N.E. 02/2024 – “L’itinerario spirituale di Vittoria Colonna”, saggio di Graziella Enna

Nella civiltà umanistico-rinascimentale iniziò un processo di emancipazione femminile in virtù del quale molte donne furono istruite al livello degli uomini. Alcune riuscirono ad acquisire una profonda cultura unita alla volontà di ribellarsi ai pregiudizi misogini che le avevano relegate in una posizione subalterna. L’educazione impartita alle donne era tradizionalmente basata su attività considerate utili da svolgersi nell’obbedienza, nell’abnegazione e nel silenzio. Nonostante questi presupposti poco edificanti, alcune donne provenienti dall’aristocrazia e alla nobiltà minore integrata nelle corti, si riscattarono e divennero poetesse stimate e apprezzate come Vittoria Colonna, Gaspara Stampa, Veronica Gambara e molte altre.

Com’era prevedibile, la congerie maschile continuò a nutrire ostilità nei confronti di quelle donne che, tramite la scrittura, vagheggiavano di mostrare la loro anima e il loro mondo interiore abbandonando “l’ago e il fuso” strumenti fin dal medioevo simboli per eccellenza delle occupazioni femminili. Altre non ebbero la possibilità di farsi conoscere o furono giudicate devianti. Chi era disposto ad accettarne l’istruzione o la produzione letteraria nutriva il pregiudizio che si trattasse di creature fuori dal loro ruolo naturale che, nell’immaginario collettivo, era solo quello di vergine o moglie e madre, non certo di scrittrice o intellettuale. Anche la diffusione, soprattutto nelle corti, del petrarchismo e dei cosiddetti “petrarchini”[1], assunsero un ruolo importante, poiché fissarono l’uso di un codice espressivo proprio della convenzione amorosa tipico però di un mondo maschile.

Non tutte le poetesse furono mere imitatrici di Petrarca e si servirono della poesia solo come pratica sociale legata all’ambiente cortigiano, ma seppero rivisitare autonomamente stilemi e codici linguistici preesistenti con la loro spiritualità alimentata dalla cultura e da sentimenti autentici. Un luminoso esempio ci viene offerto da Vittoria Colonna, donna di alto lignaggio, dalla vita morigerata, ricca e fruttuosa, amata dai contemporanei sebbene le sue liriche fossero conosciute solo da un ristretto numero di amici.

Nata nel 1490 da nobili genitori di prestigiose casate, Fabrizio Colonna e Agnese di Montefeltro, ricevette fin dall’infanzia una raffinata educazione che la fece diventare una delle donne più apprezzate del suo secolo. Il suo fu un matrimonio combinato, a sette anni fu infatti promessa ad un coetaneo, Ferdinando D’Avalos, marchese di Pescara, come suggello di un’alleanza tra due potenti famiglie, ma nonostante i presupposti, il matrimonio si sarebbe rivelato felice. Grazie al mecenatismo dei marchesi, il castello di Ischia, loro residenza e sede di un prestigioso cenacolo letterario aperto alla discussione sui problemi della fede, fu un punto di riferimento importante per i più importanti letterati e poeti del periodo, come Jacopo Sannazaro, Cariteo, Galeazzo di Tarsia, Bernardo Tasso.

L’amato marito si allontanò da Ischia nel 1511 per combattere nella lega antifrancese promossa dal papa guerriero Giulio II e cadde prigioniero nel 1512. In quest’occasione Vittoria compose per lui un’epistola in terzine, per esprimere la sua afflizione, che testimonia la sua vocazione letteraria ed è l’unico che abbia scritto prima della morte del marito. Negli anni successivi conobbe altri famosi intellettuali tra i quali Baldassarre Castiglione e Pietro Bembo, ma la sua fama di nobildonna di specchiata virtù, vasta cultura e grande talento ebbe vasta risonanza ovunque.

A Pavia, nel 1525, in uno scontro con l’esercito francese, il marito morì, Vittoria cadde in uno stato di prostrazione. Iniziò a comporre sonetti dedicati a lui caratterizzati dalla cifra del ricordo, in cui lo descrive come un eroe, l’unico “lume”, il suo “sole” e verso di lui incanala tutta la sua sofferenza che diventa uno strumento di elevazione spirituale.

Nel 1525 Ariosto le dedicò un sonetto[2] per consolarla e allo stesso tempo esortarla a temperare il suo dolore con la sua virtù capace di innalzarla fino al cielo insieme con la gloria dello sposo. Anche Baldassarre Castiglione nel 1928 scrisse lusinghiere parole per lei nell’introduzione del Cortegiano.[3] Parimenti la sua fama di poetessa si diffuse rapidamente: nel 1532 Ariosto ne cantò le lodi nell’ultima edizione del Furioso citandola nel canto XXXVII in cui, dopo aver accennato a vari scrittori che encomiarono le donne, coglie l’occasione per tessere elogi per lei e per le rime gentili dedicate alla memoria dell’amato[4]. Vittoria riversò il suo dolore in liriche intrise di sofferenza in cui si avverte il desiderio di morire e di ricongiungersi presto al marito. Un esempio è offerto dal sonetto LXXXII di chiara ascendenza petrarchesca in cui la poetessa esprime il suo dolore al sorgere del mattino che non rappresenta un momento di gioia bensì di tristezza perché le richiama alla mente la sua condizione di solitudine. La sua sorte triste la induce dunque a cercare le tenebre che si identificano con la morte e la conducono al suo “sole”.

Quando ‘l gran lume appar nell’oriente,

Che ‘l negro manto della notte sgombra,

E dalla terra il gelo o la fredd’ombra

Dissolve e scaccia col suo raggio ardente:

De’ primi affanni, ch’avea dolcemente

Il sonno mitigati, allor m’ingombra:

Ond’ogni mio piacer dispiega in ombra,

Quando da ciascun lato ha l’altre spente.

Così mi sforza la nimica sorte

Le tenebre cercar, fuggir la luce,

Odiar la vita e desiar la morte.

Quel che gli altri occhi appanna a’ miei riluce,

Perchè chiudendo lor, s’apron le porte

Alla cagion ch’al mio sol mi conduce,

Il sonetto XXII si può considerare significativo nel passaggio dall’amore terreno a quello spirituale, Vittoria è da tempo rassegnata al fatto che la morte abbia rotto i vincoli materiali che la legavano all’amato, però se i corpi sono ormai sterili, le anime diventano ancora più feconde e più che mai sono avvinte in un connubio molto più produttivo grazie a cui ella diviene madre metaforica di una prole immortale fatta di spirito. La sua poesia che nasceva dal pianto ora si innalza al cielo.

Quando Morte fra noi disciolse il nodo
che primo avinse il Ciel, Natura e Amore,
tolse agli occhi l’obietto e ’1 cibo al core;
l’alme ristrinse in più congiunto modo.
Quest’è ’l legame bel ch’io prezzo e lodo,
dal qual sol nasce eterna gloria e onore;
non può il frutto marcir, né langue il fiore
del bel giardino ov’io piangendo godo.
Sterili i corpi fur, l’alme feconde;
il suo valor qui col mio nome unito
mi fan pur madre di sua chiara prole,
la qual vive immortal, ed io ne l’onde
del pianto son, perch’ei nel Ciel salito,
vinse il duol la vittoria ed egli il sole.

Benché la donna, dopo il 1525, avesse trascorso un lungo periodo di volontaria reclusione nel castello di Ischia e avesse desiderato anche di chiudersi in un monastero, nel 1530 il letterato Paolo Giovio[5], da sempre vicino alla marchesa a cui era legato da un intenso amore spirituale, tentò di riportarla sulla scena letteraria. Fu proprio lui il tramite con Pietro Bembo, che nel 1535 incluse un suo sonetto nella seconda edizione delle Rime e gliene dedicò un altro[6].

Iniziò un sodalizio poetico rafforzato da un intenso scambio epistolare. Nonostante la vita ritirata e il dolore, riuscì a conoscere molti intellettuali dell’epoca, ma non solo, si avvicinò infatti a religiosi come Juan de Valdés[7], il frate Bernardino Ochino[8], più volte ascoltato a Roma, a Napoli, poi a Ferrara, infine al cardinale Reginald Pole[9]. Iniziò per Vittoria una mutatio animi grazie ad un percorso religioso e alla conoscenza dei personaggi sopraccitati, esponenti del cosiddetto movimento degli “Spirituali” che avevano come principi cardine l’evangelismo e la rigenerazione interiore, temi a cui la marchesa si avvicinò con interesse. Il suo itinerario spirituale la unì anche al più grande artista dell’epoca, Michelangelo[10], che le dedicò un madrigale nel quale paragonava l’azione della scultura che libera la figura dalla materia all’influenza su di lui dell’amica: la donna riesce a introdursi nell’anima pura e fragile “che pur trema” del poeta nascosta dalla “dura scorza” della carne[11]. Le rivolse anche altre rime[12] in cui dice, per esaltare le doti della donna, che in lei sente parlare un uomo, salvo poi correggersi affermando che attraverso la sua bocca sente parlare un dio. L’artista comprese che sarebbe stato completamente soggiogato dal sentimento ma in realtà fu un amore totalmente incorporeo e mistico associato ad un altro elemento in comune con lei, ovvero l’adesione alla corrente degli “spirituali” e ai loro principi.

In virtù della mutatio animi, i componimenti della poetessa denominati Rime spirituali costituiscono uno spartiacque con gli altri, (come nel Canzoniere di Petrarca le rime in vita e in morte di Laura), ed esprimono l’esigenza della solitudine, di un ripiegamento in se stessa e di una profonda introspezione, ma soprattutto di un colloquio diretto con Dio, di un insopprimibile anelito ascetico frutto di una fede pura e sincera.

Dalla lettura dei sonetti si palesa il travaglio interiore, la ricerca inesausta della consolazione della fede, il superamento e la sublimazione delle passioni terrene che gradualmente vengono soppiantate dall’immersione totale nel divino. Tutto ciò non avviene senza contrasti, il suo è comunque un dissidio interiore come emerge chiaramente dal sonetto CXLIV in cui si rileva un atteggiamento di pentimento e vergogna (che sicuramente la accosta a Petrarca), ma anche la sofferenza e la tensione emotiva della donna che palesa la profondità della sua fede e si congiunge con tutta se stessa alla croce di Cristo trovando in lui l’amore prezioso capace di mutare ansia e timore in speranza e giubilo.

Quand’io riguardo il mio sì grave errore,

Confusa al Padre Eterno il volto indegno

Non ergo allor, ma a te, che sovra il legno

Per noi moristi, volgo il fedel core.

Scudo delle tue piaghe e del tuo amore

Mi fo contra l’antico e novo sdegno,

Tu sei mio vero prezïoso pegno,

Che volgi in speme e gioia, ansia e timore.

Per noi su l’ore estreme umil pregasti,

Dicendo: Io voglio, o Padre, unito in cielo

Chi crede in me, sì ch’or l’alma non teme.

Crede ella e scorge, tua mercè, quel zelo

Del quale ardesti sì, che consumasti

Te stesso in croce e le mie colpe insieme.

In un altro sonetto la poetessa immagina di elevarsi oltre le proprie facoltà sensibili per permettere all’anima di avvicinarsi a Dio, il “vero Sole”. In questo viaggio mistico, simile al trasumanar dantesco, impara l’ineffabile, lontano da tutte le cose terrene e può profondarsi nello splendore di Dio che conosce tutti i suoi dolori. Ė evidente anche la variazione del linguaggio utilizzato: agli echi petrarcheschi e danteschi si unisce, come del resto in tutte le rime spirituali, quello biblico. 

Sovra del mio mortal, leggera e sola,

aprendo intorno l’aere spesso e nero,

con l’ali del desio l’alma a quel vero

Sol, che più l’arde ognor, sovente vola,

e là su ne la sua divina scola

impara cose ond’io non temo o spero

che ‘l mondo toglia o doni, e lo stral fero

di morte sprezzo, e ciò che ‘l tempo invola,

chè ‘n me dal chiaro largo e vivo fonte

ov’ei si sazia tal dolcezza stilla

che ‘l mel m’è poi via più ch’assenzio amaro,

e le mie pene a lui noiose e conte

acqueta alor che con un lampo chiaro

di pietade e d’amor tutto sfavilla.      

Nonostante la rettitudine morale, la fede sincera e la ricerca continua di religiosità pura, intima e lontana dalla corruzione, Vittoria attirò a sé l’attenzione dell’Inquisizione romana che per anni cercò di raccogliere prove indagando sui suoi rapporti con i valdesi e con Pole. Fortunatamente, nonostante i sospetti e il fatto che il suo nome spesso ricorresse nelle carte dei processi, non venne pubblicamente accusata, in virtù delle amicizie influenti di cui godeva la sua famiglia, non ultima quella del pontefice Paolo III. Cosa più rilevante, che esula da ogni intervento esterno e che la salvò da ogni accusa di eresia, fu la sua reputazione di donna virtuosa, colta e dall’integrità morale ineccepibile. A maggior ragione stupisce che una poetessa di un tale spessore morale, culturale e religioso, a prescindere dal rango di appartenenza, potesse essere infamata dal fanatismo religioso che non aveva nessun diritto di sindacare sulla sua autentica e sofferta fede di cui i sonetti offrono un’eccelsa testimonianza. Una tale ingiustizia si può spiegare soltanto alla luce di atavici preconcetti su donne brillanti capaci di compiere scelte coraggiose e libere.


Bibliografia

Cosentino Paola, Poetesse del Cinquecento, in Il contributo italiano alla storia del pensiero. Letteratura, direzione scientifica di G. Ferroni. Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani, 2018, pp. 187-192.

Per le biografie: Enciclopedia Treccani online.

Plastina Sandra, “Vittoria Colonna”, in Galleria dell’Accademia Cosentina, Roma Iliesi CNR 2016

Prandi Stefano, “La vita immaginata” vol. 1B, Mondadori, Milano 2019

Rime di tre gentildonne del secolo XVI, Vittoria Colonna, Gaspara Stampa, Veronica Gambara. Prefazione di Olindo Guerrini, Milano, Edoardo Sonzogno, 1882. Edizione elettronica del 29 aprile 2009.

Salinari Carlo; Ricci Carlo, Storia della letteratura italiana vol.2, Bari, Laterza, 1995


[1] Edizioni in miniatura del Canzoniere di Petrarca e piccoli glossari dei termini più usati dal poeta.

[2]   Illustrissima donna, di valore

ferma colonna, se ’l volubil cielo,

come vedete, or ne dá caldo or gielo,

or vita or morte, or gioia ed or dolore;

     s’egli ha furato ’l vostro primo amore,

ch’è anche l’estremo ed il fral suo velo

sciolt’ha dal spirto anzi il cangiar del pelo,

dando a voi noia, ed a sé eterno onore;[….]

[3]  “L’ingegno e la prudentia di quella Signora, la virtù della quale io sempre ho tenuto in venerazione come cosa divina”., Cortegiano.

[4] XVIII  Vittoria è ’l nome; e ben conviensi a nata

fra le vittorie, et a chi, o vada o stanzi,

di trofei sempre e di trionfi ornata,

la vittoria abbia seco, o dietro o inanzi.

Questa è un’altra Artemisia, che lodata

fu di pietá verso il suo Mausolo; anzi

tanto maggior, quanto è piú assai bell’opra,

che por sotterra un uom, trarlo di sopra.

[5] Paolo Giovio, storico (1483-1552), fu ospite della poetessa Vittoria Colonna e di Costanza d’Avalos. Rimase affascinato dalla donna «a cui fu legato da un amore celeste, santo e platonicissimo, armonia delle cose più belle»,  scrive in una lettera nel 1530 al cardinal Bembo.

[6] CXXVI.Alta Colonna e ferma a le tempeste
del ciel turbato, a cui chiaro onor fanno
leggiadre membra, avolte in nero panno,
e pensier santi e ragionar celeste,
e rime sì soavi e sì conteste,[…].

[7] Juan Valdés (1500-1542), letterato e teologo spagnolo, esercitò un fascino grandissimo nell’alta società napoletana, nella quale diffuse il suo pensiero di una fede ricondotta alla purezza evangelica Della sua lezione si nutrì Vittoria Colonna e, tramite lei, Michelangelo.

[8] Ochino Bernardino (1487-1564) entrò nell’Ordine dei francescani. Cominciò a tessere una fitta rete di rapporti con il circolo di ‘spirituali’ riunitosi intorno all’esule iberico Juan Valdés.

[9] Reginald Pole (1500-1558), cardinale e arcivescovo cattolico inglese, tra i maggiori protagonisti dell’età della Controriforma. A Viterbo raccolse attorno a sé gli Spirituali reduci del circolo napoletano di cui facevano parte, tra gli altri, Vittoria Colonna, il grande artista Michelangelo, il mistico spagnolo Juan de Valdés.

[10] Michelangelo frequentò Vittoria dal 1538 fino alla morte (1547): con lei scambiava rime, vivendo intensamente la propria esperienza dell’amore platonico. La Colonna lo convinse ad aderire alla dottrina di Valdés. Per lei l’Artista realizzò alla fine del ‘500 diverse opere di cui rimangono i disegni preparatori tra i quali la Pietà per Vittoria Colonna e la Crocifissione.

[11] Sì come per levar, donna, si pone

in pietra alpestra e dura

una viva figura,

che là più cresce u’ più la pietra scema;

tal alcun’opre buone,

per l’alma che pur trema,

cela il superchio della propria carne

co’ l’inculta sua cruda e dura scorza [….]

 (Michelangelo, Rime, n. 152)

[12] Un uomo in una donna, anzi uno dio

per la sua bocca parla,

ond’io per ascoltarla

son fatto tal, che ma’ più sarò mio[..]

 (Michelangelo, Rime n.235)


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

Emanuele Marcuccio sul suo progetto culturale ed editoriale di dittici e trittici poetici “Dipthycha”

Era il ventisei marzo 2013 quando ho dato l’avvio al progetto di un volume antologico dal titolo Dipthycha, di particolari dittici poetici, da me definiti “a due voci”[1], per distinguerli dal dittico poetico propriamente detto e scritto da uno stesso autore. L’intento di questo non solito progetto antologico, da me ideato e curato, che vede anche la mia presenza come autore, insieme ad altri, non è quello di scendere in un agone poetico né in una gara; piuttosto è l’amore per la poesia nei suoi diversi stili e modi di esprimerla ovvero la voce della poesia che va oltre la voce del singolo poeta, l’empatia poetica, il tentare di dare una risposta, un ideale continuum alla poesia che precede, senza mai cercare di imitarsi l’un l’altro e rimanendo sempre fedeli al proprio modo di fare poesia per non avere come risultato qualcosa di simile a una poesia a quattro mani[2].

In pratica, non è la poesia che si adegua al dittico a due voci piuttosto il contrario, ragion per cui non sono poche le coppie di poesie dal tema comune non proponibili come dittici a due voci. “Dipthycha” è anche il titolo del progetto, che ho ricavato dal termine originale latino diptycha (–orum), con contaminazione in chiave moderna e riadattamento del dittico – la tavoletta cerata in uso presso gli antichi Romani per scrivervi con lo stilo – in chiave poetica. Infatti, nel libro, in ogni volume del progetto, la prima poesia di un dittico a due voci (o il suo inizio) va posta sempre nella pagina di sinistra, appunto per realizzare una rivisitazione poetica dell’antico dittico. Come sottotitolo per il primo volume ho scelto «Anche questo foglio di vetro impazzito, c’ispira…» parafrasando i versi finali di una poesia che scrissi nel 2010, “Telepresenza”, ispiratrice del primo dittico a due voci intercorso con la poetessa Silvia Calzolari, era il nove maggio 2010. L’idea di questi dittici è nata su internet e davanti a un PC, attraverso e partendo da quel “foglio di vetro impazzito”.

«Sì, è l’affinità elettiva poetica, la telepresenza attraverso un PC, la corrispondenza dʼamorosi sensi, riprendendo la celebre espressione foscoliana, la quale poi cito in “Telepresenza”, in dittico a due voci con “Vita parallela” di Silvia Calzolari e che costituisce il manifesto poetico di tutto il progetto; non a caso ogni volume è aperto da questo dittico, corrispondenza dʼumano sentire per il tramite di un computer, “quel foglio di vetro impazzito”, che sempre e comunque “cʼispira”. È questa corrispondenza il motore, il fulcro di questi particolari dittici, tra le diverse voci di due poeti, i quali non cercano di imitarsi a vicenda, ma rimangono fedeli, ognuno al proprio modo di poetare. Ciononostante, il tema comune alle due poesie (punto di partenza per l’individuazione di un possibile dittico), unito alla corrispondenza sonora o emozionale, di significanza, come se le due liriche volessero instaurare una sorta di dialogo o, empaticamente, continuare in qualche modo il poetare della poesia divenuta “compagna”, fanno sì che si instauri una “dittica” corrispondenza/comunicazione, anche se in toni diversi, anche se in tempi diversi, dando così vita a un dittico a due voci».[3]

Il primo volume[4] è stato pubblicato il dieci settembre 2013 con Photocity Edizioni e così si è espressa la poetessa e critico letterario Cinzia Tianetti nella prefazione: «Il realizzato progetto antologico si compone di ventuno dittici, quadri in cui si profilano sullo scenario di un tema comune due poesie che si riscontrano in uno sposalizio che, nella loro pur sempre autonoma originalità, li rende rispondenti. È un’intuizione quella dell’ideatore fortemente moderna ma alla luce di un percorso formativo che da sempre partorisce l’artista nella storia, che non può allontanarlo da quel che è un processo che ha il senso radicato della filiazione».[5]

Il ventidue luglio 2014 avviavo il progetto di un secondo volume, a cui si aggiungeva la collaborazione del critico letterario e poeta Luciano Domenighini il quale redigeva le note critiche a ventinove dei trentatré dittici a due voci presenti. Così scrivo in un aforisma del 2014, che riporterò in esergo al volume: «Qual è lo spirito di un dittico poetico? Perché creare un dittico poetico a due voci? Per trovare corrispondenze di significanti nei versi di due poesie di due poeti, accomunate dal tema simile, per trovare affinità elettive nella loro poesia, oltre le distanze e il tempo; quando ciò accade, si riesce ad ascoltare la voce della poesia che, va oltre la voce del singolo poeta, ed è stupore e meraviglia.»

«[P]regevoli ricami sono tutti gli accostamenti che Marcuccio riesce a costruire poesia dopo poesia, da Silvia Calzolari, con omaggio indelebile a Giacomo Leopardi, diversi per stile ma accomunati dall’eco di Recanati, a […] Ciro Imperato, nel vigoroso impeto civile, a Grazia Finocchiaro, nelle segrete emozioni della memoria, a Rosalba Di Vona, vivificante nel tratto intimistico, […] ad Aldo Occhipinti, dalla suggestiva strofa cosmica, a Maria Rita Massetti, dall’ampio respiro corale, a […] Grazia Tagliente, negli occasionali frammenti di rime e nella ricca sequenza di metafore, [ad] Anna Alessandrino, fra il tempo inteso come sequenza e il sogno come elemento verginale, a Lorenzo Spurio, con la sua imprevedibile incisione musicale. […] Febbrile e singolare modernità di accostamenti, offerta dalla capacità immaginativa del palermitano, poeta dal multiforme profilo e dalla instancabile volontà di sperimentazione».[6]

Questo secondo volume[7] usciva il sette gennaio 2015 con TraccePerLameta Edizioni e nel maggio dello stesso anno ne avviavo il progetto di un terzo. Quaranta i dittici a due voci (alcuni proposti anche da altri autori partecipanti in “Altre dittiche corrispondenze”), con tre che chiudevano il Dipthycha 3: il poeta e critico letterario Aldo Occhipinti ne proponeva uno con l’eclettico Gabriele d’Annunzio e un altro con il profondissimo Eugenio Montale mentre il sottoscritto ne proponeva uno alla poetessa e critico letterario Lucia Bonanni, con il funambolico Aldo Palazzeschi. Scrivo ancora in un aforisma del 2015, che riporterò in esergo al volume: «In un dittico a due voci il poeta si apre al prossimo, anch’egli poeta, scegliendo che ai suoi versi facciano eco quelli di un altro poeta che trova in qualche modo affine, in cui individua corrispondenze sonore o emozionali, affinità elettive, corrispondenze di significanti». Nel marzo del 2016 mentre ero di ritorno da Milano, il poeta e critico letterario Lorenzo Spurio mi inviava in lettura un suo saggio breve sull’intero progetto “Dipthycha”: “Risonanze empatiche: l’esperienza del ‘dittico poetico’ di Emanuele Marcuccio”, un saggio che sceglierò come postfazione a Dipthycha 3. Ivi così si è espresso il critico: «Nessun dittico contenuto nei tre volumi è il frutto di una decisione preventiva, vale a dire nessun dittico è nato in maniera forzosa e richiesta, per i poeti, di elaborare una poesia che presentasse un determinato tema. È stato Marcuccio, ed è questo uno dei punti di forza del lavoro, leggendo poesie degli autori in rete, in sillogi personali, in antologie, a scovare di volta in volta possibili analogie, comunanze, parallelismi, elementi di rimando, concetti affini, punti rimarchevoli di contatto da permettere un accostamento di liriche di autori diversi. Nessun poeta in dittico, infatti, ha mai scelto l’autore con il quale avrebbe costruito il dittico poetico né a partire da una sua poesia alla quale, magari, era molto legato, ha intimato un altro poeta a scrivere qualcosa di simile. Il tutto, infatti, la scelta sapientissima ed oculata, la costruzione del dittico dopo un’analisi attenta delle componenti delle liriche e il loro potere evocativo, è stato compito di Marcuccio. Curatore che, proprio come un incantato pigmalione, è andato a scavare le trame più dense dei vari componimenti lirici, sezionandoli, assaporandoli, vivificandoli con l’ampiezza della sua capacità, completamente originale ed invidiabile, di saperli rapportare ad un altro. L’operazione svolta da Marcuccio, democratica e ampia, si inserisce in un procedimento letterario assai onesto e del quale è doveroso parlare dove la poesia cessa di essere manifestazione dell’animo del singolo, rappresentazione – sdolcinata o meno – di un vissuto personale, per interagire in maniera vibrante con altre poesie, costituendo un dialogico ricco e foriero di nuove essenze. La poesia da personale diventa fatto collettivo: gli autori in dittico sembrano quasi tenersi leggiadramente per mano, scanzonati, ed avanzare su un prato in maniera spensierata per poi unirsi agli altri in un girotondo, che poi è il girotondo dellʼAnima».[8] Questo terzo volume[9] usciva alla fine di aprile dello stesso anno con PoetiKanten Edizioni.

A questo punto non posso non ricordare con gratitudine e commozione che il dittico poetico a due voci nella X e XI edizione del Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi”[10] (2021-23) è stato inserito come sottosezione di partecipazione nella sezione “Sperimentazioni poetiche e nuovi linguaggi”, insieme alla ‘corto poesia’ teorizzata da A. Barracato e D. Matranga e alla poesia dinanimista teorizzata da Z. Ferrante, su proposta dello stesso fondatore e presidente del Premio Lorenzo Spurio.[11] Un Premio sempre più prestigioso per il quale mi pregio di essere nella Giuria fin dalla prima edizione lanciata nel 2012. Dopodiché nell’ottobre del 2021 ho stilato le indicazioni complete per la pubblica lettura ed eventuale trasmissione di un dittico poetico a due voci: si dia lettura dei nomi dei due autori del dittico con relativo titolo delle due poesie prima della lettura del dittico stesso, si leggano poi i testi delle due poesie facendo seguire alla lettura della prima poesia una pausa più o meno lunga; alla fine si dia di nuovo lettura dei nomi dei due autori con relativo titolo delle due poesie. Nella lettura si prega di rispettare l’ordine di disposizione del dittico. Penso sia questo il miglior modo per leggere un dittico poetico a due voci rispettando lo spirito del progetto.

Così scrivo in un aforisma del novembre 2016, come possibile suggerimento per l’individuazione di un dittico a due voci: «Il tema comune alle due poesie dei due autori è solo il punto di partenza per l’individuazione di un dittico ‘a due voci’; è necessario che ci sia anche una corrispondenza sonora o emozionale, di significanza, una sorta di corrispondenza empatica, una analogia, una poetica affinità elettiva (una “dittica” corrispondenza/comunicazione) e soprattutto i due autori del dittico devono attenersi ai propri modi di fare poesia, senza cercare di imitarsi, per non avere come risultato qualcosa di simile a una poesia a quattro mani. Il fine non è l’imitazione dell’altra poesia qualora si voglia individuare un tale dittico bensì l’affinità elettiva, l’analogia, l’empatia poetica.»

Come naturale evoluzione del dittico a due voci, nell’agosto 2016 nasceva il trittico “a tre voci”, anche su suggerimento degli scrittori Lorenzo Spurio e Luigi Pio Carmina. Tuttavia, in futuro non è mia intenzione individuare, proporre polittici “a più voci”, in quanto, con la triade (tesi-antitesi-sintesi) si realizza la perfetta “trittica” corrispondenza, non è necessario andare oltre, si creerebbe solo una inutile dispersione del flusso poetico. Come per il dittico a due voci, anche per il trittico a tre voci, la prima poesia (o il suo inizio) va posta nella pagina di sinistra, questa volta per realizzare una rivisitazione poetica del trittico artistico.

A maggio 2016 avviavo il progetto di un quarto volume di “Dipthycha”, non solita serie antologica che non poteva fermarsi al terzo volume. Centoquarantacinque sono le poesie che lo compongono, divise tra cinquantatré dittici a due voci[12], di cui dieci (ciascuno introdotto da un saggio breve del critico Lucia Bonanni)[13] con autore classico[14], anche di lingua straniera e con testo a fronte in lingua originale, e tredici sono i trittici a tre voci.

«Il progetto che Emanuele Marcuccio ha ideato e messo in opera ha una valenza di notevole interesse, vuoi per la corposità del volume che raccoglie ben ventidue autori con numerose poesie, vuoi per l’operazione culturale di alto livello che vede pagina dopo pagina gli accostamenti con lo stesso Emanuele Marcuccio, il quale spende il suo operato con attenzione, e ancora con scrittori storicizzati e amati, esponenti della poesia internazionale selezionata. Un’opera quindi di perspicace plurivocità che abbraccia con sorpresa l’arcobaleno luminoso degli amori, delle passioni, delle illusioni, dei ricordi, degli sperdimenti panici, delle frequentazioni amicali, per una incalzante e melodiosa inquietudine che la sola poesia riesce a suscitare nel lettore. […] “Dittiche corrispondenze d’Autore” infine è la sezione forse più suggestiva di tutto il volume, un sorprendente guizzo di pagine da centellinare con attenzione per assaporarne in pieno la caratura estetica, non solo, ma anche la mordace e generosa memoria che i poeti accostati riescono a riaccendere nel lettore. […] I vari temi proposti, autore dopo autore, sfociano in eleganti affinità di relazioni empatiche e di affinità creative, facendo mostra di risoluzioni che appartengono allo scenario dell’immaginario come alla plasticità del perturbante. Si avvicendano in queste pagine Giacomo Leopardi e Emanuele Marcuccio, Giovanni Pascoli e Giorgia Catalano, Dino Campana e Lucia Bonanni, Antonia Pozzi e Lorenzo Spurio, Nelo Risi e Grazia Tagliente, Rainer Maria Rilke e Daniela Ferraro, Pablo Neruda e Daniela Ferraro, Wisława Szymborska e Grazia Tagliente, in un clamoroso esercizio di convergenze e contrasti, indagando con cautela tra i meandri della psiche e la originalità degli scritti».[15]

Così scrivo in un aforisma dell’aprile 2018, scelto come esergo al Dipthycha 4: «Nell’individuare dittici e trittici poetici secondo il “Dipthycha” – operazione mai semplice – è essenziale che ogni autore non imiti l’altro ma che in una sorta di continuum, seguendo il relativo tema rimanga fedele al proprio modo di fare poesia. Se no, dove sarebbe l’innovazione? Solo qualcosa di simile a una poesia a quattro mani e nulla più».

Come immagine di copertina, ho scelto un particolare di quella che riproduce un’opera pittorica della francese Henriette Browne (1829 – 1901), «Ragazza che scrive» (1870 – 1874), conservata al Victoria and Albert Museum di Londra. In questa immagine, a mio avviso, è rilevabile una certa continuità con quelle dei tre volumi precedenti, soprattutto il secondo e il terzo; vi si può leggere una scriba romantica e tanta meraviglia: l’ambiente esterno è povero ma intorno si percepisce tanta cultura e tanta meraviglia nello sguardo della giovane ragazza. La stessa può essere interpretata anche come allegoria dell’intero progetto “Dipthycha”. Questo quarto volume[16] usciva il ventitré dicembre 2022 con TraccePerLaMeta Edizioni che dal gennaio dello stesso anno ha trasferito la propria sede a Busto Arsizio (VA).

D’accordo con gli autori, il ricavo vendite dei precedenti tre volumi è devoluto ad AISM – Associazione Italiana Sclerosi Multipla. Mentre per il quarto volume è giusto invece che il pensiero vada ai nostri connazionali del centro Italia, colpiti dal terremoto nel 2016.

EMANUELE MARCUCCIO

(Aggiornato al 11 maggio 2024)


APPENDICE

Canoni distintivi

Canoni distintivi per la realizzazione di un dittico poetico a due voci del progetto di poesia “Dipthycha”, elaborati dal suo ideatore Emanuele Marcuccio, già pubblicati nel bando delle due suddette edizioni del Premio “L’arte in versi” e da seguire qualora si voglia inviare una propria proposta di dittico poetico a due voci alla attenzione del curatore, a info@proletteraturacultura.com.

I canoni distintivi (prevalentemente contenutistici) del dittico poetico a due voci sono:

  1. Presenza di un titolo per ciascuna delle due poesie
  2. Rispondenza di un tema comune alle due poesie
  3. Ciascuno dei due autori della rispettiva poesia formanti il dittico deve attenersi al proprio modo di fare poesia, senza in alcun modo cercare di imitarsi
  4. La seconda poesia del dittico sia in qualche modo una ideale risposta alla prima attraverso una sorta di continuum per analogie, corrispondenze sonore o emozionali, di significanza, di empatia, di poetica affinità elettiva

Ovviamente gli stessi, mutatis mutandis, possono essere seguiti per la realizzazione di un trittico poetico a tre voci.

Bibliografia e studi critici

A partire dal 2014, circa un anno dopo la pubblicazione del primo volume del progetto poetico “Dipthycha”, vari studi sono pubblicati in volume e online.

Bibliografia

AA.VV., Dipthycha. Anche questo foglio di vetro impazzito, c’ispira…, a cura di Emanuele Marcuccio, Prefazione di Cinzia Tianetti, Postfazione di Alessio Patti, Photocity Edizioni, Pozzuoli, 2013, pp. XII, 90.

AA.VV., Dipthycha 2. Questo foglio di vetro impazzito, sempre, c’ispira…, a cura di Emanuele Marcuccio, Prefazione e note critiche di Luciano Domenighini, Postfazione di Antonio Spagnuolo, Quarta di copertina di Francesco Martillotto, TraccePerLaMeta Edizioni, Sesto Calende, 2015, pp. 184.

AA.VV., Dipthycha 3. Affinità elettive in poesia, su quel foglio di vetro impazzito…, a cura di Emanuele Marcuccio, Prefazione di Michele Miano, con il saggio di Postfazione di Lorenzo Spurio “Risonanze empatiche, l’esperienza del ‘dittico poetico’ di Emanuele Marcuccio”, PoetiKanten Edizioni, Sesto Fiorentino, 2016, pp. 180.

AA.VV., Dipthycha 4. Corrispondenze sonore, emozionali, empatiche… si intessono su quel foglio di vetro impazzito…, a cura di Emanuele Marcuccio, Prefazione di Michela Zanarella, Postfazione di Antonio Spagnuolo, con saggi brevi e quarta di copertina di Lucia Bonanni, TraccePerLaMeta Edizioni, Busto Arsizio, 2022, pp. 310.

Studi

Bonanni, Lucia, “Dipthycha 2. Questo foglio di vetro impazzito, sempre, c’ispira. Una lettura”, proletteraturacultura.com/2015/09/dipthycha-2-di-emanuele-marcuccio-e-aa-vv-letto-e-commentato-da-lucia-bonanni.html, “Pro Letteratura e Cultura”, 2015.

Id., “Un dittico funambolico”, in AA.VV., Dipthycha 3. Affinità elettive in poesia, su quel foglio di vetro impazzito…, PoetiKanten Edizioni, Sesto Fiorentino, 2016, pp. 130-131.

Id., “Dipthycha 3. Affinità elettive in poesia. Una lettura”, proletteraturacultura.com/2016/05/dipthycha-3-una-lettura-critica-a-cura-di-lucia-bonanni.html, “Pro Letteratura e Cultura”, 2016.

Id., “Angoscia, declino, ripiegamento e soffi di speranza nel ‘dittico poetico’ Leopardi-Marcuccio”, in AA.VV., Dipthycha 4. Corrispondenze sonore, emozionali, empatiche… si intessono su quel foglio di vetro impazzito…, TraccePerLaMeta Edizioni, Busto Arsizio, 2022, pp. 189-193.

Id., “Stagione invernale, sentimento della natura e tenere emozioni nel ‘dittico poetico’ Pascoli-Catalano”, in Op. cit., pp. 197-201.

Id., “Mistero, metamorfosi, silenzio e malinconia nel ‘dittico poetico’ Pascoli-Ferraro”, in Op. cit., pp. 205-206.

Id., “Da un’idea visiva e trasognata a un’ispirazione repentina e avvolgente: il ‘dittico poetico’ Campana-Bonanni”, in Op. cit., pp. 211-214.

Id., “Memoria, ansia di vivere e poetiche affinità elettive nel ‘dittico’ Risi-Tagliente”, in Op. cit., pp. 225-227.

Id., “Natura, atemporalità, inquietudine e malinconia nel ‘dittico poetico’ Rilke-Ferraro”, in Op. cit., pp. 231-235.

Id., “Sentimento della natura, emozioni, memorie e speranze nel ‘dittico poetico’ Neruda-Ferraro”, in Op. cit., pp. 239-241.

Id., “Amore cosmico, malinconia, nostalgia e rimpianto nel ‘dittico poetico’ Neruda-Tagliente”, in Op. cit., pp. 247-248.

Id., “La gioia di scrivere che si perpetua in uno ‘esistere incessante’ di scrittura gioiosa nel ‘dittico poetico’ Szymborska-Tagliente”, in Op. cit., pp. 255-257.

Domenighini, Luciano, Prefazione a AA.VV., Dipthycha 2. Questo foglio di vetro impazzito, sempre, c’ispira…, TraccePerLaMeta Edizioni, Sesto Calende, 2015, pp. 13-14.

Luzzio, Francesca, “Intervento critico a Palermo, Villa Trabia, 12-6-2016: Presentazione di Dipthycha 3”, proletteraturacultura.com/2016/06/palermo-villa-trabia-12-6-2016-presentazione-di-dipthycha-3-intervento-di-f-luzzio.html, “Pro Letteratura e Cultura”, 2016.

Martillotto, Francesco, Quarta di copertina a AA.VV., Dipthycha 2. Questo foglio di vetro impazzito, sempre, c’ispira…, TraccePerLaMeta Edizioni, Sesto Calende, 2015.

Miano, Michele, Prefazione a AA.VV., Dipthycha 3. Affinità elettive in poesia, su quel foglio di vetro impazzito…, PoetiKanten Edizioni, Sesto Fiorentino, 2016, pp. 9-11.

Occhipinti, Aldo, “Un dittico a caldo”, in Op. cit., pp. 117-119.

Id., “Un dittico a freddo”, in Op. cit., pp. 126-127.

Pardini, Nazario, “Recensione a Emanuele Marcuccio: Dipthycha. Antologia poetica”, in Id., Lettura di testi di autori contemporanei 1990 – 2013, The Writer Edizioni, Morano Principato, 2014, pp. 459-460.

Id., “Recensione a Emanuele Marcuccio e AA.VV.: Dipthycha 2”, in Id., Lettura di testi di autori contemporanei. Volume III 2013 – 2015, The Writer Edizioni, Morano Principato, 2019, pp. 879-881.

Patti, Alessio, Postfazione a AA.VV., Dipthycha. Anche questo foglio di vetro impazzito, c’ispira…, Photocity Edizioni, Pozzuoli, 2013, p. 51.

Spagnuolo, Antonio, Postfazione a AA.VV., Dipthycha 2. Questo foglio di vetro impazzito, sempre, c’ispira…, TraccePerLaMeta Edizioni, Sesto Calende, 2015, pp. 145-146.

Id., Postfazione a AA.VV., Dipthycha 4. Corrispondenze sonore, emozionali, empatiche… si intessono su quel foglio di vetro impazzito…, TraccePerLaMeta Edizioni, Busto Arsizio, 2022, pp. 265-267.

Spurio, Lorenzo, “Risonanze empatiche, lʼesperienza del ‘dittico poetico’ di Emanuele Marcuccio. Postfazione a AA.VV., Dipthycha 3. Affinità elettive in poesia, su quel foglio di vetro impazzito…, PoetiKanten Edizioni, Sesto Fiorentino, 2016, pp. 137-146.

Id., “Lasciate che mi perda nell’ombra: il dramma esistenziale di Antonia Pozzi nel ‘dittico poetico’ Pozzi-Spurio”, in AA.VV., Dipthycha 4. Corrispondenze sonore, emozionali, empatiche… si intessono su quel foglio di vetro impazzito…, TraccePerLaMeta Edizioni, Busto Arsizio, 2022, pp. 219-221.

Tianetti, Cinzia, Prefazione a AA.VV., Dipthycha. Anche questo foglio di vetro impazzito, c’ispira…, Photocity Edizioni, Pozzuoli, 2013, pp. VII-XI.

Zanarella, Michela, Prefazione a AA.VV., Dipthycha 4. Corrispondenze sonore, emozionali, empatiche… si intessono su quel foglio di vetro impazzito…, TraccePerLaMeta Edizioni, Busto Arsizio, 2022, pp. 17-19.


Scheda tecnica del progetto editoriale

Progetto (ideazione e cura): Emanuele Marcuccio

Introduzione a ogni Vol.: Emanuele Marcuccio

Original Cover Book I Vol: Emanuele Marcuccio

Prefazione I Vol: Cinzia Tianetti

Prefazione II Vol. e note critiche: Luciano Domenighini

Prefazione III Vol: Michele Miano

Prefazione IV Vol: Michela Zanarella

Postfazione I Vol: Alessio Patti

Postfazione II Vol: Antonio Spagnuolo

Postfazione III Vol: Lorenzo Spurio (saggio)

Postfazione IV Vol: Antonio Spagnuolo


Co-curatori

I Vol: Gioia Lomasti e Francesco Arena

Editing Cover Images I Vol: Francesco Arena

Editing Cover Images II Vol: Laura e Stefano Dalzini

Editing Cover Images III Vol: Patrizio Federico

Editing Cover Images IV Vol: Danilo Torraco e Stefano Dalzini

Pagina Facebook dedicata: https://www.facebook.com/Dipthycha  


I quarantadue autori presenti nei rispettivi quattro Volumi finora editi sono: Emanuele Marcuccio (presente in ogni volume), Silvia Calzolari (c.s.), Giorgia Catalano (c.s.), Maria Rita Massetti (c.s.), Lorenzo Spurio (c.s.), Donatella Calzari, Raffaella Amoruso, Monica Fantaci, Rosa Cassese, Rosalba Di Vona, Giovanna Nives Sinigaglia, Michela Tarquini, Francesco Arena, Ilaria Celestini, Ciro Imperato, Grazia Finocchiaro, Aldo Occhipinti, Marzia Carocci, Giusy Tolomeo, Grazia Tagliente, Daniela Ferraro, Antonino Natale, Anna Alessandrino, Teocleziano Degli Ugonotti, Antonella Monti, Luigi Pio Carmina, Lucia Bonanni, Maria Chiarello, Francesco Paolo Catanzaro, Maria Palumbo, Francesca Luzzio, Giorgio Milanese, Valentina Meloni, Luciano Domenighini, Igino Angeletti, Emilia Otello, Rosa Maria Chiarello, Anna De Filpo, Giorgia Spurio, Carla Maria Casula, Giusi Contrafatto, Anna Scarpetta.


Ai link di seguito è possibile leggere qualcuno dei tanti dittici a due voci e anche uno dei trittici a tre voci:

Dittico Calzolari-Marcuccio (Manifesto poetico del progetto presente in ogni volume)

Dittico Luzzio-Marcuccio (con trad. in dialetto aquilano di Lucia Bonanni, edito in Dipthycha 4)

Dittico Degli Ugonotti-Tolomeo (Edito in Dipthycha 3)

Dittico Massetti-Tolomeo (Edito in Dipthycha 2)

Trittico Bonanni-Spurio-Marcuccio (Edito in Dipthycha 4)


D’accordo con tutti gli autori presenti, l’intero ricavato delle vendite dei primi tre volumi è devoluto a scopo benefico ad AISM – Associazione Italiana Sclerosi Multipla. Mentre per il quarto volume, sempre d’accordo con gli autori, si è scelto il comitato pro-terremotati centro Italia di Ancescao APS.

Evidenza delle donazioni effettuate:

proletteraturacultura.com/2015/07/donato-ad-aism-il-ricavato-vendite-dell-opera-antologica-dipthycha-2.html

proletteraturacultura.com/2014/08/ricevuto-il-ricavato-delle-vendite-per-l-opera-antologica-dipthycha.html


[1] Il dittico poetico a due voci è una composizione da me teorizzata rivisitando il dittico poetico classico e definita dal sottoscritto come, “[u]na composizione di due poesie scritte da due diversi autori, indipendentemente, anche in tempi diversi, e accomunate dal medesimo tema in una sorta di corrispondenza empatica”. [N.d.A.]

[2] “Dipthycha” nasce anche come risposta alla pratica della poesia a quattro mani, che non reputo tale bensì solo un gioco poetico; nasce anche come risposta al cliché letterario riguardante la solitudine del poeta. [N.d.A.]

[3] Emanuele Marcuccio, in Introduzione a AA.VV., Dipthycha 3. Affinità elettive in poesia, su quel foglio di vetro impazzito…, PoetiKanten, Sesto Fiorentino, 2016, p. 7.

[4] AA.VV., Dipthycha. Anche questo foglio di vetro impazzito, c’ispira…, a cura di Emanuele Marcuccio, Prefazione di Cinzia Tianetti, Postfazione di Alessio Patti, Photocity, Pozzuoli, 2013, pp. XII, 90.

[5] Cinzia Tianetti, in Prefazione a Op. cit., p. VII.

[6] Antonio Spagnuolo, in Postfazione a AA.VV., Dipthycha 2. Questo foglio di vetro impazzito, sempre, c’ispira…, TraccePerLaMeta, Sesto Calende, 2015, pp. 145-46.

[7] AA.VV., Dipthycha 2. Questo foglio di vetro impazzito, sempre, c’ispira…, a cura di Emanuele Marcuccio, Prefazione e note critiche di Luciano Domenighini, Postfazione di Antonio Spagnuolo, TraccePerLaMeta, Sesto Calende, 2015, pp. 184.

[8] Lorenzo Spurio, in Postfazione a AA.VV., Dipthycha 3. Affinità elettive in poesia, su quel foglio di vetro impazzito…, PoetiKanten, 2016, pp. 138-39.

[9] AA.VV., Dipthycha 3. Affinità elettive in poesia, su quel foglio di vetro impazzito…, a cura di Emanuele Marcuccio, Prefazione di Michele Miano, con un saggio di Postfazione di Lorenzo Spurio, PoetiKanten, Sesto Fiorentino, 2016, pp. 180.

[10] premiodipoesialarteinversi.blogspot.com

[11] Riporto di seguito i canoni distintivi (prevalentemente contenutistici) del dittico poetico a due voci stilati secondo la mia teorizzazione e pubblicati nel bando per la partecipazione alla relativa sottosezione del Premio. Presenza di un titolo per ciascuna delle due poesie, rispondenza di un tema comune alle due poesie; ciascuno dei due autori della rispettiva poesia formanti il dittico deve attenersi al proprio modo di fare poesia, senza in alcun modo cercare di imitarsi. La seconda poesia del dittico deve essere in qualche modo un’ideale risposta alla prima attraverso una sorta di continuum per analogie, corrispondenze sonore o emozionali, di significanza, di empatia, di poetica affinità elettiva. Conclusasi la partecipazione alla XI edizione del Premio il 31 dicembre 2022, come da verbale di Giuria, è stato assegnato anche un terzo premio per la relativa sottosezione “Dittico poetico” ai poeti Eugenio Griffoni e Giulia Bologna con motivazione del sottoscritto. [N.d.A.]

[12] Tra i tanti è presente anche un dittico seguito dalla traduzione in dialetto aquilano della poetessa Lucia Bonanni.

[13] Tranne uno, quello con Antonia Pozzi, proposto e introdotto da Lorenzo Spurio.

[14] Dittici a due voci con poeti che hanno fatto la storia della letteratura dall’Ottocento a oggi: Giacomo Leopardi, Giovanni Pascoli, Dino Campana, Antonia Pozzi, Nelo Risi e, con testo a fronte in lingua originale, Rainer Maria Rilke, Pablo Neruda, Wisława Szymborska.

[15] Antonio Spagnuolo, in Postfazione a AA.VV., Dipthycha 4. Corrispondenze sonore, emozionali, empatiche… si intessono su quel foglio di vetro impazzito…, TraccePerLaMeta, Busto Arsizio, 2022, pp. 265-66.

[16] AA.VV., Op. cit., a cura di Emanuele Marcuccio, Prefazione di Michela Zanarella, con saggi brevi e quarta di copertina di Lucia Bonanni e Postfazione di Antonio Spagnuolo, TraccePerLaMeta, Busto Arsizio, 2022, pp. 310.

N.E. 02/2024 – “Christine Lavant, stella abbandonata da Dio”, saggio di Loretta Fusco

Basta guardarla nelle rare fotografie che la ritraggono, per capire chi fosse Christine Lavant, la grande poetessa austriaca, nata nel 1915, originaria di un paesino della valle della Lavant, in Carinzia, nome che adotterà come suo pseudonimo, perché in realtà lei si chiamava Christine Thonhauser.  Nona figlia di un povero minatore, bambina gracile, affetta da scrofola e problemi agli occhi, oltre che da regolari polmoniti che la prostrarono impedendole una vita regolare, frequentò comunque la scuola elementare, ma la sua fu un’esistenza segnata dalla povertà e dalla malattia. Crebbe in un ambiente rigido e cattolico col quale non riuscì mai a identificarsi. Anche se le sue poesie e opere in prosa sono caratterizzate da un linguaggio moderno e fortemente simbolico, il patrimonio culturale é quello cristiano, orientato verso una religiosità naturale contraddistinta dal desiderio di sicurezza e di riconoscimento.

Questi giorni non diventeranno vita.
Forse già nel ventre di mia madre il mio destino
s’è coraggiosamente separato da me
e se n’è andato – audace come io non sono mai stata –
sulla stella abbandonata da Dio
ed è rimasto là, s’è messo a dormire
e forse sogna ciò che mi deve accadere
con le tempie luccicanti.
Maliziosa mi lascio portare dal vento
vicino al focolare della realtà
mi lascio abbrustolire, mi lascio sbucciare
e da coloro che sono amaramente delusi
mi lascio risputare nel fuoco
o nell’acqua salata.
Là spesso rifletto e mi chiedo, se Dio sappia di me
se ci siano spiriti custodi anche per quelli come me
e se il sacro nucleo dell’anima
ce l’abbiano davvero solo i sani
che rompono le noci con i denti
e prendono il destino degli altri per il loro.
Nel fuoco e nell’acqua nessuno è lucido –
Perdonatemi Dio Padre, Figlio e Spirito Santo!
Voi siete una trinità e io sono così sola
e nessuno lassù risveglia il mio destino.

La poetessa e scrittrice austriaca Christine Lavant (1915-1973)

Thomas Bernhard, suo conterraneo, la porterà alla luce, e curerà personalmente un volumetto di sue poesie, 81 in tutto, scegliendole dalle sue quattro principali raccolte. Le consegnerà al suo editore nel 1987 avendo individuato in questa donna apparentemente fragile, un’interessantissima voce, isolata soltanto geograficamente entro i confini angusti di un’Austria nazionalsocialista, che lui stesso avversava. Nonostante il suo humus valligiano, la Lavant, sin dal suo primo volontario ricovero nel manicomio di Klagenfurt, dimostrò interessi culturali notevoli e una passione per Rilke, il poeta che ispirerà quasi tutta la sua opera. Bernhard, contrariamente all’immagine consolidata, la sottrae all’idea che fosse un Ligabue della poesia, esaltandone l’intelligente e raffinata espressività poetica, anche perché, nel tempo, la poetessa aveva intessuto una rete notevole di relazioni e contatti con i massimi esponenti dell’avanguardia viennese.

La sua poesia coniuga l’attaccamento alla terra, la tradizione, i riti liturgici, il folklore, a una sete inestinguibile di infinito. La sua è un’invocazione a un Dio sordo e cieco, verso cui inveisce con rabbia, nel dolore inascoltato che l’attanaglia. Rivendica con orgoglio il diritto a esistere come creatura di Dio, dimenticata e abbandonata a se stessa.

Dice Bernhard, nella prefazione al libro da lui curato: “Questo libro documenta la cronologia della vita di Christine Lavant che fino alla morte non ha trovato né pace né tranquillità e che nella sua esistenza si è flagellata attraverso la sua persona ed è stata distrutta e tradita dalla propria fede cristiano-cattolica; si tratta della testimonianza elementare di un essere umano strapazzato da tutti gli spiriti celesti, un essere umano, che altro non è se non grande letteratura, meno conosciuta nel mondo di quanto meriterebbe. La scelta qui proposta segue solo il mio intento e quello di nessun altro”.

Dimentica il tuo ciarpame, Creatore!

O sarai creatore

di ciò che è cadavere e lo rimane

e si unisce alla terra

ben più volentieri che al cielo.

Vai, continua ad ammantare i gigli

corrompi pure i passeri con il miele vergine –

io vivo di ruggine e muffa.

Tu dici che questo non mi sazia

e blateri della città di Dio

che molti conquistano con il digiuno.

Non io! Mi piace vivere nell’argilla

per diventare pietra e tuttavia

mai esserti di peso.

Le sue insicurezze risiedono nella sua fragilità fisica e psichica. Sin da piccola dovette rimanere a casa occupandosi di lavori domestici e cucito, cosa che lei fece con scrupolo anche per riuscire a mantenersi. Non disdegnava la lettura e la scrittura tanto che si rivolse a un editore di Graz per pubblicare il suo primo romanzo, che distrusse dopo che fu definitivamente respinto nel 1932, questo a testimoniare una personalità immatura, ma già provata dalle delusioni della vita. Nel 1935 si ricoverò spontaneamente al manicomio di Klagenfurt dal quale uscì dopo qualche tempo. Morti i genitori, si trovò in condizioni economiche disastrose sostenuta solo dal suo lavoro di cucito e dal supporto finanziario dei fratelli. Decise allora di sposare il pittore Josef Habernig, molto più vecchio di lei.

Le poesie della Lavant sono state definite preghiere blasfeme non solo perché si rivolge in modo irriverente a Dio ma soprattutto perché lo sfida. Emerge la sua natura semplice, franca, simile alla terra natia, dove nulla è concesso con generosità ma è la risultante di un lavoro duro e faticoso. La scrittura diventa elemento salvifico e testimonianza di vita subita, non agìta. Anche Ingeborg Bachman appartiene a quella terra ma da quella terra se n’è andata per trovare ispirazione e pace altrove. La malinconia che permea l’opera di entrambe si spande per quelle vallate dove il silenzio è rotto soltanto dal rimbombo dell’eco.

La Lavant sentiva ardere dentro di sé il fuoco dell’arte ma dovette soffocarlo perché la sua realtà oggettiva non le permetteva di realizzarlo e nessuno intorno lei, a partire dai medici dell’Ospedale psichiatrico in cui era stata ricoverata, erano riusciti a capire il suo desiderio di poetare, stroncando ogni sua velleità poetica, come denuncia nei suoi “Appunti da un manicomio”.

Sono nel reparto “Due”. E’ il reparto del’’osservazione per “i meno gravi” in cui di regola si arriva solo dopo essere passati dal”Tre”. Io non sono passata dal “Tre” e per questa ragione quasi tutti me ne vogliono. Ieri ho sentito dire dalla Regina a Renate: “Quella ci è piombata addosso con gli occhiali e la roba per scrivere. Che se la porti il diavolo! Che cosa è venuta a fare da noi? Probabilmente a spiarci, cosa altro sennò?!”… Renate si è limitata a risponderle: “Ah, eccola che riattacca con queste storie”. Ma poi a sera è venuta dirmi che aveva di nuovo bisogno dei suoi fermacapelli e che doveva riprenderseli. Peccato, non per i fermacapelli, ma per Renate perché credevo che avremmo potuto stringere una qualche amicizia. Fin dal primo giorno ho provato simpatia per lei, per questi suoi occhi muti e malinconici e per quel sorriso evanescente e dimesso che certo mette un po’ di tristezza, ma che non fa paura come la risata delle altre. Dall’altra parte ci si abitua incredibilmente presto ai visi e a discorsi più strani…]

Morte diffamata, per me sei così bella!Già di mattino ti penso come la mia capanna,dove la sera mi trasferirò,e penso che sopra la capanna brillerà una stella.Nemmeno del trasloco ho paura!Certo, prima bisognerà bruciare molto,prima di tutto il corpo con tutte le sue bramee dell’anima ciò che qui si è accumulatoin fatto di coraggio e di allegria.Solo il mio amore, morte, lo porterò con me!Per lui, se davvero sei il mio rifugio,dovrai preparare l’angolo migliore della mia capanna,e se possibile mettici anche una finestra,perché la stella, la buona stella di cui parlo,la possa colmare di tutta la consolazione,che qui non gli ho mai potuto dare.

Le sue invocazioni a Dio ricordano quelle di Rilke, il poeta che la Lavant sentì più di tutti. Lei grida a Dio la sua impotenza, con veemenza e spirito combattivo ben sapendo che il suo urlo disperato è un atto di rassegnazione.

Voglio condividere il pane con i pazzi,ogni giorno un pezzo di questo grande orrore,anche la campana nel cuore,là, dove il colombo fa il nidoe trova un minuscolo asilonella selva sulle acque.A lungo ho vissuto come pietrasul fondo delle cose.Ma ho sentito la campanaSussurrare il tuo segretonei pesci volanti.Imparerò a volare e a nuotaree lascerò tutto ciò che è pietra sotto la pietralascerò la malinconia coricata nella madreperla,ma solleverò in alto la rabbia e la miseria.Le mie ali sono più antiche della tua pazienza,le mie ali sono volate oltre il coraggio,che s’era fatto carico dell’errare.Voglio condividere il pane con i pazzilà, nella spaventosa selva del colombodove la capanna divide in tre parti il grande terroretrasformandolo nel suono tripartito del tuo nome.

***

Ti ho tuffato nella mia rabbia!

Ora sei d’acciaio sopra la terra

e sotto, mansuete, avanzano le tue radici

tra pietre scricchiolanti.

Non portarmi il grano! Non ti ho reso acciaio

per saziarmi o addormentarmi

a me spetta la metà di quella mela

che matura tra i rami dell’albero del serpente.

Spada o giglio – tu li sei entrambi a metà!

Voglio scagliare in alto la tua affilatezza

ed essere dolce sorella della terra

e indurre in tentazione Dio come lui ha fatto con me.

Ti ha tuffato tre volte nel mio cuore

e ti ha ordinato di rinunciare a lui

ma io ti ho immerso nell’acciaio della rabbia;

ora porta a suo figlio la mia metà della mela!

***

Mentre io, turbata, scrivo,

nel disco della luna piena brilla

la parola che osservo

da quando la colomba mi ha deriso

perché dallo specchio dell’acqua

senza nome, senza sigillo,

entravo nell’arido.

Non fosse cresciuta

la semina dell’osservazione

dovrei uccidere luna e colomba

che sempre m’ingannano

e fanno il nido sul mio albero del sonno

che per questo rinsecchisce.

Spesso una parola s’imprime a fuoco

da sé nella sua corteccia,

e allora mando quel cieco

messaggio, che inutilmente si rigira

aggredendo il tuo sonno

mentre nel disco della luna

è in salvo la risposta.

Christine Lavant morì a Wolfsberg nel 1973, all’età di 57 anni. Non lo sapeva allora che la sua voce sarebbe diventata alta e sarebbe uscita da quei confini che lei aveva sempre considerato un limite alla sua brama di libertà.


(Le poesie scelte appartengono al volumetto Christine Lavant, Poesie, scelte da Thomas Bernhard, nella traduzione di Anna Ruchat. Effigie Edizioni).


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

“Federico García Lorca tradotto in alcuni dialetti italiani”. Saggio di Lorenzo Spurio

La grande notorietà di Federico García Lorca (1898-1936) e della sua opera nel nostro Paese è testimoniata non solo da una prolifica attività critica e da continue riedizioni – anche commentate – della sua opera, ma anche da alcuni esperimenti di lettura di diverso tipo, che meritano adeguato rispetto e approfondimento. Mi riferisco – in relazione a quel suo carattere di poeta terrigno eppure universale – alla sua grande capacità di saper parlare e raggiungere popoli, gruppi umani, linguistici diversi, al pathos che trasmise nelle sue produzioni che i traduttori – non senza difficoltà – hanno cercato di rendere in idiomi altri rispetto allo spagnolo nativo del Poeta. È il caso anche dell’esigenza di percorrere la sua opera lirica in lingue dalla diffusione più limitata, localizzate in specifici ambienti di provincia, vale a dire i dialetti.

Non sono mancate, infatti, iniziative di cultori di dialetto che sono andate in questa direzione: non tanto quella del recupero della tradizione poetico-culturale oriunda, tra reminiscenze di età andate e grumi di nostalgia ma, piuttosto, quello di riconnettersi alla tradizione alta, colta, riallacciandosi a opere e autori di altre età, di altri contesti e “prenderle in prestito”, in qualche maniera, per “farle proprie” ma in maniera originale. Si tratta di un procedimento alquanto curioso, che nella maggior parte dei casi non ha visto esiti di particolare altezza, ma che ha, comunque, evidenziato una questione rilevante: la necessità dell’uomo contemporaneo – dello studioso attento – di saper interloquire anche con ciò che costituzionalmente non gli appartiene in forma nativa e identitaria.

La traduzione, questo “versare”, “porre a lato”, diviene, dunque, un qualcosa di fondamentale. Il tradurre da lingua a lingua lo è per ovvi motivi che qui risulta superfluo richiamare e che attengono principalmente alla possibilità di conoscere, apprendere, apprezzare e introiettare nel proprio panorama di ricchezze nozionistiche un sapere in una lingua estranea dalla nostra e, pertanto, se non intervenisse un medium a facilitarci la comprensione di quel testo, reso – adattato, trasposto, versato – nella nostra lingua, saremmo irrimediabilmente esposti a una perdita gravosa di conoscenze.

Il tradurre da lingua a dialetto è qualcosa di diverso poiché quest’ultimo non aspira a una diffusione capillare nel contesto nazionale e negli usi della lingua – da quelli formali e istituzionali a quelli pratici e d’uso comune della propria familiarità – dacché, per portare un esempio, tradurre i Sonetti di Shakespeare in napoletano non direttamente apporta per i parlanti del napoletano (né, di converso, per gli italiani tutti) una conoscenza superiore o inedita rispetto al bagaglio di conoscenze già in dotazione dell’italiano, dacché le liriche del Bardo sono già ben note in italiano, che è la versione primaria nella quale sono state trasposte nel nostro Paese dal loro originale.

Va da sé che, essendo un procedimento non automatico ma condotto dall’uomo dietro perizia di lettura, studio, attenzione e conoscenza delle due culture (quella dalla quale si parte e quella alla quale si giunge) e dunque un “trasferimento”, non può esistere un’unica versione concepita come giusta, completa, unanimamente accettabile di un’opera né, per le stesse ragioni, superiore rispetto a un’altra (con i distinguo di competenza e rispondenza all’originale di cui si diceva).

Avvicinandoci al caso di Federico García Lorca tradotto nel nostro Paese in lingue e varianti dialettali d’uso che non siano la lingua italiana (eliminando chiaramente il tedesco del Sud Tirol, il catalano di Alghero, il francese della Valle d’Aosta) ho reperito alcune informazioni che mi sembrano utili, sebbene approssimative, dal momento che la ricerca è stata breve e non può considerarsi esaustiva né particolarmente soddisfacente. Valga, comunque, come “anticipo” di un possibile discorso da riprendere e approfondire, quale tesi propedeutica a uno studio investigativo più allargato.

Veniamo al caso di Federico García Lorca, l’“andaluso universale” come ebbe a definirlo Carlo Bo, all’interno della grande vastità di dialetti del Belpaese. Alcuni anni fa Piero Marelli e Maurizio Noris hanno compilato un’antologia di poeti dialettali traduttori dal titolo Con la stessa voce (Lieto Colle, 2015) nella quale compaiono autori della classicità europea tradotti in altrettanti dialetti regionali o locali del nostro Paese. A fianco di Lee Masters, Shakespeare, Leopardi e Robert Burns, vi figura – doverosamente – anche García Lorca, tradotto in bergamasco dallo stesso Noris[1] ma anche in barese da Vincenzo Mastropirro[2]. Si vedano degli esempi:

I

Lorca:

Muerto se quedó en la calle

con un puñal en el pecho.

No lo conocía nadie.

¡Cómo temblaba el farol!

Madre.

¡Cómo temblaba el farolito

de la calle!

[prime due strofe della poesia “Sorpresa” estratta da Poema del Cante Jondo, 1921]

Noris:

Mòrt l’è restàt lè ‘n de strada

con d’o pognal in del pèt.

Negut l’lo conussìa.

Come tremàa ol lampiù!

Màder.

Come l’tremàa ol lampiunsì

de la strada!

*

II

Lorca:

Cuando yo me muera,

enterradme con mi guitarra

bajo la arena 

[prima strofa della poesia “Memento” estratta da Poema del Cante Jondo, 1921]

Mastropirro:

Quanne Criste me chiòme,

prequàteme cu la chetàrra maje

sotta tièrre

Sebastiano Burgaretta[3], studioso di tradizioni popolari e cultore locale nato ad Avola (SR) nel 1946 ha llevado a cabo – ha portato avanti – una traduzione in siciliano di un’opera teatrale di Lorca ovvero La casa de Bernarda Albapièce conclusiva della nota trilogia drammatica che l’autore, a causa dell’assassinio nel 1936, non poté mai vedere rappresentata né stampata su carta. Burgaretta, che ha anche curato il relativo adattamento teatrale dell’opera, ha pubblicato il suo volume tradotto in siciliano con i tipi di Algra Editore di Zafferana Etnea (CT) nel gennaio 2015. Giuseppe Di Stefano in una nota critica sull’opera di Burgaretta ha osservato: «Il lettore ha così un anticipo immediato, seppur succinto, di quanto calzante sia stata l’iniziativa di tradurre in un siciliano autentico e duro lo spagnolo di un’opera che mette in scena quel che abbiamo sentito o anche visto accadere, e non tanto di rado, in più di una casa dei nostri paesi fino a non molte decine di anni fa; quel che in tempi andati abbiamo raccontato e commentato in piazza, al circolo, al caffè, o ci è stato raccontato, usando il medesimo linguaggio che fu nostro e che era dei nostri padri, zii, nonne, donne di casa, ad Avola o a Fuente Vaqueros fa lo stesso».

Ed è proprio il siciliano che ha dato grande eco all’opera dell’autore di Romancero gitano se pensiamo che il grande poeta Salvatore Camilleri (1921-2021) con Tringale Editore di Catania nel 1983 pubblicò 70 Poesie dove raccolse alcune delle più impressive poesie di Lorca in versione siciliana[4]. Così scrive nella prefazione: «Federico m’insegnava a trarre ispirazione dal folclore, senz’essere folcloristico […] ma era un maestro difficile, quasi impalpabile, che chiedeva totale devozione e tensione continua; un maestro le cui emozioni folgoranti dovevano essere percepite senza nessuna mediazione, per magie, risolvendosi in banalizzazione ogni tentativo di dare significato all’immagine o alla metafora. […] Nessuno procede da solo, né nella vita, né nei sentieri della poesia; né mai poeta ha percorso la strada senza avere a fianco altri compagni di viaggio, altri poeti, senza ricevere e senza dare a quelli che vengono dopo»[5].

Altra manifestazione interessante è quella di Rosario Loria (nato a Poggioreale, nel Trapanese, nel 1938) – noto scrittore, poeta, commentatore attento delle vicende cronachistiche e culturali dei nostri tempi nonché ideatore del genere riverismo poetico – che nel suo dialetto locale, quello di Poggioreale con influssi della parlata di Menfi (AG) dove vive da varie decadi – ha tradotto la prima delle quattro parti – quella che in originale porta il sotto-titolo di “La cogida y la muerte” – del famoso Llanto por la muerte de Ignacio Sánchez Mejías. Lorca scrisse quest’opera nel 1934, sull’onda del lutto e dello scuotimento emotivo provato per la morte del celebre torero andaluso che nel 1934 sulla plaza de toros di Manzanares venne duramente attaccato dal toro Granadino e morì della fatale cornata.

Riportiamo a continuazione la versione tradotta di Loria (notare anche la bizzarra circostanza della quasi totale corrispondenza tra cognome dell’autore e del traduttore che si diversificano per una sola lettera: LorCa A Loria), con l’adozione del corsivo per i versi che trasmettono, in maniera anaforica, il terribile ritornello che preannuncia e dichiara, inveisce e proclama l’avvicinarsi, il concretizzarsi e il prodursi della morte del celebre matador:

“Alle cinque della sera” di Federico García Lorca

Versione in lingua siciliana

Traduzione di ROSARIO LORIA[6]

A li cincu di la sira.

Eranu li cincu ‘mpuntu di la sira.

U’ ‘mpicciliddu, purtà lu linzòlu biancu,

a li cincu di la sira.

‘Nna sporta di quacina, già pronta,

a li cincu di la sira…

Lu ‘rrestu, era morti e ‘ssulu morti,

a li cincu di la sira.

Lu ventu purtà luntanu li cuttùna,

a li cincu di la sira.

E la ‘rrùnia siminàu cristalli e ‘nnichèliu,

a li cincu di la sira…

Già cummàttinu, la palùmma e lu liupàrdu,

a li cincu di la sira.

E ‘nna coscia c’u’ ‘ncornu sdisulato,

a li cincu di la sira…  

‘Ncuminciàru li sònura di burdùni,

a li cincu di la sira.

Li campani d’arsenicu e lu fumu,

a li cincu di la sira.

A l’agnùna, ruppa di silenziu,

a li cincu di la sira.

Sulu lu tàuru, havi lu cori ‘nn’àvutu!

A li cincu di la sira.

Quannu vinni lu sudùri di nivi,

a li cincu di la sira,

quannu l’arena si crupìu di iodiu,

a li cincu di la sira,

la morti pusàu l’ova ‘nni la firita

a li cincu di la sira…

A li cincu di la sira.

A li cincu ‘mpuntu di la sira.

‘Nna ‘bbara cu’ ‘rròti, è lu lettu,

a li cincu di la sira…

Ossa e ‘fflàuti, sònanu ‘nni li so aricchi,

a li cincu di la sira…

Lu tauru già gridava di la frunti,

a li cincu di la sira.

La stanza si culuràva di unìa,

a li incu di la sira.

Di luntanu già veni la cancarèna,

a li cincu di la sira.

Trumma di gighiu, pi li virdi ‘nguini,

a li cincu di la sira.

Li firiti abbruciavanu comu lu suli,

a li cincu di la sira.

E la fudda ‘rrumpìa li finestri,

a li cincu di la sira…

A li cincu di la sira…

Ah, chi ‘ttirribbuli cincu di la sira !

Eranu li cincu di la sira, a ‘ttutti li ‘rròggiura !

Eranu li cincu, all’ummira di la sira…

Il poeta e noto giurista Corrado Calabrò sulle famose quartine lorchiane che compongono lo struggente Llanto (tradotto nella nostra lingua frequentemente come Lamento e più raramente con l’azzeccato Pianto) ebbe a porre l’attenzione sul senso d’incompiutezza (e dunque di formidabilità) di questo canto lirico: «Erano le cinque in punto della sera. Erano le cinque [in] tutti gli orologi. Venticinque volte Lorca ripete A las cinco de la tarde, alle cinque della sera nel suo Llanto por Ignacio Sánchez Mejías. Non lo fa certo per dirci l’ora. Ma se avesse detto: «Nel pomeriggio di oggi nella plaza de toros di Siviglia, il giovane e valente Ignacio Sánchez…» avrebbe fatto solo una cronaca da giornale locale. Lui dice invece Eran las cinco de la tarde; e niente come quelle parole che citano semplicemente l’ora segnata dall’orologio in quel momento, potenzialmente da tutti gli orologi in quel momento, ci dà il senso di come, in un istante, la nostra vita ci sfugga, ci sfugga per sempre, irreversibilmente. Sfugge al torero Ignacio, sfugge, prima o poi, a ognuno di noi, in un attimo. Il massimo della significazione con il minimo dell’espressione. Il non detto che scaturisce dal detto, da quello specifico detto; l’evocazione nell’udito interiore generata da un ascolto insostituibile e indeterminato ad un tempo. È questo che fa la poesia, la grande poesia. E la poesia di García Lorca è Grande. Agli inizi, la sua limitata acculturazione, suscitò dei dubbi sulla profondità di quella poesia. Critici emunctae naris rimasero perplessi di fronte alla sua immediatezza impressionistica, sospettandola di superficialità e accusandola di impurità, in tempi in cui si stavano già affermando, in poesia, tendenze esoteriche e rarefatte. Non capivano che quella immediatezza nasceva da una magica capacità d’immedesimazione, da un dono naturale di libertà e autenticità, che, rifiutando asfittiche prigioni correntizie e speculazioni di nessun esito, non per questo debordava dal territorio eletto dell’arte. “Ginatismo”, si disse; era invece un territorio che con lui appariva rigogliosamente ancora vergine per la prodigiosa capacità di reinvenzione della poesia, quella vera. Sì – osserva ancora Carlo Bo – «sembrava che lo guidasse una vera fame di poesia e che per questa fame non ci fosse un cibo capace di saziarlo». Con gli anni, Lorca, senza perdere la sua spontaneità, trovò una sua misura, al tempo stesso naturale e vicino alla misura classica. Sopravvenne la sua morte, e con essa la fama di Lorca, s’ingigantì e dilagò per il mondo. Giustamente venne visto nella sua uccisione il tentativo bestiale dell’incultura di sopraffare i valori assoluti dell’uomo. […] Quando una poesia è grande – e quella di Lorca lo è – essa è universale. Così come la morte di Ignacio è la sorte di ognuno di noi»[7].

A Calabrò sembrano far eco – con un linguaggio disomogeneo e a tratti sospensivo, ma per questo non meno catartico e passionale – alcune considerazioni di Rosario Loria che a maggio di quest’anno ha inteso porre a corredo della sua traduzione lorchiana testé riportata. Qui leggiamo: «Mai un’emozione intensa come questa volta, così istantanea e così violenta, dopo tante letture e riletture e decine di traduzioni dall’italiano… Ora capisco… Ora capisco, mentre vibro e ho la gotta, e sudo, la ripetizione folle e apparentemente assurda, del gelido e imperiale celeberrimo verso… Come una falce, che non guarda alti e bassi… E miete… Inesorabile… Il martellare delle nostre insistenze, dove il pianto non certifica la ragione, avviene sempre in tutti gli orologi, a quell’orario… Solo a quell’orario… È sempre quell’orario, quando non vedi riconosciuto il tuo diritto di avere un amico comune, ed esserne estromesso per gelosia… Martella, martella sempre, dalle cinque della sera, in tutti gli orologi… Fino adesso mai avevo capito il furore di questo Poeta, e capire la paura del tiranno, per liberarsi della quale, lo ha fucilato… Non è un problema ideologico… Ma è la viltà della potenza che ci fa caini…».

Per ampliare il tema qui proposto con questo scritto della versatilità dei contenuti lorchiani resi in alcuni dei dialetti nazionali vorrei riportare altre circostanze che mi sembrano interessanti. La città di Napoli – dove è sempre stato particolarmente vivo il mondo teatrale, tanto di maschere, di scena e impegnato – ha visto la creazione di un vero e proprio connubio con l’opera teatrale del Granadino.

Ne è testimonianza la trasposizione in dialetto partenopeo de La casa de Bernarda Alba a opera e per la regia di Gigi Di Luca che a maggio del 2010 andò in scena alla Basilica di Santa Maria Maggiore alla Pietrasanta nel capoluogo partenopeo. Tra gli attori protagonisti: Fulvia Carotenuto nel ruolo dell’arcigna Bernarda Alba, Gina Perna nel ruolo della domestica Poncha, la giovane Benedetta Bottino nei panni della tormentata Adela, Lisa Falzarano (Angustia), Federica Aiello (Martirio), Ilaria Scarano (Amelia) e Roberta Serrano (Maddalena). Come ricorda la stampa, tale opera in napoletano aveva debuttato già qualche anno prima, nel 2007 al Teatro Nuovo di Napoli, alla presenza dell’allora Assessore alla Cultura di Siviglia, don Juan Carlos Marset, poi portato anche in Spagna al Teatro Almeda.

Nel marzo del 2019 al Teatro TRAM di Via Port’Alba a Napoli andò in scena la versione in dialetto napoletano di Yerma col titolo ‘A Jetteca per la regia di Fabio Di Gesto e Silvio Fornacetti, costumi di Rosario Martone e attori recitanti Chiara Vitiello, Diego Sommaripa, Francesca Morgante, Maria Grazia Di Rosa e Gennaro Davide Niglio.

L’interesse verso la drammaturgia drammatica di Lorca è particolarmente forte nel nostro Meridione dove, la realtà sociale e familiare di piccoli borghi di provincia e delle campagne nel secolo scorso, viene percepita molto affine – se non addirittura identica – a quella della retrograda, machista e illiberale Spagna che Lorca dipinse. Non solo in Sicilia, in Campania, ma anche in Sardegna l’opera di Lorca trova una versione in una lingua locale. È il caso di Bodas de sangre tradotta in sardo da Gianni Muroni col titolo Isposòriu de sàmbene e pubblicata da Condaghes Edizioni di Cagliari nel 2013.

Pur tuttavia non si trattò della prima traduzione in sardo di quest’opera se si tiene presente che nel 2011, prima al Teatro Verdi di Sassari poi al Teatro delle Celebrazioni di Bologna, andò in scena Nozze di sangue nella versione sarda (variante barbaricina) scritta a quattro mani dal noto Marcello Fois e Serena Sinigaglia col titolo Bodas de sambene. Una lingua – quella sarda – che come ricorda la segnalazione della messa in scena su «La Repubblica» del periodo: «[è] di terra e sangue, perfetta per le sue caratteristiche linguistiche e antropologiche, per parlarci di confini distesi e violati, campi arsi e coltelli, di parole impronunciabili, di silenzi violenti»[8]. Nell’opera di Fois e Sinigaglia la Barbagia sostituisce la Vega, ma tutto è rimasto inalterato: l’ambiente di campagna, la reticenza dei personaggi e la loro ritrosia, l’incomunicabilità diffusa e un senso inscalfibile di tragedia sin dalle prime battute con una dominazione indiscussa del mistero e del fatalismo. Il successo della rappresentazione fece sì che l’opera venisse riproposta nel suo locus primigenio, in Sardegna, alcuni anni dopo (al Teatro Massimo di Cagliari in tre serate consecutive dal 21 al 23 aprile 2017 e al Teatro Eliseo di Nuoro in due serate consecutive, dal 28 al 29 aprile 2017) dove la popolazione locale non poté che premiarla con applausi, rispettosa attenzione ed entusiasmo. Di questa fulgida esperienza, motivo d’arricchimento per il teatro del Belpaese, è un volume dal titolo Nozze di sangue (co-autori Marcello Fois e Federico García Lorca) edito da Transeuropa Edizioni di Massa nel 2011 con allegati contenuti media relativi alla messa in scena.

Non furono solo i dialetti dell’Italia meridionale e insulare a mostrarsi interessati all’opera letteraria di Federico García Lorca: due esempi sono utili per testimoniare quanto si sta dicendo, ovvero le traduzioni in friulano (il casarsese per la precisione) di Pier Paolo Pasolini e quelle in piemontese di Luigi Olivero.

La professoressa Maria Isabella Mininni dell’Università di Torino in un recente saggio dal titolo “Traduzioni di poeti spagnoli nel felibrismo friulano di Pier Paolo Pasolini (1945-1947)”[9] si è dedicata a una veloce disamina dei principali autori spagnoli tradotti da Pasolini in friulano, richiamando, appunto, anche Lorca (sebbene preferisse, a lui, di gran lunga Antonio Machado e Juan Ramón Jiménez[10]). Sono i testi che vennero pubblicati nell’opera poetica totale di Pasolini nel 2003 a cura di Walter Siti per la Mondadori. Nel saggio di Mininni si ripercorre, pertanto, la natura di traduttore in friulano[11] di Pasolini di alcuni dei maggiori lirici spagnoli del Secolo scorso: oltre a Lorca, Machado e Juan Ramón Jiménez, anche Salinas e Jorge Guillén. Questi autori – forse con l’aggiunta di altri – avrebbero costituito un possibile nuovo volume per Pasolini, che indicò in forma di bozza con l’indicazione di Traduzioni. Piccola antologia iberica. Il poeta di Casarsa, che era un grande amante del libro e che già da giovanissimo aveva contribuito a costruire un’ampia biblioteca personale, con viva probabilità possedeva – o per lo meno aveva letto – la prima traduzione in italiano di una selezione di testi poetici del Granadino curata dal critico e traduttore Carlo Bo (Poesie di García Lorca edito da Guanda di Parma nel 1940) o nella successiva opera da lui curata col titolo di Lirici Spagnoli (Corrente Edizione, Milano, 1941)[12]; quest’ultima, a differenza dell’altro volume citato, non era monografico sull’autore Granadino e contemplava vari altri poeti della penisola iberica e proponeva, oltre alle traduzioni in italiano, a fronte, anche i testi nella lingua originaria. Sono sei le poesie lorchiane tradotte da Pasolini: “Romance sonámbulo”, “El cazador”, “Canción de la muerte pequeña”, “La balada del agua del mar”, “Preciosa y el aire” e una parte del celebre Llanto por Ignacio Sánchez Mejías (la sezione “La cogida y la muerte”, la sezione “La sangre derramada” sino al verso 24 e la sezione “Alma ausente”).

Notevole anche il lavoro di traduzione del giornalista e poeta piemontese Luigi Armando Olivero (1909-1996) la cui consultazione è possibile, tramite la rete, grazie a un documentatissimo sito curato dal prof. Giovanni Delfino[13] dal quale si viene a conoscenza del fatto che Olivero, presente in territorio catalano nel 1931, incontrò e scambiò delle battute con lo stesso Lorca (uno dei pochi intellettuali italiani ad averlo conosciuto di persona, ad aver interagito con lui).

Oltre a dedicarsi a una serie di traduzione di liriche lorchiane in dialetto piemontese, Olivero scrisse – nel medesimo idioma – alcuni articoli su una rivista denominata «Èl Tòr» dei quali si riportano i riferimenti a continuazione: “Omage a Federico García Lorca Tradussion an Piemontèis dal Romancero gitano”, «Èl Tòr» n°14, 1946; “Polemica gentil con la «Rivista poliglotta» di Lisbona. In margine ad alcune traduzioni piemontesi di Federico García Lorca”, «Èl Tòr» n°17, 1946 (testo scritto quale risposta al prof. Moisé Guillén Pascolato relativamente ad alcune critiche rivolte verso le sue traduzioni di opere lorchiane). Delfino segnala, inoltre, l’esistenza di altri due articoli correlati usciti su altre riviste in età successiva: “Rivive nelle danze gitane la fortuna del Romancero”; “Tra il folklore di Spagna e le suggestioni surrealistiche Fortuna agitata di García Lorca”; “Amici e nemici per il poeta Andaluso”, «La Fiera Letteraria», n°4-5, 1951 (ovvero tre articoli con quattro disegni di Lorca contenenti due suoi ritratti a opera di Gregorio Prieto, due poesie dichiarate inedite a tradotte da Olivero in italiano: “Tre storielle del vento” e “Stampa del cielo”). Seguì poi l’articolo “Federico García Lorca Poeta – Musicista andaluz”, «Musicalbrandé», n°12, 1962 (contenente alcune notizie su Lorca e la traduzione in piemontese della poesia “Se ha quebrado el sol” tradotta con “Cita romansa dla passion stërmà” il cui originale in spagnolo venne pubblicato per la prima volta da Claude Couffon nel 1962 in appendice al suo volume A Grenade sur le pas de García Lorca) e un ulteriore articolo, questa volta scritto da Francesco Tentori, in risposta a quanto precedentemente pubblicato da Olivero su Lorca che uscì su «La Fiera Letteraria», n°8 e n°10, 1951.

Questo breve studio – come si era doverosamente asserito agli inizi – non ha nessuna pretesa di esaustività sull’argomento dal momento che esistono anche in numerosi altri dialetti versioni di opere di Lorca, spesso non pubblicate con editori professionali ma con tipografie o in proprio o, nel caso di opere teatrali, vive solo per mezzo dei ricordi della rappresentazione non esistendo copie cartacee delle rispettive bozze di recitazioni. Si capisce, pertanto, anche per le ragioni addotte, come questi testi e versioni spesso risultino non di semplice recupero, localizzazione e dunque di successiva menzione o riproposizione. Quel che è certo è che Lorca fu (ed è) tradotto non solo nelle lingue nazionali ma anche nei dialetti locali, nelle parlate, in codici linguistici che non direttamente si identificano con un concetto di nazione. Questo è di ulteriore dimostrazione e della grandezza della sua opera e dell’universalità dei contenuti e dei messaggi tramandati.

LORENZO SPURIO

Jesi, 20/06/2021


[1] Un’altra poesia lorchiana tradotta da Noris (“El niño mudo”) in dialetto bergamasco (“Ol s-cetì möt”) è disponibile e ascoltabile nella versione registrata all’interno della notizia: Maurizio Noris, “El niño mudo, Ol s-cetì möt. I versi di García Lorca in dialetto bergamasco”, «Sant’Alessandro», [settimanale online della Diocesi di Bergamo], 2 maggio 2019, link: http://www.santalessandro.org/2019/05/02/so-los-dell-02-05-2019-el-nino-mudo/ (Sito consultato il 10/05/2021).

[2] In maniera più precisa si tratta del dialetto di Ruvo di Puglia (BA). La traduzione di questo testo nel volume viene posta “a confronto” con quella – dei medesimi versi – eseguita da Fernando Grignola nel suo dialetto ticinese di Agno (Svizzera) che così recita: «Quand ch’a sarò mòrt, / soteremm / cun ra mè ghitàra / sóta ra sàbia». 

[3] Una sua nota bio-bibliografica è consultabile su questi siti: https://www.archilibri.it/author-book/sebastiano-burgaretta/ e su http://www.libreriaeditriceurso.com/Burgaretta_Sebastiano.html (siti consultati il 10/05/2021).

[4] Ringrazio l’amico, il poeta e scrittore Marco Scalabrino di Trapani, grande studioso del dialetto siciliano, per avermi reso edotto di questa preziosa notizia e per avermi proporzionato le scansioni dell’immagine di copertina e della prefazione al volume.

[5] Salvatore Camilleri, Prefazione a Federico García Lorca, 70 Poesie Tringali, Catania, 1983, pp. 5-8.

[6] Sia la traduzione di Loria che il suo commento successivo sono alla data odierna inediti e l’Autore ne ha concesso l’autorizzazione alla pubblicazione.

[7] Corrado Calabrò, “Ricordando Federico García Lorca”, «La Presenza di Èrato», 4 ottobre 2017, link: https://lapresenzadierato.com/2017/10/04/ricordando-federico-garcia-lorca-di-corrado-calabro/ (Sito consultato il 10/05/2021). Testo riprodotto in Fabia Baldi, L’altrove nella poetica di Corrado Calabrò, Aracne, Roma, 2019.

[8] “Nozze di sangue in terra sarda, ecco García Lorca tradotto da Fois”, «La Repubblica», 01/12/2011, link: https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2011/12/01/nozze-di-sangue-in-terra-sarda-ecco.html (sito consultato il 18/05/2021).

[9] Maria Isabella Mininni, “Traduzioni di poeti spagnoli nel felibrismo friulano di Pier Paolo Pasolini (1945-1947)”, «Intralinea Online On line Translation Journal», 2013, link: http://www.intralinea.org/specials/article/2003 (sito consultato il 18/05/2021).

[10] «García Lorca, en cambio, me impresionó mucho menos, por ejemplo, pero Juan Ramon Jiménez y Antonio Machado han tenido una gran influencia sobre mí. En aquella época yo escribía en friulano», in “Es atroz estar solo”, Entrevista con Pier Paolo Pasolini por Luis Pancorbo, «Revista de Occidente», 1976, n°4, pp. 42-43.

[11] «Il friulano in cui Pasolini scriveva era un ibrido, né la versione già codificata della tradizione letteraria del capoluogo regionale, né il canone stabilito dal dizionario Italiano-Friulano di Pirona. Pier Paolo si basava su quello che sentiva, trascrivendo una mescolanza di friulano, di veneto e delle idiosincrasie personali in cui si imbatteva», in Barth David Schwartz, Pasolini. Requiem, Venezia, Marsilio, 1995, p. 215.

[12] Qui erano stati antologizzati i poeti: Antonio Machado, Juan Ramón Jiménez, Fernando Villalón, Rafael Villanova, Pedro Salinas, Jorge Guillén, Gerardo Diego, Federico García Lorca, Rafael Alberti, Luis Cernuda, Josefina de la Torre.

[13] Il sito è consultabile a questo indirizzo: http://www.luigiolivero.altervista.org/ (Sito consultato il 19/05/2021).


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N.E. 02/2024 – “Poesia e spiritualità, tra confronto e identità”, articolo di Valtero Curzi

Il concetto espresso nell’affermazione “Poesia e spiritualità” potrebbe essere confuso o scambiato con “Poesia è spiritualità”; ma quell’accento sulla “e”, trasformandola da congiunzione in affermazione d’identità, muta tutto il percorso concettuale che si dovrebbe prendere per parlare di Poesia. Infatti, accostare due termini (o concetti) con una “e”, congiunzione, significa oggettivarli, porli di contro, per similitudine o contrasto. Alla stessa maniera si pongono come principio identitario perché poesia è alla fine spiritualità, come espressione dello spirito. Quindi il dualismo identità-opposizione assume una dimensione concettuale che ha diverse particolarità, influenzando poi la poesia stessa come espressione della sensibilità e sentimento.

Se l’identità, nel principio cardine della logica occidentale, come vuole Aristotele, non ammette negazione, perché ciò che è se stesso non può esser altro, per contro però, proprio per dover essere se stesso, ha necessità di confrontarsi con altro, in quanto è l’esistenza di quest’ultimo a blindarlo nel suo essere assolutamente sé. Però formulare il rigido “Poesia è spiritualità” relega la poesia nel solido schema della sola espressione spirituale, intesa questa nell’interpretazione di espressione non in senso lato di espressione dello spirito, ma particolare di espressione dello spirito religioso o filosofico.

Di conseguenza dovendo poi allargare l’orizzonte interpretativo a un significato di spiritualità, ossia azione dello spirito, a ogni attività di pensiero umano, il concetto di spiritualità ne sarebbe fortemente sminuito e depotenziato come valore morale etico di vivere l’esistenza. Su questa via, percorrendola tutta, giungiamo al fondo di sostenere che la poesia al fine può non essere spirituale, nel senso di spiritualità come connotato di valore etico, ma definirsi poesia intellettiva, cioè prodotto d’intelletto e ragione e sensibilità in senso lato.

Chiariamo, ora, il concetto di “spiritualità”: particolare sensibilità e profonda adesione ai valori spirituali, in particolare l’insieme degli elementi che caratterizzano i modi di vivere e di sperimentare realtà spirituali, sia con riguardo a forme di vita religiosa, sia con riferimento a movimenti filosofici; sotto questa luce la poesia deve definirsi in canoni ben definiti e determinati. Ma se prendiamo il termine “poesia” dal latino “poesis”, e prima ancora dal derivato greco, abbiamo «fare, produrre», siamo su “capacità e “abilità” di produrre composizioni verbali in versi, cioè secondo determinate leggi metriche, o secondo altri tipi di restrizione; con un certo grado di approssimazione si può dire che il significato di poesia è individuabile nell’uso corrente e tradizionale nella sua contrapposizione a prosa, perché i due termini implicano rispettivamente e principalmente la presenza o l’assenza di una restrizione metrica. Però una poesia che si limita e rispetta restrizioni metriche, ossia di modo di esprimersi, ha necessità primaria di agire sotto l’egida e guida della ragione e forse non necessariamente della logica in quanto, attraverso la metafora può superare anch’essa, in certi limiti. Quindi deve presupporsi un qualcosa che unisca sensibilità e ragione, sentimento e coscienza critica razionale e questo ponte lo possiamo trovare nel «calcolo poetico concettuale», forma di pensiero definibile come un ossimoro, figura retorica consistente nell’accostare parole che esprimono concetti opposti, perché, in effetti, un dualismo contrario esiste.

Infatti “calcolo”, deriva da “calcolare”, ovvero determinare misure, quantità, rapporti mediante calcoli matematici, e, in senso più esteso, valutare qualcosa, metterla in conto. È una operazione transitiva di azione mentale poggiante sulla Ragione, sulla determinazione razionale di definizione logica. Il termine concetto, invece, coincide con quello di universale con il quale il soggetto crea una propria rappresentazione astratta degli oggetti percepiti ed è un simbolo mentale, tipicamente associato con una corrispondente rappresentazione in una lingua o nella simbologia. Il calcolo, pertanto, è intimamente legato al concetto di riuscire a vedere la realtà o sentirla, nel caso del discorso poetico. L’ossimoro sta nella contraddizione propria della visione di calcolo concettuale raffrontata con la poeticità, perché quest’ultima è essenzialmente facoltà della poesia, intesa sia come generica capacità creativa sia come arte letteraria e quindi tipica di ciò che ispira poesia o è degno di essere trattato in versi; attitudini proprie della dimensione sentimentale o di sentimento che nulla ha a che fare con il calcolo concettuale predefinito, sebbene anche nella poesia sia presente la concettualità come sfondo interpretativo di ciò che si vuol esprimere. 

L’incontro o scontro, quindi, fra il pensiero poetante e la poesia pensante è quel luogo in cui la Pura Emozione del sentire deve necessariamente farsi carico della sua realtà, perché non può esistere e definirsi se non si concede e accede, poi, alla materialità che la salvaguarda.

La poesia è quella forma di “esternazione” di un arcano sentire, e per “sentire” deve intendersi non ciò che i cinque sensi possono manifestare, in altre parole manifestare quel che interpretano materialmente anche se in una forma assolutamente particolare, ma piuttosto quell’“avvertire” un paradigma del vivere in una forma metafisica, oltre la fisica, e percorrerla però con quella condizione che è propria dell’ente esistenziale, cioè la ragione la quale è presa d’atto del reale contingente.

Il «calcolo poetico concettuale», pertanto, diventa l’unità di misura, e strumento di analisi e valutazione della Poesia e sue espressioni. La poesia in quel suo viaggio, fra il sentire e il dover necessariamente farsi carico del suo stato contingente di reale in cui sta, deve creare una dimensione sua, in cui interpretare un’altra realtà, questa si meta-fisica, dove la meta è oltre, altrove, e il fisico non è la realtà stessa, ma quello stato concettuale ed emozionale che decifri l’esistenza di chi attraverso la poesia comunica e trasferisce il proprio “sentimento” all’esterno di sé.

In una lettera del suo epistolario il poeta romantico inglese dell’800 John Keats si chiede se esista un luogo tra l’essere e il non essere, e se c’è, quello è il luogo della poesia. Perché se il reale non coincide con ciò che è, allora, il poeta che scrive del proprio stato guarda non in ciò che è e nemmeno in quel che non è, ma in un’altra dimensione. Lì sta la poesia! Siamo nella realtà della irrealtà della poesia.  Ed è in quello scambio di significato della “e” congiunzione con la “è” come determinazione di uno stato d’essere, il farsi esistenza di qualcosa. Per Keats, poi, la questione della Poesia è “salvezza” di compimento perché ciò che non si compie, che non arriva a manifestarsi nell’assolutezza del suo essere bellezza-verità, è fallimento; se non c’è creazione perfetta, né formazione compiuta non v’è salvezza. E questo avviene nella presa d’atto dell’Assenza e delle mancanze rispetto a un’idealità sentita e vissuta che lascia il Poeta incompiuto nella sua stessa dimensione da cui vuol uscirne. E anche in questo caso la comparazione “poesia e spiritualità” ha un suo significato profondo perché “salva” la poesia, ossia il fare, produrre del poeta in una possibilità ampia di manifestarsi in modi e forme altrettanto ampie.

Al pari la “poesia è spiritualità” chiude in rigidi schemi sia il poeta sia la sua poetica, perché non ammette diversità. Scrive sempre Keats che “il Poeta è la più impoetica delle creature” perché dovendo essere la poesia “compiuta”, che vuol dire assoluta, il poeta che non è assoluto ma mancante, non è poetico. Perché non è poesia ciò che è pensato per ricatturare ciò che è assente. Se la poesia è desiderio di ciò che non è, perché già stato, lamento di ciò che è, che è meno di ciò che speriamo, allora la poesia è impazienza del significato. L’incompiutezza cui è condannato il Poeta, per voler esprimere l’assoluto del suo sentimento e fallire in questo perché costretto a fermarsi sull’assenza e mancanza della realtà in cui guarda e sente. Ed egli, il Poeta, con la Poesia passando sopra la realtà, trasfigurandola riesce con l’immaginazione a creare una possibile realtà che seppure sia assente e mancante diviene realtà proiettata e definita. L’irrealtà della poesia diviene pertanto realtà vissuta dall’emozione del sentimento, e siccome il Poeta “vive” di emozioni, quella realtà dell’irrealtà diviene la “sua realtà”, che poi cerca di trasferirla, esternando il suo “sentire”. Passaggio, questo, dal sentire al dire, attraverso il linguaggio cui il Poeta stesso deve affidarsi per determinarlo. Ecco il significato diversivo tra la comparazione in un “e”, e l’identità di un “è”.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “Poesia e spiritualità: la ricerca interiore tra fede e laicità”, saggio di Maria Grazia Ferraris

….Ma sedendo e mirando, interminati

Spazi di là da quella, e sovrumani

Silenzi, e profondissima quiete

Io nel pensier mi fingo; ove per poco

Il cor non si spaura….

(Giacomo Leopardi)

Cercando  le definizioni di “spiritualità” nei dizionari  ci si trova immersi in affermazioni nebulose, ripetitive, generiche che concordano solo nell’eliminazione degli aggettivi  qualificativi, quali – interiore, religiosa, cattolica, laica, naturale, orientale… – e insistono sul tema della ricerca  interiore, introspettiva, presente e costante  in ogni essere umano, a prescindere dalla sua cultura, dalla sua confessione religiosa, dal suo “status” di persona e di valori, tensioni e aspirazioni, che fanno a meno  dal credere nel “Trascendente”. Si ipotizza una ricerca individuale, attingendo all’esperienza, ma anche al patrimonio di conoscenze e sapienza della società nella quale viviamo.

La spiritualità si caratterizza allora attraverso la valorizzazione del quotidiano perché nulla di quanto si vive è ‘profano’: cambia invece la condizione vitale che differenziandosi determina modalità diverse nel vivere la vita. Questa dimensione interpretativa è strettamente unita alla poesia e alle sue manifestazioni.

La spiritualità della poesia si innesta nella spiritualità del singolo e della sua vita, è ricerca che ha come fine la realizzazione di se stesso, o l’autocompimento esistenziale, la maturazione dell’esistenza, nel dialogo con gli altri e all’incontro con la dimensione religiosa, metafisica.

La filosofia del Novecento, ha rivalutato la funzione della letteratura e quindi della poesia anche ai fini del pensiero, di una riflessione radicata sulla verità e le sue ragioni.

L’affinità tra linguaggio religioso-spirituale e linguaggio poetico si rivela nel loro dimorare nelle profondità dell’esperienza umana, rasentando i confini del dicibile. La poesia restituisce, con assoluta evidenza, la complessità della vicenda umana alla ricerca dell’anima, del divino, in virtù di uno sguardo orientato oltre la successione del tempo e del visibile; uno sguardo che attraversa il silenzio, per attingere alla fonte della vita della parola.

Moltissimi i poeti che si sono espressi e confrontati sul tema. La spiritualità è il contatto con la propria umanità. La parola poetica riesce a toccare il nocciolo della verità ed è proprio questa sua capacità unica, senza eguali, che trasforma l’arte in una forma di umanesimo spirituale e, attraverso le parole, ci mostra il vero volto spoglio, duraturo e nitido delle cose. La poesia è la vera “lampada d’oro” che illumina il cammino di molti lettori che si accostano al canto di sirene delle parole. Per alcuni Autori che hanno fatto la scelta di coincidenza di spiritualità con fede religiosa, la poesia trova la sua strada maestra. È il caso di David Maria Turoldo.

La ricerca inquieta di Dio, Tenebra luminosa, l’invito alla preghiera, la natura, sono riflesso di Lui. Questi temi si intersecano nella sua poesia in un suo costume espressivo costituzionalmente severo, essenziale, garante dei valori di fondo di matrice evangelica e garantiti in qualche modo in un Friuli dalla civiltà contadina in condizioni di necessità più che di libertà. Una preghiera la sua che è un soliloquio, ma anche un dialogo col cielo. I luoghi, le persone (casa, paese, fiume, la terra, la vigna…) acquistano “il di più” di significato e valore da superare, la funzionalità contingente: “che io possa ancora vedere / il sole che sorge / una nuvola d’oro, / Espero che riluce la sera / in un limpido cielo.” È sempre sottinteso il fondo storico-sociale nella sua arpa, ma come larga cornice, di sapore biblico, come possiamo constatare in Preghiera: “…salutare il giorno/ e dare speranza agli umili / e dire insieme la preghiera….”, pur consapevole che la poesia, oltre che preghiera, vuol essere  invito gioioso al canto:

Svegliati, mia arpa,

che voglio destare l’aurora:

cantare i silenzi dell’alba

chiamare le genti sulle porte,

e salutare il giorno:

e dare speranza agli umili

e dire insieme la preghiera

del pane che basti per oggi:

allora anche i poveri ne avranno d’avanzo.

Amen.

(Poesia “Preghiera”)

Oppure il caso di Clemente Rebora, in Frammenti lirici, che Silvio Ramat definiva poesia “metafisica”, come se l’io fosse in attesa di una rivelazione vaga e indefinita, eppure aperta nel mondo religioso, nell’ora “divina” che prima o poi giungerà confortante: -spazio e tempo sospeso-, come se l’universo si fosse fermato improvvisamente e in tale condizione rivelasse il suo profondo essere permettendo di comprendere appieno il suo esistere. Allora, con l’inno alla vita, che si esprime sotto forma di inquieto fremente monologo, si scoprirà la malia del vivere, la profusione del sentimento che annulla il fastidio ripetitivo del giorno qualunque, sconfinando attraverso i palpiti fecondi nella vita profonda dell’universo:

Divina l’ora quando per le membra

Lene va il sangue, e vivere è malìa:

Nel vero effusa la persona sembra

Luce nell’aria; e ignora come sia.

Da fonti aperte nasce il sentimento

Che d’ogni cosa fa ruscello, e intorno

D’amorosa bontà freme anche il lento

Fastidio ch’erra nell’usato giorno.

Onde sconfina l’attimo irraggiato

Nel vasto palpitar che lo feconda,

E scopre il senso intenso in ciascun lato

dell’universo una vita profonda.

(Dalla poesia “Divina l’ora quando per le membra”)

La spiritualità laica o naturale che dir si voglia, attraversa il quotidiano, i nostri dubbi e limiti, come per Franco Loi in questa poesia carica di disincanto:

Siamo poca roba, Dio, siamo quasi niente,

forse memoria siamo, un soffio d’aria,

ombra degli uomini che passano, i nostri parenti,

forse il ricordo d’una qualche vita perduta,

un tuono che da lontano ci richiama,

la forma che sarà di altra progenie…

Ma come facciamo pietà, quanto dolore,

e quanta vita se la porta il vento!

Andiamo senza sapere, cantando gli inni,

e a noi di ciò che eravamo non è rimasto niente.

(Da Liber, 1988)

Loi medita sull’essere poeta oggi, sulle sue ambiguità e contraddizioni, sull’estraneità della poesia allo svagato mondo contemporaneo, sull’incertezza ed inquietudine che ne genera, coinvolgendoci nella malinconia del vivere.

Interessante ed originale l’itinerario compiuto dalle poetesse. Prima in assoluto mi sembra la poesia di Emily Dickinson, che ha un’anima grande, immensa, mai definibile una volta per tutte, perché rompe la quotidianità, le cornici, i quadri storici di riferimento che ogni critico si impegna a trovarle, inutilmente.  Sa immaginare la vita e la sua gioia, ma anche rasentare, frequentare l’assoluto, la “finita infinità”: il sovrumano, il divino, sa volare umilmente attenta nel suo giardino quotidiano, ma anche volare alto, più di un metafisico, sa vedere con occhi liberi: l’amore è assoluto, come la morte, come la poesia, “estatica nazione”.  Il quotidiano la sfiora, ma non la cattura, non l’impiglia, non la isola, non l’avvilisce. Lei sa uscire dalle sue strette, sa volare.

Non accostarti troppo alla dimora di una rosa:

se una brezza le preda

o rugiada le inonda

cadono con timore le sue mura.

E non voler legare la farfalla,

o scalare le sbarre dell’estasi:

garanzia della gioia

è il suo rischio perenne.

(c.1878)

E ancora: in se stessi bisogna cercare, camminare, scavare, unendo cuore e mente in un unico continente, inseguendo la bellezza, che “non ha causa”:

La bellezza non ha causa:/esiste.

Inseguila e sparisce.

Non inseguirla e appare.

Sai afferrare le crespe

Del prato quando il vento

Vi avvolge le sue dita?

Iddio provvederà

perché non ti riesca.

(c.186)

E conclude – le parole al minimo, lasciare parlare gli spazi bianchi – una lotta impari e improba ingaggiata con la forza della disperazione nei confronti della ultrapotente “parola”:

‘Ha una sua solitudine lo spazio

 solitudine il mare

e solitudine la morte- eppure

tutte queste son folla

in confronto a quel punto più profondo,

segretezza polare

che è un’anima al cospetto di se stessa –infinità finita 

Finita infinità.’

(c. 1695).

La più vicina al suo sentire mi sembra essere in Italia la poetessa milanese Antonia Pozzi, di cui ora è nota sia la storia umana che spirituale, rimanendo valido quello che di lei scriveva  la grande filologa Maria Corti: “Il suo spirito faceva pensare a quelle piante di montagna che possono espandersi solo ai margini dei crepacci, sull’orlo degli abissi”. Una vita brevissima, suicida a soli ventisei anni, ricca di interessi culturali, di incontri e di passioni contrastate, insopportabili nelle loro contraddizioni. Nel suo canzoniere, pubblicato postumo, vi è una continua ricerca dell’autenticità dell’esistenza nelle parole, e le parole della Pozzi, come ha scritto Montale, «sono asciutte e dure come i sassi», ridotte al «minimo di peso».

Tristezza di queste mie mani

troppo pesanti

per non aprire piaghe,

troppo leggere

per lasciare un’impronta.-

tristezza di questa mia bocca

che dice le stesse

parole tue

altre cose intendendo-

e questo è il modo

della più disperata

lontananza.

(PoesiaSfiducia”)

Eppure rimane il senso e il valore della ricerca, dell’approdo, la speranza di una risposta leggera e alla fine liberante:

[…] Ma giungerà una sera

a queste rive

l’anima liberata:

senza piegare i giunchi

senza muovere l’acqua o l’aria

salperà – con le case

dell’isola lontana,

per un’alta scogliera

di stelle – 

In Italia Alda Merini scrive poesie, specie religiose, che nascono dall’insistenza dolorosa e sincera sul tema dell’impossibilità per tutti di salvarsi dalle angosce…: “Quando l’angoscia spande il suo colore / dentro l’anima buia / come una pennellata di vendetta…”. L’angoscia è il senso refrattario di ciò che a noi è dovuto per diritto di vita. L’angoscia non nasce solo dalle frustrazioni che stimolano l’Es a procedere sul versante opposto a quello della follia. Il dualismo follia-ratio è un salto di qualità che viene molto spesso annullato dall’ambiente in cui si vive.… nel mio caso la poesia mi ha salvato la vita. Fatta a tentoni, fra mille burrasche e dimenticata da tutti… L’anima ha mille sentieri e soprattutto mille tentazioni nascoste. Se l’anima è franca, se ha conosciuto il valore e il peso della morte, conosce le radici della vita e sa che sono amare ma salutari. Non esiste una medicina né per l’anima né per il dolore, perché se il dolore è una vetta che sorge improvvisamente nel cuore, la morte cerca di renderlo eterno e di farne un languore umano. Ma la morte non è una nemica, è soltanto un grande filantropo che ama gli uomini e un grande filologo che conosce la natura delle parole. Ciò che vale nell’anima è la nudità…. L’anima ha la semplicità dell’acqua ed è la prima natura dell’uomo…”.

La raccolta Tu sei Pietro è del 1961. Nella chiusa della lirica Rinnovate ho per te, di questa raccolta, appare una straordinaria affermazione autobiografica: “Ché cristiana son io ma non ricordo/ dove e quando finì dentro il mio cuore/ tutto quel paganesimo ch’io vivo”. Nel 2002 ha pubblicato Magnificat da Frassinelli. Toccante e sincero il suo miserere:

Miserere di me,/ che sono caduta a terra/come una pietra di sogno.

Miserere di me, Signore,/ che sono un grumo di lacrime.

Miserere di me,/ che sono la tua pietà.

Mio figlio/ Grande quanto il cielo.

Mio figlio,/ che non è più vivo.

Miserere di me,/ o universo,

egli era la punta di uno spillo/l’ago supremo della mia paura.

Miserere di me/ Che sono morta con lui.

Miserere della mia grandezza,/miserere della mia stanchezza,

miserere della misericordia di Dio.

Ma il tema religioso non è mai frutto si sublimazione definitiva. Si sente infatti come “una piccola ape furibonda”, “una donna non addomesticabile”, costretta a dire la verità, pur essendo “piena di bugie”.

L’angoscia è di una puntualità incredibile: ha fatto un corso accelerato di storia e ti ripete sempre le stesse cose, non ha la minima fantasia. E se tu chiedi all’angoscia: Dov’è tuo fratello? L’angoscia ti risponde puntualmente: sono io il custode di mio fratello. E finalmente, dopo queste parole auliche, tu entri profondamente nella Bibbia e scrivi il Magnificat.”

Tra le poetesse contemporanee riserverei un posto privilegiato a Louise Glück, premio Nobel per la letteratura 2020. È straordinaria per la sua originalità poetica la raccolta che l’ha resa famosa anche in Italia: L’Iris selvatico, un libro complesso e denso che è un dialogo tra i fiori del giardino, il giardiniere e Dio. La Glück non è particolarmente credente, ma sa trasformare il  vissuto soggettivo in una ‘metafisica del quotidiano’, come in questa straordinaria dolorante severa e spoglia preghiera-confessione:

Padre irraggiungibile, quando all’inizio fummo

esiliati dal cielo, creasti

una replica, un luogo in un certo senso

diverso dal cielo, essendo

pensato per dare una lezione: altrimenti

uguale… la bellezza da entrambe le parti, bellezza

senza alternativa… Solo che

non sapevamo quale fosse la lezione. Lasciati soli,

ci esaurimmo a vicenda. Seguirono

anni di oscurità; facemmo a turno

a lavorare il giardino, le prime lacrime

ci riempivano gli occhi quando la terra

si appannò di petali, qui

rosso scuro, là color carne…

Non pensavamo mai a te

che stavamo imparando a venerare.

Sapevamo solo che non era natura umana amare

solo ciò che restituisce amore.

(Poesia “Mattutino”)


Bibliografia

Dickinson Emily, Poesie di E. Dickinson, traduzione e note di M.  Guidacci, BUR, 1996

Dickinson Emily, Tutte le poesie, “I Meridiani”, Mondadori, Milano, 1997

Glück Louise, L’iris selvatico, traduzione di Massimo Bacigalupo, Il Saggiatore, 2020

Glück Louise, Ricette per l’inverno dal collettivo, traduzione di M. Bacigalupo, Il Saggiatore, 2022

Loi Franco, Liber, Garzanti, 1988

Loi Franco, Poesie scelte e breve nota bibliografica, a cura di Nelvia Di Monte, 2021

Merini Alda, Il suono dell’ombra. Poesie e prose 1953-2009, a cura di Ambrogio Borsani, Mondadori, 2009

Merini Alda, Magnificat. Un incontro con Maria, Ed. Sperling & Kupfer

Merini Alda, Tu sei Pietro, All’insegna del pesce d’oro, Scheiwiller, Milano, 1962

Pozzi Antonia, Parole. Tutte le poesie, a cura di Graziella Bernabò e Onorina Dino, Milano 2015

Pozzi Antonia, Poesia che mi guardi. La più ampia raccolta di poesie finora pubblicata e altri scritti, a cura di G. Bernabò e O. Dino, con approfondimenti critici, Luca Sossella Editore, Bologna 2010

Rebora Clemente, Frammenti lirici, 1913

Rebora Clemente, Frammenti lirici, a cura di G. Mussini, Interlinea, 2008

Turoldo David Maria, Dialogo tra cielo e terra, a cura di E. Gandolfi Negrini, Piemme, 2000

Turoldo David Maria, Diario dell’anima, San Paolo, 2003.

Turoldo David Maria, Il dramma è Dio: il divino la fede la poesia, Milano, BUR, 2002

Turoldo David Maria, Nel lucido buio. Ultimi versi e prose liriche, Milano, 2002



Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “La religiosità spirituale nelle opere delle poete lucane: da Isabella Morra ad Anna Santoliquido”, saggio di Francesca Amendola

L’opera di un poeta è fusione totale tra parole e immagine, che origina quello che Bachelard chiama retentissement, ossia  la capacità della poesia di creare una sorta di “vicinanza”  tra poeta e lettore, che mette in moto l’attività di comprensione e interpretazione. Petrarca scriveva che «la poesia, in quanto vera poesia, è sempre sacra scrittura» poiché nasce da una commistione tra ispirazione e sentimento del divino. Anche quando il poeta non tratta esplicitamente il tema religioso (qualsiasi sia la sua confessione) vi è sempre una fortissima tensione spirituale, non a caso «nel tempo della notte del mondo i poeti, cantando, insegnano il sacro» (Heidegger). Proprio Heidegger parlava della funzione della poesia come forma di conoscenza. Infatti nell’antica Grecia il poeta era l’hermeneutès, ossia l’intermediario tra gli uomini e l’Olimpo ed era l’interprete dei presagi degli Dei. La poesia perciò era parte integrante della religione e della vita spirituale.  Nasce dal “fondo profondo” (E. Montale) e nel silenzio interiore il poeta coglie il senso del mondo e lo porta in superficie attraverso la parola. Ma «i poeti non accendono che lampade essi poi spariscono» (Emily Dickinson) nel senso che il poeta non parla per sé ma per gli altri. Ne segue che l’attività poetica dà volto alle cose e rende libera la mente, aprendola alla conoscenza del mondo e alla verità dell’Essere Supremo, che è Dio, inizio e fine di ogni cosa creata.

La vita è amore e se «l’amore è movimento», secondo il pittore E. Tomiolo, verso gli altri, verso se stessi, verso la natura, verso Dio, è proprio l’amore negato che spinge la lucana Isabella Morra[1](vissuta nel Cinquecento) ad alzare un grido straziante contro l’universo per il padre lontano,[2] contro il «Torbido Siri»,[3] contro i «fieri assalti di crudel Fortuna».[4] Crollati tutti i miti: il desiderio di trovare un amore o una ragione per vivere nelle lande solitarie e ostili di Valsinni, trovò conforto in Cristo e nella Vergine. Non a caso Il Canzoniere di Isabella Morra, come quello di Petrarca, si conclude con la canzone alla Vergine. Isabella delusa e ormai libera dalla zavorra della vita, abbraccia il mistero di Cristo e in Lui proietta i suoi desideri identificandosi nella peccatrice Maddalena, redenta e pentita e con «la mente rivolta «a la Reina del Ciel, / con vera altissima umiltade»[5], l’anima si porge alla contemplazione di Dio. L’incontro con la dimensione religiosa, metafisica, le dà certezza che esiste un mondo alternativo a quello nel quale vive.  La sua poesia è parte integrante del suo breve percorso di vita, che la guida e la sostiene nella solitudine sia nel dialogo con la natura aspra e selvaggia, sia con l’unica amica: Antonia Caracciolo, moglie di Diego Sandoval De Castro, ritenuto a torto dai fratelli, suo amante.

Ben diversa è la poesia di Aurora Sanseverino[6] (vissuta nel Settecento), una delle poche donne, che fece parte dell’Arcadia con il nome di Lucinda Coritesia. Le sue poesie non vanno al di là di una pura esercitazione letteraria; in esse la spiritualità e la religiosità sono improntate dall’esteriorità. Non analizza l’angoscia e la ricerca della pace contro «gli aspri martiri»[7] non nasce dal senso vertiginoso di vuoto, che distende la sua poesia fino al grido, allo spasimo, al pianto. Non c’è vera sofferenza e il “male di vivere” è una finzione, espressa in moduli leggeri, musicali appena increspati di malinconia. Il sentimento è distaccato e astratto e si apre a un gioco di parole secondo i modelli dell’Arcadia. Le lande sconfinate dell’entroterra lucano, che fanno da sfondo ai suoi sonetti e canzoni, appaiono irreali e artificiosi; uno scenario perfetto per una narrazione idilliaca di un mondo fiabesco, e il concetto di solitudine è ben lontano da quello straziato di Isabella Morra.  Le poesie utilizzano un linguaggio semplice, musicale a tratti lezioso, in obbedienza al tòpos classico del «luogo ameno». Figlia del secolo e della cultura dei Lumi, Aurora non sente la tematica del trascendente e Dio è inteso semplicemente come un Essere Supremo, secondo il dettame del sensismo. Gran parte della sua produzione di liriche, ballate, melodrammi è andata perduta e i pochi sonetti conosciuti hanno portato la critica letteraria a dire che il suo lavoro è «non godibile e sostanzialmente artefatto».

L’isolamento e l’essere “figlia di una regione derelitta” qual era la Basilicata, dominio per secoli di “ignominioso servaggio”, porta la potentina Laura Battista[8] (Ottocento) a una consapevolezza dei problemi politici, sociali e storici della sua regione. Colta e raffinata al pari del Leopardi, del quale fu seguace, ebbe per opera del padre uno studio «matto e disperatissimo», che la portarono giovanissima a scrivere di greco, di latino, di tedesco e di francese. I Canti[9], ottanta componimenti in tutto, si muovono dalla sfera pubblica a quella privata. La passione politica spingeva la Battista a partecipare agli avvenimenti della nazione, dall’altro premeva il suo disagio esistenziale, soprattutto per la sua relegatio a Tricarico. La sua è una poesia d’occasione, legata agli avvenimenti, espressi spesso con un linguaggio religioso e enfatico, infatti usa per Garibaldi i termini «Redentore dei popoli», «Divino». I sonetti, ben costruiti tra retorica celebrativa e patriottica nell’esaltazione del momento, si spiegano come un brindisi e perciò risentono di una certa monotonia. Diventa la sua spiritualità autentica nelle liriche soggettive e private, che toccano i sentimenti di donna e di madre, che vive una condizione di solitudine in una casa senza amore e in un paese senza prospettive.

Poche son le donne che assurgono agli onori della gloria letteraria, come scrive in una lettera Laura Battista, ma «la donna o villipesa o trascurata presso le nazioni rozze di qualsivoglia età […]  non poteva[…] rimanere addietro, quasi non fosse anch’essa creatura di Dio».[10]

Poete e scrittrici da ogni parte del mondo e, dalla Basilicata, terra negletta e isolata, faranno sentire nel Novecento, la loro voce a cominciare dalla compianta Giuliana Brescia[11] definita la “Saffo lucana”. La sua poesia altalenante tra male di vivere, angoscia e senso ineluttabile della morte, abbraccia temi che la collocano molto vicina a Isabella Morra per il senso profondo d’inquietudine. In una poesia pubblicata postuma vi è tutta il dolore del male di vivere, che nasce da una sorta di prigionia psicologica, manifestatasi fin dall’adolescenza. Scriveva: «Passata la vita per me / finito il domani / le porte son chiuse / serrate / mi resta soltanto nel fianco / lo spasimo acuto di un male che è ancora / la vita». Una religiosità laica e mai confessionale contraddistingue le sue poesie, che nascono dai sogni che si scontrano con una realtà dura e problematica. Il linguaggio è semplice ma musicale e armonico fin dalle poesie giovanili. Si chiude nella sua “tela di vagheggiamenti” nei silenzi assordanti, nelle illusioni del vivere quotidiano, dove i «sogni si son persi / nel deserto desolato della realtà». Le liriche (Poesie del dubbio e della fede, Versi affiorati dai cassetti) delicate e ricche di forza interiore, diventano a tratti tenere proprio quando si chiude nell’intimismo, che riverbera su una natura umanizzata alla Pavese, al quale è accomunata dalla scelta del tragico destino. Nell’angoscia esistenziale àncora è la parola poetica, adulata, blandita, ricercata, che accende la speranza; ma essa è illusoria e non riempie quel vuoto straziante, che la porterà a porre fine alla sua breve vita.

Per  la poesia di Lorenza Colicigno[12]sono appropriate le parole di Montale «ogni volta che trovo in questo mio silenzio una parola, scavata è dentro di me come un abisso», perché le sue  liriche nascono da un profondo silenzio interiore, dove trova il senso religioso del mondo. La poesia si dispiega come preghiera perché indaga nel fondo delle cose e porta a galla l’inesprimibile.  Ma il poeta è colui che più degli altri porta nell’anima la propria terra. Si parla di poeta come del cantore di una geografia umana. Egli erige modelli, mappature, carte del proprio luogo per affermarne l’appartenenza, creando una sorta di «paesologia» (Franco Arminio) che è una forma di etnologia del paesaggio, di cui il poeta ne dà espressione. Il bello è che la paesologia non studia un paese, l’annusa, l’ascolta proprio come fa Lorenza con la sua città, Potenza: ne rende l’energia della case arroccate sulle montagne; s’immerge nella vita della città, nelle scale mobili, che salgono quasi fino al cielo; canta la «debolezza / dei vecchi e la baldanza degli adolescenti» (in Ritorno); si chiude, solitaria spettatrice, dietro una finestra o un terrazzo a scrutare l’orizzonte, che si allarga sulla valle dove il «Basento insegue albe e tramonti / e ascolta il brusio della città che lo stringe / nell’abbraccio schiumoso della sua / modernità di ciottoli e lattine»[13] e scorre sonnolento e acquitrinoso. Contempla la città da un cantuccio solitario, dove l’«aria natia», per dirla con Saba, o la «matria»[14] è pregna di gioia e dolore insieme.

Anche per Amalia Marmo[15] il compito della poesia è scavare nel profondo dell’anima ed enunciare attraverso la parola la verità. «Vedere il mondo in un granello di sabbia» per dirla con William Blake, è questo il senso dell’estro creativo. La ricerca del ‘meraviglioso’, tanto caro a Novalis»[16] che porta a Dio, così presente nell’universo, è la missione del poeta. Le sue liriche nascono dal «sapore della terra» e dal «la salsedine del mare»[17]. La parola poetica c’immette nel ‘mistero’, che è simile all’”Inconoscibile” di Spencer: una realtà assoluta che la ratio umana non può raggiungere. Il genio creativo ci fa immergere nelle acque del subconscio e riemergere “illuminati” di una verità da divulgare. La poesia per la Marmo «altro non è / che ignara ispirazione. / Un eterno aiutante / un profeta o un indovino / senza mete o ragione».[18]  La poeta sarà sempre «sentinella costante» della «memoria lirica»[19]. Filtra la ragione con il cuore, intessendo una poesia che è «distillato di vita, quasi peccato / d’intelletto tolto al tempo / per stupire se stesso e l’universo /e chiuderlo in un pugno di mistero»[20]. Il mistero non è quello religioso ma qualcosa che supera l’umano intendimento. Crede in Dio e nell’immortalità dell’anima. Ha certezza in una vita futura. Il mondo, la natura, gli accadimenti sono aspetti diversi dell’universale mistero.

L’acuta sensibilità e lo scavo interiore di Rosalba Griesi[21] danno origine a quell’inquietudine esistenziale, ordita su interrogativi ontologici, che si mescolano ai sogni quasi invisibili, alle luci lievi della speranza. L’atmosfera spirituale si riverbera sullo spettacolo della natura, sui suoi colori cangianti: dagli «spruzzi di giallo»[22] delle mimose al «bianco immacolato» delle zagare; dall’arancione delle margherite al verde dei campi, simili al mare. Il dettato lirico fluisce a volte delicato e sinuoso, altre prorompente e impetuoso nello scandagliare gli oscuri anfratti o gli abissi o i campi brulli per comprendere la sofferenza e riemergere rinnovato e dispiegare «parole taciuta / parole serrate / parole nel cuore posate / […] parole donate»[23]. Rosalba si eleva dal paesaggio naturale della terra a una riflessione escatologica, che richiama il senso della vita e la tensione dell’uomo verso l’Assoluto, che è Dio-Provvidenza di manzoniana memoria. La sua religiosità è priva di fronzoli e si distende in note scarne, quasi epigrammatiche.

Le liriche di Rosa Pugliese[24] s’inseriscono nella poesia civile, poiché sono denunzia, accusa contro l’umanità “liquida” e l’io lirico sembra arrestarsi fiaccato dagli avvenimenti della storia, dal tempo, che vorrebbe fermare nelle scatole di latta, dove trovare «una carezza materna»[25]. Le poesie nascono dall’incanto e il superamento e il dominio del dolore lo trova nella contemplazione di armonie cosmiche e naturali. La letizia travalica il vortice dell’angoscia nella magia dell’infanzia o dei luoghi amicali; nel gioco della vita; nello scorrere del tempo in stagioni e in ore, e nella Bellezza, che ancora una volta salverà il mondo. Scriveva Pablo Neruda «La poesia è un atto di pace / Di pace è fatto il poeta come di farina il pane» e la poesia per Rosa Pugliese è un atto di pace, poiché prende tutto il dolore del mondo e lo placa proprio come il fiume che s’infratta tra dirupi e forre per sfociare lento e placido nel mare. La Nostra trae dalla sofferenza l’energia creativa e la elabora superando lo stretto orizzonte provinciale per cantare il dolore della gente costretta a emigrare nei barconi. La poesia è voce dell’anima e noi diventiamo «tratturi di campagna / solcati dalla terra che li ha generati», o fiori di malva, germinati nella terra, crepata dal gelo.

Il testamento letterario e umano di Anna Santoliquido[26] è tutto racchiuso nelle sue numerose raccolte: da I figli della terra del 1981, nella quale la poesia nasce dalle vallate di ginestre e malvarose, dai campi biondi di grano e rossi di papaveri della sua Forenza, fino a Profetesha / La Profetessa, pubblicata in Albania nel 2017, dove sperimenta la dolcezza e la generosità della gente, che le riportano alla memoria i luoghi e le donne della sua infanzia. I versi limpidissimi e rigorosi aprono al lettore una nuova percezione dell’uomo, che sente l’altro non più nemico ma fratello. È questo il grande dono della poesia. «Che cosa può dare / agli altri un poeta?» si chiede la Santoliquido. Egli dona il cuore per amare, gli occhi per vedere, gli sguardi sereni, un pugno di pace.  Ed è la speranza che non l’abbandona, impegnata in una continua analisi e ricerca interiore. Sa che oltre le esperienze e le prove della vita, in fondo c’è sempre un raggio di luce, che illumina e dà forza.  Ricompone il conflitto che è alla base dello smarrimento spirituale della nostra società, alla quale manca quel “sapere dell’anima”, che oltrepassa e fonde umano e soprannaturale, sapere scientifico e visione poetica. È sorretta nel cammino elegiaco dalla fede, è questo il varco (Montale), che cancella la distanza dalla trascendenza e immanentizza l’ebbrezza ontologica e, come Sant’Agostino, supera la lacerazione tra materia e spirito. Il poeta attinge all’Assoluto e «offre parole / parole incarnate». È simile al Demiurgo platonico, creatore della realtà, che ci porta fuori dal “caos primordiale”. Diventa divulgatore di pace nel mondo e nell’anima, ma è anche colui che «muore da solo». È la forza eternatrice della poesia, di foscoliana memoria, che lo ferma «al limitar di Dite», ad afferrare la luce e liberare il canto. Il suo lavoro è simile a quello della Sibilla, il mito di cui ci parla Virgilio nell’Eneide. La profeta ispirata da Apollo, trascrive le profezie del Dio sulle foglie, che il vento disperde. Il rito rivela la missione di intermediario del vates, spesso inascoltato, tra il mondo della verità e quello degli uomini. Egli è il porto sepolto, come diceva Ungaretti, e nel profondo scopre l’inesauribile segreto, i misteri inenarrabili che il soffio del vento disperde anche se le parole sono portate dall’angelo. Anna è poeta sempre, sotto il cielo di Puglia e della Lucania, ma anche «a Belgrado e a Zagabria». I versi scaturiscono dalla sua capacità di andare dal vicino al lontano, dal microcosmo al macrocosmo. L’ispirazione nasce perché, «è l’angelo a portarmi le parole / le lascia nei vasi rotti / il vento le disperde […]»[27] e lei come una sacerdotessa vaticinante le raccoglie in «una forma di preghiera» (Kafka). Ci introduce in un mondo d’incanti quando scrive «Com’erano / piene / le mani / nodose / di mio nonno / quando / con voce roca / ma gentile / mi donava /un pugno / di noci / o di castagne»[28] o quando tratteggia in un distico toccante il ritratto della madre «Se solo potessi catturare / il sorriso delle sue rughe!»[29]. La poesia della Nostra colpisce per la forte empatia con il lettore, poiché è sempre aperta alla speranza, all’adesione con il mondo in cui vive, a nutrire attese per il futuro sulla rievocazione delle bellezze di un passato vissuto e assaporato. Il ruolo del poeta nella società è di pace perché come lei stessa scrive «è colui che porta in tasca l’universo». Egli parla una lingua nuova, toccante, rivelatrice: quella dell’anima. Per la Santoliquido valgono le parole del poeta dell’invisibile, Rilke, «Noi siamo le api dell’invisibile. Noi raccogliamo incessantemente il miele del visibile per accumularlo nel grande alveare d’oro dell’invisibile»[30].


[1] Isabella di Morra, conosciuta come Isabella Morra, nata a Favale nel 1520. Visse in solitudine sotto la prepotenza dei fratelli e segregata nel proprio castello, dove scrisse l’opera letteraria, Il Canzoniere, formato da dieci sonetti e tre canzoni. La sua breve vita si concluse con il suo assassinio, nell’inverno del 1545 o 1546, da parte dei suoi fratelli a causa di una presunta relazione clandestina con il barone Diego Sandoval de Castro, poeta di origine spagnola e barone della vicina Nova Siri, anch’egli qualche mese dopo subì la stessa fine. Quasi sconosciuta in vita, Isabella di Morra acquistò una certa fama dopo la morte, grazie agli studi di Benedetto Croce, e divenne nota sia per la sua tragica biografia sia per la sua poetica, tanto da essere considerata una delle voci più autentiche della poesia italiana del XVI secolo, nonché una pioniera del Romanticismo. Non si conoscono notizie inerenti alla sua vita precedente e alla biografia della famiglia Morra, dal titolo Familiae nobilissimae de Morra historia, pubblicata nel 1629 da Marcantonio, figlio del fratello minore Camillo.

[2] Giovan Michele di Morra riparò a Parigi, accusato di una congiura contro la corona, affidando la moglie, Luisa Brancaccio, e i cinque figli, Decio, Cesare, Fabio, Porzia e Isabella, a Marcantonio il fratello maggiore, uomo violento e rissoso.

[3]  I. Morra, Torbido Siri, in Isabella di Adele Cambria, edizione Osanna, Venosa 1996, pp. 65/64.

[4]  Ivi, I fieri assalti, pp. 45/46.

[5]  Ivi, XIII Quel che gli giorni a dietro, pp. 87/92.

[6] Aurora Sanseverino nacque a Saponaria nel principato di Citra (l’odierna Grumento Nuova, in Basilicata) nel 1669 e morì a Napoli nel 1726, da Carlo Maria principe di Bisignano e conte di Saponaria e Chiaromonte e Maria Fardella contessa di Paco.  All’età di 11 anni, sposò il conte Girolamo Acquaviva di Conversano, ma il matrimonio durò solo pochi anni per la morte prematura del marito. Ritornò a Saponaria per un breve periodo e compì diversi viaggi con il padre, a Palermo e Napoli. Un secondo matrimonio avvenne il 28 aprile 1686 con Nicola Gaetani dell’Aquila d’Aragona, conte di Alife, duca di Laurenzana e principe di Piedimonte. Dopo il matrimonio, si trasferì nella dimora del marito a Napoli, città all’epoca caratterizzata da un’intensa vita culturale. Nella sua casa napoletana ospitò vari poeti, musicisti e pittori, dando così vita a un noto salotto letterario. Oltre alla letteratura, fu un’abile cacciatrice, partecipando a battute di caccia al cinghiale sui monti del Matese. Fece parte dell’Arcadia con il nome di Lucinda Corinesia.

[7] Aurora Sanseverino, Ben son lungi da te, vago mio nume, in Scrittori lucani, Consiglio Regionale della Basilicata.

[8] Laura Battista nacque a Potenza nel 1845, figlia di Raffaele Battista di Agrigento e di Caterina Atella da Matera. Il padre fu un insegnante di lettere e segretario perpetuo della Società Economica di Basilicata e consigliere provinciale di Matera. Raffaele insegnò Latino e Greco presso il Real Collegio di Basilicata a Potenza, dal quale fu espulso a causa del suo orientamento Liberale, poiché l’istituto fu affidato alla direzione dei Gesuiti. Egli poté riprendere a insegnare solo dopo l’Unità d’Italia e, quindi, dopo la scomparsa del regime borbonico. Nel 1871, in seguito la famiglia si trasferisce a Matera, per le persecuzioni di cui fu oggetto il padre per le sue posizioni politiche, divenne consigliere provinciale della Basilicata. Autore di studi e inchieste sullo stato dell’economia agraria della provincia, era un fine latinista e autore di traduzioni e fu il primo e, per molto tempo, l’unico maestro di Laura. Ella insegnò per breve tempo nel convitto femminile di Potenza. Ben presto abbandonò l’insegnamento sia per la salute cagionevole sia per aver sposato il conte Luigi Lizzadri di Tricarico, dove si trasferì.

[9]  G. Caserta, Laura Battista, Canti, per i  tipi di Conti, Matera 1879.

[10]  G. Caserta, cit. L. Battista, Potenza 22 marzo 1875 Direzione Della Scuola Normale Femminile di Basilicata, p. 153.

[11]  Giuliana Brescia nacque a Rionero in Vulture nel 1945 e morì suicida a Bari dove viveva con il marito e la figlia, nel 1973. Nel 1962 le fu assegnato a Napoli il premio La maschera d’oro. Le sillogi sono state pubblicate postume: Poesie del dubbio e della fede, Versi affiorati dai cassetti.

[12]  Lorenza Colicigno nasce a Pesaro nel 1943 e vive a Potenza. Insegnante di Lingua e Letteratura Italiana, ha lavorato in radio e televisione a Roma e Potenza. Ha pubblicato: Questio de silentio (1992) Canzone lunga e difficile (2004), Matrie (2017), Cotidie (2021). I suoi scritti si trovano in antologie e pubblicazioni.

[13]  Lorenza Colicigno, Potenza e velo, in Cotidie, Manni Editore, Bari, 2021, p. 5.

[14]  Il termine è tratto dal latino mater matris, terra madre, termine utilizzato per la prima raccolta.

[15]  Amalia Marmo nata a Miglionico (MT) nel 1948, vive a Marconia di Pisticci (MT). Laureata a Napoli in Lettere classiche. Ha avuto molti riconoscimenti letterari. Ha pubblicato raccolte di poesie e romanzi.

[16]  Novalis affermava «La nostra vita non è ancora un sogno, ma sempre più deve diventar tale».

[17]  Amalia Marmo, Indenne paradiso perduto,  in Il vento leggerà Gradita Sinfonia, Edizioni Setac, Pisticci, 2015, p. 30,

[18]  Ivi, Visione furtiva, p. 27.

[19]  Ivi, Sentinella, p. 25.

[20]  Ivi, un pugno di mistero, p. 34,

[21]  Rosalba Griesi nasce a Palazzo San Gervasio, dove vive e lavora, nel 1958. Ha pubblicato: Il viaggio (2004), Nel mare del tempo (2011), Natale e dintorni (2014), Nicol ali di farfalla (2015), I racconti di nonna Peppa (2017). Le sue liriche e racconti sono stati inseriti in diverse antologie.

[22]  Rosalba Griesi, Mimose, in Nicol ali di farfalla, LuogInteriori, Città di Castello (PG), 2015, p. 39.

[23]  Ivi, p. Le mie parole, p.79.

[24]  Rosa Pugliese nasce a Zurigo nel 1965 e vive a Venosa (PZ). Si laurea in Lingue Straniere. Ha pubblicato due raccolte di poesie: La strategia della formica (2019) e La tana del riccio (2022). I suoi lavori sono pubblicati in varie antologie.

[25] Rosa Pugliese, Colleziono scatole di latta, in La strategia della formica, scatole parlanti edizioni, Reggio Calabria, 2019, p. 21.

[26]  Anna Santoliquido, nata nel 1948 a Forenza (Potenza), vive a Bari. Ha pubblicato le raccolte di poesia: I figli della terra (1981 – Premio Città di Napoli), Decodificazione (1986), Ofiura (1987), Trasfigurazione (1992), Nei veli di settembre (1996), Rea confessa (1996), Il feudo (1998), Confessioni di fine Millennio (2000), Bucarest (2001), Ed è per questo che erro (2007), Città fucilata (2010), Med vrsticami/Tra le righe (2011), Quattro passi per l’Europa (2011), Casa de piatrǎ/La casa di pietra (2014), Nei cristalli del tempo – poesie per Genzano (2015), Versi a Teocrito (2015), I have gone too far (2016). Ha pubblicato anche un volume di racconti e ha curato diverse antologie, tra le quali Zgodbe z juga – Antologija južnoitalijanske kratke proze (2005). È autrice dell’opera teatrale “Il Battista”, rappresentata nel 1999. Ha fondato e presiede il Movimento Internazionale “Donne e Poesia

[27] Anna Santoliquido, Incontri, in  Ed è per questo che erro, Smederevo, 2007, p. 9.

[28]  Anna Santoliquido, Mani nodose, in Figli della terra, Fratelli Laterza editore, Bari, 1981, p. 27.

[29]  Ivi, Mia madre,p.38.

[30] R. M. Rilke, dalla lettera al suo traduttore polacco Vitold von Hulevicz del 13 novembre 1925


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “La poesia realistico-simbolica di Josè Russotti”, saggio del prof. Giuseppe Rando

La vasta produzione poetica – in dialetto messinese (di Malvagna) e in lingua italiana – di Josè Russotti (31 marzo 1952 – Ramos Mejìa – Argentina) appare fortemente omogenea sul piano tematico ma assai diversificata sul piano stilistico-linguistico (per peculiarità che sono tutte da verificare) e come attraversata da una perenne, progressiva ricerca espressiva: opera, senza meno, in fieri di un poeta che mira sagacemente alla conquista dello stile.

Il poeta di Malvagna esordisce nell’arengo poetico con una vibrante, commossa raccolta di poesie dialettali (con traduzione italiana a piè di pagina), Fogghi mavvagnoti,[1] che dell’«opera prima» possiede tutti crismi (sviste e refusi compresi). Vi si percepisce, immediatamente, l’amore viscerale di Russotti per il paese della sua infanzia – vero e proprio leitmotiv – tuttavia frustrato dalla delusione per quella che pare un’irreversibile sparizione: «Urìa stari ‘ssittatu subbra un furrizzu ‘i ferra / a menzu â campagna ciuruta di Pìttiri. / […] Ma non c’è vessu e modu di nuddha manera / ‘i truvari u sint’ri chi carusu avìa scapicciatu» (Urìa stari);[2] e ancora: «Lucia di centu dottrini, / non vidi chi stu paìsi pinìa / e mòri senza na raggiuni?» (Donna Lucia Pantano).[3]È forte, invero, il disappunto dell’io poetante per l’attuale vita-non vita del paese «china di lazzi e ruppa» e il suo desiderio inappagato di «nnèsciri ô chianu» (Mi veni iàddita).[4] Trapela anche nettamente, nella raccolta, la sensibilità sociale di Russotti per le sofferenze degli ultimi (Canzuni pi un drogatu, Turi Cacotta, L’emigranti), accentuata dal suo tormento di figlio desolato dopo la morte del padre (U scontru) e della madre (E jò chi n’ha vistu mòriri mai a nuddu, 7 febbraio ’99). Trascorre peraltro nei testi, per brevi cenni, tra immagini di crudo realismo, qualche lieve meditazione sui grandi temi del bene e del male, del tempo irrevocabile, della vita che fugge, della morte che incombe (Parori, Ora mi veni, Don Micu Scrofani, Acqua chi scenni e s’incanara, Comu attenti suddati). E ritorna sovente, per concreti, espliciti riferimenti, l’attaccamento carnale, sensuale del poeta all’amore (U nsonnu, Chi nostri cori, A surgiva, Quanti uòti, Niàutri dui).

Sul piano linguistico-stilistico, Fogghi mavvagnoti è, però, a tutti gli effetti, un’opera radicalmente intessuta di termini, locuzioni, stilemi popolari rimemorati agevolmente dal poeta di Malvagna e trasposti felicemente sulla pagina con i loro forti accenti realistici, senza particolari mediazioni autoriali che non siano quelle relative all’armonia, al ritmo, alla testura dei versi, che paiono, invero, «senza tempo tinti». Talché, parafrasando un titolo di Marcuse, questa prima raccolta di Russotti, parrebbe «a una dimensione»: quella realistico-referenziale della poesia dialettale tout court. Si rilegga, a conferma, la prima strofa di Spondi dill’Alcantara: «Uci di fìmmini si lèunu / ndê spondi dill’Alcantara. / Uci di matri patuti / che càntunu chini di prèjiu / vannu dritti e vagghiaddi / chî so’ cufini subbra a testa»,[5] dove la precisione dei dettagli non differisce punto da quella che si può ritrovare in un saggio di antropologia culturale o, meglio, nel quadro di un pittore realista, come Courbet.

La raccolta di poesie in lingua italiana, Spine di Euphorbia, pubblicata, quindici anni dopo[6], contiene liriche che si muovono nello stesso ambito tematico-contenutistico della precedente, ma appare del tutto nuova sotto il profilo stilistico. C’è, invero, un salto tra Fogghi mavvagnoti e Spine d’Euphorbia che non si spiega solo col cambiamento del codice linguistico (dal dialetto mavvagnotu alla lingua italiana) e con il lungo intervallo tra l’una e l’altra, ma presuppone una radicale svolta, se non una rivoluzione effettiva, nella maniera d’intendere e praticare la poesia, da parte di Josè Russotti, che sembra ora privilegiare la dimensione metaforico-simbolica dei testi, probabilmente mutuata dalla lettura dei poeti maggiori del Novecento (García Lorca in primis, già ricordato dallo stesso Russotti nella prima raccolta, i maudits francesi nonché gli italiani ermetici e post ermetici, conosciuti in occasioni non programmate),[7] ma fatta propria dal poeta nei modi entusiastici del neofita che idoleggia il tesoro di cui è venuto in possesso, cavandone impensate potenzialità espressive. Vale la pena di rileggere la prima lirica della raccolta, Madre sola, dove il flusso continuo di metafore, similitudini e simboli, senza annullare la realtà e conservando un altissimo grado di leggibilità, concorre a un canto-pianto che riesce a sfiorare le vette del sublime: «Madre di nulla vestita! // Vestita del tuo dolore che è pianto / del tuo lamento che è canto / Madre senza neppure aspettare / e quasi alla fine dei miei passi / ti riscopro brace per l’inverno inoltrato […] All’ombra dei tuoi capelli argentati / diventavo quieto come un agnello / e ambivo le carezze della notte […] Madre di nulla vestita. Madre da sempre sola / adesso ti rincorro nei rimpianti della sera».[8]

Non mancano, invero, nella raccolta, casi di iperfigurativismo (da neofita), in cui le metafore si susseguono di verso in verso, senza riuscire a essere illuminanti: «Dentro un fuoco di lava / appaio sconfitto e detestabile/ e tale perduro // Gli occhi in lutto / bagnano l’ossario aperto / di filo spinato // Si taglia a fette / questa piaga immensa / dentro un sogno di latta / che non trova nei ricordi / un qualsivoglia riscontro // I morti / giacciono in me» (I morti giacciono in me).[9] Ma bisogna riconoscere che il poeta, in Spine di Euphorbia, riesce, perlopiù, a combinare in un’armonica cifra stilistica, il piano realistico (degli affetti familiari, della vocazione sociale, dell’amore-disamore per il paese di origine), e il piano simbolico-metaforico della poesia novecentesca, conseguendo altissimi livelli poetici. Basti ricordare A Very, All’alba di un giorno qualsiasi, A-sintonie instabili, Con l’attesa ferma nel cuore, Disomogenie malvagnesi, Graffio l’angolo di vetro, I negri invisibili, L’ultimo passo (a Sebastiano, mio padre), Mai t’amai così teneramente, Noi chiedevamo solo amore, Non piangere per me Malvagna, Se vuoi infrangere, Sul filo amaro della vita, Vegeto in una crepa di luna, Vòlto a scavare. La scoperta della dimensione metaforica della poesia produce peraltro un altro notevole scatto, rispetto alle raccolte precedenti, in Spine d’Euphorbia, dove l’amore della donna amata, si traduce in immagini della natura circostante che, a loro volta, prefigurano modi pensosi, drammatici dell’Essere all’insegna della precarietà, della provvisorietà, se non della insignificanza del mondo. (Avvinto, Ci sorridemmo, Del tuo tenue sapido effluvio, Eri qui, Nudo amore, Spine d’Euphorbia, Steli di Tamaro fra le dita, Ti lascio una crepa di vita). In questo ambito si coglie, peraltro, qualche timido riflesso del cristianesimo sofferto di Russotti (Sotto il sole d’agosto).

La rivoluzione stilistica evidenziatasi in Spine d’Euphorbia si riflette nelle liriche in dialetto della raccolta Arrèri ô scuru, pubblicata due anni dopo, presso Controluna (Roma 2019).[10] Vi si ritrova, profondamente ramificata, la forte, abituale materia sentimentale (l’amore della madre – Matri sura -, del padre – Unn’eri, E campu ‘i tia -, della moglie – Ciatu c’appoj diventa aria e si sciàmina, U to’ ciàuru di sempri, della figlia – Figghia chi resti ntô cori pi sempri), insieme con la vocazione etico – sociale (Di russu virgogna ora è u ma’ duluri, ‘Nfin’a quannu, Nino Bongiovanni, u putaturi, Ntâ sta terra di Sicilia) e con un’accentuata tensione introspettiva (Si tesci di dumanni a tira, Intra un vacanti ‘i nenti) dell’io poetante. Ma – quel che più conta -pullulano sulla pagina le figure retoriche (similitudini, metafore, simboli) tipiche della poesia in lingua del Novecento, già ampiamente sperimentate in Spine d’Euphorbia, qui utilizzate, però, con maggiore discernimento, senza alcuna perdita di senso. Si rilegga la prima poesia (che dà il nome alla raccolta), Arrèri ô scuru, dove, in pochi versi, mirabilmente fioriscono luminose metafore, atte a rendere nuovo il motivo eterno dell’amore: «[…] Ma ‘a notti è fatta suru di sirènzi, / unni mi peddu e mi cunfunnu / sutta na cutra di ‘nganni e llammìchi. / Femma u passu e vèstiti d’amuri, / picchì si’ timpesta subbra i puntara, / simenza d’addauru ‘i chiantari».[11] La documentazione di tale miracolo di armonia espressiva, per via di limpide metafore, potrebbe essere, invero, sterminata: ricorderemo, per sommi capi, «A puisia è simenza chi scava ntâ terra, / ràrica chi nun canusci cunfini», in  A pusìa è …;[12] «Urìssi pi sempri a to’ bucca di meri», in Ciatu c’appoj diventa …;[13] «Si non si’ ccà a mmenzu a nuiàtri / a cantari a to’ gioia e a to’ alligria» in E campu ‘i tia;[14] «I campani sònunu a luttu subbra / i cappotti ‘ncurvati d’u friddu», in Figghia chi resti ntô cori …;[15] «Mu sentu d’incoddu / u to’ ciauru di fimmina e matri», in U to’ ciauru di sempri;[16] «Matri di nenti vistuta, / vistuta d’u to’ duluri chi è chiantu», in Matri sura;[17] «Ntâ sta  terra di Sicilia / […] lorda / di mafia e bucchi ‘ntuppati», in Ntà sta terra di Sicilia, p. 78; «sutta a ràrica d’u rimpiantu» («sotto la radice del pianto») in Ntô mari lavu tutti i ma’ peni.[18] Su questa via, vòlta a una sempre maggiore limpidezza espressiva, procede invero, come vedremo, il poeta di Malvagna nelle raccolte successive, in cui si va perfezionando la sua travagliata conquista dello stile.

Il processo avviato nelle poesie dialettali di Arrèri ô scuru s’intensifica nelle liriche della seconda raccolta poetica in lingua, Brezza ai margini[19], di Josè Russotti, il quale continua a privilegiare la curvatura metaforica, novecentesca dei testi, ma mira, nel contempo, con maggiore convincimento, alla comunicazione, alla leggibilità, alla poesia «corale», per dirla con Quasimodo.

Le prime cinque liriche della prima delle due sezioni di cui l’opera si compone, Amare è vita, sono stabilmente imperniate sulle volizioni, i pensieri, le angosce di un io poetante tuttavia speranzoso, che avverte nel «silenzio dell’erba» il grido di dolore di chi nei «vicoli stretti del […] presente» non trova più «la porta di casa»,[20] o soffre per «il vuoto degli assenti»,[21] o rievoca, nella «bolgia infinita della sera», le «intrepide illusioni mancate»,[22] o si conforta sapendo che, «come per incanto / sorgerà il sole del mattino»,[23] o cerca un conforto frugando «nei vicoli / carichi di remoti silenzi».[24] Seguono tre liriche (VI, VII, VIII) imperniate sulla tecnica allocutiva dell’io/tu, che costituiscono autentiche invocazioni d’amore alla moglie: accolga lei, «nelle pieghe del suo dolore»,[25] le lacrime del suo uomo; la sua mano non si stanchi di dare al poeta «un senso di raro sollievo» (degno di attenzione l’intenso distico: «Me lo sento addosso / il tuo odore di femmina e madre»,[26] versione italiana del verso sopra citato  di Arrèriô scuru); se l’amore dovesse affievolirsi («Se dovessi frugare nel vano / del tuo ventre acceso»), lei sicuramente saprà «aprirgli il cuore».[27] La tensione erotico-espressionistica si prolunga nella lirica successiva, in cui il poeta si prefigura che «Brandelli di lusinghe» e «bocche sconosciute e intrepide /accenderanno il suo cuore / nella bolgia della sera».[28] La decima lirica della raccolta è una dolorosa, ma stilisticamente compiuta, rievocazione della madre morta: il poeta cerca in casa ma «non trova più niente di lei»; il suo cuore «cade a pezzi», ma egli aggiunge «una goccia all’origano nel vaso di suo madre» (il verso è davvero sublime) sperando che ritorni.[29]

La seconda sezione, Angoli bui nel silenzio, della raccolta si apre con una lirica, la XI, in cui l’io poetante canta mestamente la morte del padre scomparso quando egli era in tenera età: «L’assenza / è un suono molteplice di arpe sulla riva / […]».[30] Al padre è anche ispirata la lirica XVII che forma con la XI un singolare dittico filiale. Il dodicesimo componimento è quello più gonfio di crudo, corposo realismo, prossimo – parrebbe – ai moduli espressionistici della poesia di Cattafi: «la grandine sui tetti», il «sangue dalla croce», la «fame che divora le budella», il «gesto inconsulto / di chi disperde il seme», il «vento tra la gramigna», «lo sputo sui vetri», il «vino rosso […] nello stipo»:[31] brandelli, invero, di una vita vissuta tra stenti, lontano dagli agi, e tradotti in una tormentata musicalità.  Segue quella che si definirebbe «una trilogia della gente»: tre ampie liriche «corali», in cui il poeta, messo da parte il suo io dolente e risentito, guarda attorno a sé, divenendo quasimodianamente partecipe del dolore degli emarginati che sono vessati dagli uomini e dalla sorte: gli emigranti, extracomunitari, in ispecie, vittime della brutalità della storia e i morti di Covid. In essi il poeta emigrante si identifica, a tal punto che, nella prima strofa, della XIII poesia, presta loro la sua voce e diventa di fatto uno di loro: «Ci ha lasciato la madre che ci nutrì / col latte del seno e sedano crudo» (un distico sublime, invero).[32] Nella lirica successiva, la «gente» (forse, i parenti dei morti per Covid) «piange e stringe le ossa / dentro un fazzoletto intriso di memoria»,[33] e nella quindicesima il poeta «corale» registra accorato il «greve allinearsi delle bare».[34] Della stessa temperie stilistica sono i componimenti XX e XXI, in cui lo stesso acceso espressionismo presiede alla visione dei corpi dei migranti che «emergono e poi affondano […], / gonfi di sterile salgemma»;[35] mentre «le barche approdano vuote»: il poeta porge «alla faccia stupita degli stolti / un piatto ben condito di sapienza».[36] Nella lirica XVI, domina, tra illusioni e delusioni dell’io poetante, «la noia di certe giornate disadorne», mentre lo sguardo cade «sulla lumiera di carni putrefatte e scheletro» (di cattafiana memoria).[37] Seguono tre liriche (XVII-XIX) in cui ritorna la voce disillusa del poeta, che rifiuta ogni ipotesi consolatoria dell’aldilà («la morte è solo un gelido varco interiore / nella vanità dissoluta del transito finale»)[38] e ridimensiona il ricordo, più o meno affettuoso, che di lui avranno i compaesani, agognando semmai l’infinità che solo l’arte può dare («vivere ancora e poi ancora / e ancora, nel fertile cuore / dei fragili»),[39] e guardando in faccia la morte «che scivola sul destino delle cose».[40] La paura del disamore o meglio della fine dell’amore ritorna nella mesta lirica XXIII, che sembra costituire il pendant pessimistico («un ristagno di silenzi / innanzi alla fisica estraneità di mia moglie»)[41] del trittico alla moglie (della prima parte). Vi si collegano, per l’intonazione elegiaca, i due ultimi componimenti soffusi dalla malinconia del tramonto: «ogni gemito diviene / un tormento di rondini in pena».[42]

L’autore di Brezza ai margini è, in effetti, un poeta che patisce (o ha patito) sulla sua pelle il dolore, la sofferenza, l’ingiustizia del mondo, approdando a una visione amara (ma non sconfitta), leopardiana se vogliamo, della vita e dell’arte: un uomo dimidiato, ad ogni modo, come un poeta medioevale, tra il sogno o il rimpianto del paradiso e l’amara certezza dell’inferno.

Nello stesso anno, qualche mese prima – precisamente nel gennaio del 2022 –, Josè Russotti dà alle stampeuna sorprendente raccolta di trentanove liriche in dialetto malvagnese,[43] con traduzione a fronte in italiano, distribuite in sette sezioni: I) Pî mapatri; II) A Mariacatina, ma’ matri; III) A mia moglie; IV) A Elyza, mia figlia; V) Nei giorni chiusi; VI) A Malvagna, il paese della memoria ritrovata; VII) Sulla vita e sulla morte. Quanto dire che Chiantulongu racchiude, come le altre raccolte e forse più compiutamente – alla stregua di un organico canzoniere d’antan – la vita e la storia personale dell’autore, talché, a lettura ultimata, sapremmo tutto di lui anche se non lo conoscessimo affatto: il legame fortissimo con la sua famiglia di umili origini (padre, madre, moglie, figlia); l’amore per Malvagna, il paese nativo (da cui il Russotti padre, indomito contadino in cerca di lavoro e di fortuna era emigrato per trasferirsi in Argentina, insieme con la moglie, e a cui, come tanti, era ritornato nel 1959, con moglie e figli); la sensibilità sociale, esplicita nella quinta sezione, Nei giorni chiusi, dedicata ai tragici effetti del Covid 19; il suo profondo, insanabile dissidio esistenziale, nella sezione finale Sulla vita e sulla morte. Ma quel che più colpisce è non solo il perfetto recupero, che vi si registra, di termini e locuzioni dialettali forti, efficaci, del tutto inedite (epperò pregne di un ancestrale nitore primigenio), ma anche l’attitudine del poeta a coniugare, sullo stesso asse linguistico, i colori antichi della poesia dialettale e le più ardite forme della poesia contemporanea, senza sbilanciamenti di sorta verso nessuno dei due poli espressivi. Donde, in altri termini, la coesistenza (come in Arrèri ô scuru, ma con maggiore pregnanza), in uno stesso componimento, del registro realistico, tipico della poesia popolare, col registro meditativo, introspettivo, allusivo, tipico della poesia novecentesca. Si veda come nella lirica finale (Davanzi a sti petri) della sezione dedicata all’indimenticabile padre (morto giovanissimo, dopo il ritorno in Sicilia), alla sequenza dialettale «mutu, restu ora, / davanzi ô to’ ricoddu / ‘ngudduriatu e suru» («silente, rimango adesso, / dinanzi al tuo ricordo / avvolto e solo») segua, senza soluzione di continuità, un verso allusivo di chiara matrice ermetica: «ndâ frèvi d’u sirènziu» (nella febbre del silenzio).[44] Allo stesso modo, nella lirica finale (Cu ddu sapuri di …) della sessione dedicata alla madre, morta dopo lunga e penosa malattia, sono perfettamente associate locuzioni contadinesche («ô brisciri d’u matinu») e forme di levatura novecentesca: «E di ora â fini / nniàvi u to’ coppi / ndô ballàriari mutu / d’u tempu!» («E da ora alla fine / annegavi il tuo corpo / nella muta sospensione / del tempo!»).[45] Ma le citazioni di questo che pare essere lo stemma esemplare della poesia di Josè Russotti sono numerosissime, nella raccolta. Ci si limita a evidenziarne qualche altra particolarmente pregnante.

Nella sezione dedicata alla cara moglie, la lirica Dumannu a tia dipinge la moglie con un dittico «muta ti nni stai ‘i canzàta / intra un faddari chinu ‘i pinzèri» («muta te ne stai in disparte / dentro un grembiule colmo di pensieri»),[46] dove il primo verso («muta ti nn stai ‘i canzàta») è desunto tale quale, dalla parlata locale mentre il secondo («intra un faddari chinu ‘i pinzèri») è immagine di raffinata caratura stilistica. Eppure, l’accostamento non stride affatto. Allo stesso modo, in Rìnnina d’amuri, la dolce figlia Elyza, prematuramente scomparsa, giunge «lorda ‘i brizzi» («sporca di sorrisi») – il di specificativo dopo l’aggettivo è usuale nelle poesie degli Ermetici –, ma la similitudine del verso successivo («commu na rìnnina ô giuccu» – «come una rondine al nido») è normale nel linguaggio popolare.[47] La stessa armonica associazione di stilemi popolari e figure retoriche ultramoderne si coglie agevolmente nelle liriche della sesta sessione, dedicata a Malvagna, dove l’amore del paese natio fa tutt’uno col dolore per «la sua sventura» di «paese che muore»: «Chiossai d’u ‘nvernu iratu / disìu a nivi janca di latti, / quannu u cantu d’i cicari fa a junnata. / Nivi fina di farina cinnuta / a cummigghiari i tènniri chiantimmi. / Mentri, / tutt’attornu ô paisi / matura u tempu, / avanza a motti» («Più dell’inverno gelato / bramo la neve bianca di latte, / quando il canto delle cicale fa la giornata. / Neve fina di farina setacciata / a coprire i teneri boccioli. / Mentre, / tutt’attorno al paese, / matura il tempo, / avanza la morte»).[48] Ugualmente intessuti di forme lessicali tratte dall’immaginario popolare di Malvagna e di stilemi postermetici sono i componimenti dell’ultima sezione, in cui si squaderna l’amara condizione esistenziale del poeta che cerca e non trova un senso della vita: «Non viddu nudda differenza / tra chiddu chi fu aieri / e chiddu chi sarà dumani: / suru a motti mmisca e sracancia i catti / subbra a tuàgghia d’a vita» («Non vedo nessuna differenza / tra quel che accadde ieri / e quel che accadrà domani: / solo la morte sconvolge e muta le carte / sulla tovaglia della vita».[49] Unico conforto la poesia, che va custodita come un tesoro: «Si campa d’amuri e di nenti, / di llammìchi e sustintamenti / ma non livàtivi a puisia d’u cori!» («Si vive d’amore e di nulla, / di stenti e sostentamenti / ma non toglietevi la poesia dal cuore!»).[50]

Il bifrontismo tematico e stilistico (tra la dimensione lirica, introspettiva, memoriale e la vocazione sociale), in composizioni magistralmente metaforiche ma viepiù schiarite in direzione della leggibilità assoluta, appare, con nuovi intendimenti, nella terza raccolta poetica in lingua di Josè Russotti,[51] che chiude, all’insegna del sublime, il portentoso biennio 2022-2023.

Delle quattro sezioni di cui il libro si compone, la prima (Pieghe all’ombra della sera) è imperniata sull’io dolente e tuttavia indomito del poeta, consapevole del sua solitudine e del suo disagio esistenziale in un mondo incapace di amare e di capire: «Ramingo e solitario nell’anima, orfano di padre e di madre assente, / stretto nell’angolo buio, spegnevo le mie paure / cantando tristi canzone d’amore / […] Un batuffolo indifeso / attorno al lordume dei grandi, / teso a implorare carezze / che nessuno mai seppe donare»;[52] «Con le mani impazienti / sul pomo della notte, / erro per l’infinito / come un bimbo col suo veliero : / cosmonauta vagabondo / nelle costellazioni dell’Io /  per scoprire ciò che la vita / non ti permette di scoprire »;[53] «Smarrito nelle pieghe della vita, / vivo la duplice angoscia / sui ponti di rive opposte»;[54] «Io amo il mio vitigno e i figli d’allevare, / il vino nel bicchiere e il grano da mietere. / […] lontanissimo / dalla vanità dei colti / come un rozzo guascone, / prenoto ancora un posto / per nuovi sogni / da raccontare».[55] Donde, l’avvertenza dei limiti personali («Sono / figlio della Poesia e mi nutro di parole, / vivo nella lusinga dei miei errori / e solo nei versi la mia morte desiste dal morire»;[56] «Parea una piccola screziatura / nei riflessi dell’alba policroma, / […] Parea la fine del suo tenero silenzio / […] È la mia fragile ombra, / che mi segue ancora […]»,[57] [il corsivo è mio]), ma anche l’orgoglio dei valori coltivati: «In un urlo feroce di bandonéon argentino / cantai al cielo / lo sdegno per le futili apparenze / e il falso moralismo, / fino a far tremare i polsi / degli astanti».[58] Anche se lo sdegno per la malevolenza dei potenti sconfina talora negli eccessi della paranoia: «Li avevo tutti addosso / l’aculeo piantato sulla lingua, / la stizza del prete dietro la schiena, / gli occhi degli altri fissi su di me»;[59] «Non mi turba il vostro stupore / né l’infamia delle parole».[60] Quanto dire che, in Ponti di rive opposte, Russotti fa un passo avanti: non indulge all’elegia del paradiso perduto dell’infanzia, come in Brezza ai margini, ma oppone più decisamente la sua alterità di «rozzo guascone» alla cultura dominante. E, su questa stessa lunghezza d’onda, la polemica esplicita contro critici e poeti mediocri ma acclamati dai più: «[…] mi ritrovai fra le mani / esempi di poesia macellata / da finti poeti, svigoriti di parole / e vuoti endecasillabi rimati»;[61] «Ma se la vivida poetica degli avi non traspare / nei monitor accesi della sera / l’indicibile oltraggio cova / nella stupidità degli accoliti. / Nei predicatori del nulla / e nella fragorosa autocelebrazione / di chi non conosce la decenza. / Non è il male che insinua le menti /ma l’estremo dilagare dell’insanabile / mediocrità».[62] Dove sono esplicite le isotopie disforiche di «finti poeti», «vuoti endecasillabi», «stupidità degli accoliti» ecc., sull’asse semico della «mediocrità» come vero «male». Né manca, in questa prima sezione, del libro la testimonianza della religiosità (quasi francescana) del poeta, tuttavia immune da ogni forma di clericalismo: «ho imparato a domare l’orgoglio / e ho camminato al fianco degli scartati»;[63] «Ogni Pasqua che arriva non lenisce il mio dolore / è solo un giorno come tanti: / il rito della resurrezione è una parte / che non mi si addice».[64]

Anche da questa sintetica documentazione, si possono cogliere alcuni aspetti precipui dello stile poetico di Josè Russotti, il quale a) predilige un lessico chiaro fino ai limiti dell’oltranza («lordume dei grandi», «futili apparenze», «il falso moralismo», «poesia macellata», «predicatori del nulla», «l’insanabile / mediocrità»), b) adotta talora un’inedita, raffinata associazione di  nome  e aggettivo («alba policroma»,  «tenero silenzio», «fragile ombra»[65] e costrutti metaforici («sul pomo della notte»,[66] «provo a scavare con le unghie strappate / tracce del mio passato»;[67] «Lo strazio / è sale che sa di abitudini»[68]) nonché similitudini («danzano i pensieri / come l’erba fra i sassi»),[69] e immagini («Io amo il mio vitigno e i figli d’allevare, / il vino nel bicchiere e il grano da mietere»)[70] molto personali, desunti chiaramente dalla cultura contadina e magistralmente innestati in contesti verbali e stilistici di diversa caratura.

La seconda sezione del libro, Naufragio, contiene poesie intessute intorno all’amore coniugale, non privo di forti accensioni erotiche, corporali. Si alternano, difatti, liriche tenerissime che cantano – o recuperano dai flussi della memoria – momenti di assoluta tenerezza («[…] la tua mano sul viso / mi dà un senso / di raro sollievo»),[71] a cui non difetta mai, però, l’inevitabile legame carnale del vero amore: «Nell’approssimarsi incerto del mattino, / quel poco o molto che rimane / del tuo splendido sorriso / ha il verso di certe nenie infantili. E […]  riparto / per nuove galassie inesplorate / annegandomi, da ora alla fine, nell’insenatura del tuo / florido petto».[72] Il poeta esprime, invero, sentimenti antichi, universali, forse imperituri, con un linguaggio forte, inusuale, pregno di fremente, non dissimulata carica erotica: «Linfa e sudore coprono / la tua pelle di sposa fedele, /mentre l’intrepida mano / affonda nella verticale ambìta / della tua calda ferita. Le dita la sfiorano appena / per non fermare / l’estasi sublime / del ritrovato desiderio».[73] Non casualmente, le isotopie erotiche – «sudore», «pelle», «intrepida mano», «calda ferita», «estasi», «desiderio» – convivono armonicamente, nei contesti citati, con quelle della castità coniugale: «raro sollievo», «splendido sorriso», «sposa fedele». E vale, a stento, la pena di sottolineare come tali isotopie siano, di norma, antitetiche, in gran parte della cultura e della poesia moderna, dove permane la scissione antica, forse di origine cattolica (più che cristiana), della donna nelle due ipostasi di angelo (madre, moglie, sorella) e demonio (amante, prostituta). Certo, poetesse come Alda Merini, Patrizia Valduga e la messinese Iolanda Insana hanno ampiamente ricomposto, nelle loro opere, quella orrenda scissione, consegnando al lettore un’immagine unitaria della donna, ricca di luci e ombre, di carnalità e di spiritualità (come in tutti gli esseri viventi). E tuttavia la poesia di Russotti assume, anche in questo ambito, un rilievo non marginale.

La terza sezione, Il Lavacro, ritesse, con accenti di assoluta purezza espressiva, l’amore del poeta per la madre scomparsa: «Solo nell’approssimarsi dei giorni / quel poco o molto / che mi è rimasto di te e di me, oh madre mia, / assumerà il verso / di certe nenie infantili»;[74] «La rivedo ancora, in un sogno di sempre, / quando prima della scuola / mi sistemava i bordi del bavero bianco».[75] Se non manca, invero, in alcuni componimenti di questa e nelle altre sezioni, così come nella precedente silloge, qualche oscurità superflua (di matrice ermetica), bisogna riconoscere che sfiora i vertici del sublime la suddetta lirica III di p. 77, in cui è ridotto al minimo l’armamentario poetico e il dettato, pur conservando il ritmo inconfondibile della poesia, si accosta molto alla prosa: «Le braccia incrociate sul petto / davano il senso compiuto dell’atto finale: / crudele da vedere. Duro da scordare. / Eppure, alla fine, a guardarla sul volto / pare che ci sorridesse ancora» (p.78).[76] Negli ultimi due componimenti del Lavacro, il poeta-figlio rimpiange, con la stessa composta premura la scomparsa del padre: «Piansero i tuoi figli indifesi / […] aspettando ancora e per sempre / il vano ritorno!».[77]

La vocazione sociale del poeta è presente, infine, insieme con qualche, allusiva lirica di congedo («avverto il lento declinare dell’ombra»),[78] nell’ultima sezione del libro, In Memoria. Josè Russotti, sensibile, in ispecie, al dramma dell’emigrazione, rievoca lo scempio del corpicino del piccolo Aylan, «curvo sul muto arenile di Bodrun», dove «al duro infrangersi dell’onda / si estinsero i tuoi sogni»,[79] o leva un inno solidale in ricordo di un eroe siciliano, militante di Democrazia proletaria, noto per le sue denunce contro Cosa Nostra, da cui fu assassinato il 9 maggio 1978: «la mia anima impura /non rinuncerà al tuo canto possente / dell’ultima volta: grido superbo / di agile armonie» (A Peppino Impastato),[80] o leva un canto per Mimmo Asaro, il poeta contadino, pressoché dimenticato, che ha rubato «parole alla terra / e le lasciò andare al vento» (Un canto per Mimmo Asaro, il poeta contadino).[81]

Una strana sezione, interna alla sezione In Memoria, è costituita da una sola lirica, Per Amalia, dedicata alla poetessa Amalia De Luca, amica e sodale di Russotti, peraltro presente nella raccolta con quattro sue liriche che aprono ciascuna delle quattro sezioni della raccolta stessa. Della poetessa palermitana, versata ai ritmi lievi, armoniosi, sincopati di una poesia luminosa, ricca di cieli, venti, mari, fiori, uccelli, con aperture improvvise all’assoluto, Russotti rimemora, con profonda simpatia, «il tocco lieve delle fragili ali», le «ciglia di teneri turioni», le parole «di rara bellezza», il corpo che resiste al «tempo delle stagioni», la «voce scavata dal profondo dell’anima», ma soprattutto la serena cordialità di chi lo chiama «nel cuore del silenzio per dirgli che l’ibiscus / non fiorisce più nel suo terrazzo».[82]

Quanto dire, in conclusione, che il poeta siciliano di Malvagna si autentica, senza meno, come una delle voci più originali e autentiche della poesia contemporanea. E vien fatto di pensare che quella saldatura tra passato e presente, perseguita invano dal poeta Russotti nella vita, si realizzi perfettamente sulla pagina, nei suoi componimenti poetici in dialetto e lingua.


[1] Josè RUSSOTTI, Fogghi mavvagnoti, Edizione libera, Malvagna (ME), 2002.

[2] Ivi, p. 28.

[3] Ivi, p. 33.

[4] Ivi, p. 10.

[5] Ivi, p. 24.

[6] J. RUSSOTTI, Spine d’Euphorbia, Il Convio Editore, Castiglione di Sicilia (CT), 2017.

[7] Ne ha detto, con dovizia di particolari, lo stesso Russotti, in una esaustiva pagina (Come sono diventato un poeta) redatta dopo la presentazione, presso la Biblioteca Regionale Universitaria di Messina, di Brezza ai margini (ved. infra) nel 2022.

[8]Ivi, p.15.

[9]Iv, p. 45.

[10] J. RUSSOTTI, Arrèri ô scuru. Dietro al buio. Poesie in vernacolo siciliano e lingua italiana, Controluna, Roma 2019.

[11] Ivi, p. 18.

[12] Ivi, p. 24.

[13] Ivi, p. 56.

[14] Ivi, p. 60.

[15] Ivi, p. 68.

[16] Ivi, p. 72.

[17] Ivi, p. 74.

[18] Ivi, p. 80.

[19] J. RUSSOTTI, Brezza ai margini, Edizioni Museo Mirabile, Marsala, 2022.

[20] Ivi, p. 15.

[21] Ivi, p. 16.

[22] Ivi, p. 17.

[23] Ivi, p. 18

[24] Ivi, p. 19

[25] Ivi, p. 20.

[26] Ivi, p. 21.

[27] Ivi, p. 22.

[28] Ivi, p.24.

[29] Ivi, p. 25.

[30] Ivi, p. 29.

[31] Ivi, p.30.

[32] Ivi, p. 31.

[33] Ivi, p. 32.

[34] Ivi, p. 33.

[35] Ivi, p. 38.

[36] Ivi, p. 39.

[37] Ivi, p. 37.

[38] Ivi, p. 35.

[39] Ivi, p. 36.

[40] Ivi, p. 37.

[41] Ivi, p. 41.

[42] Ivi, p.43.

[43] J. RUSSOTTI, Chiantulongu Piantolungo. Poesie nella parlata malvagnese e in lingua italiana, Edizioni Museo Mirabile, Marsala, 2022.

[44] Ivi, pp. 24-25.

[45] Ivi, pp.36-37-

[46] Ivi, pp. 40-41.

[47] Ivi, pp. 52-53.

[48] Ivi, pp. 70-71.

[49] Ivi, pp. 84-85.

[50] Ivi, pp.86-87.

[51] Ponti di rive opposte, Nulla die (di Massimiliano Giordano), Piazza Armerina, 2023.

[52] Ivi, p. 31.

[53] Ivi, p. 48.

[54] Ivi, p. 20.

[55] Ivi, p.37.

[56] Ivi, p. 26.

[57] Ivi, p. 40

[58] Ivi, p. 18.

[59] Ivi, p. 30.

[60] Ivi, p. 37.

[61] Ivi, p. 18.

[62] Ivi, p. 43.

[63] Ivi, p. 26.

[64] Ivi, p. 38.

[65] Ivi, p. 40.

[66] Ivi, p. 48

[67] Ivi, p.39.

[68] Ivi, p. 20

[69] Ivi, p. 19.

[70] Ivi, p. 37.

[71] Ivi, p. 55.

[72] Ivi, p. 57.

[73] Ivi, p.  58.

[74] Ivi, p. 75.

[75] Ivi, p. 77.

[76] Ivi, p. 78.

[77] Ivi, p. 83.

[78] Ivi, p. 95.

[79] Ivi, p. 91.

[80] Ivi, 93.

[81] Ivi, p. 94.

[82] Ivi, pp. 99-100. Della poetessa palermitana è stata pubblicata, nel 2021, dalla Fondazione Thule Cultura di Palermo, la raccolta completa di Poesie 2002-2021, preceduta, invero, da una vasta raccolta di saggi critici sulla produzione poetica della stessa (AA.VV., Il problema dell’essere e il richiamo spirituale nella poesia di Amalia De Luca, a cura di Tommaso Romano e Giovanni Azzaretto, Thule, Palermo 2020), che ne ratifica la levatura europea.


Questi testi vengono pubblicati nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionati dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “Al di là di un dispersivo incanto nella pluralità dei versi di Oronzo Liuzzi”, saggio di Carmen De Stasio

Fase di ritrovo in un processo di evoluzione ribollente di trasferte attratte da disorientante progresso, il tempo attuale della poesia volge a quella che in più di un’occasione ho definito memoria eidetica: vale a dire, una memoria impegnata a disoccultare situazioni in prossimità e segni l’andare esterno-interno permanente attraverso un ordito lessicale che, privandosi del disagio procurato da sintagmi isolati (ma nondimeno consolatori), rapprende incidenze progressive lanciando significati profondi tanto della parola pensante, che del pensiero calibrato attraverso la grafia di un dire che sconfina dalla semplice azione scenografica. L’opera rende così merito di una lingua plurale di tipo barthesiano; una lingua che, trasfigurando la partitura per livelli non dissimili da un impianto musicale, configura la pluralità fonetica, quanto logico-viscerale (se possibile) della parola nella sua funzione etica, comprensiva e resistenziale; nella coralità di recondite pulsioni rapprese in una manifestazione costruttiva di condizioni pur se talora acquisite in elusiva incompatibilità.

Risuona in questa sede il richiamo alla poesia di Oronzo Liuzzi; alla reciprocità di parti attraverso le quali ad essa si offre durevolezza nell’ambito segno di spiritualità, una spiritualità che vediamo corrispondere al processo di conoscimento con le moltiplicanti note di un sé mai rarefatto, né tumefatto dall’ambiziosa consuetudine alla disgregazione. Anzi, è in un andamento senza tregua[1] che l’esperienza poetica riflette la sua meditazione su sfondi reali, implicando il sé del movimento «nel» movimento continuo di un sé disposto alla ricerca di un senso sotto il sole irresistibile[2], e consentendo alla coscienza di diffondersi nella permanente azione della parola.

In tal senso, la parola è arte del visualizzare incerti scampoli di uno spazio occupato da tensioni, iridato da rumori del vivere l’inebriante quotidiano: nelle esortazioni pensative, e prodigandosi al di fuori di prepotenti certezze, il verso calibra una neo-storia per scenari che, nell’evitare il freno all’ordito di una tempesta immaginale, si impossessa della città (…) trattiene assimila (…) interpreta attraversa (…)[3]. Così il continuo incedere dei pensieri (che intanto riconquistano un mondo addormentato[4]) dilania le cesure. Non basta: declina il distintivo processo semiotico in un reticolato di intuizioni che rimandano alla coralità crescente di un linguaggio esteso in un rapporto non programmato e che, in più, sfugge alla labirintica geometrizzazione, porgendosi all’ascolto di un sé coscienziale quale segno grafico della spiritualità del vivere di contro alla dilagante reificazione.

Da una postazione di consapevolezza fuor da qualsiasi frivolezza od anche da incauta attrazione al pensiero debole[5], il poeta recupera gli anni, i mesi, i giorni e le ore e contende il tempo interno all’esperienza del tempo esterno raggrumato in affaccio frontale su (…) un sogno un incubo / una pagina della mia vita / che non mi appartiene (…)[6]; accoglie le frange e le sfumature di un tempo coinvolto nei confini psichedelici del sogno aleatorio, da nostalgia nefasta e da speranza illusoria. Alla realtà come risorsa, invece, si volge il cammino del poeta per assottigliare sparse faglie tra il sé sussistente e il sé propenso a prospettarsi come scoperta continua oltre la cornice senza ritorno[7] di un Io proiettato nello specchio. Diramandosi tra i versi e tra una parola e l’altra, la volontà dissuade pensieri circoscritti in un’irrecuperabilità parlata e assume l’aspetto anti-iconico di un’intenzione per ovviare a quel che viene evocato – con intonazione variabile – quale viaggio verticale di coscienza, un viaggio che permette al poeta di librarsi oltre le trame sterili di un esistere vagheggiato in un’icona preconfezionata – laddove pure creiamo mondi di ciò che non siamo[8]. Nessun messaggio si riscontra, quanto, invece, l’orientamento a un’integrazione di parti sospese, nelle quali Oronzo Liuzzi coglie i cori dell’esistente oltre le lusinghe di una parvenza di vivere che, invero, pare inclinarsi alla somiglianza fatiscente del montaliano sonno eterno. E, infatti, attratto dall’impegno che la parola possiede nell’instillare percorsi di coscienza a sé prima che al lettore, Liuzzi si dedica alla scrittura d’arte verbo-visiva, conseguendo il clou interattivo tra materia e l’incedere costante verso la coscienza di sé, allungandosi sulle sensibilità ravvisate nel territorio vasto di un reale verificabile e incline al cambiamento, quanto, talora, inebriato da prevedibilità consolatoria. Qui il poeta non è solo: egli transita laddove l’occhio libero si muove esplora la mente vaga / si perde nell’aria rarefatta sospeso riflette crea / al tramonto emerge finalmente discendo / nell’entusiasmo del tempo il mio[9].

In tal senso la poesia contravviene a una regolamentazione intesa a irrorare di frastuoni inebrianti il ritratto dell’inerte dato. Non solo: dall’inerte presunto il poeta estrae quel che oramai allo strazio dell’imperturbabilità pare affidarsi, tanto che, nel turbato chiedersi, e nutrendosi con schiettezza degli andamenti che scuotono la lettura degli eventi, ne elabora le vette apicali rianimando il sé nel compiere il risveglio del significato delle cose, accingendosi di volta in volta a dar forma a una coscienza che non resti isolata e che si configuri in un inaspettato allontanamento da qualsiasi pallida illusione, quanto da pur stravaganti sostituzioni. È, dunque, una coscienza rinnovata a sollecitare il poeta quando il sipario del giorno si alza[10] e turbato e sospeso, viepiù intensifica la parola nelle sue facoltà (l_orrore domina le figure. / testimoniano il vivere del definito. deteriorano la mente con la paura.[11]), sicché il lessico del pensiero pone l’inatteso ordine ad ostacolo di contro alla rigidità di una sostituzione normalizzante e satura. Si tratta, invero, di un modo che permette alla parola poetica di trascendere riverberi astrattistici, immediatamente fruibili e, per ciò detto, instabili, e, di rimando, di farsi ponte di una co-operazione coscienziale che vede il sé districarsi dall’ermeticità dell’Io centrico e disporsi in un’intraprendente visione che – nell’inestinguibilità dei dettagli – procura la stessa impressione di novità davanti allo svolgimento della (…) vita interiore[12]. In questo acuto agire la ridondanza non trova sostegno e nemmeno le immagini ricorrono a lusinghiere strategie per far fronte a quella che è solo futile tempo dell’attesa. A quel tempo la sfida si propone fattiva e non già con un verso di fuga dallo scenario dei pensieri fondativi, quanto nell’inoltrarsi nelle profondità ascose. Qui l’azione dell’esplorare avanza nel vero e, con un gesto privo di didascalie tiranniche, si amplifica oltre la zona arida delle sensibilità rese clandestine da incubi in eccesso [che] accendono la notte[13].

In questi termini, disposta su una diversa traiettoria, la ricerca coscienziale al vedere/vedersi recupera il rituale di un’autonoma e impavida realtà di memoria che dispone l’esistente e il suo dolore, quanto l’esperienza e il suo dolore, in un’esegesi eteromorfa, laddove il conosciuto/conoscibile imbastisce tanto una successione logica dell’uno rispetto all’altro, quanto uno spostamento che prepari a una sostenuta dicibilità, volgendo all’incontro di coscienza tra il poeta riflettente (un sé che si dirama e che mai si acquieta[14]) e il sé molteplice (dentro un vuoto sento la trasformazione mescolo passato / presente rimuovo io voi noi le origini attraverso il chi sono[15]) in un neomorfico rituale che non ignora, né piega a patite certezze (osservo questo mondo altri mondi / penso il pensiero pensante / un personaggio in carne e ossa / in cerca di un autore / sono la forza dirompente del testo / le parole il dramma / sono il teatro nel teatro / la zona di confine tra l’essere e l’apparire[16] – è il sentire possente che pervade il poeta).

Il poeta brindisino Oronzo Liuzzi

Senza furor di sentenza, assistiamo, quindi, allo svolgersi di una poesia che si inarca e si imbarca per ulteriori direzioni senza mai inabissarsi e né disperdersi, senza detenere prevedibili rotte; al contrario, la poesia scorge il suo faro in ogni posizione dalla quale intraprende un percorso pluriforme per mare e per terra e per aria, nell’intersezione espansiva degli ambiti dell’esistere tra i passi e nei tempi che, inattesi, si avvinghiano alla boa del momento mutevole per decidere la direzione, pensandosi e mai ritirandosi (pellegrino per sentieri ammutoliti / sovversivo nel falso movimento[17] – è la straziante confessione).

Gratificato da un lume che permette di accedere alle profondità, il lessico del poeta si raffina nel disporre senso critico al conosciuto, al visto e sentito e rilanciarsi laddove, nella voce della poesia e nel suo «adesso», (…) insorge libero il pensiero nuovo di libertà che parla il plurale / coraggio[18] e nella pluralità delle occasioni la coscienza della parola-verso diviene coscienza del poeta nel suo continuo approdare fedele nel mondo, malgrado dall’incessante ricerca etica quel mondo si mostri (…) artificio insomma non identificabile / disarma la schiettezza non lascia tregua la disabilità visiva / (…)[19]. Nella richiesta tra frange acuminate impercettibili, lo spirito che anima la parola priva di iconoclastiche controindicazioni – che si tratti di improperio o di nevralgico assedio d’abitudine – conferma il bisogno di un ordine non già da intendere nell’impoverimento delle digressioni, quanto nella liberazione dall’estraneità, portando all’apparentamento bergsoniano, e cioè, a una forma di consanguinea contiguità tra materiale e spirituale e che scuote quella che Liuzzi chiama disabilità visiva e che ravvisiamo quale impedimento resistente nella precarietà; quale sospensione elusiva e incatenata. Una mancanza, dunque, alla quale la visualità poetica si pone ad ostacolo e va a scompaginare l’atrofia della concatenazione con un legame di rinforzo silente e burrascoso, ma sempre attuativo, tra quanto dalla parvenza transita per raggiungere un’espressione auto-manifesta, che non prevede accanite sembianze, che non si fa metafora di riconduzione, e che semplicemente è nel ribaltamento frontale, laddove il pensiero di sé risiede nell’allungarsi, sconfinare e restringersi del verso, nell’instillazione di un innovativo codice di evocazione intrepida, non adeguandosi affatto all’etimologia contraffatta di un’estemporaneità al limite del converso (l’impetuoso segno del mistero // scoprire / chiedermi // suscitare risposta[20]). Quel che avviene è l’incastro che (…) nel corpo / nella parola // si trasforma con l’intera sua forza[21]. È, insomma, lo spazio libero nel quale il poeta ripone successive riflessioni di un sé di volta in volta cosciente e distante dall’inconcludente fallacia che, impellente ed ostinata, potenzia un gioco di parti nel territorio della routine del vuoto[22], laddove l’ego meridiano si impone in aspra solitudine.

Segnali di rilevanza si incidono a modalità crescente e nel tempo poetico di Oronzo Liuzzi e non suscita affatto sorpresa l’incedere articolato dalla versatilità del ritmo che investe la tessitura delle parole. Ad esse, alle parole, il poeta assomma una credibilità inarcata verso l’incessante spostamento sintomatico della varietà cognitiva di cui è portavoce la facoltà del pensare senza mai interrompersi. Non è tutto: nel progredire ansante e ponderato, la poesia prende quindi forma di una coscienza di sé mentre lo spazio si riduce fra la mia finestra – dice il poeta – e l_affanno / mentale gli scompone la realtà[23]. Egli osserva e nel frattempo quel che accade rinasce per non irrompere nel vuoto[24].

Senza raggiungere alcun epilogo, dunque, la funzione semiotica della poesia liuzziana staglia un territorio che non si riduce a rappresentare i fatti mondani: se a questo la poesia si fermasse, sarebbe cruciale ritenerne il fallimento, oppure il labirintico asservimento a un’illusoria dimensione; sarebbe l’incorrere incrinato a una speranza aleatoria, quanto retorica. Non v’è dubbio, al contrario, che l’ergonomia semantica rimandi alla sommessa preghiera di una coscienza persistente nelle corrispondenze tra le sensazioni colte dalle vicende mondane e non solo: la coscienza con la quale il poeta mantiene il fitto dialogo si alimenta di corrispondenze viventi nell’articolazione di tutte le facoltà del vedere, camminare, toccare, ascoltare, dire, mondare, fino al ritenere e spingere nella verticalità di una meditazione che riunisce tutte le arti disponibili e che quindi – nel privilegio di un’espressione di tipo baudelairiano – declina le movenze, i picchi, le cromie, le intemperanze, gli intervalli, i pieni e le anti-cromie in un sussulto che si distanzia dalle artificiali grazie sclerotizzate in un labirinto difforme. D’altronde, in una maniera attesa nuovamente al senso-verso del pensiero baudelairiano, il panorama poetico di Oronzo Liuzzi declina la spiritualità in un crescendo verticale che, nel trasformarsi, non esula dal rapportarsi a una materia depurata da qualsiasi appesantimento liturgico e della quale ravvisa l’incauto e l’effimero. Qui pure avviene il rinnovamento estetico; qui, ancora, la cosciente compresenza di un territorio individuale di sensazioni e idee, senza alcuna stanca esitazione, si scopre quale poetica di ritorno e nella scrittura forgia una spiritualità tutt’altro che foriera di dispersivo incanto.


Bibliografia

O. Liuzzi, Io e Caravaggio, SECOP Edizioni, Corato (Ba), 2010

O. Liuzzi, In Odissea visione, puntoacapo Editrice, Novi Ligure (Al), 2012

O. Liuzzi, E mentre l’arte …, CFR Edizioni, Piateda (SO), 2014

O. Liuzzi, Condivido, puntoacapo Editrice, Novi Ligure (Al), 2014

O. Liuzzi e R. Bucci, DNA, Eureka Edizioni, Corato (Ba), 2015

O. Liuzzi, Lettera dal mare, Oèdipus, Solofra (Av), 2018

O. Liuzzi, Mutomutas, Musicaos Editore, Neviano (Le), 2020

O. Liuzzi, Non Stop (Poesie 1970 – 2020), Musicaos Editore, Neviano (Le), 2021

O. Liuzzi, da Un giorno adesso, Transeuropa, Massa, 2023

A. Branca (a cura di), H. BergsonIl possibile e il reale, AlboVersorio, Milano, 2014


[1] O. Liuzzi, 12, «E mentre l’arte …», CFR Edizioni, Piateda (So), 2014, p. 32

[2] O. Liuzzi, XV, «Un giorno adesso», Transeuropa, Massa, 2023, p. 19

[3] O. Liuzzi, 12, «E mentre l’arte …», op. cit., p. 32

[4] O. Liuzzi, La vita si incontra (per Diego De Silva), «Condivido», puntoacapo Editrice, Novi Ligure (Al), 2014, p. 50

[5] Ibi, «E mentre l’arte …», op. cit., p. 46

[6] O. Liuzzi, La vita si incontra (per Diego De Silva), «Condivido», op. cit., p. 47

[7] Ibi, p. 51

[8] Ibi, p. 57

[9] O. Liuzzi, L «Un giorno adesso», op. cit., p. 54

[10] O. Liuzzi, 5., «In Odissea visione», puntoacapo Editrice, Novi Ligure (Al), 2012, p. 11

[11] Ibi

[12] H. Bergson, Il possibile e il reale – Saggio pubblicato nella rivista svedese «Nordisk Tidskrift» nel novembre 1930, a cura di A. Branca, AlboVersorio, Milano, 2014, p. 12

[13] O. Liuzzi, LIV, «Un giorno adesso», op. cit., p. 58

[14] O. Liuzzi, LI, ibi, p. 55

[15] Ibi

[16] O. Liuzzi, 24, «Mutomutas», Musicaos Editore, Neviano (Le), 2020, p. 91

[17] Ibi, p. 92

[18] O. Liuzzi, III, «Un giorno adesso», op. cit., P. 7

[19] O. Liuzzi, XI, IBI, p. 15

[20] O. Liuzzi, 6., «E mentre l’arte …», op. cit., p. 18

[21] Ibi, p. 19

[22] O. Liuzzi, 3., «Mutomutas», op. cit., p. 16

[23] O. Liuzzi, PENSIERI IN_TRANSITO_9, «PENSIERI IN_TRANSITO» (2006) in Raccolta «Non Stop», cit., p. 70

[24] O. Liuzzi, 7., «In Odissea visione», op. cit., p. 13


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

N.E. 02/2024 – “Novalis: tra filosofia, magia e spiritualità”, saggio di Riccardo Renzi

Il presente saggio vuole concentrare la sua indagine su uno dei più grandi poeti della storia letteraria in lingua tedesca, che ha rivoluzionato la poesia e ha generato un nuovo sentire della poesia stessa, dal quale derivò una totalmente nuova corrente letteraria: il romanticismo.

Novalis, alla nascita Georg Philip Fredrich von Hardenber barone di von Hardenberg[1], fu colui che più di ogni altro autore romantico dettò un prima e un dopo all’interno del movimento letterario. Nacque nel 1972, secondo degli undici figli di Auguste Bernhardine Freifrau von Hardenberg, nata von Bölzig, (1749-1818) e Heinrich Ulrich Erasmus Freiherr von Hardenberg (1738-1814). Dopo aver frequentato il ginnasio luterano a Eisleben, si iscrisse nel 1790, come studente di giurisprudenza, all’Università di Jena. Lì il suo vecchio tutore personale Carl Christian Erhard Schmid (1762-1812)[2], che nel frattempo era divenuto professore di filosofia e uno dei maggiori rappresentanti del kantismo a Jena, lo presentò a Friedrich Schiller[3]. Tale conoscenza permeò profondamente il giovane poeta, infatti risulta impossibile comprendere a fondo la poetica di Novalis senza conoscere la filosofia di Schiller, che a sua volta è permeata da quella di Johann Gottlieb Fichte[4].

Novalis

Se volessimo tener il senso proprio, quello ficcante, filosofico e teologico, e non meramente letterario del termine “romanticismo”[5], dovremmo sostenere per onestà intellettuale che esiste un unico romanticismo: Novalis. L’unico vero testo romantico, intriso in ogni sua sillaba di tutta la filosofia del romanticismo, sono gli Inni alla notte[6]. Si può sostenere fermamente che Novalis sia l’unico autore romantico per un semplicissimo motivo, in lui i motivi teorici della Romantik nascono, si sviluppato e raggiungono l’apax di tutto il movimento. Il romanticismo, senza troppa audacia, possiamo sostenere che nasca e muoia con Novalis. Tutta la poetica di Novalis si basa sull’opera la Dottrina della scienza di Fichte, che gli fu introdotta dall’amico Schiller. Il romanticismo è per prima cosa una questione di magia e la prima formula magica è quella costituita dall’io fichtiano. Il primo mago del movimento fu proprio Fichte, l’anima di Jena, che il poeta studiò e commentò a più riprese. Tale lato magico in Novalis si mischia ad un profondo cristianesimo protestante imbevuto di misticismo.

Passo dall’altra parte

ed ogni pena

diventa un pugno

di voluttà


Ancora un poco

e sarò libero

giacerò ebbro

in grembo all’amore.

Vita infinita

fluttua in me potente,

dall’alto guardo

laggiù verso di te.

Su quel tumulo

Il tuo fulgore si spegne

un’ombra reca

la fresca corona.

Oh suggimi, amato,

con forza in te,

ché assopirmi possa

ed amare.

Sento della morte

il flutto giovanile,

il balsamo ed etere

trasmuta il mio sangue

vivo di giorno

con fede e fervore,

di notte muoio

nel sacro ardore[7].

La poesia di Novalis si caratterizza per una miscela sempre volta al vitalismo di vita e morte, nella quale funge da elemento di equilibrio, quasi come la bilancia della giustizia, l’amore. Quest’ultimo è l’elemento basilare della concezione vitalistica del creato.

Ti vedo in mille immagini,

Maria, amabilmente figurata,

ma nessuna può rappresentarti

quale la mia anima ti ha veduta.


So solo che il tumulo del mondo

da allora mi è svanito come un sogno,

e un cielo d’indicibile dolcezza

mi sarà nell’animo per sempre[8].

Ecco il misticismo della poetica di Novalis si mischia con un profondo credo cristiano.

Le fonti dell’immaginario novalisiano possono essere rintracciate in numerose tradizioni letterarie e religiose: si va dalle opere dei mistici tedeschi, tra tutti Meister Eckhart e Jakob Bohme, alla lirica romantica e cimiteriale di Edward Yoing, passando per Shakespeare, Schlegel, Herder, Schiller, Fichte e Goethe.

Novalis è un autore immenso, fondatore del romanticismo, al quale però nelle antologie scolastiche di mezz’Europa ancora si continua a concedere poco spazio.

Quando in ore di tormentosa angoscia

il nostro cuore quasi si arrende,

quando sopraffatto dal male

il nostro intimo è roso dall’ansia

pensiamo ai nostri fedeli amati,

come miseria e cure li opprimano;

nubi limitano la nostra vista,

raggio di speranza non le passa:


Allora Dio si china su di noi,

il suo amore ci si avvicina,

allora desideriamo quell’altrove

in cui un angelo è accanto a noi,

reca il calice della vita giovane,

ci mormora conforto e coraggio;

e non invano allora imploriamo

pace per i nostri cari[9].

In Novalis il male incombe sempre dietro l’angolo, l’uomo è perseguitato costantemente da esso, che spesso all’ansia si accompagna. Il male non colpisce mai il singolo uomo, ma ingloba tutto il suo universo, i suoi affetti e i suoi cari. Le uniche figure salvifiche in un mondo luciferino sono Dio e la Madonna. La concezione luciferina di Novalis spesso si mischia a magia e occultismo. Qui troviamo un evidente richiamo al Graal, «calice della vita giovane»[10], nella concezione dei trovatori provenzali[11]. È proprio in questo periodo che in Germania si radicalizzerà il mito del Graal.  

In Novalis anche l’immaginazione e l’immaginifico permeano profondamente il suo poetare. L’immaginazione di Novalis è quella intesa fichteanamente, dove finito e infinito si compenetrano. Essa produce magicamente una sintesi finzionale, rappresentativa, indugiando nel conflitto, oscillando tra gli estremi e cogliendone sempre un sunto. Essa è l’unica a vedere realmente l’unità originale della coscienza, cioè l’Io. Novalis fu tutto questo: magia, occultismo, profondo credo e innovazione filosofica. Novalis fu il romanticismo.


[1] Per la biografia di Novalis si veda: G. Fontana, Novalis, Venezia, Marsilio, 2008.[2] Carl Christian Erhard Schmidt è uno dei primi divulgatori della filosofia kantiana.Nel 1778 si immatricola a Jena, dove studia teologia e poi anche filosofia (con Johann August Heinrich Ulrich, un filosofo molto interessato alla filosofia kantiana). Nel 1781 è precettore presso la casa del padre di Friedrich von Hardenberg, in arte Novalis. Nel 1782 è Hausmeister a Schauberg e nel 1784 ottiene l’abilitazione (Magister) anche in filosofia, titolo grazie al quale può insegnare all’università di Jena. Nel 1785 tiene per primo lezioni sulla Kritik der reinen Vernunft. Proprio come ausilio per i suoi studenti nel 1786, pubblica un commentario di questa opera cui aggiunge un breve glossario, che, ampliato, costituirà il dizionario kantiano. Dal 1785 collabora con Christian Gottfried Schütz alla «Allgemeine Literatur-Zeitung» una rivista pubblicata a Jena che contribuì fortemente a diffondere il pensiero di Kant. A Jena è in contatto con molti esponenti del romanticismo, ma anche con Schiller e Goethe. Nel 1787 è nominato vicario e ordinato sacerdote a Wenigenjena, paese in cui suo padre è parroco dal 1777. Il 22 febbraio 1790 celebra le nozze tra Friedrich Schiller e Charlotte von Lengfeld. Nel 1791 è, a trent’anni, professore di logica e metafisica a Gießen. Nel 1793 torna a Jena sempre come professore di filosofia e, nel 1798, diventa professore anche di teologia.

[3] Per la biografia di Schiller si veda B. Von Wiese, Friedrich Schiller, Stuttgart, Metzler, 1959.

[4] Johann Gottlieb Fichte (Rammenau, 19 maggio 1762 – Berlino, 27 gennaio 1814) è stato un filosofo tedesco, continuatore del pensiero di Kant e iniziatore dell’idealismo tedesco. Le sue opere più famose sono la Dottrina della scienza, e i Discorsi alla nazione tedesca, nei quali sosteneva la superiorità culturale del popolo tedesco incitandolo a combattere contro Napoleone.

[5] M. Freschi, Mito e utopia nel Romanticismo tedesco, in Atti del Seminario Internazionale sul Romanticismo tedesco, Napoli, Istituto Universitario Orientale, 1984.

[6] Novalis, Inni alla notte, Canti spirituali, Traduzione a cura di Susanna Muti, Milano, Feltrinelli, 2012.

[7] Novalis, Inni alla, cit., pp. 71-72.

[8] Novalis, Inni alla, cit., p. 147.

[9] Ivi, p. 141.

[10] Novalis, Inni alla, cit., p. 141.

[11] Durante i secoli centrali del Basso Medioevo (1100–1230), il trovatore (o trovadore o trobadore – al femminile trovatrice o trovatora o trovadora – in occitano trobador pronuncia occitana: era un compositore ed esecutore di poesia lirica occitana (ovvero di testi poetici e melodie) che utilizzava la lingua d’oc, parlata, in differenti varietà regionali, in quasi tutta la Francia a sud della Loira. I trovatori non utilizzavano il latino, lingua degli ecclesiastici, ma usavano nella scrittura l’occitano. Indubbiamente, l’innovazione di scrivere in volgare fu operata per la prima volta proprio dai trovatori, supposizione, questa, da inserire nell’ambiente di fervore indipendentistico locale e nazionalistico (vedi età dei Comuni, nascita delle Università, eresie e autarchie cristiane).


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autore ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

“Lorca americano: la silloge poetica partorita da un mix di depressione e dolore”. Saggio di Lorenzo Spurio

La giornalista Nuria Azancot ha dedicato un recente articolo uscito su «El Español» all’esperienza in terra americana di Federico García Lorca (1898-1936) dal titolo (traduco dallo spagnolo) “La redenzione americana di Lorca: così scrisse Poeta a Nueva York[1], tra la depressione e il dolore[2]”. La Azancot con una prosa veloce ma non priva di elementi di pregio passa in rassegna la vicenda del viaggio americano di Lorca che, nel 1929, a seguito di una grande sofferenza (che secondo Ian Gibson lo vide addirittura vicino alla scelta del suicidio) dettata dalla fine del rapporto amoroso con Emilio Aladrén (che l’aveva abbandonato per l’inglese Eleanor Dove) giunse a New York dove studiò lingua inglese presso la Columbia University.

Quel viaggio-vacanza, pensato per essere di poche settimane, si allungò a dismisura. Viaggiò, conobbe membri della cultura americana (tra cui la romanziera nera Nella Larsen, autrice di Passing), entrò a contatto con il barrio negro di Harlem, visse sulla sua pelle la crisi sociale e umana del Crollo della Borsa di New York, prese parte alla visione di pellicole sperimentali del cinema americano e tanto altro ancora. Giunse anche a L’Avana dove, lasciando alle spalle il delirio del denaro, della spersonalizzazione e della massificazione della megalopoli americana, gli sembrò per un attimo di essere ritornato a casa. La critica ricorda come fu proprio a Cuba che il poeta – nella latinità calda e spensierata che ricalca, in maniera enfatizzata, il meridione della sua terra natale –si sentì maggiormente ad agio, riuscendo ad allontanare il peso dell’impossibilità di esprimere liberamente il suo amore, di abbattere alla luce del sole il pregiudizio bigotto della borghesia granadina, «la peggiore d’Europa», come il Poeta ebbe a stigmatizzarla.

A New York Lorca fu colpito profondamente dalla frenesia del commercio, dall’incomunicabilità delle genti, dalla meccanizzazione della vita dell’uomo. L’architettura dei grattacieli che si perdono a vista d’occhio longitudinalmente e la dominazione di materiali inerti come il cemento, il ferro e il vetro descrivono un unicum distintivo di questa sua esperienza nella Grande Mela. Nella fitta corrispondenza con i suoi genitori (soprattutto con la madre e l’amato fratello Francisco) non potrà che innalzare, con la meraviglia che alimenta nelle sue pupille per quanto di fantasmagorico visto, la città di New York e l’idea dell’America quali contesti di grande progresso, di vivacità e di profondo dinamismo sebbene nelle liriche che scrisse in quel periodo non mancano immagini fosche, che trasmettono l’idea del caos, della solitudine e della distanza, la versione di uomo allucinato sopraffatto dalle logiche del consumo, dal dio quattrino, dove i sentimenti sembrano assopiti e predomina la macchina, la devianza e l’indifferenza.

L’autrice dell’articolo ricorda anche le due gite “fuori porta” di Lorca che lo portano a lasciare la Grande Mela per il Vermont, ospite di Philip Cummings e poi a Bushenellsville e Newburgh dove scrisse, tra le altre, la dolorosa “Niña ahogada en el pozo. (Granada y Newburgh)”. Nel Vermont, in particolare, lontano dal rumore e dal vorticismo della megalopoli, sembrò prima riacquistare una dimensione a lui cara, fatta di normalità a contatto con un contesto naturale ma, in un secondo momento, fu visibilmente pervaso da una grande angoscia che gli deriva da una profonda nostalgia tanto della sua infanzia (il cui ricordo lì si ampliò notevolmente) quanto della sua terra natale.

Il libro Poeta en Nueva York che contiene le poesie scritte durante la sua permanenza a New York e poi a Cuba (tra cui la celebre e cantilenante “Iré a Santiago”), com’è noto, non verrà pubblicato prima del 1940, ovvero postumo, ben quattro anni dopo la morte del Poeta. La pubblicazione, avvenuta grazie all’interessamento di José Bergamín avvenne con i tipi delle Editorial Séneca del Messico, sebbene, quasi contemporaneamente, un’edizione bilingue spagnolo-inglese (traduzioni di Rolfe Humphries) veniva pubblicata negli Stati Uniti per la W.W. Norton and Company.

Come ricorda la Azancot, le poesie del periodo americano evidenziano che «la trasformazione poetica e personale si era venuta sviluppando nel corso di quei mesi». Sappiamo che l’esperienza vissuta in territorio d’Oltreoceano fu determinante nella vita del granadino non solo perché propiziatrice e fautrice di un avvicinamento all’avanguardia e alla sperimentazione linguistica spesso associata a un reale assorbimento al surrealismo (nel quale, forse, le maggiori opere vanno rintracciate nel suo teatro de lo imposible o teatro irrepresentable) ma soprattutto gli consentì un’apertura mentale e di maggiore comprensione del reale che, senza quel viaggio, sicuramente non avrebbe mai raggiunto.

Particolare del manoscritto di “Poeta en Nueva York”

Sebbene non poté vedere pubblicata la raccolta di liriche di quell’importante viaggio, il Poeta aveva dato a conoscerne molti dei contenuti: alcune poesie erano state pubblicate su alcune riviste, altre recitate in veladas con amici e colleghi letterati, altre ancora declamate a intervalli nel corso della sua dotta e puntualissima conferenza che pronunciò in varie città dal titolo “Un poeta en Nueva York” comprensiva di un recital de poemas neoyorkinos.

Il testo della conferenza, che per fortuna si è conservato, rappresenta, a suo modo, una sorta di narrazione biografica di quei momenti nella quale ci dà le sue idee suscitate dal contatto diretto con la megalopoli e, a ragione ed ampliamento di questo, situava la lettura di alcune delle liriche più importanti della raccolta tra cui “Norma y paraíso de los negros” (mentre, forse per questioni di lunghezza del testo, si limitava a invitare il lettore a leggere “Navidad en el Hudson” che è senz’altro uno dei testi più pregnanti di questa sua fase poetica). Nel testo della conferenza leggiamo: «He dicho un poeta en Nueva York y he debido decir Nueva York en un poeta» (ovvero «Ho parlato di un poeta a New York e avrei dovuto dire di New York in un poeta»), frase che ben sintetizza la potenza nevralgica e catartica rappresentata da New York (e per estensione dall’America) che felicemente agì su di lui, tanto dal punto di vista umano (le numerose conoscenze, la partecipazione agli spettacoli-cinema avanguardista, l’inserimento nel barrio negro e il sentimento di fratellanza verso di loro, la denuncia dell’ingiustizia, della discriminazione, etc.) che intellettuale (la produzione delle sue liriche, i testi per il teatro lì elaborati come El Público, il testo per conferenza di poco successivo, le dichiarazioni agli amici e alla stampa, le confessioni ai cari nella corrispondenza, etc.).

LORENZO SPURIO

Jesi, 06/08/2022


[1] Nuria Azancot, “La redención americana de Lorca: así escribió Poeta en Nueva York entre la depresión y el desamor”, «El Español», 03/08/2022.

[2] L’originale spagnolo parla di desamor che, però, non possiamo tradurre come “disamore” ma con “dolore” o “strazio” trattandosi di un dolore esistenziale, tanto personale che creativo dovuto alla fine della sua relazione amorosa. Nel sottotitolo dell’articolo si dice che Federico «si trovava in un critico momento sentimentale e letterario».


La riproduzione del presente saggio, in forma integrale e/o di stralci, su qualsiasi tipo di supporto non è consentita senza l’autorizzazione da parte dell’Autore.

N.E. 02/2024 – “Dalla spiritualità della poesia alla sua inevitabile umanità. Dante, Beatrice e Francesca”, saggio di Diletta Follacchio

Forse, nonostante la traduzione scialba

e il commento pedestre e frettoloso,

ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda,

che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie.

(P. Levi, Se questo è un uomo)

Dante Alighieri si innamorò di Beatrice Portinari quando lui stava per compiere i nove anni e lei gli otto, come racconta lo scrittore nella Vita Nuova[1]. Doveva essere il 1274 e, secondo quanto racconta Boccaccio nel Trattatello in laude di Dante[2], l’incontro è avvenuto a Calendimaggio, cioè in occasione dell’arrivo della bella stagione che si festeggiava appunto il primo di maggio, organizzando in famiglia e nei quartieri banchetti e balli. Dante aveva accompagnato il padre Alighiero alla festa presso la casa di Folco Portinari, il padre di Bice, o Beatrice, come Dante la sentì chiamare. Ecco che Dante, colpito inspiegabilmente dalla bambina vestita di un abitino rosso sangue,[3] si innamora improvvisamente e perdutamente[4].

Non potremo mai sapere con certezza se si tratta di fatti realmente accaduti o di immagini ricavate dalla fantasia dell’autore prima e di Boccaccio poi, e arricchite dalla simbologia del numero nove che, multiplo di tre, si ripete in vari modi nella Commedia[5]. Un amore infantile e platonico, possiamo ipotizzare, tipico di quell’età che, sentito, percepito, vissuto interiormente o meno, ha condizionato tutta l’opera dello scrittore. E proprio l’idealizzazione di un amore nato da bambini ha aperto la strada alla dimensione mistica del sentimento d’amore di Dante per Beatrice.

Lo storico Alessandro Barbero, nella ricostruzione della biografia dell’autore e del suo tempo, evidenzia la differenza del rapporto che gli uomini medievali, rispetto a noi post-romantici, hanno con il sentimento d’amore, per noi di massima importanza e nobiltà, per loro visto quasi con sospetto e timore, data la dimensione irrazionale che inevitabilmente porta con sé. In un’epoca in cui la ragione era considerata fondamentale guida dei comportamenti umani, si discuteva se l’amore fosse qualcosa di buono o di terribilmente pericoloso. Dante sceglie Virgilio come suo duca, cioè guida spirituale, in nome di quei valori nobili e giusti che incarnò prima della nascita di Gesù, e lo rende non a caso allegoria della Ragione, e quindi faro per ritrovare la retta via e percorrere i primi due regni dell’Aldilà, ma anche per raggiungere la donna amata. Il poeta riprende il dibattito del suo tempo nel V canto dell’Inferno[6], dove vuole cogliere con esattezza i confini tra amore che eleva e amore che porta alla dannazione e quindi riflettere sulla pericolosità dell’amore stilnovista se non accompagnato dalla ragione, argine fondamentale di quella passione che, altrimenti, rischia di impadronirsi di ogni aspetto dell’esistenza. È proprio questo il peccato commesso da Paolo e Francesca, amanti sfortunati in un’epoca in cui l’amore vero era concepito al di fuori del rapporto coniugale, ma che appunto non ammetteva l’abbandono totale alla sua irrazionalità. Dante sembra risolvere questa contraddizione tra bisogno dell’esperienza amorosa e necessità di restare entro i limiti della ragione, rendendo Beatrice, oggetto già di un amore platonico, così nobile da poter ripetere dietro a Omero: «Ella non parea figliuola d’uomo mortale, ma di deo»[7] e rifacendosi così a quel filone di pensiero filosofico-teologico medievale secondo cui l’uomo è visto quale imago Dei, cioè immagine di Dio.

Lo stesso Guido Guinizzelli, padre del Dolce Stil Novo[8], nella parte finale della canzone Al cor gentile rempaira sempre amore, risponde a Dio che lo rimprovera di aver lodato la donna secondo gli attributi che spettano a Dio e alla Vergine Maria: «Tenne d’angel sembianza / che fosse del Tuo regno; / non me fu fallo, s’in lei posi amanza»[9]. Il poeta bolognese scambia la donna amata per un angelo del regno di Dio e lodando lei loda Dio. Così Beatrice da donna realmente esistita e amata in giovinezza dal poeta, evocata nella memoria nella Vita Nuova, diventa personaggio simbolico, trasfigurato, sublimato[10], un miracolo di cui si può parlare termini biblici[11]. Quell’«angiola giovanissima»[12], è talmente virtuosa e nobile che non può mai far vacillare «lo fedele consiglio de la ragione»[13], dichiara il poeta innamorato.

Così Dante rovescia la tragica visione cavalcantiana, secondo cui l’amore è desiderio dei sensi e sottratto alla ragione, e si rifà a una lunga tradizione che vede l’amore come pura contemplazione priva di piacere sensibile e contingente[14]. In questo modo la moralità è intrinseca all’amore che Dante prova per Beatrice, il cui saluto non solo è fonte di beatitudine, ma anche di salvezza[15]. L’amore non potrà mai distogliere Dante da Dio, a differenza delle anime di Paolo e Francesca che, cedendo a un’emozione incontrollata, hanno rinunciato alla sua dimensione contemplativa e sono pertanto condannati per l’eternità al turbine del secondo cerchio dell’Inferno. Paolo e Francesca sono «i peccator carnali»[16], i lussuriosi, cioè coloro «che la ragion sommettono al talento»[17] e così facendo non hanno visto altro che l’amore, cedendo all’illusione secondo cui tutta la vita si può ridurre alla sola esperienza amorosa. Francesca che, mentre Paolo piange, racconta a Dante come lei e il suo amante si accorsero di essere innamorati, ha commesso l’errore di aver escluso ogni altro aspetto della persona per trasformare il sentimento d’amore in un’ossessione e se stessa in una schiava d’amore incapace di ragionare, come evidenzia l’anafora nel cosiddetto teorema amoroso di Francesca: «Amor, ch’al cor gentile ratto s’apprende, […] Amor, ch’a nullo amato amar perdona, […] Amor condusse noi ad una morte»[18].

Tuttavia, la forza dell’opera di Dante non risiede nell’impeccabilità di un pellegrino che, guidato dalla sua donna-angelo, dall’amata sublimata e trasformata in allegoria della fede e della teologia, si purifica da tutti i suoi peccati partendo dal basso, dal buio dell’Inferno e, ascendendo, arriva fino a Dio. La critica afferma che il personaggio di Dante non potrebbe purificarsi senza prima attraversare tutti i suoi peccati immedesimandosi nei vari personaggi che sceglie a rappresentarli, ma se ci accontentassimo solo di questo, continueremmo a vedere Dante come freddo e teorico teologo e non potremmo trovare la sua opera così contemporanea.

La potenza dei versi del poeta fiorentino, il coinvolgimento emotivo del lettore, la commozione del suo pubblico derivano dall’estrema umanità del Dante uomo, prima che scrittore, poeta, personaggio, ravvisabile nel protagonista, che di fronte alle fragilità dell’umanità peccatrice e condannata, prova pietà. Si tratta di una pietà terrena, non metafisica[19], che in qualche modo ricorda la pietas di Enea, quel misto di dovere, devozione, amore, rispetto verso gli avi, i genitori, i figli, le tradizioni, la patria, gli dèi, in nome della quale l’eroe virgiliano abbandona Didone e risponde alla missione che gli è stata affidata. La pietà di Dante è angoscia, smarrimento, commozione, turbamento e, osa Borges, invidia[20]. Invidia di quegli amanti che, pur nel peccato, pur avendo compiuto il «doloroso passo»,[21] pur lontano da Dio, sono destinati insieme per l’eternità. Invece Dante rinuncia a Beatrice, come Enea aveva rinunciato a Didone, e inventa la Commedia in qualche modo per, dice ancora Borges, introdurvi quell’incontro, l’incontro, almeno nella sua immaginazione, con la donna amata e sempre perduta. Eppure, quando arriva alla presenza di Beatrice, qualcosa non torna, la donna è raffigurata dallo scrittore severissima, lontana, inarrivabile, come inarrivabile era stata in vita, addirittura si prende gioco di Dante, lo umilia[22]. Dopo aver vissuto paura e angoscia nella selva oscura, dopo aver attraversato le pene nel regno delle ombre, aver osservato figure mostruose e aver assistito a punizioni terrificanti, dopo aver imparato la forza del pentimento e essere asceso cornice dopo cornice al monte del Purgatorio, dopo aver costruito un tale mondo dell’aldilà perfettamente coerente a se stesso esattamente per ritrovar la donna amata, ecco che l’incontro con Beatrice, tanto agognato, tanto anelato, è deludente, sembra difettare di qualcosa.

“Paolo e Francesca” nell’opera di William Dyce, esposta alla National Gallery of Scotland di Edimburgo.

Non per il pellegrino Dante che raggiunge la salvezza – «tu m’hai di servo tratto in libertate»[23] –, ma per l’uomo innamorato che non raggiunge, neanche nella fantasia, ciò che gli è sempre mancato, la realizzazione dell’amore, il sentimento soddisfatto da Paolo e Francesca. Ecco che l’ultimo sorriso di Beatrice tradisce una certa malinconia, una tale tristezza, un senso di vuoto. Dante si rivolge a Beatrice, ma non la trova, è volata nella Rosa dei Giusti, è al massimo della sua esaltazione, eppure è sfuggente, distante, addirittura distoglie lo sguardo[24]. Dante l’ha persa per sempre. Paolo e Francesca resteranno abbracciati per l’eternità. Più Beatrice è esaltata, più Dante è vicino alla salvezza, più la soddisfazione del sentimento amoroso è lontano. In questo tratto di malinconia risiede la profondissima umanità della Commedia e con essa di tutta l’esperienza biografica e letteraria di Dante.

Se l’Inferno è un luogo «sanza stelle»[25] dove il desiderio permane, ma non può essere soddisfatto, (desiderio da de-, che è il prefisso privativo, e sidereus, cioè gli astri), è dunque un luogo della mancanza, della mancanza di Dio. Questa situazione però sembra rovesciarsi dal punto di vista del Dante scrittore e innamorato, il cui obiettivo principale era quello di rincontrare la donna amata, e come abbiamo visto la mancanza, la perdita di Beatrice avviene nel Paradiso, luogo pieno di stelle, dove «l’amor che move il sole e l’altre stelle» è l’amore del Divino.

La lettura che ne fa Borges ci aiuta a riportare lo scrittore vicino alla nostra umanità psicologicamente fragile, fisicamente debole, a volte disperata, smarrita. Dante nel poema, così come nella sua vita, trema, piange, si intimidisce, è fortemente impressionabile, è ansioso, sviene. Dante resta un vinto, come Enea, ma in Dante in quell’essere vinto e naufrago si scorge «la sua spaventosa inconciliabilità con il mondo»[26]: tutto il disagio vissuto nei confronti della vita, i suoi fallimenti in campo amoroso, in campo politico, nel rivestire un ruolo sociale, la difficoltà di trovare il suo posto[27]. Tutto questo diventa poesia e la poesia è al tempo stesso fragilità umana e cura dell’umana vulnerabilità.

Per conservare questo elevatissimo grado di umanità nella sua opera, Dante autore si distacca dal giudizio di Dio che non sempre coincide con il suo sentire, Dio che è al di là di ogni giudizio umano e al di là del bene e del male. Dio è definito nell’opera per la sua giustizia – «Giustizia mosse il mio alto fattore»[28] – e risulterebbe falso se replicasse la posizione di Dante, il quale accetta quel Dio, ma comprende l’uomo, delega alla Divinità la giustizia, ma mantiene per sé i sentimenti. Come se avesse spezzettato in migliaia di parti la sua persona e avesse fatto incarnare ognuna di queste parti a un personaggio del suo universo immaginario, Dante sceglie questa apparente contraddizione[29] anche come stratagemma narrativo, come tecnica di costruzione, come gioco illusorio utile al racconto, delegando quello che Borges chiama «il Terzo Personaggio»,[30] cioè Dio, per far dimenticare che dietro a ogni destinazione nel poema c’è sempre lui, come in un rimando di giochi di specchi.

A conclusione di questo ragionamento, due episodi realmente accaduti lontani nello spazio, più che nel tempo, confermano la profondissima umanità dell’opera dantesca e come la poesia sia l’unica cura possibile[31]. Umanissimo è il Dante che, nel 1938, un poeta deportato da Stalin per attività controrivoluzionaria nel gulag di Vtoraja rečka, nei pressi di Vladivostok, traduceva a memoria per i suoi compagni di sofferenza e di morte, insieme a Petrarca e Ariosto. È Osip Mandel’štam, che nel 1933 aveva scritto Conversazione su Dante, «un poema critico. Un poema sulla poesia di un grande del Medioevo, di un grande del Novecento – sulla poesia»[32].

È il 1944 quando ad Auschwitz, la «gran macchina per ridurci a bestie», l’ebreo italiano Primo Levi sceglie di recitare a memoria il canto XXVI dell’Inferno, quello di Ulisse, ammettendo con rimprovero, qualche errore o qualche lacuna, pur di ritrovare brandelli di quella umanità che i nazisti cancellavano nei prigionieri insieme al loro nome. Primo Levi in quell’inferno[33] comprende e lotta per non cedere ogni pezzetto di umanità ai nazisti, si impone di continuare una serie di gesti, si lava la faccia senza sapone nell’acqua sporca, si asciuga alla giacca, per non lasciare andare anche «il nostro consenso»[34], per conservare una briciola almeno di dignità. In un contesto che mira alla «demolizione di un uomo»[35] Levi recita l’esortazione dell’Ulisse dantesco ai suoi compagni e a tutti gli uomini: «Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza»[36]. Queste parole, risuonano forti come non mai, come se le sentisse per la prima volta, sono uno squillo di tromba che lo riporta alla vita, sono la voce di Dio che risveglia in lui il senso di civiltà scomparso nel lager[37]. Scegliendo la strada indicata da Ulisse e da Dante, dimentica per un momento «chi sono e dove sono»[38]. È il potere curativo della poesia[39]: recitando la Commedia, segue la strada «per restare vivi, per non cominciare a morire»[40].

Bibliografia

Alighieri Dante, La Commedia. Inferno, a cura di Bianca Garavelli, supervisione di Maria Corti, Bompiani, Firenze, 2001

Alighieri Dante, La Divina Commedia. Paradiso, a cura di U. Bosco e G. Reggio, Le Monnier, Firenze, 2002

Alighieri Dante, La Divina Commedia. Purgatorio, a cura di U. Bosco e G. Reggio, Le Monnier, Firenze, 2002

Alighieri Dante, Vita Nuova, Feltrinelli, Milano, 2021

Barbero Alessandro, Dante, Editori Laterza, Bari-Roma, 2020

Borges Jorge Luis, Nove saggi danteschi, Adelphi, Milano, 2021

Levi Primo, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino, 1989

Mandel’štam Osip, Conversazione su Dante, Adelphi, Milano, 2021 Stassi Fabio, E d’ogni male mi guarisce


[1] Cfr., Dante Alighieri, Vita Nuova, Feltrinelli, Milano, 2021, pag. 35: «[…] quasi dal principio del suo anno nono apparve a me, ed io la vidi quasi da la fine del mio nono».

[2] Cfr., A. Barbero, Dante, Editori Laterza, Bari-Roma, 2020, p. 72 e G. Boccaccio, Trattatello I, 30-31.

[3] Cfr., Dante Alighieri, Vita Nuova, op. cit., pag. 35: «Apparve vestita di nobilissimo colore, umile e onesto, sanguigno, cinta e orata a la guisa che la sua giovanissima etade si convenia».

[4] Cfr., ibidem, pp. 35-36: «In quello punto dico veracemente che lo spirito de la vita, lo quale dimora ne la secretissima camera de lo cuore, cominciò a tremare sì fortemente, che apparia ne li menimi polsi orribilmente; e tremando disse queste parole: “Ecce deus fortior me, qui veniens dominabitur michi”».

[5] Cfr., A. Barbero, op.cit., p. 72.

[6] Dante affronta anche il tema del rapporto tra letteratura e morale centrale nella cultura medievale.

[7] Cfr., Dante Alighieri, Vita Nuova, op. cit., pag. 38.

[8] Cfr., id., Purgatorio, XXVI, vv. 97-98.

[9] G. Guinizzelli, Al cor gentile rempaira sempre amore, in Poesie dello stilnovo, a cura di M. Berisso, BUR, Milano, 2006, pag. 79.

[10] Sublimato, agg., usato qui nel significato di “esaltato”, “reso sublime”.

[11] Cfr. in particolare il sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare, vv. 5-6 («e par che una cosa venuta / da cielo in terra a miracol mostrare»), dove Beatrice palesa la sua essenza miracolosa, e Purgatorio XXX, vv. 19-21 («Tutti dicean: “Bendeictus qui venis!”, / e fior gittando e di sopra e dintorno, / Manibus, oh, date lilia plenis»), dove, evocata l’apparizione di Beatrice, ella viene identificata con Cristo poiché nella vita di Dante la donna amata ha assolto per il poeta la stessa funzione di Cristo nella storia dell’umanità.

[12] Cfr., Dante Alighieri, Vita Nuova, op. cit., pp. 37-38.

[13] Ibidem, pag. 38.

[14] Cfr., ibidem, pag. 38, nota 45.

[15] Beatrice è signora che concede il saluto (it. antico “salute”) e insieme fonte di salvezza (it. antico “salute”). L’etimologia delle parole è la stessa, dal latino salus, salutis che vuol dire “salute”, “salvezza”. Beatrice quando saluta Dante gli dà anche salvezza: «conobbi ch’era la donna de la salute, la quale m’avea lo giorno dinanzi degnato di salutare». Cfr., Dante Alighieri, Vita Nuova, op. cit., pag. 38 e nota 30.

[16] Id., Inferno, V, v. 38.

[17] Ibidem, v. 39. Talento: latinismo per “passione”, tutto ciò che è emozione incontrollata; in riferimento all’amore non acceso da virtù e non indirizzato a Dio.

[18] Ibidem, vv. 100-106.

[19] Cfr., F. Stassi, E d’ogni male mi guarisce un bel verso, Sellerio, Palermo, 2023, pag. 21.

[20] J.L. Borges, Nove saggi danteschi, Adelphi, Milano, 2021, pag. 128.

[21] Dante Alighieri, Inferno, V, v. 114.

[22] Cfr., id., Purgatorio, XXX, in particolare vv. 55-57: «“Dante, perché Virgilio se ne vada, / non pianger anco, non piangere ancora; / che pianger ti conven per altra spada”», e Purgatorio XXXI.

[23] Id., Paradiso, XXXI, v. 85.

[24] Ibidem, vv. 91-93: «Così orai; e quella sì lontana / come parea, sorrise e riguardommi; / poi si tornò a l’etterna fontana».

[25] Id., Inferno, III, v. 23.

[26] F. Stassi, op. cit., p. 44.

[27] Cfr., ibidem, pag. 44.

[28] Dante Alighieri, Inferno, III, v. 4.

[29] Cfr., J.L. Borges, op. cit., pag. 53 e ss.

[30] Ibidem, pag. 128.

[31] F. Stassi, op. cit., pag. 23.

[32] S. Vitale, «Io pur sorrisi…», in O. Mandel’štam, Conversazione su Dante, Adelphi, Milano, 2021, p. 9.

[33] «Questo è l’inferno. Oggi, ai nostri giorni, l’inferno deve essere così, […] e noi aspettiamo qualcosa di certamente terribile e non succede niente e continua a non succedere niente». P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino, 1989, pag. 19.

[34] P. Levi, op. cit., pag. 36.

[35] Ibidem, pag. 23.

[36] D. Alighieri, Inferno,XXVI, vv. 118-120.

[37] Cfr., P. Levi, op. cit., pag. 35: «Anche in questo luogo si può sopravvivere, e perciò si deve voler sopravvivere, per raccontare, per portare testimonianza; e che per vivere è importante sforzarci di salvare almeno lo scheletro, l’impalcatura, la forma della civiltà».

[38] P. Levi, op. cit., pag. 102.

[39] Cfr., ibidem, pag. 102: «Si è accorto che mi sta facendo del bene».

[40] Ibidem, pag. 36.


Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.

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