tutta la sua cruda realtà. Il problema verrà affrontato e risolto brillantemente con un’azione generosa e di forte umanità ed affetto dal tenente Daniel che chiederà a Celeste di diventare sua moglie salvandola dal linciaggio sociale del paese. Immediatamente dopo a questo felice e risolutivo evento l’autrice ci porta, quasi a spron battuto, verso la guerra, in prima linea, dove piovono granate e colpi di cannone che quotidianamente compiono un’impietosa strage di soldati inglesi.

L’arte narrativa poi trova il modo di impressionare e far vivere al lettore quello che succede in un campo di battaglia e successivamente in un ospedale da campo, dove giornalmente e spesso anche di notte i medici in servizio permanente effettivo e soprattutto i chirurghi come il tenente Hugh operano continuamente i feriti, molti dei quali, purtroppo, non riusciranno a salvarsi per l’estrema gravità delle ferite riportate. Il racconto prosegue con l’affannosa ricerca da parte di Hugh del cugino Daniel anch’egli in prima linea e quando finalmente, in un breve periodo di riposo dal suo estenuante lavoro, riesce a ritrovarlo congiuntamente anche al giovanissimo Snout, è molto felice. In seguito ad eventi che quasi si sovrappongono, si assisterà all’acme della drammaticità e della denuncia sociale dell’autrice di alcune ipocrisie belliche di taluni personaggi in alta uniforme, come il Generale Lord North. Costui è un personaggio tronfio e pettoruto, senza principi morali ed umani che, trincerandosi ipocritamente dietro uno sciovinismo di maniera tutto britannico e accampando diritti di vita e di morte sui suoi sottoposti militarmente, farà la misera figura di un dispotico comandante che abusava del suo potere in modo infame e vergognoso per un generale dell’esercito britannico. La storia narrata nel libro avrà poi un epilogo felice e pacifico, tuttavia Helen Simonson con questa sua opera mi ha conquistato anche perché, dietro le magnifiche descrizioni e le artistiche ricostruzioni di un ambiente e di persone a lei molto vicine con le quali ella ha vissuto, si può notare ed apprezzare una sottile ma severa critica alla società britannica dell’epoca con tutti gli annessi e connessi, compresi il classico the delle cinque completato da discutibili tramezzini.

VITTORIO SARTARELLI

 

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“Parole Silenzi Echi Ritorni” di Velia Balducci, recensione di Lorenzo Spurio

Recensione di Lorenzo Spurio

La mente di un poeta

somiglia a una farfalla

velia-balducci.jpgQuesta prima raccolta poetica dell’autrice anconetana Velia Balducci (Parole Silenzi Echi Ritorni, Ventura Edizioni, 2019) non lascia indifferenti per una serie di motivi che si cercherà di enucleare a continuazione e che rendono l’opera, senza alcun dubbio, pregevole nel sistema di rimandi tra contenuti ed evocazioni.

Il titolo, di per sé così troppo esplicativo per una raccolta di poesie, è un chiaro segnale che aiuta il percorso di lettura e – semmai – quello interpretativo delle tante pillole di vita personale in essa contenuto. È un volume di chiara poesia intimista e confessionale – non in termini religiosi, ma di una confessione tra sé e la propria anima – , dove gli elementi che vengono man mano centralizzati nei vari testi sono per lo più dolci memorie di un passato che non ritorna (quegli “echi” che figurano nel titolo, appunto), versatili silenzi che, come spesso accade, possono essere talmente polisemantici, alludere a mondi vasti e contrastanti, essere riempiti in maniera non sempre così intuitiva o necessaria.

Essenziali, tra le tante, le memorie relative ai giorni trascorsi con i nonni, nella casa piccola ma grande come il loro cuore, dove la poetessa era colma di carinerie, gesti di premura e di un amore incondizionato da parte di quelle che poi, col trascorso del tempo, sono divenute le sue “stelle”. C’è attenzione anche l’universo ambientale, tanto naturalistico – con le varie liriche marine o dove si richiama l’immagine-simbolo del gabbiano – che sociali dove si riflette sulla mancanza di trasparenza dell’uomo, la sua azione malvagia contro le donne, la sua incapacità di ragionamento dinanzi a determinate situazioni. Non un’indagine inclemente della condizione sociale, della razza umana d’oggi, né una poesia di impronta dichiaratamente civile, semmai una sorta di riflessioni, qua e là, come fugaci pennellate, anche della frastagliata condizione umana. C’è poi, quale riflesso utopistico di un al di là dove è soave proiettarsi, tutto l’universo celeste: il cielo visto come spazio dell’illimite ma anche come campo dove, forse, con occhio acuto, è possibile scorgere, tra i tanti geroglifici incompiuti, delle risposte. Si badi bene, non delle risposte oggettive, delle risoluzioni pratiche e materiali a esigenze della vita, ma delle confidenze interiori, quale una comunicazione medianica difficilmente spiegabile se non per mezzo di potenzialità sensoriali, di apertura mentale, di appassionante abbraccio alla vita tutta.

Ecco perché anche le poesie che, in maniera più o meno esplicita, parlano della morte come concetto o della morte tramite il ricordo di persone che hanno abbandonato il nostro Pianeta, non scendono nel più fosco appiattimento. C’è, infatti, nella poesia di Velia Balducci – e non potrebbe essere diversamente conoscendo il brio che la contraddistingue – un impeto verso il bello, una ricerca continua verso la spiegazione intima, profonda, viscerale delle cose, una lettura appassionata del vivere che rifiuta ammorbamenti, chiavi di lettura tristi e che, dopo tutto, ammicca sempre alla vita strizzando l’occhio.

Ne è testimonianza, tra gli altri, anche il breve frammento narrativo – una sorta di racconto, è vero ma dalla tecnica volutamente allusiva, dal finale aperto, dagli intenti introspettivi e di ricerca interiore che ne fa una prosa poetica – che chiude il volume nel quale si attorcigliano tra loro alcuni dei motivi che più dominano nell’intero lavoro poetico: l’amore per la lettura e la scrittura, l’amplesso solare – in questa comunione completa con l’elemento naturale che, al contempo, è fuoco e ingrediente di vita della Terra -, la voglia di raccoglimento e l’istinto mai domo verso la conoscenza, finanche la riflessione sul tempo, sulla sua inesorabilità e la senilità rappresentata dall’anziana che incrocia. C’è anche, per riflesso e al contempo come connaturato rimando, il mito dell’infanzia nel riferirsi alla favola, a un mondo di giochi e di narrazioni fiabesche dove il bello è sempre assoluto e l’amore è coronato in scene archetipiche. Che forniscono pace e completezza nei bambini, ma che assediano di terrore gli adulti, che ne incrinano le certezze rendendoli più burattini che principi e principesse, in uno spazio che non è lo sconosciuto bosco o il palazzo di corte, ma la caotica città con i suo drammi.

Il libro raccoglie, in una sezione dedicata posta in appendice, una serie di riflessioni sulla vita e finanche sulla scrittura – quasi degli aforismi – delle brevi frasi o citazioni che, pur nella loro sintesi, racchiudono un mondo di ragionamenti, di intenzioni, di problematicità, vale a dire di realtà esperite o configurate nella mente, elaborate dalla Nostra. Solo per citarne alcune delle più calzanti vale la pena riportare queste: “Quando il mondo ti toglie la voce, tu parla in disparte e fai poesia” oppure “La solitudine è quello spiraglio che si intravede dall’interno di una porta socchiusa”.

La nota di apertura del poeta laziale Roberto Colonnelli ben anticipa, senza svelare molto, quelle che saranno le tematiche-cardine della raccolta permettendo al lettore, per chi ha avuto la fortuna di conoscere l’autrice, di ritrovarla in maniera perfetta in queste pagine. Poesie che riflettono e ritrovano tempi andati, ma anche attuali, che sprofondano nel presente della realtà personale della nostra, incontri frugali, echi di discorsi, amici che nel frattempo se ne sono andati, il ricordo onnipresente dei nonni e della loro abitazione, quel desiderio di fuga e leggerezza che i gabbiani ben incarnano nel loro volteggiare superbo e planare in prossimità della riva.

Un’opera estesa – ancor più se si pensa che è l’opera d’esordio – con la quale l’autrice si confessa e testimonia se stessa: il suo vissuto, le sue fobie, i suoi desideri. Ed è piacevole per il lettore accompagnare la Velia bambina, poi donna matura – tra debolezze comuni e irrefrenabili entusiasmi – in questo percorso che è suo e, in fondo, di noi tutti. Un percorso nella memoria che passa per il tunnel del presente, per proiettarsi su un ponte aperto. Dall’altra parte si intravedono come dei contorni sfumati, non sicuri, ed è un po’ questo lo scopo della poesia che scava nella parola, fa affiorare possibilità e interagisce con un cervello che non vuol esser dominato. Così, tra un mondo domestico che profuma d’infanzia felice che riveste la Nostra come una seconda pelle, si dà spazio anche a timori e propositi per un futuro che la poetessa farà di tutto per rendere luminoso e suadente. E intanto – quale esigenza primaria della Nostra e piacere condiviso dei suoi lettori – la penna dell’anima non potrà che vibrare: “Parlo di più/ colando/ termini/ su/ fogli/ che…// Spargendo voce”.

LORENZO SPURIO

 

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XXX Concorso di Poesia “Città di Porto Recanati” nel ricordo di Pigliacampo. Il bando di partecipazione

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CONCORSO INTERNAZIONALE DI POESIA “CITTA’ DI PORTO RECANATI”    PREMIO SPECIALE “RENATO PIGLIACAMPO”  XXX EDIZIONE

     

Il Concorso Internazionale di Poesia “Città di Porto Recanati”, fondato e organizzato per quasi trent’anni dal prof. Renato Pigliacampo (1948-2015)[1], poeta, scrittore e professore sordo, è uno dei più longevi dell’intera Regione Marche. Negli anni esso ha raccolto testi poetici di pregevole fattura e di elevato valore civile, frequentemente incentrati sulle difficoltà sociali, sulla disuguaglianza, sulla denuncia delle ingiustizie e sul riscatto degli oppressi, tematiche centrali dell’impegno umano del suo fondatore.

Nel 2015, al decesso del professore, la famiglia Pigliacampo – incoraggiata e sostenuta tecnicamente dal poeta e critico letterario Lorenzo Spurio che collaborò col professore negli ultimi anni – ha deciso di portarlo avanti con lo stesso impegno e finalità: dar voce a coloro che spesso nella società non hanno la capacità di dire la propria. Da allora si è aggiunto un ulteriore premio identificato come “Premio Speciale Renato Pigliacampo”, conferito a una poesia considerata particolarmente vicina alla vita e ai contenuti lirici del fondatore del concorso, quali la disabilità sensoriale o la battaglia per i diritti degli handicappati. Tale premio è stato assegnato negli anni a Rita Muscardin di Savona (2015), Rosanna Giovanditto di Pescara (2016), Flavio Provini di Milano (2017) e Dina Ferorelli di Bari (2018).

 

 BANDO DI PARTECIPAZIONE

 

 1 – Ogni partecipante può inviare un massimo di due poesie.

I testi possono avere una lunghezza massima di 50 versi.

I testi possono essere editi o inediti ma l’autore dovrà dichiarare di possedere i diritti a ogni titolo e di esserne proprietario a ogni diritto. Essi potranno essere, indifferentemente, risultati meritori di premi da podio o speciali in precedenti premi letterari.

I testi possono essere in lingua, dialetto o lingua straniera. Nel caso di testi poetici in dialetto e lingua straniera è necessario allegare anche la traduzione in lingua italiana.

Il tema è libero, tuttavia si consiglia di trattare tematiche relative alle problematiche sociali, alle discapacità sensoriali, alle disuguaglianze, alla disabilità, alla povertà, alla solitudine degli anziani, all’odissea dei migranti e dei profughi, ecc., tematiche per le quali fu istituito il Premio quasi trent’anni fa.

 

2 – È richiesto il contributo di partecipazione a copertura delle spese di segreteria fissato a 20,00 € (VENTI Euro). Il versamento potrà avvenire con una delle seguenti modalità:

 

  1. POSTE PAY N° 5333 1710 2372 6843

INTESTAZIONE: Marco Pigliacampo

CODICE FISCALE: PGLMRC75E07E958C

CAUSALE: XXX Concorso “Città di Porto Recanati”

(Il versamento si può fare dagli Uffici Postali e dai tabaccai abilitati)

 

  1. BONIFICO BANCARIO

IT19I3608105138276234476237

INTESTAZIONE: Marco Pigliacampo

CAUSALE: XXX Concorso “Città di Porto Recanati”

 

3 – Per prendere parte al concorso è richiesto di inviare le proprie poesie per posta elettronica all’indirizzo poesia.portorecanati@gmail.com entro e non oltre il 25 luglio 2019 specificando nell’oggetto “XXX Concorso Città di Porto Recanati”.

Il poeta dovrà inviare in un’unica e-mail in seguenti materiali:

  1. I testi delle poesie senza riferimenti alla propria identità in formato Word. Ogni poesia va presentata su un file a parte.
  2. Un file Word contenente i seguenti materiali:

nome, cognome, data e luogo di nascita, indirizzo di residenza completo (Via, città, cap.), telefono fisso e cellulare, indirizzo mail e queste attestazioni come seguono:

  • Dichiaro di essere l’unico autore delle poesie e di detenere i diritti a ogni titolo.
  • Acconsento il trattamento dei miei dati personali secondo la normativa vigente nel nostro Paese (D. Lgs 196/2003 e GDPR) alla Segreteria del Concorso per i fini istituzionali legati alla organizzazione, promozione e diffusione del XXX Concorso Internazionale di Poesia “Città di Porto Recanati”.
  1. La copia della ricevuta di versamento del contributo a copertura delle spese di segreteria.

 

4 – La Commissione di Giuria leggerà le opere pervenute in forma rigorosamente anonima e provvederà a scegliere le dieci poesie vincitrici.

I primi tre classificati riceveranno premi in denaro, così ripartiti: 1° Classificato 500,00€, 2° Classificato 300,00€ e il 3° Classificato 200,00€. Tutti i poeti premiati dal 1° al 10° posto riceveranno una targa personalizzata. Nell’eventualità di punteggi pari-merito la Commissione di Giuria ha la facoltà di proporre ex-aequo per le posizioni dal 4° al 10°.

La Giuria assegnerà il Premio Speciale “Renato Pigliacampo” 2019 a una poesia che sarà considerata particolarmente vicina alla vita e ai contenuti lirici del fondatore del concorso, il prof. Renato Pigliacampo, quali la disabilità sensoriale o la battaglia per i diritti degli handicappati.

A discrezione della Giuria verranno assegnati, quali ulteriori riconoscimenti, un numero di “Diplomi per Menzione d’Onore” e “Diplomi Speciali Renato Pigliacampo”.

 

5 – La Commissione di Giuria è formata da esponenti del panorama culturale e letterario ed è così composta: Lorenzo Spurio (poeta e critico letterario – Presidente), Rosanna Di Iorio (poetessa), Rita Muscardin (poetessa), Emilio Mercatili (poeta) e Loretta Stefoni (poetessa).

Oltre a stilare la graduatoria dei dieci poeti vincitori, la Commissione di Giuria scriverà e renderà pubbliche le motivazioni relative ai primi dieci premi e al Premio Speciale “Renato Pigliacampo”. Il Verbale della Giuria, con l’elenco di tutti i nominativi dei premiati e dei segnalati e le decisioni ultime della Commissione di Giuria, sarà inviato via e-mail a tutti i poeti partecipanti e reso pubblico online.

6 – La cerimonia di premiazione si terrà presso la Pinacoteca Civica “Moroni” all’interno del Castello Svevo a Porto Recanati (MC) il 14 settembre 2019.

7 – Nell’occasione del trentennale del Concorso “Città di Porto Recanati” l’organizzazione si riserva di produrre un’eventuale antologia a ricordo di tale progetto culturale che nel corso degli anni ha aggregato attorno alla figura del prof. Pigliacampo tanti poeti, consensi critici e permesso di far emergere o confermare talenti a livello nazionale. In tale antologia figureranno alcuni testi vincitori delle passate edizioni con particolare attenzione ai testi dedicati al prof. Pigliacampo, unitamente a una nota bio-bibliografica del Fondatore del Concorso con la finalità di far meglio conoscere la densa attività letteraria del professore e il suo strenuo impegno in campo poetico. L’organizzazione si riserva di valutare l’inserzione dei testi dei vincitori di tale edizione nell’antologia e le eventuali condizioni che verranno comunicate tempestivamente ai finalisti vincitori.

8 – Ai sensi del D.Lgs 196/2003 e del Regolamento Generale sulla protezione dei dati personali n°2016/679 (GDPR) il partecipante acconsente al trattamento, diffusione e utilizzazione dei dati personali da parte della Segreteria Organizzativa del XXX Concorso Internazionale “Città di Porto Recanati” che li utilizzerà per i fini inerenti al concorso in oggetto.

9 – Il bando di concorso è costituito da 9 (nove) articoli compreso il presente. La partecipazione al concorso implica l’accettazione tacita e incondizionata di tutti gli articoli che lo compongono.

        

La Famiglia Pigliacampo

 Il Presidente di Giuria

  

INFO: poesia.portorecanati@gmail.com

 

[1] Per prendere visione il profilo bio-bibliografico del prof. Renato Pigliacampo si consiglia la pagina presente su Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Renato_Pigliacampo nonché il suo sito personale: www.renatopigliacampo.it Su quest’ultimo sono presenti anche saggi e relazioni per la sua presenza a convegni, testi poetici, recensioni e altre dissertazioni.

“Cerchi ascensionali” di Francesca Luzzio, recensione di Lorenzo Spurio

Cerchi-ascensionali-220x300.jpgLa nuova opera della poetessa palermitana Francesca Luzzio è stata recentemente pubblicata per i tipi di Il Convivio Editore di Castiglione di Sicilia e porta il titolo di Cerchi ascensionali.  Le motivazioni e le finalità della tetra-ripartizione dell’ampia opera poetica – che raccoglie gli inediti della più recente produzione, compresi alcuni testi apparsi su riviste e antologie – sono ben chiarite negli apparati critici introduttivi al volume a firma, rispettivamente, del professore Elio Giunta e di Angelo Manitta, critico letterario e responsabile della casa editrice Il Convivio. Nella progressione di questo percorso per “cerchi” che, come Manitta rivela, ricordano i canti di dantesca memoria,l’animo poetico della Nostra è tratteggiato a trecentosessanta gradi, esponendosi la poetessa tanto su questioni di carattere etico-sociale[1] (“La mia terra è piena di crepe,/ sofferente, come tanta gente che nulla ha”, 39), quanto su riflessioni personali ricollegati alla rievocazioni di memorie felici e veri e propri flussi di coscienza.

 

La recensione completa è stata pubblicata su “Oubliette Magazine” il 22-02-2019. Per poterla leggere cliccare qui. 

 

“Le orme dei giorni” di Antonio Damiano. Recensione di Lorenzo Spurio

Recensione di Lorenzo Spurio

Antonio Damiano è nato nel comune di Montesarchio, nel Beneventano, ma da anni vive e Latina. Si è laureato in Lettere e Filosofia e, in quanto alla sua passione poetica, ha pubblicato sinora quattro libri: Come farfalle(Montedit, Melegnano, 2013),Come le foglie(Ass. I due colli, Torre Orsina, 2015), Versi d’autunno(Genesi, Torino, 2016) e il recente Le orme dei giorni (Stravagario, Minturno, 2018). Ampiamente apprezzato dalla critica e dall’ambiente letterario ha all’attivo circa trecento premi tra podi e premi speciali conseguiti in altrettanti concorsi letterari nazionali. Nell’aprile 2018 gli è stato attribuito il “Premio alla Carriera” da parte dell’Associazione GueCi di Rende (CS)presieduta dalla poetessa Anna Laura Cittadino.

48371642_314313059179175_4729821035229085696_n.jpgParticolarmente attento alle dinamiche socio-civiliche interessano il nostro oggi (ma non solo, come vedremo a seguire), Damiano nel corso degli ultimi anni si è imposto nello scenario ampio e variegato dell’universo delle competizioni letterarie quale anima sensibile verso ciò che accade non solo nella realtà di Provincia e nel Belpaese, ma nel mondo tutto, dimostrando capacità di analisi non indifferenti e un sentimento umanitario che lo rende vero cittadino di questo scapestrato mondo. I versi di Damiano non sono mai tesi a denunciare in maniera reproba i mandanti, gli esecutori diretti e chi ordisce il Male e alimenta le violenze, semmai a leggerle con occhio compassionevole e attento, a sottolinearne la gravità, a indagarne le ragioni e, ancora una volta, a solidarizzare con il represso, colui che viene battuto o cacciato. […]  Per parlare di questo nuovo libro di Damiano non si può prescindere dai ricchi ed esaustivi apparati critici in apertura e chiusura di cui esso è dotato, brani esegetici che arricchiscono di per sé la caratura del volume e del Poeta di Latina permettendocene una lettura e un approfondimento radicali e persuasivi che ci consentono di avvicinarci all’opera e di gustarla in maniera ancor più saporosa. La poetessa Patrizia Stefanelli dedica pagine particolarmente apprezzabili sottolineando il forte realismo e pregnanza della lirica di Damiano parlando, al contempo, di una “odeporica essenza” (4) che si realizza in quell’intendimento spontaneo atto a esperire la poesia, e la scrittura tutta, come un viaggio.  […] Il critico Cinzia Baldazzi, con una gamma variegata di riferimenti a intellettuali a lei amati nei quali ravvisa “consonanze” con alcuni versi di Damiano, si focalizza su un altro aspetto dominante del volume da lei definito nei termini di “cosalità dei significati quotidiani” (108) a intendere quel legame forte e spontaneo, sentito e immanente, che l’uomo ha con l’universo oggettuale che lo circonda, il contesto abitativo e sociale, finanche le pratiche rituali e celebrative che appartengono a quel dato “essere” nell’ hic et nunc

 

L’intera recensione è stata pubblicata in data 20/12/2018 su “Telescopio News” e può essere raggiunta cliccando qui.

Ricordando Raul Lunardi (1905-2004), autore di “Preghiera del centenario”. Articolo di Stefano Bardi

Articolo di Stefano Bardi (*)

Questo breve articolo è volto a ricordare il poeta, scrittore, giornalista e insegnanteRaul Lunardi(1905-2004), cittadino illustre del comune di Sassoferrato, vicino a Fabriano. Un intellettuale di cui oggi si rammenta per lo più l’attività di scrittore con opere quali “Diario di un soldato semplice” (1952) e “Un eroe qualunque” (2000). Intensa fu, però, anche la sua attività poetica, oggi raccolta in un volume che la compendia in forma generale. La critica poco si è espressa su tale intellettuale, se si eccettuano interventi di Carlo Bo e di Teresa Ferri.

Per praticità e per una più organica presentazione della sua opera poetica, dividerò la sua produzione in due diverse fasi. Nella prima troviamo poesie che vanno dal 1920 al 1983, raccolte in “Poesie 1923-1983” (1998) e quelle dalla seconda metà degli anni ’80 al Duemila in “Preghiera del centenario: poesie” (2003).  Numerosi sono i temi da lui affrontati nelle due raccolte . Un primo tema riguarda la Politica, intesa da Lunardi come creatura dalle mani sporche di sangue e di letame, con le quali i suoi funzionari non fanno altro che denigrare la società degli Uomini, sottomettere la razza umana e trasformare lo Stato nella loro casa: un Inferno. Un secondo tema riguarda i versi poetici che sono intesi dal poeta come i flussi sanguigni, poiché come quest’ultimi, anche i versi lirici sono strutture linguistico-grammaticali frenetiche, palpitanti e meditative. C’è anche il tema della terra, della sua regione, delle Marche autentiche, da lui considerate come una Regione elisiaca, dall’eterna giovinezza, dalla viva campagna e dalle reminiscenziali primavere. All’interno di tale realtà c’è un vivido omaggio alle grotte di Frasassi, concepite dal  poeta come un Eden mistico dal quale Adamo ed Eva diedero inizio alla vita.

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Il poeta marchigiano Raul Lunardi (1905-2004)

“Preghiera del centenario” (2003) è un’opera che l’autore ha volutamente costruito come una moderna “Divina Commedia” dantesca; anche la sua opera è divisa in tre gironi: “Poesie al Neutrone” (configurabili col dantesco Inferno), “Dolce Colore D’Oriental Zaffiro” (configurabili col Purgatorio) e “Dalle Stalle alle Stelle” (configurabili col Paradiso).

Un girone infernale, quello del poeta sassoferratese, in cui possiamo vedere spiriti privi di anima che sono qui collocati, poiché da vivi hanno sostituito l’amore, la gioia e la compassione con la falsa e tecnologia figlia a sua volta della aberrante globalizzazione. Anime, queste, che sono eternamente condannate a non amare più; anime senza amore carnale e spirituale, ma anche profondamente emarginate nell’animo, poiché da vive hanno percorso la strada delle estremità.

Un Inferno che è animato da più anime dannate che saranno da me analizzate nelle loro principali figure. Una prima schiera è costituita dalle oscure ombre di Uomini violenti, che nella loro vita terrena hanno avuto comportamenti maneschi, usato parole brutali e creato leggi per passare negli sguardi degli altri, come dei santi ma pronti a morire durante la loro esistenza per ogni giudizio etico colmo di verità. Una seconda schiera è costituita dalle anime che durante la loro vita sono state avide verso i loro fratelli pensando solo alla cura della propria immagine. Una terza schiera è costituita dagli Uomini cyborg, paragonati agli orologi perché, al pari di essi, compiono le stesse cose impegnati unicamente a consumare i giorni della loro vita. Uomini, ma anche Donne, che sono meretrici, in questo inferno lunardiano. Puttane che nella loro vita hanno illuso i loro amanti donandogli solo un finto amore. Dannate a dolori fisici sono le anime lunardiane; esse sono anche costrette a lasciare nella vita il loro viso nel cuore di coloro che le hanno amate, senza riuscire a dare risposte a questi spettrali visi.

Ci sono anche le impersonificazioni dell’Europa e della Poesia. Il nostro continente è delineato quale creatura ambigua e dalle carni incomplete, che ha regnato solo per mezzo della schiavitù, mentre la Poesia è vista colma di silenzi spirituali e di brumosi pensieri.

Il Purgatorio del poeta marchigiano è contraddistinto da anime che espiano colpe per la conquista del Paradiso Celeste attraverso il ricordo di arcani sapori e ubriacanti odori. Espiazione che si deve basare sulla riscoperta della fola e sul cammino nel dolore. Un girone in cui c’è spazio anche per l’Uomo moderno e la sua vita pregna di super tecnologia, con la quale è fortemente convinto di potersi sostituire alla vita creaturale creata da Dio e crede di poter prendere il posto di Dio. Quest’ultimo, la divinità, è concepita da Lunardi come un geniale direttore d’orchestra  che dona all’Uomo i suoi occhi per farlo camminare su una strada luminosa, le orecchie per ubriacarlo con dolci melodie, i piedi per farlo camminare nella compassione e il cuore per fargli diffondere amore.

Sia Inferno che Purgatorio in Lunardi hanno delle affinità con i celebri gironi danteschi. Centrale rimane, comunque, il cruciale tema della globalizzazione quale oscura sovrana, che ha costretto l’Uomo ad abusare della tecnologia per il soddisfacimento delle sue ingordigie più sfrenate. Globalizzazione dalla quale, però, secondo il poeta sassoferratese, l’Uomo se ne libererà rituffandosi nel brodo mistico dell’Alba Tempi, dal quale ricomincerà una nuova vita nel segno della purezza e della beatitudine spirituale.

Per concludere va rivelato che il Paradiso lunardiano è abitato da angeliche creature dal brumoso anelito luminoso, dalle rosee e marmoree membra simili a quelle della dea Afrodite. Accanto a queste creature c’è spazio anche per la Donna, qui rappresentata attraverso un intimo ricordo che ce la mostra come una creatura dalla dorata capigliatura, dallo spirito garbato. Una donna, quella liricizzata dal poeta sassoferratese, intesa come un angelo che riscalda l’uomo, quale creatura sessualmente libera e vera regina che tira i fili dell’Universo.

STEFANO BARDI

 

(*) Una prima versione di questo articolo, col titolo “Cultura. Sassoferrato, città d’arte e di poesia. Omaggio a Raul Lunardi, 1905-2004”, è apparsa sulla rivista “Lo Specchio Magazine” in data 27/11/2018 (disponibile a questo link). L’articolo viene riproposto con sensibili modifiche rispetto alla precedente pubblicazione, con l’assenso dichiarato da parte del relativo autore.

 

L’autore del presente testo acconsente alla pubblicazione su questo spazio senza nulla pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro. E’ severamente vietato copiare e diffondere il presente testo in formato integrale o parziale senza il permesso da parte del legittimo autore. Il curatore del blog è sollevato da qualsiasi pretesa o problematica possa nascere a seguito di riproduzioni e diffusioni non autorizzate, ricadendo sull’autore dello stesso ciascun tipo di responsabilità.

 

 

Recensione di “Cetti Curfino” di Massimo Maugeri a cura di Gabriella Maggio

Recensione di Gabriella Maggio

Andrea Coriano, protagonista del romanzo, è un trentenne giornalista free-lance che stenta ad  affermarsi perché ancora non ha trovato la storia da raccontare. Intanto vivacchia in casa della zia Miriam che l’ha amorevolmente accolto sin dalla nascita, assumendo il ruolo della  madre morta di parto. La  sua vita  scorre  monotona, scandita dalle modalità di gestione della casa amorevolmente imposte dalla zia, che, sebbene accettate, lo avviliscono, finché non s’imbatte nella storia a lungo cercata, quella di Cetti Curfino, rea confessa di un grave delitto, adesso in carcere.

La storia ha avuto  una immediata eco mediatica, ma poi è stata dimenticata. Andrea decide di incontrare la donna in carcere, di parlare con lei per portare alla luce quello che ancora non è stato rivelato, l’elemento di mistero, l’enigma  che si nasconde dietro al crimine.

download.jpgDal primo incontro Andrea resta affascinato non soltanto dalla bellezza sfolgorante della quarantenne, ma dall’incanto ferale che emana. Cetti potrebbe essere una donna fatale, ma le manca la consapevole perversione del ruolo, perché, al contrario, lei cerca di sminuire e occultare la sua bellezza, di cui conosce il pericolo. Ha fatto esperienza  di quanto sia difficile mantenersi salda su onesti  principi. Cetti, facciamo le cose regolari, Cetti, che chi non le  fa poi la piglia in quel posto, le diceva sempre il marito prima che morisse. Ma non è facile per Andrea portare avanti il progetto del libro anche se condiviso da Cetti, perché La donna è il negro del mondo….è la schiava degli schiavi dice J. Lennon in Woman is the Nigger of the world, canzone  citata nell’esergo del libro e  indicata dall’autore come colonna sonora del romanzo.

La narrazione scorre fluida lungo i trentasette capitoli che alternano la  lingua italiana di Andrea e zia Miriam e altri personaggi al dialetto siciliano, che aspira a un’italianizzazione precaria e scorretta, usato da Cetti nel  suo inconsapevole percorso di autoanalisi nelle lettere scritte al  commissario Ramotta per racconta tutta la sua storia. Cetti si fa scudo delle sue esperienze per migliorarsi, per uscire  al più presto dal carcere, attuando una condotta irreprensibile, per imparare ad esprimersi correttamente con la speranza di riabbracciare il figlio e costruirsi una vita migliore. In questa sua scelta è autentica e determinata.

La storia di Cetti, che come s’intuisce da un solo indizio è ambientata a Catania, viene contestualizzata in temi di forte attualità, quali la condizione femminile, la situazione carceraria, la difficoltà dei giovani a trovare una condizione economica adeguata, la delinquenza, il lavoro in nero. La lotta della donna per trovare uno spazio vitale in una società maschilista appare ancora lontana dal successo, ma è guardata con interesse dallo scrittore che con chiarezza esprime il suo sostegno.

La storia di Cetti  ha già attratto Maugeri che l’ha raccontata in “Ratpus”, pubblicato nella raccolta Viaggio all’alba del millennio edita da Perdisa; ma la ripresa in forma di romanzo matura quando il regista Manuel Giliberti traspone il testo in un monologo interpretato da Carmelinda Gentile. Si può cogliere un una linea di continuità del romanzo Cetti Curfino con la precedente prova narrativa di Maugeri Trinacria Park, edita da e/o nel 2013 nella tema siciliano, lì affrontato in maniera esplicita dal punto di vista dell’immobilismo dell’isola: E vui, biddizza mia, durmiti ancora, canzone siciliana che fa da colonna sonora alla narrazione; mentre in Cetti Curfino la Sicilia appare in maniera più sfumata, non soltanto per la focalizzazione su un  personaggio, ma per una volontà di dare alla storia un significato più ampio in cui ogni lettore può riconoscersi.

GABRIELLA MAGGIO

 

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