N.E. 02/2024 – “Dai capitoli del tempo”, poesia di Pasqualino Cinnirella

Volto ai dissesti ormai senili tu,

ancora taci anima stanca

nel chiuso torbido,

se pur non reggi mutola la pena

di un cuore dove impera solitudine,

dissonanze a vivere nell’oggi turbinoso

in cui la violenza spezza ali di colomba.

E’ tempo dei rimpianti, dei ricordi e timori,

di celate ansie al presto divenire

di giorni inoperosi e assente l’io.

Ancora la speranza regge appena

nei chiarori dell’alba senza nubi,

al ravvivarsi di quel sogno antico;

ma scemando ne scandisce l’ore

fino ammutolirsi col farsi delle ombre

in piena luna, che pur sempre ignara

questa, ancor più gaia mi sorride…fanciullo.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – Due aforismi di Maria Pellino

La pace è nella contezza del tempo, quando l’animo raccoglie la virtù della pienezza e ne assapora l’autenticità.

La frenesia dilegua la ragione, ne aggroviglia l’esultanza. Sentire tutta quella tensione avvolgere corpo e cuore risveglia lo sguardo sull’eternità.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

Tre drammi di Jon Fosse: “Variazioni di morte”, “Sonno” e “Io sono il vento”. Saggio di Anna Vincitorio

Jon Fosse – definito da molta critica come “nuovo Ibsen” – è stato proclamato Premio Nobel per la letteratura nel 2023. Secondo la motivazione dell’Accademia, “le sue opere, tradotte in più di quaranta paesi, danno voce all’indicibile”.

Il poeta, scrittore e drammaturgo Jon Fosse
(Premio Nobel per la Letteratura 2023)

Osservo il suo volto ombrato: occhi chiari che trapassano il tempo. Solitudine, tristezza. Uomo dei fiordi e delle nebbie. Ha sessantaquattro anni. Un passato di alcool. Il suo sentirsi solo, attraverso la parola, ha suscitato emozioni profonde, un linguaggio scarno, innovativo, fortemente drammatico. La sua scrittura esprime il dramma del vivere attraverso la parola scarna, visionaria a volte, minimalista che trapassa e scava come goccia sulla pietra.                 

I suoi personaggi sono nel tempo e fuori del tempo. Non hanno un nome. Sono visioni di una realtà crudele e incisiva. La sua scrittura prevarica le convenzioni, i limiti della parola. Scrive parole che vanno oltre la parola stessa, producendo emozioni che solo la poesia autentica può dare. Chi ascolta o legge i suoi drammi si sentirà proiettato in una dimensione atemporale. Il saggio di Leif Zern su Fosse, Quel buio luminoso, è introduzione e origine del volume. Tre drammi: Variazioni di morte, Sonno e Io sono il vento. Immagini come cascate che fiottano parole. I suoi personaggi non sono eroi ma quelli che non ce la fanno a reggere il peso degli eventi, gli smarrimenti, sono personaggi la cui identità è sospesa tra la vita e la morte.

VARIAZIONI DI MORTE (2001)

Spazio in cui si susseguono eventi in cui sovrana è la parola. Il tempo non ha una dimensione oggettiva. Si ripetono e si dilatano suoni. Possono estasiarti come ferirti. Sei avvolto da una atmosfera che ti imprigiona. La parola quando ti penetra, fa di te il personaggio. Sono attimi di una realtà che non ti appartiene ma che tu avverti sulla pelle come un brivido. L’uomo anziano, la donna anziana. Dialoghi brevi: “Che errore! / proprio non capisco…/ che lei se ne potesse andare”. Lei disperata: “Possiamo ancora fare qualcosa…”. L’uomo anziano: “Non possiamo fare niente”. La loro unica figlia che segue il suo destino… “È morta / È via per sempre…”. Nulla tiene ora uniti quei due. Lui non vuole vederla. Se ne vuole andare. Un evento tragico quasi sempre distrugge un passato comune. È crudele ma inevitabile. Sulla scena una donna giovane entra e un uomo giovane. Si incontrano e si abbracciano. Poco denaro, una squallida cantina dove vivere. “Non è davvero molto / Tutto è così incerto; / questa è la vita / Ho paura e sono preoccupata / Non aver paura / tu…: Dovetti andare / Loro telefonarono / E lei stava stesa là…/ E i suoi capelli / E i viso / il suo viso”. Parole, quasi sussurrate ma dure come pietre. Sulla scena nuovamente i due giovani. “Lei ha le doglie. Sta male…”. “E così lei se n’è andata / via per sempre”.

Si alternano un prima e un dopo. La storia non è chiara. Presente e passato s’intrecciano. C’è una figlia; contrasti tra i due giovani di prima; incomprensione tra gli anziani. Non è importante il susseguirsi di una storia con vuoti improvvisi e ritorni, quanto le emozioni provocate dal suono delle parole. Riandare ripetuto dalla vita alla morte e viceversa. “Credo che si possa avere / un segreto, una pace dove si riposa / solo riposo / l’uno nell’altro / Ma io voglio stare sola / sempre sola…”. Ricordi di un tempo che non c’è più: “E lui veniva verso di me / con la pioggia nei capelli / una sera: veniva verso di me / con la pioggia nei capelli / una sera / veniva verso di me… / la luce nei suoi occhi / veniva… / in quella musica che è sua veniva / E la pioggia nei suoi capelli / resterà sempre là / I suoi capelli nella pioggia / una sera / proprio là / proprio allora”, “Lei uscì di notte / nella pioggia / nel vento/…”. È un susseguirsi di parole che straziano. È un parlare, ricordo e presagio di morte. Ma affascina. “Perché i suoi capelli nella pioggia / stavano là / come la luce del cielo / Perché l’amore assomiglia alla morte… È una sola sera con la pioggia”. Ho riportato alcuni frammenti dei dialoghi. Vanno ascoltati, non descritti. Il lettore ne proverà la potenza su se stesso. Ancora, la figlia: “Mi pento/ voglio ritornare/ voglio stare sola/ Non avrei dovuto/…”. È importante per me in un’opera teatrale, non tanto comprendere quanto affogare nell’estasi trascinante delle parole.

SONNO (2005)

I personaggi non hanno nome. Dove il tempo? Nel ricordare. Il lettore affonda in personaggi senza storia. Attese malinconiche; eppure in questo – poco –, si comprenderà la natura nemica. Sono le voci di dentro che tutti conosciamo e scopriamo a un tratto. Non ha importanza l’evento che potrebbe anche non verificarsi ma penetrare nel non detto, sentirsi reietti, vivi o nel “sonno” che precede la morte. I personaggi sono anziani o di mezza età. Più che dialoghi si notano esternazioni di un pensiero. “Ti ricordi / e la stessa cosa / e fai la stessa cosa con me (ride un attimo) no che sciocchezza”. La donna anziana: “E io sto sempre peggio / le gambe / non mi vogliono sostenere / Non ce la faccio quasi a fare più niente / E non posso più parlare”. L’uomo anziano: “…ecco è caduta…l’ho trovata stesa sul pavimento… non parlava… ma si cioè respirava / e così tornasti di nuovo in vita e incominciasti a parlare…”. Il dramma è la solitudine e l’attesa. Il figlio arriva ma deve subito andare via. Resta l’uomo anziano: “Noi ce la facciamo/ Non preoccuparti di noi / tutto va bene”.

In qualunque paese queste scene si ripetono. Attese, fuga e arrivi e poi, nuovamente solitudine e silenzio. Il sonno diviene conforto o solo preludio di morte? L’opera ha debuttato in prima assoluta a Sesto Fiorentino per il Festival Intercity Oslo. Ne parla Eleonora Tedeschi: “Il suo è un teatro complesso in cui il ritmo è scandito dai silenzi, sospensioni, interruzioni. La parola stenta ad arrivare alle labbra per la difficoltà e forse addirittura l’impossibilità della parola di esprimere il dramma dell’esistenza”.

IO SONO IL VENTO (2007)

Due soli attori. Voci che fluttuano in uno spazio immaginario che però prende forma dalle loro parole. Una barca sul mare. È tutto grigio: gli isolotti, le isole, i monti e le pietre sulla spiaggia.

L’uno vorrebbe attraccare la barca in una insenatura. “La barca sarà al sicuro / Entriamo a vela e attracchiamo… E oggi il mare è tranquillo… E il mare è mare aperto”. Sono voci che si spandono nella nebbia… L’uno: “Io non volevo / Lo feci così per caso”. L’altro: “Accade così per caso / Ma poi avevi / paura che accadesse / Si. E così accadde”. È un lungo dialogo sulla vita che ognuno plasma secondo il suo essere. La vita è presente nell’altro. L’uno parla, forse spiega il perché del suo atto. Il non voler più essere. Non è ma ricorda. Non può essere sulla barca ma c’è. Cosa rappresenta la barca? Un rifugio precario perché il vento la spinge verso il mare aperto. Il pericolo affascina come la follia perché non può essere compreso. L’uno che non è più invita l’altro a fissare le corde e nella vicinanza della costa a saltare. La corda fissata ad un palo e poi nuovamente saltare per tornare sulla barca e qui, insieme, consumare del vino…mangiare. Sembrerebbe che il dramma tenda ad allentarsi. Il mare aperto è oltre la scogliera “e là / là si incontrano il mare e il cielo”. Così come la vita va incontro alla morte. Parole, parole che si dicono. Parole che diventano pietra. La pietra è greve, non muta come il deciso impulso di non essere più. Disteso nell’acqua e poi via per sempre.

È la solitudine che sospinge verso la morte “che sta là / non solo come pensiero / non solo come paura / ma come qualcosa vicina”, “Ma tu / la vita… non è poi così brutta / Non sempre… è bello vivere”. Sempre il vento sospinge la barca immaginaria verso il largo. L’uno: “Ho sempre avuto paura che accadesse / e ho pensato che sarebbe accaduto / e ho avuto paura”. L’altro: “…io non posso far niente / in mezzo al mare aperto…; Io guardo e lo cerco… la barca va avanti. Dove sei? Ma non posso vederlo”. Le onde sono nere e bianche e piove. “Ma perché lo hai fatto?” “L’ho fatto e basta… Sono via / Sono andato via con il vento / Io sono il vento”.

Dramma trascinante. Sospensioni, riprese. Il tutto in un clima allucinatorio. La sua fine è la fine di ogni essere umano sia che la agogni, sia che la tema. Teatro di pensiero in spazi immaginati, descritto con parole di mare e di nebbia e noi, perduti, affascinati e avvolti dal sibilare del vento. Il teatro siamo noi che ci immedesimiamo negli attori. Siamo quel pubblico che ascolta dall’alto del loggione e che Giorgio Albertazzi definì Les enfants du Paradis. Mi rivedo ragazzina correre per le ripide scale della Pergola per guadagnare un posto e poi… Si alza il sipario.


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“Uccelli scalzi” di Elisa Roccazzella. Recensione di Gabriella Maggio

Recensione di GABRIELLA MAGGIO

La Sicilia con i suoi paesaggi e i suoi miti, gli affetti, i ricordi e le attese della vita costituiscono l’ordito su cui Elisa Roccazzella tesse la trama della sua poesia. Bella come l’alba della Creazione l’isola si offre come un paradigma  naturalistico e  mitologico che  la poetessa  esprime con parole suggestive, che giungono alle  radici nascoste nel cuore,  forgiando  immagini di vitalità: “il tuo nome / è un’onda di vento / che piega il campo dorato di spighe”;una luna / nel suo trono di luce / scrive poesie d’amore / su pagine di stelle” odell’ombra  dopo la vita: “quando la bellezza / passeggera della luce / cederà alla croce dell’ombra… e ….vertigine sarà altro sole, / pienezza d’una  vita / senza tempo / e… nessun vento mi dirà / se ancora nasceranno spighe / se ancora nasceranno rose (Poesia “Io Anima”). Se lo spazio è quello isolano il tempo è quello ciclico della natura, colto con intensa partecipazione. Come l’Arianna del mito la poetessa tiene il filo dell’eternità e percepisce l’eco d’irragiungibili sirene. Un sentimento elegiaco con punte di nostalgia individua i versi della raccolta Uccelli Scalzi che comprende quarantacinque poesie scritte in anni diversi dal ’91 al 2022, mescolate fra loro senza tenere conto della cronologia perché intrinsecamente coese nel sentimento che le ispira.  Gli uccelli del titolo sono metafora del desiderio di librarsi in volo, staccarsi dalle contraddizioni e dai condizionamenti della realtà, sono scalzi, nudi, essenziali come il procedimento gnoseologico e linguistico compiuto da Elisa Roccazzella per giungere alla nuda, essenziale profondità del sentimento. La poesia nasce infatti da un grande “tormento che m’innalzerà… a levità di canto” (Poesia “L’allodola”) ed è “Epifania di luce”, calda parola che riverbera “quel fuoco / che divora il mio cuore di poeta” (Poesia “Vergine o vestale”). Uccelli scalzi si pone chiaramente come sintesi della poesia di Elisa Roccazzella, come manifesta il ricorrere della deissi spaziale evocativa d’ infinito e di mistero.


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“Persistenze. Parole, memorie, frammenti” di Stefania La Vita, recensione di Lorenzo Spurio

Recensione di Lorenzo Spurio

La poesia ha bisogno di cose

è un fatto di respiro,

anche un rossetto usato

può bastare

al verso, dargli ossigeno.

La poetessa siciliana Stefania La Via, residente nell’affascinante comune di Erice nel Trapanese, ha recentemente dato alle stampe, dopo i precedenti lavori Fuori tema. Canti del silenzio (1998), e-mail (2002) e La fragilità difficile (2014), una nuova raccolta di versi. Il volume, dal titolo Persistenze. Parole, memorie, frammenti, è stato pubblicato da Màrgana Edizioni di Trapani in un’elegante veste grafica che al suo interno contempla delle raffigurazioni visive monocromatiche.

L’opera si mostra anticipata da un’affettuosa dedica ai suoi cari, a suo marito e ai figli e subito lascia il posto a un importante cameo di citazioni dell’alta tradizione letteraria nostrana e d’oltralpe. Ci si accorgerà poi, leggendo il volume e procedendo nel percorso voluto dalla poetessa, che i richiami alla tradizione, le voci di maestri e mostri sacri della poesia mondiale, non mancheranno e saranno, al contrario, rilevanti e simboliche pietre miliari, o una sorta di ancore, lungo il cammino.

In apertura alla sotto-sezione intitolata “Parole” incontriamo chiose tra cui una di Italo Calvino estratta da un’avvincente annotazione sulla poesia quale concetto indefinibile e realtà inconcreta, difficilmente contenibile e ascrivibile a canoni stringenti di chiusura e di Umberto Eco e di Paul Claudel incentrate, invece, sulla forza espressiva e il significato del linguaggio umano nelle forme del più antico canto, quello appunto poetico. La chiosa di Claudel richiama il motivo del margine e del frammento, l’aspetto di sopravvivenza e di residualità che contraddistingue la poesia che è, tanto sulla carta quanto nel disquisire, ciò che risulta da un procedimento di sintesi e lavaggio, di rimozione di orpelli estetici e di tecnicismi per giungere a una parola glabra, ossuta, scarnificata atta a rivelare con semplicità e pianezza di linguaggio, a svelare e denudare il corpo del superfluo.

Tra queste ampie linee propedeutiche prende piede l’opera poetica di Stefania La Via e subito ci imbattiamo in opere che fanno della poesia stessa l’oggetto privilegiato d’analisi come accade in “Di verso in verso” dove è possibile leggere: “Mi nutro di poesia a lunga scadenza. / La prendo a piccole dosi dallo scaffale/ […] / la rumino, la disfo, la rifaccio / nuova, la rimpasto con paure / e speranze che sento mie”. Interessante testimonianza di poetica in cui la poetessa non cela la sua reale dipendenza e “consustanziazione” con la poesia, di cui fa uno dei motivi più significativi del suo ordinario.

Una disamina attenta al sentimento che la lega al verbo lirico è contenuta nella poesia successiva, “Alla poesia”, una sorta di lode o invocazione in cui l’Autrice è in grado di rivelare l’attaccamento, la sintonia, il legame e l’effervescenza sperimentate nella scoperta della poesia, nel ricorrere ad essa, nel sentimento di esigenza e di recupero.  In “Fare una poesia” ci si domanda, in maniera indiretta, su come effettivamente sia possibile costruire una poesia e questo viene per lo più indagato in termini non tanto speculativi quanto fascinosi e allegorici; l’Autrice parla di “alcuni versi in lavorazione” e dice che “[ha] scolpito speranza e sofferenza”. La costruzione del verso è centellinata da azioni minute di grande abilità e competenza, come quella di un mastro comacino nell’intaglio e nella lavorazione della pietra. Il manufatto che alla fine vi si ottiene non è che il procedimento frastagliato di interventi continui, di una manualità cosciente ma soprattutto di una grande genialità che risiede nel recondito del singolo.

Nel volume di La Via si riflette sulla scrittura, sull’importanza del segno e si avanza l’idea che le parole abbiano una centralità indiscussa, tanto nel collettivo quanto nel consuetudinario del singolo. Si parla abbondantemente di questo, ascritto in una linea di nostalgica speranza e di tiepida insicurezza che si raggruma nel concetto indefinito e ondivago di transitorietà (alla quale dedica una lirica con un monito riflessivo sul passaggio delle generazioni).

Di particolare pregnanza risulta la poesia “Solo la parola”, che si riconnette alla nota incipitaria di Claudel richiamata come intertesto, che aderisce a una concezione di poesia esatta e pura, parca e necessaria, valevole, nella sua semplicità di linguaggi e stili, di far fronte a un magma interiore, a una ferita indicibile, al desiderio di esternare moti ondosi o burrascosi del proprio io, come pure di aderire, mediante la propria visuale, alla presenza cosciente e attiva nel contesto collettivo: “Poesia non è un’amena passeggiata”, dice la Nostra. Siamo senz’altro d’accordo su questo che, più che un verso, può apparire come un disincantato giudizio. Esso rappresenta un’evidenza palese, quella che nella consuetudine pregiudiziale odierna, vede la poesia come diversivo o banalità, quale artificio recondito o astrazione surreale, tendenzialmente inutile perché incapace di relazionarsi ai fatti concreti della vita. Inefficace e inattuale perché non duttile né respirabile, né tanto meno plasmabile dall’uomo. Eppure La Via evidenzia, secondo una logica di sottrazioni (definendo per mezzo di una serie di negazioni curiose), quel che effettivamente la poesia è (o rappresenta) per lei: “Non è galleggiare in superficie ma apnea / precipizio / sconquasso / che toglie la terra sotto i piedi / e capovolge prospettive, / energia che attraversa, / strappo che squarcia la trama del tessuto”. La poesia è uragano o radiografia. Impeto e scavo. Riflessione e denuncia. Eppure La Via intende sottolineare con nettezza quanto la sua origine primigenia e atavica risieda in una sorta di ambulacri personali, nelle cavità di un’esperienza di cui conosciamo forme e messaggi solo in forma limitata.

In questa sezione dedicata alle “parole” è contenuto anche un omaggio al giovane poeta romano Gabriele Galloni (1995-2020), deceduto nel fiore della sua “estate del mondo”. La poetessa annota nell’incipit: “Quando un poeta muore / si fa più oscuro il mondo, disperato” passando poi in rassegna alcuni degli squarci iconografici più tipici della sua poetica fortemente imbevuta di un sentimento e di un presentimento (forse) della morte: “Corteggiavi la morte / e a lei ti sei arreso, giovane poeta / […] / tu che volesti raccontare l’abisso, / l’Antartide nera”. È da pochi giorni trascorso il primo anniversario della morte del poeta e iniziative in sua memoria, riletture della sua opera, confronti, dibattiti e, forse, il lavoro a una prossima pubblicazione di inediti, ha contraddistinto tutto questo tempo, nel diorama vastissimo e in continua produzione di omaggi e sensi di affetto verso il poeta di In che luce cadranno (2018). Il componimento di La Via rientra, dunque, in questo ambito.

Nella seconda sezione del volume, “Memorie”, dopo le citazioni di Guy de Maupassant e di Bertolt Brecht (si noti la vastità e la varietà stilistica e contenutistica degli autori richiamati e, quindi, in qualche modo, fatti propri, riletti e riproposti nel contesto dei propri testi personali), ci si interroga in maniera più serrata sul transito irrefrenabile del tempo tramite la rievocazione di mesi, stagioni e momenti in essi diluite che hanno contraddistinto momenti inscindibili all’esperienza esistenziale della Nostra. Da “Ferite” leggiamo: “Si sfocano i ricordi dolorosi, / ne resta un’eco sorda / […] / Eppure si riaccende talvolta la ferita”.

La terza e ultima sezione, “Frammenti”, è anche quella più corposa dell’intero libro ed è interamente dedicata a far risaltare il tracciato umano ed emotivo nella drammatica circostanza dei tempi inclementi che ci sono stati dati da vivere, quelli dominati dalla pandemia e dalla sua minaccia mortale, dall’angoscia diffusa sino alla paranoia, alla desolazione e al tormento collettivo. Ci si è domandati spesso negli ultimi tempi su varie riviste di settore, sull’onda anche di iniziative antologiche a tema Covid e a seguito di una poesia di Mariangela Gualtieri (citata dall’autrice in esergo) che a molti è piaciuta ma ha fatto anche molto discutere, se effettivamente sia possibile definire l’età del momento, in termini di storiografia, nei termini di “letteratura della pandemia” e in molti hanno sostenuto di sì. Con ampi e necessari preamboli, note, distinguo, approfondimenti, limitazioni, etc.

La caratteristica principale di questa sezione è quella di voler trasmettere il senso di disagio e di mancanza d’equilibrio dell’uomo contemporaneo, assieme alle sue nevrosi e al sentimento di sempre più convinta in-appartenenza agli spazi. Le poesie divengono, così, brani scheggiati, come annotazioni, perdono il loro senso di completezza e di unitarietà per apparire, appunto, frammenti, il prodotto di un momento di irrequietezza e frenesia e di dolore, di incapacità di rivelare la realtà in maniera pacificata. Ne nascono composizioni di diversa natura, brani in versi che s’avvicinano e si nutrono alla prosa con un alta intensità lirica, in cui l’Autrice ci parla di questo “dolore antico” che si amplifica nella stasi dolorosa (“Di questo tempo strano / ricorderemo la calma delle strade / […] / il silenzio che penetra / la terra”), nel distanziamento sociale, nella lontananza (“il condominio è un albergo / di solitudini”), nell’annullamento e nella sospensione dell’ordinario (“il ritmo si allenta / e l’ora si confonde”), dato per assodato e invece riscoperto in tale circostanza come qualcosa di assolutamente nevralgico e vitale: “Tutto è ovattato, distante / il pianto, il dolore, / il legno delle bare allineate. / Luce al neon che acceca / ma non scalda”, annota in “Frammento sesto”. Il ritorno alla normalità – ammesso che questo sia possibile – potrà avvenire non tanto con l’effettivo debellamento del virus (altri ce ne saranno, dicono gli studiosi) ma quando saremmo stati capaci di ritrovarci negli affetti, quando avremo riscoperto l’esigenza antica e banale, innata e legittima, del sentimento comune: “Dobbiamo reimparare ad abbracciarci” (incipit di “Frammento ventunesimo”).

Una risposta fiera e convinta alla barbarie di questi tempi originata dal maledetto virus è rappresentata dal “Frammento trentaduesimo” dove, dopo numerose immagini di morte, di asfissia, di desolazione collettiva, la poetessa ritorna a sperare, con una rinata coscienza memore dell’accaduto, una riflessione buona che dobbiamo accogliere e fare nostra per continuare a credere al mistero della vita e alla necessità di persistere in questo cammino sì frastagliato e minacciato dall’enigma ma, sempre e comunque, proiettato verso una meta di luce: “Il dolore che provoca l’assenza / si trasforma in canto, / perché solo ciò che manca / si può cantare / e per quanto dura il canto / ha tregua il male”.

Lorenzo Spurio

Note: La riproduzione del presente testo, sia in formato integrale che di stralci e su qualsiasi tipo di supporto, non è consentito se non ha ottenuto l’autorizzazione da parte dell’autore. E’ possibile, invece, citare da testo con l’apposizione, in nota, del relativo riferimento di pubblicazione in forma chiara e integrale.

“Tutti i racconti” di Javier Marías, recensione di Marco Camerini

Recensione di Marco Camerini

“Accettati” o “accettabili” secondo l’autore, comunque splendidi e indispensabili per comprendere l’universo narrativo di Javier Marías, vengono opportunamente riuniti in volume Tutti i racconti (Einaudi 2020) pubblicati nelle due precedenti raccolte, Mentre le donne dormono (2000, 1ª ed.1990) e Quand’ero mortale (1996) che riflettono, integrano ed arricchiscono, nella forma breve, i motivi ispiratori della sua produzione romanzesca da Domani nella battaglia pensa a me a Berta Isla: contrariamente a quanto ritenuto da alcuni critici, un percorso creativo coerente e unitario (pur con esiti meno riusciti), non crediamo articolabile in due fasi, la prima delle quali – sino a Un cuore così bianco – più letterariamente felice. Fra tutti i temi trasversali della perdita/ricerca di un’identità mai definita né definibile nel caleidoscopico disgregarsi di una realtà illusoria e multiforme (si finisce, come nel bellissimo “Una notte d’amore”[1], con il costruirsi esistenze fittizie[2] per il timore di venire uccisi dai propri sentimenti se si ammettesse di viverli. “E per attenuare le cose più intense e passionali far come se accadessero ad un altro. Che è poi il modo migliore di osservarle”. Se poi “l’altro” è un morto…), dell’ambiguità gnoseologica che, inevitabilmente, si traduce in ambivalenza narrativa (“le storie accolte nel tempo non si devono cambiare, anche se si sono ficcate senza spiegazioni nel loro giorno”[3]: per Marías la mancanza di risposte sul piano esistenziale finisce con il costituirsi nella storia narrata, “è” la storia), infine dell’eros e di un fantasma femminile declinati nei loro minimi, più sfumati particolari. E se l’amore è speranza, ardore, oscenità, gioco, finzione, scambio di ruoli, nevrosi, paranoia, rapporto fra sconosciuti, stanca routine quotidiana e fantasia morbosa, opportunismo, devozione, calcolo, ricatto, rassegnazione, tradimento e (quasi) mai fedeltà – perché, in fondo, “è sufficiente credere che la vita di qualcuno dipenda dalla nostra per non negargliela, per non sentirci liberi  di andar via in qualunque momento, per quanto si possa essere stanchi e delusi”[4] e quella che manca è forse proprio la dimensione “normale” (semplicistica?) di un legame che viva semplicemente di sincera empatia – la donna, assai più dell’uomo, è l’emblema/universo in cui tale dimensione prende corpo. Vanitosa, paziente, crudele, sprezzante, infantile, cinica, sbadata o riflessiva, colta e appariscente o anonima, vendicativa sino alla violenza, insieme ironica e taciturna, tranquillizzante e inafferrabile, spesso sola (in attesa, delusa, insoddisfatta, ingannata…ampia la gamma della solitudine femminile), la Lei di questi racconti è “di una grazia irreale, quindi ideale, senza asprezze, distesa, quieta, priva di gesti, liscia, esuberante, non lattea ma cremosa, che non invita al tatto come se minacciasse di sciogliersi” ma ha anche “ciglia di bambola antica o dense e pelle scura per natura, per piscina o per spiaggia”[5].

Suggestioni che trovano naturale, originale espressione attraverso elementi canonici ed esemplari di un approccio narrativo assolutamente “europeo”, il sosia/gemello – Lord Rendall vede, o crede di vedere, se stesso nella presenza maschile che vive accanto a sua moglie in una allucinata alterazione/cancellazione del tempo al confine tra vita reale, illusoria o, forse, decisa da un incomprensibile destino e il detestabile Javier Gualta si scopre duplicato in un alter ego perfetto, finendo vittima di una spirale schizofrenica di degradazione e follia[6] – e il topos dello sguardo. Guardiamo per (tentare di) comprendere o solo vagamente recepire l’intellegibilità dei fenomeni, “in fondo sappiamo come sono fatti gli altri perché li vediamo, anche se nessuno sa vederli gli sguardi”[7] così, come del resto sin dai libri d’esordio, quasi in ogni intreccio qualcuno – affacciato ad un balcone/veranda, davanti ad un portone (spesso di notte), sfacciatamente o di soppiatto, ad occhio nudo, per mezzo di un Binocolo rotto o di un telecamera (“Mentre tutte le donne dormono”) – osserva qualcosa o qualcun altro: per adorazione, per sottrarre le apparenze alla loro fragile precarietà, per illudersi e non illudere, contemplare la bellezza e magari la morte – propria…altrui – quando, repentina e imprevedibile, sconvolge con la sua casualità equilibri, progetti, certezze, promesse[8]. E se Malanimo si risolve nel sorprendente omaggio ad un “Signor Presley” inquieto, ingenuo, sfruttato, ricattato con l’amicizia e le squallide ragioni di uno star system drogato dai dollari (lui “affabile e talentuoso come nessuno”), lo scrittore si conferma assai abile nel toccare le corde del genere fantasy/esoterico – in Le dimissioni di Santiesteban, Non più amori e nell’esemplare Quand’ero mortale[9] protagonista “in assenza” è un fantasma il quale sa amare e ingannare gli altri ma non se stesso, condannato com’è, in un “non tempo” che proustianamente si perpetua con ogni dettaglio, a ricordare e conoscere impulsi, sensazioni, intenzioni della propria vita prima non percepibili, a provare l’orrore di una piena “coscienza” anche della sua tragica conclusione – e del “poliziesco o d’intrigo”[10]: successivo di un solo anno (1995) a Domani nella battaglia pensa a me, l’intrigante “Sangue di lancia” lo riprende nell’incipit enigmatico e, per i meccanismi del delitto (apparentemente) irrisolto solo per un protagonista ignaro e raggirato da un sistema giudiziario kafkianamente “anonimo, ubiquo, molteplice, tragico”[11], anticipa clamorosamente il plot di Berta Isla.

Sul piano strettamente formale la prosa di Marías risulta complessa e articolata, con il ricorso insistito ad una marcata ipotassi, ad incidentali parentetiche equivalenti per importanza alla “frase ospite” e funzionali all’approfondimento psicologico del personaggio (che avviene di frequente attraverso la descrizione minuziosa del vestiario e dei capelli), ad un lessico sontuoso e analitico, ad una aggettivazione ricchissima – spesso addirittura quadruplicata – e mentre risultano inaspettatamente molto più rari – rispetto ai romanzi – gli amati richiami shakespeariani[12], brillante e personalissima risulta la costruzione della struttura narratologica, grazie soprattutto al ricorrere frequente del “finale aperto e/o mancato”, una delle peculiarità del suo stile su cui vale la pena, in conclusione, di soffermarsi. Di fatto il dato essenziale della trama – inteso come scioglimento di un’attesa creata ad arte per l’evento risolutore/chiarificatore della vicenda – non si svela quasi mai nella conclusione del racconto e l’epifania viene differita ad un ipotetico scenario/spazio extra-testuale che spetta alla complicità del lettore supporre e, se vorrà, addirittura “scrivere”, dopo che l’intreccio ha esaurito l’analisi dell’intera gamma di sensazioni emotive dei personaggi di fronte all’evento stesso, vero scopo della scrittura. Questo coincide per lo più con un accadimento di natura violenta come un omicidio, di volta in volta immaginato, pensato, desiderato, forse già avvenuto (“Il medico di notte”), che probabilmente avverrà – magari perché annunciato (“Un immenso favore” e “Caduto in disgrazia”) – o, clamorosamente, sta avvenendo senza che si conoscano la vittima e i motivi della sua eliminazione (“Domenica di carne”), ma l’effetto risulta sorprendente quando la sfera è quella affettiva/erotica, come in “Viaggio di nozze” e “Meno scrupoli”. Un vero narratore è tale anche – forse soprattutto – quando sceglie di non narrare…l’iceberg di Hemingway insegna.

Marco Camerini


[1] Tra virgolette alte i titoli dei racconti citati.

[2] Va ricordato che uno degli spunti centrali di Berta Isla è proprio quello della “vita parallela”.

[3] Sangue di lancia, p.217.

[4] Caduto in disgrazia, p.319.

[5] Passim da tutti i racconti.

[6] Il racconto, uno dei migliori dell’intera raccolta – deve molto, ci pare, all’Uomo duplicato di Saramago, oltre che, evidentemente, al Sosia di Dostoevskij.

[7] Un senso di cameratismo, p.292 e segg.

[8] Molto frequente in Marías il macrotema della morte: provocata, accidentale, violenta, naturale, mai più di tanto temuta, spesso avvolta nell’incertezza e nel mistero.

[9] Per il “morto che parla di sé” cfr. anche “l’accettabile” Vita e morte di Marcelino Hurriaga. Rimanda, invece, allo Schnitzler del Diario di Redegonda lo schema del “defunto protagonista”, come a molti dei suoi racconti (non solo il più noto, Doppio sogno) la dialettica veglia/sogno.

[10] Questa la definizione dell’autore stesso nella prefazione da lui curata, p.XV.

[11] Lo specchio del martire, p.335 e segg.

[12] Solo tre nei trenta racconti: Otello, Amleto e (il più ampio) Il mercante di Venezia in Tutto male torna, p. 164.

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“Tempo Innocente” di Rosa Salvia. Recensione di Fabrizio Bregoli

Recensione di Fabrizio Bregoli  

Affrontare di petto il tema del tempo, di come esso avvenga e interagisca, spesso problematicamente, con il trascorrere delle vite, per loro stessa natura fragili e provvisorie, è sicuramente impresa ardua, che Rosa Salvia, fin dal titolo del suo libro, sceglie di intraprendere, con la volontà di restituire il concetto di tempo a una prospettiva – come dice il titolo della raccolta – di “innocenza”, che non vuole però essere una dimensione idilliaca o ingenuamente rassicurante, quanto invece una riappropriazione della sua dimensione più autentica, messa al riparo dal “tempo che soffre”, con la sua “andatura vacillante / che alcuni chiamano    Doxa”. Ritorno dunque all’Essere compiuto contrapposto alla mistificazione del Divenire. È in questo tempo innocente – ci dice l’autrice – che la poesia trova casa, sapendosi tuttavia “eterna e povera”: qui però la poesia può radicare e farsi spazio, anche se solo “un filo sbeccato diventa il” suo “canto. /” (e, oltre tutto) “Nella cecità.” All’idea quindi di un tempo che “come un fanciullo” “gioca ai dadi” (riassunto emblematico del polemos eracliteo), un tempo imperscrutabile di cui non si può se non prenderne coscienza fattuale, Rosa Salvia contrappone  – strumento possibile la poesia – l’opportunità che compete all’uomo di vivere questo tempo con equilibrio interiore e consapevolezza (perché come sosteneva  Einstein  “Dio non gioca a dadi con l’Universo” – “Lettera a Niels Bohr” del 1926), non quindi da vivere nel modo “protervo” a cui ci obbliga la contemporanea società dell’usa-e-getta per cui diventa “festa della malvagità”. Ecco dunque l’immagine chiave del “tempo innocente” come “ragno” che “cuce la notte senza luce / su una lavagna bianca”: l’idea di una luce dunque che può essere sradicata dal buio, ricucita per sanare la “ferita” dell’essere, “l’invisibile / frangia che tutto separa”.

rosa-salvia-tempo-innocente-copertinapiattaCome si sarà ben capito da questi primi accenni, la poesia di Rosa Salvia è filosofica, dominata da una profondità di pensiero che ne governa la costruzione con un approccio argomentativo, ma evita di essere intellettualistica perché si fa concreta di figure e di situazioni: si pensi alle poesie sulla sposa bambina, sulla madre, sulla top model che nella vasca da bagno si interroga sul trascorrere del tempo, alle poesie che trattano di temi di assoluta attualità come la guerra siriana, il crollo del viadotto Morandi a Genova, fino alla riflessione divertita su “spelacchio”, l’albero di Natale posto di fronte al balcone del duce che “di ramo in ramo” “morendo” ci ricorda che “non c’è che la ricerca, il silenzio e la notte / e la scura infinità della pioggia”.

La concezione del tempo che pare prevalere è quindi squisitamente interiore, da misurare nella solitudine che ci consente il confronto con noi stessi, “ove il presente s’affaccia all’angolo del nulla”, e dunque – a noi sembra – è in definitiva una percezione del tempo che, al netto dei riferimenti prevalenti alle fonti classiche, è drammaticamente moderna, di matrice prevalentemente bergsoniana con intrusione heideggeriane, in quanto scandita su una lavagna dell’io che solo la nostra natura più profonda è capace di scrivere. Anche per questo, probabilmente, le poesie sono così varie nella loro estensione (dai pochissimi versi – tre – di riflessioni fulminanti modellate sull’haiku fino alla misura ampia della pagina nelle poesie più narrative o descrittive): l’intensità del tempo che governa la scrittura deve potersi estendere secondo il raggio d’azione corretto per svilupparne la forza centrifuga, perché diverso è il grado di concentrazione dell’ispirazione che prende la forma di una durata interiore più o meno espansa o contratta – poesia-pensiero o improvvisa illuminazione rimbaudiana agli estremi del suo arco – ma in ogni caso con la responsabilità di saper imprimere la sua “impronta profetica” “fra sillabe mute e silenzio”.

Rosa Salvia sembra voler reagire a questa consapevolezza irrevocabile di precarietà e di nudità dell’uomo rispetto al tempo (“e tutto sarà / come se non fosse stato”) attraverso due strade apparentemente divergenti: la filosofia, cioè il controllo ragionante del pensiero che prende la forma di “infinitesimi di logos” da ricomporre in “mosaico” di senso, e l’eros, specchio ed “eco della nostra essenza” come si dice nell’esergo da Hegel, o “l’inafferrabile dell’amore”, usando le parole dell’autrice. Rosa Salvia ci restituisce così, nella sezione “Infinitesimi di logos”, una serie di ritratti e di pseudo-citazioni (riscritture a tutti gli effetti) dei maestri del pensiero antico e contemporaneo – passando per Eraclito, Plotino, Epicuro, Parmenide, Hume, Spinoza, Heidegger – in una galleria di figure e riflessioni ad esse collegate che permettano di derogare dal tempo a favore di  “un altrove anteriore / alla vita”, “soglia di senso in cui  / l’universo sia la sua scia… / Dio la sua ombra…”. La ricerca di questa autrice non si arrende ad accettare l’evidenza bieca della materia, chiede alla sua poesia di scansare l’ostacolo, per pervenire al “punto in cui tutte le cose / s’incontrano”.

Non è quindi sentimentalismo quello che, nella sezione finale del libro, porta l’autrice ad affidarsi all’amore come luogo dove “conservare un senso / alla parola là dove giace la deriva”, approdo traumatico ma necessario. La poesia degli affetti, dei riferimenti personali e biografici sottesi, è il mezzo per amplificare la conoscenza, “mescolando memoria e desiderio” (con evidente cripto-citazione da The waste land di T. S. Eliot), portarli alla dimensione compiuta della “custodia dell’istante” – saper “durare oltre quest’attimo” (per dirla con Mario Luzi).

FABRIZIO BREGOLI

 

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“Metamorfosi e sublimazioni” di Rita Fulvia Fazio. Impressioni, suggestioni e altro a cura di Mario Santoro

Saggio critico di Mario Santoro

Fazio Rita Fulvia 2019 Metamorfosi e sublimazioni [fronte]-1La prima impressione che si ricava dalla lettura delle poesie di Rita Fulvia Fazio è che non si ha a che fare con una neofita della scrittura poetica che appare controllata ed attenta, misurata e, quasi sempre puntuale, nel suo fluire morbido, senza scosse, urti e fratture e non cede alle tentazioni autolesionistiche dell’attardamento e del compiacimento anche quando sembra, rarissimamente, voler indulgere e cedere all’iterazione di taluni termini. I versi, se non puntano decisamente alla verticalizzazione, salvo qualche volta per una sorta di bisogno interiore, non cedono mai alla cosiddetta ‘orizzontalizzazione’ e mantengono, per scelta consapevole, la delicatezza pensosa del tono, risultando, al tempo stesso, intensi e votati alla sinteticità dei concetti che richiamano situazioni esperienziali e ripropongono sentimenti veri perché vissuti e sensazioni significative e personali. Si tratta di un vissuto che risulta sostanzialmente sereno, pur con dati di sofferenza e con qualche nota di rimpianto, in una visione positiva se non anche appagata.

L’autrice è abile nel non dire né troppo, né troppo poco, lasciando al lettore non solo la possibilità di ritrovare, nei versi e in certi flash, elementi di condivisione, sia pure parziali e di comunione talvolta – cosa importante considerato che il successo della poesia, almeno per metà, stando ad alcuni intenditori, è dovuto al lettore – ma anche la possibilità di originare una pluralità di percorsi possibili in accordo con la sensibilità di ciascuno.

Il linguaggio, prevalentemente intimistico ed elegiaco, come sottolineano alcuni interventi critici e come indica Guido Miano nel suo rimando puntuale alla modalità poetica in questione, tende sempre a una certa levigatezza nella linearità intenzionale, e quindi senza forzature, e sa mantenere il carattere di equilibrio conservando il giusto grado di ‘ambiguità’; inoltre fa sì che le parole siano il connubio felice tra significato e significante, tra denotazione e connotazione, come annota Enzo Concardi nella prefazione al libro, consentendo la pluralità dei riferimenti e richiamando sensazioni, impressioni ed emozioni capaci sempre di alludere ad altro e di indicare un oltre, indispensabile in poesia.

C’è un certo rigore a guidare la poetessa, pur nel fluire libero dei pensieri e nelle cesure, non mai rigide nel chiudere i versi e tali da non scorciare il flusso delle emozioni, sia quelle presenti ed attuali, sia le passate e recuperate per memoria, sia infine, in certe prospettazioni future, con ponti a più campate, appena accennate e in talune figurazioni che vanno nella direzione dell’al di là.

Risulta evidente, anche se l’autrice tenta di mascherarlo schernendosi non apertamente, tutt’intera la sua anima con l’interezza del candore, il tremore dinanzi a certe situazioni, il desiderio-bisogno di rimettersi sempre in gioco, lo stupore e la meraviglia dinanzi ad alcuni aspetti del creato, la disponibilità a sperimentare nuove situazioni non in contrasto con quelle passate, e sempre alla base, una tensione latente, ma neppure poi tanto, a voler superare i limiti sempre delle angustie della terrestrità per sollevarsi sulle punte ed elevarsi in alto quasi ad annusare il senso del mistero e dell’eternità.

E c’è ancora la suggestione spirituale dei sentimenti con al di sopra, a campeggiare, l’Amore che viene riportato con l’iniziale maiuscola e che è presentato in una gamma piuttosto vasta di manifestazioni e rimane comunque salvifico.

Il discorso poetico si apre sulla linea della memoria e del rimando al passato con l’accumulo enorme di ansie sottili, timori palpabili, paure vere e proprie, palpitazioni intermittenti con il cuore a far capriole ma anche con silenzi carichi di sottintesi, sofferenze vive, senso della disperazione a volte, ma anche sorrisi aperti, gioie serene, appagamenti pieni come testimonia l’immagine efficace delle “mani di calce bianca / intonaca / tra cielo e mareche pone su tutto la possibilità concreta della speranza che risulta essere in qualche modo una sorta di filo conduttore.

La poesia si muove così nell’aggancio, almeno come aspirazione, tra terra e cielo sulla linea dell’amore e con la positività che il canto intreccia tra perse stagioni / fra dubbi e speranzedelusioni e senso di solitudine, anche oggi / è una giornata morta: / il cuore è spentocon la sensazione dell’abbandono e della rassegnazione dal momento che l’anima dell’ autrice sembra definitivamente relegata in “una prigione senza confinima al tempo stesso lascia trapelare la volontà di smetterla col pianto e coi sorrisi non conditi di tenerezza e quindi non autentici e alimenta sicuri ancoraggi. Lo sguardo spazia intorno e sembra, a momenti, perdersi nello spazio circostante e fondersi con la natura per dichiarazione esplicita e diretta dell’autrice: “Per me è / poesia /…/ e mi commuove pensarlo.

La tensione emotiva è talmente forte da spingerla a piangere “di gioia e di bellezzae poiché le corde del suo core vibrano, in quanto creatura di preghierasa incantarsi, sorpresa e rapita, nello “scintillìo di luna e stellesicché ella sente di cedere del tutto alla “cascata di luceche “riverbera sull’acqua azzurratama anche nel curioso “avvicendarsi delle nuvole / nel giocare a rimpiattino.E questo accade finanche nella città eterna di Parigi dove la vita è frenetica. Ma la capitale francese resta sempre città del sogno, dal fascino antico eppure nuovo. E così torna per memoria – ed ha quasi una funzione catartica – l’immagine romantica e suggestiva di Montmartre con il suono dei passi e sempre il proposito di raccordare la mente con il cuore.

Fortemente sentito è pure il richiamo al sole “gioia tonda, leggera, esplosiva che / abbraccia l’eterea fresca giovinezzadotato di funzione vitalizzante; di qui l’augurio affinché esso non attenui il suo splendore anche se a sera, inevitabilmente, la mimosa, assetata di luce, avvizzisce. Tutto questo non spegne o attenua l’entusiasmo della poetessa che si augura che anche nelle occasioni di disperazione il dolore possa essere stemperato proprio dai benefici effetti del sole.

Nella quotidianità dell’esistenza qualche cruccio subentra ad assillare in uno con la monotonia delle ordinarie incombenze noiose e per le inevitabili incomprensioni che affaticano nel rimando, con il senso del paragone alle “nuvole / lassù, a reggere il peso / di tutti i giorni.” Malgrado tutto ciò non c’è il senso della resa ma una sorta di accettazione accompagnata sempre da un evidente “esangue / tormento delle speranze.

In altre circostanze Rita Fulvia Fazio sottolinea il piacere di godere uno spettacolo della natura come dinanzi ad una distesa marina: Cascata di luce / riverbera sull’acqua azzurrata. / Tu, imprigionata oscurità / dell’ansia e della distrazione, / vivi ipnotizzata ascesa / al magnetismo solare / in calma affettività.Talvolta l’autrice sembra incantarsi dinanzi alle meraviglie del creato, dalle più piccole cose alle più grandi, tese entrambe a testimoniare il senso dell’eternità: la rosa che cresce perfetta; il mare con le sue onde contro la riva; i voli liberi ed eleganti dei gabbiani; la luna che rischiara la notte nel suo silenzioso percorso; le stelle tremule, quasi “bottoni di madreperla” di cui parla Campana. E poi le tante sfumature della luce coi toni diversificati che realizzano “trionfali colori dell’arcobalenoe ancora i tramonti, ora infuocati, ora sbiaditi, i fiocchi di neve, il bisogno del tempo da vivere nella dilatazione dello stesso, e tanto altro ancora.

E l’amore lo si può ritrovare quasi ovunque, a far capolino, prima di nascondersi, a mostrarsi nella sua bellezza e forza, a velarsi di malinconia, a riproporre situazioni lontane, a palpitare, a sperimentare sensazioni nuove e delicate, quasi fanciullo indomito, oppure è nascosto nei dialoghi taciuti, nelle parole non dette, nei gesti, negli sguardi nella reciprocità di certi segnali. Ed è amore forte anche quando promette lacrime / … come stelle cadentio quando sa testimoniare, magari in maniera tacita e senza fare rumore, sfumature di affetto “la mia emozione più riposta / tra teneri trucioli / che il vento solleva / nell’anima di fanciullae finanche quando sembra perdere il vigore, quasi un affievolimento del cuore che smette coi sobbalzi e coi capitomboli e cede, senza resa, alla ragione. Resta sempre tema presente e ritornante e, seppure muta forma, sa conservare intatto ed intero il suo incanto e la meraviglia: “Ora che io ti guardo, / il tuo sguardo è, per me, / dolce incanto riflesso, / nel tempo di te.

La reciprocità del sentimento risulta evidente e pare avere in sé un che di stilnoviano, per la pulizia, la forza incantevole della comunione pur nella condizione riflessa che rimanda l’autrice indietro nel tempo e le fa dire: “Una volta mi amavi.Ed è manifesta una sorta di pacata rassegnazione nella ripetizione plurima dell’affermazione che si carica di dolcezza strana e di una vaghezza di positività che si ritrova in tutti i versi e soprattutto nella chiusa della lirica Nel e fuori dal tempo: “Una volta di noi, / noi che al tempo / restiamo nel sapore di sé.Sovente compare il velo della malinconia non disgiunta da una sensazione di tristezza e quasi di gelo: “È proprio inutile / che io sia / qua a sperare.L’inutilità della speranza è segnata da “un presente” che “non ha / ritornoe da un futuro sbiadito e come votato alla delusione. Eppure in fondo al cuore sembra affiorare timidamente una speranza che addolcisce e una sorta di trepida intesa che lega il passato al presente: “E l’attesa / fu Amore / per l’amore che ora è qua.

Altrove l’amore si connota come forza vitale e prorompente con manifestazioni diversificate e capaci di originare emozioni forti e taglienti come lama. E così può avere occhi di ventoma può anche essere taglio di lama affilata / che va dritta al cuoree per altri versi può sollevare “tempeste di soleo, in altre circostanze, può offrire “veli di baci sopitie può limitarsi ad accarezzare delicatissimamente “la mia anima / rullante / di tamburi in festao ancora penetrare dolcemente e invadere la calma di questo / cuore furente d’Amore per te.E come a completare il quadro appare una sorta di cornice fatta di “ciliegi in fiorequasi a ricordare le note di una bella antica canzone nel comune rimando alla primavera che è anche primavera di vita.

Ma il cuore, che a volte fa capitomboli e lancia bolle per l’aria carica di sole, altrove sembra votato a chiudere le sue porte per cercare consolazione nell’isolamento. Subentra così un bisogno di meditazione accompagnato da un velo di rimpianto e tristezza che tende ad imporsi e quasi a scacciare la dolcezza dell’amore e, a tratti, forte è la tentazione di “spalancare, finalmente / la porta della paura”; tale sensazione è racchiusa efficacemente nel titolo della poesia Purtuttavia con la doppia avversativa. Non manca nella Fazio il senso malinconico e problematico dello scorrere inevitabile del tempo con la sua ineluttabilità che costringe quasi ad una febbrile corsa per sfruttarlo al meglio nell’idea che da un momento all’altro esso possa mancare: “Ho fretta, ho fretta di vivere / poiché ogni istante che segue / potrebbe più non esserci.L’autrice, pur non subendo eccessivamente la sensazione spiacevole del passaggio terreno, sente il bisogno di andare oltre e di precisare la sua ansia di agire: “Ho fretta di sguardi avidi di luce / a sorprendere luminosità svelate / nei labirinti più intricati / di parole e immagini.

Altre volte compare un senso di solitudine che, tuttavia non stanca, o almeno così sembra, e quasi precede il corroborante silenzio con la sua voce delicata e con certe apparizioni anche contrastanti in un canto misterioso nella pluralità dei suoni e sull’immagine concreta dei panni distesi, forse a sciorinare, al sole che è sole di verità: Panni distesi, umidi, / al loro dondolarsi, / tra luce e oscurità, / chiudono e aprono porte / nel divenire dell’oggi.

Talvolta l’autrice si lascia andare al godimento della buona musica che ha il potere di farle perdere la cognizione del tempo, non più frettoloso, di vivere uno spaccato irripetibile che fa bene allo spirito: Estasiata, assapori / estate e poesia, / dolcemente assuefatta / alla bellezza / profonda e impalpabile.Allora la poesia tende ad innalzarsi, a farsi raccoglimento e preghiera o, più propriamente, invito ad interrogarsi: “E io prego / senza voce che risuoni nell’aria / di ascoltare la melodia del tuo cuore.Si tratta di dialogo intimo, sincero, vero, di un colloquio con un ‘tu’ che non ha il carattere dell’impersonalità o dell’indeterminatezza, anche se può appartenere a chiunque. Il raccoglimento non solo è astrazione dalla realtà e dalle miserie della ordinaria quotidianità, ma ripropone immagini della lontana infanzia fanciullezza con tutto il cario di tensione emotiva conseguente. Si crea una sorta di magia come nella poesia Shiatsu dedicata a Lauricella nella quale la poetessa sperimenta, per miracolo terreno, l’attimo di leggerezza e la sensazione di librarsi in volo: “Indossai ali di farfalla / per raggiungere orizzonti lontani, / senza perdermi.”; già, senza il senso dello smarrimento e quasi nel pieno della consapevolezza e ciò dà al miracolo maggior valore. Per questo ella può tranquillamente aggiungere: Libera da ogni peso, / fui onda spumeggiante al cielo, / felicità piena. / E in quella dolce solitudine / consumai / l’ebbrezza della notte incantata.E, se la “notte incantata” è irripetibile, l’autrice non disdegna di abbandonarsi qualche volta al sogno, magari ad occhi aperti, nella ricerca, a levante della luna “nella sua falce tranquillache resta sempre misteriosa e ambigua e chissà che essa stessa non si conceda al sogno e non sperimenti il senso della malinconia, del vuoto, della solitudine, in contrasto con la luminosità che sprigiona. Ed è una luna tutta umana e terrena se si presta al dialogo con la poetessa. Talora il sogno, compagno inseparabile dei poeti nelle più diverse forme, ripropone la rivisitazione dell’infanzia, con qualche punta di amaro come nel rimando al “bambino dalla mano tesa /…/ per la stretta mai compiuta.Altre volte è richiamo alla realtà ed invito alla pace e alla fraternità contro le cattiverie, l’odio, il male dilagante che sembrano dominare e che l’autrice respinge decisamente: ma io, mondo, ostinata e fiera, / ti consegno una preghiera saggia, / libero germoglio circolare / che non conosce rimpianto. / Pace!

Non manca il tema della diversità, i petali di nardo, le fioriture primaverili, il sogno nel contrasto con la realtà, il rimando alla sublimazione, il richiamo a certe tenerezze infantili come nella poesia dedicata a Nazario Pardini: “Allor fanciulli / ci incontrammo / Nazario, / … / l’anima colse / scintillio / dal cuore.E sempre, ritornante, carezzevole, tentatrice, la speranza sa farsi consistente ed allusiva, tacitamente confortando l’autrice: “Ad abbrivi sogni dolci, / reifici e riparatori / mi concedo / per rinascere / … / abbracciata al nuovo giorno.

E sull’idea della possibilità di un giorno nuovo ci piace chiudere il nostro percorso nella convinzione che torneremo a leggere ancora Rita Fulvia Fazio che crediamo abbia ancora tanto da dire e magari tenterà modalità nuove e diverse.

Chissà!

Mario Santoro

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“Cerchi ascensionali” di Francesca Luzzio, recensione di Lorenzo Spurio

Cerchi-ascensionali-220x300.jpgLa nuova opera della poetessa palermitana Francesca Luzzio è stata recentemente pubblicata per i tipi di Il Convivio Editore di Castiglione di Sicilia e porta il titolo di Cerchi ascensionali.  Le motivazioni e le finalità della tetra-ripartizione dell’ampia opera poetica – che raccoglie gli inediti della più recente produzione, compresi alcuni testi apparsi su riviste e antologie – sono ben chiarite negli apparati critici introduttivi al volume a firma, rispettivamente, del professore Elio Giunta e di Angelo Manitta, critico letterario e responsabile della casa editrice Il Convivio. Nella progressione di questo percorso per “cerchi” che, come Manitta rivela, ricordano i canti di dantesca memoria,l’animo poetico della Nostra è tratteggiato a trecentosessanta gradi, esponendosi la poetessa tanto su questioni di carattere etico-sociale[1] (“La mia terra è piena di crepe,/ sofferente, come tanta gente che nulla ha”, 39), quanto su riflessioni personali ricollegati alla rievocazioni di memorie felici e veri e propri flussi di coscienza.

 

La recensione completa è stata pubblicata su “Oubliette Magazine” il 22-02-2019. Per poterla leggere cliccare qui. 

 

“Corona” di Paul Celan, con un commento di Michela Zanarella

“Corona” di Paul Celan

L’autunno mi bruca dalla mano la sua foglia: siamo amici.
Noi sgusciamo il tempo dalle noci e gli apprendiamo a camminare:
lui ritorna nel guscio.

Nello specchio è domenica,
nel sogno si dorme,
la bocca fa profezia.

Il mio occhio scende al sesso dell’amata:
noi ci guardiamo,
noi ci diciamo cose oscure,
noi ci amiamo come papavero e memoria,
noi dormiamo come vino nelle conchiglie,
come il mare nel raggio sanguigno della luna.

Noi stiamo allacciati alla finestra, dalla strada ci guardano:
è tempo che si sappia!
E’ tempo che la pietra accetti di fiorire,
che l’affanno abbia un cuore che batte.
E’ tempo che sia tempo.

E’ tempo.

da “Papavero e memoria” (“Mohn und Gedachtnis”)

 

Commento di Michela Zanarella

‘Corona’ è una poesia d’amore datata 1948 di rara bellezza. Gli amanti si mostrano alla finestra, perchè è tempo che questo sentimento si manifesti al mondo, sia reso evidente. “Ci amiamo come papavero e memoria”, un accostamento particolare dove il papavero rappresenta una sorta di consolazione per dimenticare il dolore, e va in opposizione alla memoria. L’amore prende forma e si eleva nel contrasto, diventando qualcosa di importante, più stabile. Con uno stile raffinato, potente ed incisivo il poeta ci offre immagini avvolgenti mantenendo l’essenzialità dei versi, che ne evidenzia il profondo valore.

 

L’autore

celan.jpgPaul Celan (Cernăuţi, 23 novembre 1920 – Parigi, 20 aprile 1970), è stato un poeta rumeno ebreo, di madrelingua tedesca, nato in una città della Bucovina austroungarica, oggi parte dell’Ucraina. La sua infanzia è segnata da un’educazione rigida e repressiva da parte del padre, mentre dalla madre apprende la conoscenza della lingua e della letteratura tedesca. Goethe, Rimbaud e Rilke sono i primi scrittori a cui si avvicina. Nel 1938, conseguita la maturità, decide di iscriversi alla facoltà di Medicina a Tours, in Francia. Il treno sul quale viaggia sosta a Berlino proprio durante la Notte dei Cristalli. È in questo periodo che Paul inizia a scrivere le prime poesie, intensificando la lettura di Kafka, Nietzsche e Shakespeare. Tornato in patria, a causa dell’annessione della Bucovina settentrionale all’URSS, non può più ripartirne; si iscrive perciò alla facoltà di romanistica della locale università. Nel 1942, in seguito all’occupazione tedesca della Bucovina, Celan vive direttamente le deportazioni che condussero gli ebrei di tutta Europa all’Olocausto. Paul riesce a sfuggire alla deportazione, ma viene spedito in diversi campi di lavoro in Romania, perderà però definitivamente i genitori, catturati dai nazisti. Nel 1945 dopo aver donato tutte le sue prime poesie a Ruth Lackner, attrice e suo primo amore, lascia la città natale annessa all’URSS, e si trasferisce a Bucarest, dove lavora come traduttore e conosce alcuni importanti poeti romeni.  È però costretto a fuggire nuovamente attraverso l’Europa, a causa delle persecuzioni del regime comunista, raggiunge prima Vienna e poi si stabilisce a Parigi.  Si sposa nel 1952 con la pittrice Gisèle De Lestrange e pubblica il suo scritto più famoso, Mohn und Gedächtnis. Dalla metà degli anni 50 si dedica, anche al fine di mantenersi economicamente, a una intensa attività di traduttore da varie lingue: traduce Ungaretti, Cioran e altri. Nella notte tra il 19 e il 20 aprile del 1970 si toglie la vita gettandosi nella Senna dal ponte Mirabeau, prossimo alla sua ultima dimora. Il suo corpo sarà ritrovato i primi di maggio, a pochi chilometri dal ponte.

“Ho lasciato la voce ai ciliegi” di Michela Zanarella con traduzione in arabo

HO LASCIATO LA VOCE AI CILIEGI

MICHELA ZANARELLA

Ho lasciato la voce ai ciliegi 

per stare ancora vicina

alla strada dove mi portavi

a sentire l’aria buona

della terra in fiore.

Sono passate stagioni

e germoglio dopo germoglio

è come se il tempo

mi chiamasse a non dimenticare

che la vita ha bisogno di non fermarsi

e che tu te ne sei solo andato

per guardare meglio i miei giorni

 con gli occhi bagnati di gioia

ogni volta che mi innamoro

ogni volta che cammino con il cuore

in cerca di luce.

2010-08-15_uomo_di_spalle_cammina

 

TRADUZIONE IN ARABO

A CURA DI NOURELDEEN A.M. ABDAL

أسكنت روحي

شجر الكرز

كي أبقى دائماً قريبة

من ذلك الطريق.. حيث كنت تصطحبني

سستنشق جميل النسيم

لتلك اسرض المكسوة بالورد

و ها قد مرت فصولٌ

برعم من بعد برعم

كما لو كان الزمن

يناجيني كي أنسى

أن الحياة في حاجةٍ سن تتوقف

و أنك قد رحلت وحيداً

كي ترى أفضل، أيامي

، بأعين مبللة بفرحة

كل مرة أعشق

كل مرةيبحث فيها قلبي عن نور ..

 

L’autrice della poesia dichiara, sotto la sua unica responsabilità, di essere la naturale e unica proprietaria dei diritti sul testo poetico. La pubblicazione della poesia e della sua traduzione è consentita su questo spazio dietro concessione e autorizzazione dell’autrice e del traduttore senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

“Ciò che resta del grano”, poesia di Michela Zanarella tradotta in tedesco

CIO’ CHE RESTA DEL GRANO

Poesia di MICHELA ZANARELLA

 

Planano le dita

in trame di odori

sotto palpebre di pianura.

Il faggio racconta

le mie verdi assenze,

il silenzio che sale

ad invocare

memoria che sfuma.

Sono divenuti sorsi

di cielo

il confine che tace,

l’asfalto che trema,

l’origine che origlia

ciò che resta

del grano.

 

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Was vom Weizen übrig bleibt

TRADUZIONE DI ANNA MARIA CURCI

 

Es gleiten die Finger

in Muster aus Gerüchen

unter Augenlider aus Flachland.

Die Buche erzählt

mein grünes Ausbleiben,

die steigende Stille

zur Anrufung

des verschwimmenden Gedächtnisses.

Es sind Himmel-Schlucke

geworden

die schweigende Grenze,

der zitternde Asphalt,

der Ursprung, der belauscht

was vom Weizen

übrig bleibt.

 

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