“Per le strade e altro” di Daniela Ferraro. Recensione di Lorenzo Spurio

Recensione di Lorenzo Spurio

Giaciglio pungente è il ricordo (45)

Daniela Ferraro, docente di materie classiche presso l´IPSIA di Siderno (RC), in qualità di poetessa ha dato alle stampe i libi Icaro (2011), Cerchi concentrici (sul cadere dell´alba) (2012) e Piume di cobalto (2014); è risultata vincitrice di numerosi premi letterari a livello nazionale tra cui, per citarne alcuni tra i più recenti, il Premio Speciale “Per la tematica sociale” al V Premio Nazionale di Poesia “L´arte in versi” di Jesi (2016) con la poesia “Le stelle camminano piano”[1] e il 1° Premio assoluto al Concorso Letterario “Città di Ardore” (2018) con la poesia “Stelle”.

Poetessa profondamente legata al mondo classico (lo si evince anche dal titolo di numerose sue poesie nonché dalla partecipazione convinta al progetto di dittici poetici Dipthycha curato da Emanuele Marcuccio) e meticolosa analista delle forme metriche e stilistiche[2], ci consegna un nuovo volume poetico, Per le strade e altro, recentemente edito da Aletti.

9788859153061.jpgSe ho citato poco fa quei due successi letterari della Ferraro è perché ben si comprende, dai rispettivi titoli delle liriche, una delle immagini più fertili della sua produzione che ha a vedere con il mondo siderale, misterioso e infinito, sul quale ogni poeta, dall´alba dei tempi, non ha potuto esimersi di parlare. Qui, nella nuova opera, sono stelle mute o che hanno smesso di brillare, entità inconfessabili che hanno assorbito il disprezzo e la violenza delle azioni umane; l’uomo, con le sue aberrazioni e insensibilità, ha permesso che anche una delle realtà più belle, come le stelle, imboccassero il cammino della degradazione, dell´annullamento. Sono stelle alle quali l’uomo non può più confrontarsi, dedicare parole d’amore, richiamare nel buio dei propri pensieri a riscaldare le notti insonni; la Ferraro, parlando dell’asservimento della comunità a poteri negletti che rendono alieno l’individuo attuando una vera spersonalizzazione, così annota in “Indolenza”: “Noi, popolo silenzioso di pensieri,/ ad ogni passo guardinghi, vuoti di sensi,/ tra morte lune forse vivremo ancora/ del fioco canto di ormai inutili stelle” (17).

Il tema della strada, tanto caro a una certa pattuglia di letterati, soprattutto stranieri e afferenti a generi disparati figli del secondo Novecento, è qui concettualizzato, quale ambiente di transito e motivo di peregrinazione e reso quale metafora del mondo concreto, vitale, transeunte che permea la vita dell’uomo ordinario immerso nei drammi della sua società. Il critico letterario Lucia Bonanni, che approfondisce il testo nella ricca postfazione al volume (motivo addizionale per appropriarsi di tale libro), amplia il discorso interpretativo attorno all’immagine materica e al contempo simbolica della pozzanghera, quella cavità di acqua e di organico non visibile che è contenitore e contenuto allo stesso tempo, quale motivo esiziale di un antecedente a noi non sempre noto. Dalle ragioni metereologiche che motivano la raccolta di un liquido – spesso dalle gradazioni non così immacolate – al prodotto di scarto di qualcosa, finanche di una perdita, di una rottura, e tanto altro ancora. Tutto ciò, che effettivamente non sembra avere nulla di molto poetico, è immagine-emblema della nuova raccolta della Ferraro che, forse per la prima volta in questi termini, si mostra quale poetessa che ausculta il mondo a lei circostante.

Dalle odi d’impronta classica e ai sofisticati canti di idillio o di sogni edificanti, la Ferraro prende a cuore il processo metamorfico della vita sociale, urbana e non dell’oggi. Vi sono liriche dedicate all’amata terra calabra ma non sono propriamente sotto forma di tentativi encomiastici e di fierezza identitaria, semmai di scoramento e di disillusione dinanzi alla deturpazione (per usare una parola impiegata da Luciano Domenighini nella prefazione) che concerne la sua terra e vede scorrere davanti ai suoi occhi. Eppure l’intendimento non è mail il bieco repertorio, clinico e distanziato, di chi osserva mettendo in luce le criticità senza anteporre allo stato di disagio e di rovina una possibilità di miglioramento; se non un vero e proprio rimedio (che sarebbe tale solo nel caso auspicabile di una coscienziazione condivisa e seria) ma una sorta di riscatto e di rivincita. Anche morale, se quella concreta, effettiva, dei fatti reali, per impudenze e insensibilità, risulta irraggiungibile.

A sostenere queste brevi note di lettura chiamiamo in soccorso i versi stessa della Nostra che, meglio di ciascuna annotazione, ben evidenziano questo inasprimento del tono e l’invadenza possente di tematiche sociali, di apprensioni ricorrenti, di amarezza che si accresce. In “Per le strade” leggiamo di un “Canto strozzato di sirene/ Nessuno aveva promesso/ ciò che non è stato dato” (14); c’è in questi versi un fastidioso sapore acidulo, di incomprensione e di apparente scoramento, che veicola il percorso dell’intera silloge atta a narrare e a far luce sulla corruzione emotiva dell’uomo d’oggi, abitatore disilluso di “giorn[i] ingiallit[i]” (13) che sono “lunghi giorni appassiti” (19) al punto tale di arrivare a definire la nuova alba, la vita che riappare, come “il delirio del nuovo giorno” (26).

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La poetessa locrese Daniela Ferraro

La Ferraro, con una esegesi congrua del mondo di fuori, riconsegna al lettore i suoi pensieri più nefasti e smagati descrivendo il presente spazio difficile da vivere, quasi privo d’aria, dove l’uomo è stato privato pure del sentimento di mancanza (“Ci hanno tolto il silenzio”, 16) e dove i rapporti umani sono degenerati e disumanizzati a uno stadio bestiale, di impossibile contatto tra individui: “grigie solitudini[3] (29), “abbracciammo l’indifferenza” (17), “scheletri di menzogne” (25); il sentimento più puro è divenuta propaggine di metallo: “Amore acuminato” (19) e ogni uomo-pedina è una maschera, un sembiante di qualcosa dominato da logiche forzose imposte, che non regola e di cui resta assuefatto, rintracciati negli “sdruciti poteri” (23).

Tutto questo dà luogo a un clima distorto e difficile da districare, sospeso e assurdo nelle sue complicazioni autoprodotte: la Ferraro parla – non a caso – del “disordine di pensieri” (26) e di “rughe d’ansia” (27) che si creano e si fomentano dinanzi alla dissolvenza di ciascun fremito umano: dalla fraternità alla compassione, dalla comprensione all’ascolto. Il risultato è una “quiete tristezza” (28) che, descritta in altri termini, non è che una rassegnata sofferenza. La consolazione – che proviene dalla sperimentazione dello stato di miseria – è ben poca cosa: “L’unica gioia strana è quello sbuffo di verde/ che emerge improvviso da una crepa dell’asfalto” (29), e non è di certo utile nel riportare le cose – e l’uomo – alla giusta dimensione. È il tempo indicibile e incommensurabile di un’età che sembra non avere epilogo e che pone le anime di questi poveri cristi, che siamo noi, in sospensione, verso un dopo che non subentra. Così come il sole che è nascosto e non preannuncia a ritornare, l’uomo permane fisso affinché forse qualcosa si manifesti: “Eppure attende, anche lui attende/ ma non sa cosa” (36).

Ci sono versi come fendenti nelle poesie che tracciano la crudezza di giorni intrisi di sangue (“E si era vivi tra i vivi,/ e si è morti tra i morti/ […] / tra le umide maschere,/ un dio nefando che ride” in “Terrorismo”, 15) dell´impossibilità di dire dinanzi al crimine del genocidio (“Cessa il volo d’uccelli/ e odi il vento/ che macera le ceneri/ dei dannati immolati/ al Dio umano bifronte” in “La porta dell’inferno (Auschwitz)”[4], 24), condizioni di patente indigenza (“un uomo che fruga nella spazzatura” in “Inverno nel quartiere”, 30), la minaccia di un sisma che ritorna e il disarmo (“Mi muovo a fatica tra frantumi/[…]/ La gola asciutta, gli occhi ormai ciechi,/ e sono fantasma tra fantasmi in cerca” in “Terremoto”, 38), l’avvilente trauma che sorge da un atto di violenza sessuale (in “Stupro”, 47) condizioni di sofferenza, privazione, emarginazione e di scacco alla razionalità in cui l’uomo giunge a una conclusione disarmante: “Sembrava eterna la vita e non lo era” (53) vien detto nella poesia “Tenebre”, quale referto ultimo di una radiografia umana.

Impietosa l’analisi del tessuto urbano che la Ferraro esegue in “Le città accatastate” da far pensare ai condomini-alveari dei realisti terminali dove, appunto, la realtà è descritta nei suoi anditi degenerati mediante un ribaltamento dei correlativi oggettivi e dove la materia – che è poi l’umanità de-emozionata, prevale nei meccanismi di vita dell’uomo. Parole-oggetto che qui, in questa lirica di Ferraro, si esprimono in tali termini: “Le città accatastate strillano di giorno/ […] / strangolato dal traffico, tace l’urlo segreto/[…] / urgenze ribollenti […] / lustreggiano al centro, marciscono nelle periferie” (35).

Vorrei porre l’attenzione, in chiusura a questo commento, al fremito che pervade alcuni componenti della raccolta dove, pur dinanzi a tanto dolore, dramma e sperdimento, la poetessa non può non pensare alla possibilità di un miglioramento che risieda in un ravvedimento dell’umana coscienza. Così tra “braccia esangui sradicate dal corpo/ […] / [davanti] al rotolio della mitraglie /[…] e lo sfolgorio di baionette” (40) l’imperativo non ha a che vedere con la denuncia dei cattivi e la deplorazione totale di questa triste valle di lacrime, semmai con un’ipotizzabile apertura verso una coesione e una collaborazione tra anime che, unite, possono far la differenza: “Per quanto tempo, ancora, questa sofferenza?” (40) pronuncia la Nostra, come al culmine di uno sfinimento senza pari che ha condotto l’io lirico a evidenziare le debolezze umane che degradano a crimini. I versi che serrano “La voce”, una delle ultime poesie raccolte in questo volume, richiama – con tono ben più possente di quanto non sia accaduto precedentemente – l’esigenza di uno scuotimento forte, per un risveglio tempestivo: “-ché´ non c’è suono/ per chi cuore non porge-/ ma sgranò gli occhi/ un bimbo e il grido azzurro/ dal pugno chiuso/ esplose: “Pace! Pace!” (57).

Lorenzo Spurio

 

[1] Questa la motivazione della Giuria per il conferimento del Premio: “L’intimistica percezione della vita e del tempo si esprime attraverso il contatto di parole e immagini. In questa poesia tutto palpita, si muove, tutto è espressione e messaggio, conoscenza e conseguenza. L’atmosfera, decisamente pregnante e spaziosa, si sussegue tra indescrivibile dolcezza e dolorosa analisi del presente che è dolore continuo della vita, condizione umana indissolubile. Scorci lirici e descrittivi alimentano nel lettore lo slancio alla comprensione e alla condivisione”.

[2] A tal riguardo va considerata la sezione in Per le strade e altro che porta il titolo definitorio di “Mottetti”. Essi sono, generalmente, componimenti poetici dal limitato numero di versi e dal carattere popolare che, al loro interno, contengono massime di vita, riflessioni e sorta di insegnamenti dal tono personale, privi di un intendimento didattico in chi legge, atti a sviscerare le virtù e le credenze di un determinato individuo radicate nella propria dimensione territoriale e cultura popolare e subalterna.

[3] La solitudine ritorna nella poesia “Piccolo inverno” dove, nell’explicit, leggiamo: “Al chiuso di un focolare,/ la solitudine intesse leggende” (33).

[4] Poesia pubblicata, quale inedito, sulle pagine della rivista di letteratura online „Euterpe“ n°16, Maggio 2016.

 

La riproduzione del presente testo, in forma di stralcio o integrale, non è consentita in qualsiasi forma senza il consenso scritto da parte dell’autore.  

Trittico poetico sul dolore, dei poeti Igino Angeletti, Daniela Ferraro, Emanuele Marcuccio

Brividi d’eco” di Igino Angeletti, “Catene” di Daniela Ferraro e “Trascinarsi” di Emanuele Marcuccio. (trittico poetico a tre voci, proposto da Emanuele Marcuccio, ideatore e curatore del progetto “Dipthycha”, del quale sono editi tre volumi antologici interamente a scopo benefico)

«Come naturale evoluzione del dittico a due voci[1], nell’agosto 2016 nasce il trittico a tre voci. Tuttavia, in futuro non è mia intenzione individuare, proporre polittici a più voci, in quanto con la triade (tesi-antitesi-sintesi) si realizza la perfetta “trittica” corrispondenza, non è necessario andare oltre, si creerebbe solo dispersione.» – Emanuele Marcuccio

 

BRIVIDI D’ECO

IGINO ANGELEETTI

A parte il fatto

che il mio

è un sorriso stanco

di crepe amare

ai lati della bocca.

 

A parte il fatto

che la mia

è gioia mal riposta

di dolori senza sosta

umidi di pianto.

 

A parte il fatto

che il mio

è un gridare sottovoce

di urla senza pace

che d’eco fan tremare.

 

A parte il fatto

che sono vivo

e mi spavento

di quanto bruci questo sole

… e ogni alito di vento.

 

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CATENE[2]

DANIELA FERRARO

E ancora sento

il suon di mia catena

– non gemiti, ma urla

ha il prigioniero –

 

Fumiga il giorno

sopra cerule gronde,

tra lapidose strade

gli ultimi abbagli.

 

Liquide gioie

son rivi verso il mare,

lento il morire

dentro un rintocco d’onde,

sospesi i remi

a inespugnati nembi.

 

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“Number One” (1950) di Jackson Pollock (1912-1956)

 

TRASCINARSI [3]

EMANUELE MARCUCCIO

Acciaio rovente

mi tempesta il cuore

e non mi fa vivere

 

Tremendo m’arroventa

smarrito il mio andare

e m’inabissa

vuoto

 

Tedio mi sovrasta

avanzo e mi fermo

e mi sommergo di ricordi

e mi sommerge in un abisso

 

[1] Una composizione di due poesie di due diversi autori, scritte indipendentemente, anche in tempi diversi, e accomunate dal medesimo tema in una sorta di corrispondenza empatica.

[2] Daniela Ferraro, Cerchi concentrici. (sul cadere dell’alba), Aletti, 2012.

[3] Emanuele Marcuccio, Anima di Poesia, TraccePerLaMeta, 2014.

 

NOTA:

I tre testi poetici vengono pubblicati su questo spazio per gentile concessione dei rispettivi autori e con la loro autorizzazione.

Le immagini presenti su questo post hanno fini esclusivamente culturali e non commerciali.

Trittico poetico Francesca Luzzio – Emanuele Marcuccio – Daniela Ferraro

PhotoGrid_per Dipthycha 4.jpgDal maggio 2010 il poeta e aforista Emanuele Marcuccio ha individuato numerosi dittici a due voci[1], alcuni anche senza una sua poesia. Di questi particolari dittici poetici sono edite tre Antologie su suo progetto e cura editoriale, che contengono anche dittici proposti da alcuni dei poeti partecipanti, come Giusy Tolomeo, Lucia Bonanni, Daniela Ferraro, Aldo Occhipinti, Silvia Calzolari e Maria Palumbo, e il cui ricavato vendite è interamente devoluto ad AISM:  Dipthycha. Anche questo foglio di vetro impazzito, cʼispira…, Photocity Edizioni, 2013, pp. 90 (con postfazione di Alessio Patti), ISBN: 9788866824749;  Dipthycha 2. Questo foglio di vetro impazzito, sempre, c’ispira…, TraccePerLaMeta Edizioni, 2015, pp. 184 (con postfazione di Antonio Spagnuolo), ISBN: 9788898643257; Dipthycha 3. Affinità elettive in poesia, su quel foglio di vetro impazzito…, PoetiKanten Edizioni, 2016, pp. 180 (con prefazione di Michele Miano e con un saggio di postfazione di Lorenzo Spurio), ISBN: 9788899325374. Un quarto Volume, «Dipthycha 4. Corrispondenze sonore, emozionali, empatiche… si intessono su quel foglio di vetro impazzito…» è in lavorazione, che raccoglierà anche una sezione di nove trittici a tre voci, tra cui il presente, e il cui ricavato sarà devoluto per i terremotati del nostro centro Italia.

Scrive Marcuccio in un suo aforisma del 2016, sul dittico a due voci: “Il tema comune alle due poesie dei due autori è solo il punto di partenza per l’individuazione di un dittico a due voci; è necessario che ci sia anche una corrispondenza sonora o emozionale e/o di significanza, una sorta di corrispondenza empatica, una analogia, una affinità elettiva poetica (una dittica corrispondenza/comunicazione) e soprattutto i due autori del dittico a due voci devono attenersi ai rispettivi modi di fare poesia, senza cercare di imitarsi a vicenda, per non avere come risultato qualcosa di simile a una poesia a quattro mani. Il fine non è l’imitazione dell’altra poesia per cui si vuole individuare il dittico, ma l’affinità elettiva, l’analogia, l’empatia poetica”.

Come naturale evoluzione del dittico a due voci, nell’agosto 2016 nasce il trittico a tre voci. Tuttavia, in futuro, come ha dichiarato l’ideatore Marcuccio, non saranno individuati polittici a più voci, in quanto con la triade (tesi-antitesi-sintesi) si realizza la perfetta ‘trittica’ corrispondenza, non è necessario andare oltre, si creerebbe solo dispersione.

Alla vostra lettura il trittico poetico a tre voci sui ricordi, proposto dallo stesso Marcuccio, con i poeti Francesca Luzzio, Daniela Ferraro, Emanuele Marcuccio: “Ricordi” di Francesca Luzzio, “Larve” di Daniela Ferraro e “Ricordo” di Emanuele Marcuccio.

 

RICORDI[2] 

FRANCESCA LUZZIO 

Qui, vicino

al camino

guardo le fiamme

delle illusioni

e tra i vetri madidi

di sudore

i campi innevati

per amore.

Mi immergo nel tepore

dei ricordi senza nome,

cenere di un passato

carico di passione.

Sorrido piango

e mentre il gatto fa le fusa

scivola leggera

la musica disarmonica

della vita.

Nel brivido pesante

del patire di sbiaditi ricordi,

solo le tue rosse labbra

guizzano trasparenti

dalle fiamme…

e suda bianca la mia fronte

nel silenzio faticoso

dell’amore.

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LARVE[3]

DANIELA FERRARO 

E ritornano ancora

i ricordi inumati.

– Eppure, in bianche bare,

giacevano sul fondo –

Li ho sentiti ululare

dentro un sole ammalato

mentre graffia le nubi

mendicando la vita.

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RICORDO[4]

EMANUELE MARCUCCIO

O tu che l’ampia volta

della vita ascendi,

o tu che l’ampia prora

dell’azzurro varchi!

Il sonno m’inabissa profondo,

il mare mi plasma tranquillo,

ricado riverso

nel fianco ritorto,

ricado sommerso

nel freddo glaciale,

quel bianco dolore,

che mi arrossa la faccia,

quel freddo vapore,

che m’avvampa tremendo.

28 ottobre 1994

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[1] Così ha definito Marcuccio il dittico a due voci: una composizione di due poesie di due diversi autori, scritte indipendentemente, anche in tempi diversi, e accomunate dal medesimo tema in una sorta di corrispondenza empatica.

 [2] Francesca Luzzio, Ripercussioni Esistenziali, Thule, 2005, p. 16.

[3] Daniela Ferraro, Piume di Cobalto, Aletti, 2014.

[4] Emanuele Marcuccio, Per una strada, SBC, 2009, p. 51.

 

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“La porta dell’inferno” di Daniela Ferraro con un commento di L. Spurio

Nella giornata della memoria, pubblichiamo una poesia della poetessa calabrese Daniela Ferraro ispirata alla deplorevole carneficina della seconda guerra mondiale con un commento del critico Lorenzo Spurio a continuazione.

La porta dell’inferno

di Daniela Ferraro

S’apre, improvvisa,
in mezzo al verde
e l’erba stinge
e cessa il vol d’uccelli
e odi il vento
che macera le ceneri
dei dannati immolati
al Dio umano bifronte.

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Commento di Lorenzo Spurio

La lirica, costituita da versi lapidari e assai visivi, ci immette in uno scenario di profonda ambiguità e di desolazione nella quale le tinte cromatiche hanno subito un processo di slavatura. Non sono, però, i colori ad aver subito questa operazione di illanguidimento da rendere le tinte vane e difficilmente identificabili, ma sono gli oggetti, la materialità concreta, indicata nell’ “erba” ad essere interessata così non è che leggendo la lirica immaginiamo una erba-non erba cioè a un’entità che ne descriva la sua assenza, piuttosto la Nostra il quell’ “Erba stinge” sembra quasi di vedere i fili d’erba che perdono il colore, che vengono deprivati di una delle loro caratteristiche che l’uomo percepisce per mezzo dell’utilizzo empirico dei sensi. Ma non è l’erba che effettivamente stinge, piuttosto è la vista allucinata dell’uomo, stordita dal disprezzo e vituperata dall’odio che lo porta all’adozione della bieca violenza a non permettergli, quasi come una dura condanna adoperata dalla Natura che dinanzi a ciò è completamente inerme, a distinguere nettamente la tempra cromatica dell’erba, a percepirne con distinzione tale qualità visiva. Nell’abulia dei colori (essi sono assenti non in quanto tali, ma a seguito dell’incapacità dell’uomo di identificarli) si sposa la pesantezza dell’immobilità: gli uccelli, proprio come il verde perso dell’erba, hanno cessato di produrre versi, abiurando alle leggi della loro esistenza nel mondo. Esistono come parvenze, ma anch’essi sembrano aver perso l’anima dinanzi a tanta tribolazione e degrado delle coscienze. Il vento, che la Nostra richiama, e che potrebbe servire a rivitalizzare l’ambiente, a far uscire dal torpore nel quale la natura tutta si è stretta serrando gli occhi sperando in un epilogo veloce delle vessazioni, non è  richiamato quale presenza benigna, bensì assume il nefasto carico di morte che aleggia nel campo di lavoro. E’ un vento di morte, putrido e annullante, perversamente pesante e doloroso, la sua aria contiene gli ultimi sospiri della gente a cui è stata data la morte, gli afflati emozionali, gli ansimi di tormento. E’ un vento-miscela, assai più denso e visibile di qualsiasi spostamento d’aria. La percezione dello stesso è motivo d’ulteriore afflizione nella certezza di una condanna atroce da scontare senza aver commesso peccati. La chiusa della poesia, serrata e assai perentoria, nella figura ambigua e difficile di un “Dio umano bifronte”, si riallaccia a quella natura che ha assunto gli elementi del Male, quasi per trasfusione dalle malvagità dell’uomo che in quel luogo opera senza commiserazione e improntato ad una legge snaturata. Il Dio che la Ferraro descrive non è solo “bifronte”, che osserva maledettamente il genere umano con una doppiezza di prospettive, ma si è fatto “umano”, risiedendo nelle carni ormai cenere di ciascun disgraziato che ora vaga in quel vento di morte che soffia con raffiche taglienti come asce. Si faccia silenzio per ascoltare quei fiotti di tormento e allontanarli per sempre.

 Lorenzo Spurio

 Jesi, 26-01-2016

La poesia viene pubblicata su Blog Letteratura e Cultura per gentile concessione e con l’autorizzazione dell’autrice.

 

“Piume di cobalto” di Daniela Ferraro, la prefazione al volume a cura di Lorenzo Spurio

“Piume di cobalto” di Daniela Ferraro

PREFAZIONE A CURA DI LORENZO SPURIO 

Daniela Ferraro - Piume di cobalto

Daniela Ferraro – Piume di cobalto

Questa nuova silloge poetica di Daniela Ferraro richiama il lettore a un’interpretazione concettuale dell’opera quale universum di contenuti, in cui le varie liriche sono in qualche modo –si cercherà di spiegarlo- non solo unite tra loro, ma si riflettono l’un l’altra. La poetessa calabrese ritorna così dopo Cerchi concentrici (a cadere dell’alba), pubblicato nel 2012, a compendiare le suggestioni che nutre verso il mondo, le emozioni variopinte e speziate dal ricordo e a svelare parte di sé e della sua esperienza di donna. Seppure è notevole il processo di maturazione che la poetessa ha effettuato in questi ultimi anni (individuabile soprattutto in una tecnica sintetica del verso, che raramente sfiora l’ermetico) credo di poter osservare che da un punto di vista meramente tematico (così come avevo accennato in una recensione alla sua precedente opera) risulta quanto mai difficoltoso sviscerare nella loro singolarità le motivazioni dalle quali questa poetica parte.

E’ chiaramente il mondo paesaggistico con le sue varietà floreali, arboricole e condizioni meteo a fare da sfondo alle varie liriche nelle quali la poetessa è come se si fermasse di colpo per donarci una sorta di diapositiva. In effetti l’io poetico sembra sospendersi più volte man mano che leggiamo le varie poesie; al lettore è richiesta implicitamente una compartecipazione all’atto della costruzione poetica (poiesis in greco significa “costruire” con le parole) superiore a quella che normalmente si pattuisce tra autore-lettore in qualsiasi atto di lettura e di interpretazione. Questo non perché le poesie siano difficili o costruite in un modo che al lettore può sembrare ostico comprenderne il significato, ma per tentare di ridurre al massimo le possibilità di incomprensione. Chi scrive poesia non si occupa (o non dovrebbe occuparsi) di come questa, nell’atto di lettura di un altro, venga intesa, concepita e realizzata concettualmente perché è chiaro che ogni lettore leggerà e interpreterà una silloge in base al suo filtro verso il mondo, in base alle sue conoscenze, in base al grado di affinità e di empatia e a tante altre cose che, in via generale, non sussistono, invece, per quanto concerne la narrativa dove, ciò che si narra è ciò che l’autore vuole farci intendere e che quindi dobbiamo essere disposti ad accettare.

Nel mondo poetico di Daniela Ferraro (ed è questo a mio modo di vedere uno dei punti di forza) ci si potrebbe in effetti perdere di continuo, ma perdersi non è mai qualcosa di negativo perché mette in moto un processo di analisi e ricerca nel quale l’animo umano è altamente cosciente e impegnato. Non è un caso che in “Farfalle” (emblema di leggerezza, ma anche di sospensione per ritornare a quanto sopra si diceva) la poetessa parli di “vita/ che ormai non ha crocicchi”, uno spazio concreto e della mente dove la destinazione, la possibilità di fuga o un eventuale punto d’incontro (tra sé e gli altri, tra l’io e il proprio sé) sembrano ormai essere impossibili.

A dominare nelle varie liriche sono ambientazioni prevalentemente fosche descritte in termini asciutti e rivelatori di una meteorologia infausta quanto inclemente, declinazione, forse, di uno stato d’angoscia con il quale si è convissuto in un determinato momento dell’esistenza. Dal punto di vista climatico, infatti, tra tante nuvole, tempeste, nebbie e pioggia, risulta sempre più difficile trovare un raggio di sole. Questo non significa che esso sia totalmente assente, ma nascosto, che va ricercato non tanto nel cielo, ma dentro di noi. Il vento, poi, è padrone indiscusso di una lirica nella quale non tanto si traccia un momento del passato con il ricordo dello sferzare delle fronde o il lambire della pelle, ma si incita alla sua forza, quasi cantandone l’importanza e decretandone il bisogno del rispetto nei suoi confronti, affinché, “imprima il bacio/ per morire in silenzio”.

L’impalcatura del libro è quella di un viaggio nel tempo (concreto) del giorno (dall’alba al suo tramonto o crepuscolo, come indicato in una lirica) e di un anno con le varie stagioni che ritroviamo nella diversa tipologia della flora anche se –in linea con l’ombrosità meteorologica di cui si diceva- è l’autunno a dominare, quel momento fatto di scurezza, desolazione e apparente morte naturale (gli alberi si spogliano, alcuni animali vanno in letargo). Non è assolutamente un caso che una delle parole più ricorrenti in tutto il libro sia quella di ‘ombra’ (con le sue naturali derivazioni ), che sta a delineare da una parte una realtà cupa, nella quale la luminosità sembra una recondita utopia, dall’altra una sorta di frontiera sospesa, in un universo dove a tratti è difficile fuoriuscire dal sogno per entrare nella realtà o dove si rischia di trovarsi ingabbiati in aporie di difficile soluzione. E’ richiamato a livello semantico e concettuale un modo che supera quello reale e concreto e nel quale, con l’opportuno utilizzo di vocaboli, si cerca di intessere uno stretto e affiatato colloquio tra il reale e il metafisico: “danzavano i sogni/ su punte di cristallo/ nel viale fiorito”; altre volte la Ferraro plana sul pensiero esacerbandone la forma per rinverdire considerazioni esistenziali volte a una ricerca infruttuosa ma con la quale è oramai in pace con se stessa: “Chi ero o sono io/ vaga è importanza”.

Il linguaggio, com’era stato nella precedente silloge, si rafforza con l’uso di vocaboli che non solo trasmettono un’immagine in sé definita, ma addirittura un concetto nel quale, con una modalità simile ai versi comunicati, si riversa il significato di liriche già lette, connettendole in un percorso della psiche, forse tortuoso, caratteristico del poetare della Nostra. L’utilizzo di alcuni termini desueti non intralcia più di tanto il naturale percorso di comprensione (la Nostra è una docente di Lettere e ha un rapporto diverso con il vocabolario italiano rispetto a quello che potrebbe avere la comune “casalinga di Voghera”) né lo ingabbia in una poetica d’antan o dal gusto barocco nella resa sulla carta di situazioni, eventi e riflessioni su momenti vissuti. Per gli amanti della letteratura, inoltre, non sarà difficile ritrovare qualche cameo letterario in “lo stormir di fronde” o nel “dolore antico” di leopardiana e carducciana memoria, rispettivamente.

Alcune poesie si fanno più intime e sembrano racchiudere il nerbo di un vissuto che ha sperimentato gioie e dolori e da entrambi ne ha tratto esperienza e conoscenza del mondo. Sono poesie in cui è evidente l’afflato per la vita, il canto alla gioia e a una vita di condivisione con l’altro; se un abbraccio ultimo, unico testimone di un allontanamento (non ci è dato sapere se obbligato e dunque subito o se libero, frutto di una decisione) è vissuto in termini fortemente cromatici e visuali come “l’ortica tra il rosso dei papaveri”, è anche vero che in questo libro si leggerà molto di amore (o meglio, si scoprirà l’animo sensibile di una donna che non teme di offrirsi ai più) e in questi versi chiosa verità eclatanti sostenute da un linguaggio semplice, aperto a tutti e di impressionante resa: “Non c’è memoria quando l’amore è inganno” o ancora “L’amore è un demone santificato”. L’amore ci insegna la Nostra è un sentimento nel quale credere e affidarsi se scevro dall’inganno, frutto di una propria scelta e motivato da un reale affiatamento perché, in altre circostanze, non è poi così raro che esso possa tramutare in qualcos’altro di molto deprimente: in una scialba consuetudine, come bersaglio di un tradimento, come strumento per soggiogare mente e corpo. Ecco perché la nostra sente il bisogno di porre l’attenzione qua e là sulla necessità che il sentimento sia autentico e vissuto, anche perché il clima sociale nel quale viviamo nel nostro oggi non aiuta nella realizzazione e conservazione dei rapporti umani dove tutto, anche l’amicizia o l’amore, spesso è ridotto a mercificazione, “La gente ha fretta…/ Passa, saluta, inciampa”.

Piume di cobalto, in questa sintesi superba di itinerario poetico in cui il blu acceso e quasi metallico si sposa con una dimensione aerea, sospesa, quasi surreale, è anche un invito a saper cogliere l’attimo, a far dono non solo dei propri successi, ma anche delle proprie sconfitte, a saper rielaborare le esperienze, riviverle e ricrearle con l’atto della scrittura, un po’ per esorcizzarne le negatività, un po’ per convincersi che poi quegli “ombreggianti pensieri”, quelle “vaghe apparenze tra fluttuanti nebbie”, non siano che caricature di un vissuto che poco ci appartiene perché siamo riusciti a cogliere quel raggio di sole, pure flebile, che nascosto dietro le nebbie dell’esistenza, ha messo fine a quell’universo di ombre e incertezze.

 

Lorenzo Spurio

 

Jesi, 23.09.2014

 

“Carpe”, poesia di Emanuele Marcuccio, con vari commenti critici

Nota per il lettore

Penso sia giusto informare il lettore, riguardo all’evoluzione che sta seguendo la mia poesia. Dopo “Monte Olympus” la mia poesia si è avviata verso la ricerca di una maggiore sintesi ed essenzialità; ecco che, dopo l’abbandono della punteggiatura, in cui trovo maggior respiro, vado ad abbandonare anche l’incipit con lettera maiuscola, a riprova di ulteriore sintesi ed essenzialità, come a sottintendere un verso e tutti i versi precedenti.

La poesia di un poeta deve essere sempre in evoluzione, senza mai crogiolarsi in uno stesso modo di fare poesia.

È sempre quello che ho cercato di fare. 

 

CARPE[1]
(poesia di Emanuele Marcuccio)
  
ammassi
informi
tesi all’invero limite
 
informi
ammassati
 
carpe

  

14 agosto 2013

 

Commento a cura di Luciano Domenighini

Per il contenuto e l’impianto fortemente astratto può rientrare nelle cosiddette liriche “cosmiche” del poeta.

È ermetica e, anche per la brevità, ha, nella sua dimensione di frammento, un taglio occasionale ed esperitivo.

Sono nove parole in tutto ma l’invenzione letteraria è feconda. Due periodi. Nel primo periodo un soggetto aggettivato (“ammassi informi”) agente su un participio passato (“tesi”), unico, condensatissimo verbo, realizza un chiasmo anaforico dove l’aggettivo (“informi”) è reiterato e dove il sostantivo, per variante grammaticale, diviene aggettivo di se stesso (“ammassati”). Le due coppie chiasmatiche sono separate da un inciso avverbiale neologico “di variante” (procedimento caro al poeta) ottenuto dalla variazione per parafonia di un lemma consolidato dall’uso (“inverosimile” che diviene “invero limite”) con totale sovvertimento del significato.

Il secondo periodo, monoverbale, è un celebre imperativo latino di ascendenza oraziana, tutto sospeso, straniato, senza maiuscola, senza punteggiatura, bruciante, criptico e gravido di significati.  

Luciano Domenighini

 

Bellaria-Igea Marina (RN), 14 agosto 2013

 

 Commento a cura di Rosa Cassese

Con versi sintetici ed andamento sottrattivo, il poeta vuole rappresentarci quanto sia condensata la reale situazione dell’umanità come “massa informe” che, ormai ha raggiunto il limite della mancanza d’identificazione per cui devi carpere (“prendere”) solo quello che dà, cioè una informe “figura”, intesa come massa; sembra un gioco di parole ma, è un concetto filosofico, come un circolo vizioso.

 Rosa Cassese

3 settembre 2013

 

 Commento a cura di Marzia Carocci

Poesia che nella fulminea immagine traccia il caos esistenziale dell’umanità e come voce fuori campo si ode l’imperativo “carpe”, come unico appello ad uscirne fuori per non viverne il contesto.

L’inutilità delle lettere maiuscole e della punteggiatura rende ancora più immediato il fatto evidente in se stesso dando più importanza alla parola senza orpelli che limiterebbero il tratto visivo e allusivo del poeta.

Giudico gli “ammassi informi” descritti da Marcuccio , la carne umana nel suo più povero esistenzialismo, carne di uomini e donne viste e osservate da un punto cosmico con occhio scrutatore.

Il “carpe” diventa monito per una salvezza all’immobilità dell’essere sempre più statico e inerme in una società fredda e inevoluta.  

Marzia Carocci

Firenze, 3 settembre 2013

 

Commento a cura di Cinzia Tianetti

1374608_10202114889860903_1532518658_nIn poesia, in pochi versi si può rappresentare un universo, costituito dal proprio personale sentito stato verbale; spinto a seguire, a toccare le linee a margine della contraddizione, che dal reale alla scrittura poetica si manifesta nella ambivalenza della parola, quando intercorre in “una relazione di parole”.
Ogni espressione della poesia evoca più significati come una teoria di sempre nuove forme; fa pensare alla goccia non come elemento che partecipa a formare il mare ma che è mare.

Di particolar risalto è l’immediatezza d’espressione, definita non in una frase ma in una parola, che, come una scatola inconosciuta induce a portare l’immaginazione del lettore a quel che la stessa parola rievoca istintivamente. Ricorda le “parole chiave” che stimolano la produzione di altre parole, nell’onda di quel che inducono le prime, in una costruzione personale-emozionale, senza il venir meno del significato oggettivo poetico.

Ogni termine aspira all’assoluto e cerca l’altro al limite del resto delle parole non dette, in una realizzazione scarna, svestita dalle convenzioni e regole linguistiche divenendo pietre miliari di vie indotte dall’immaginazione d’ogni lettore.

La trasposizione di un sentito (nel senso cioè che si prova, che corrisponde ai propri sentimenti) ispirato in un “detto” realizza tutto in realtà e così gli informi oggetti sono gli informi panorami, gli informi elementi, l’informe passato, presente, futuro, l’informe memoria, gli informi sentimenti, emozioni, valori, l’informe sogno. Tutto realizza l’uomo nel suo essere, nel suo “sentire”, nel suo essere nel mondo: ecco “l’invero limite” maturato, e dagli “ammassi informi” nella presa di coscienza umana, poetica, agli “informi ammassati” del generato, compiuto, atto creativo.

Scrive Fernando Pessoa ne “Il libro dell’inquietudine”:
«Questo scienziato del lontano futuro proverà uno scrupolo speciale verso la sua vita interiore. Da se  stesso si fabbricherà lo strumento di precisione per ridurla a oggetto d’analisi. Non vedo grande difficoltà nel costruire uno strumento di precisione per un uso autoanalitico, unicamente con acciaio e bronzo del pensiero […] E naturalmente sarà necessario ridurre anche lo spirito a una specie di materia reale con una specie di spazio nel quale esso esiste. Tutto questo dipende dal fatto che le nostre sensazioni profonde siano aguzzate al massimo fino a che, spinte fino al limite del possibile, riveleranno senza dubbio o creeranno in noi uno spazio reale come lo spazio reale come lo spazio che esiste e nel quale è la materia». 

Cinzia Tianetti

Misilmeri (PA), 3 settembre 2013

 

Commento a cura di Daniela Ferraro

 La mancanza della maiuscola iniziale come pure della punteggiatura ben rende nella perfetta coniugazione tra forma e contenuto (informe-ammassi-ammassato) e contribuisce ad infondere al tutto il senso di un ghirigoro, di una vertigine senza né inizio né fine. E all’interno di questo fluire caotico sta l’umanità così meschinamente inconsapevole della personale condizione quanto sempre più protesa verso “l’invero limite”.

Lo potrà mai raggiungere?

Tutta la poesia sembra ruoti in cerchio e da questo cerchio non traspare alcuna via d’uscita. Enigmatico il “carpe” finale.

Un ulteriore riferimento all’ingordigia umana che tanto brama pur all’interno dei propri ristretti ed insuperabili limiti o un invito oraziano a godere del poco e del raggiungibile che ci è concesso come unica via di fuga da tale avvilente condizione?

L’uso del “Carpe” finale è, comunque, davvero geniale. Non solo Marcuccio evita, infatti, l’uso di un banale “cogli” o “prendi” laddove si doveva concentrare lo sforzo centrale di un significante sempre in ascesa fino all’esplosione finale ma anche la sua oscurità lascia il lettore in sospeso portandolo a rileggere più volte sentendosi, alfine, trascinato all’interno di quel caos esistenziale in cui comprendere l’esatto senso di ogni specifica parola passa in secondo piano rispetto al forte coinvolgimento tra schizzi di immagini espressioniste di potente fattura. 

Daniela Ferraro

 

Locri (RC), 8 settembre 2013

 

 

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“Cerchi concentrici (sul cadere dell’alba)” di Daniela Ferraro, recensione di Lorenzo Spurio

Cerchi concentrici (sul cadere dell’alba)
di Daniela Ferraro
Aletti Editore, 2012
Pagine: 77
Isbn: 978-88-591-0628-9
Costo: 12 €
 
Recensione di Lorenzo Spurio

 

Lasciatemi uno spazio
in cui blandire
l’ultima stria di mare
dove al cielo s’attacca
placida l’onda
per più fidata morte,
senza rumore. (51)

 

61649_3840551364912_30219808_nDaniela Ferraro, docente di Lettere e poetessa, vive a Locri, nella provincia di Reggio Calabria ed ha pubblicato due sillogi poetiche: “Icaro” (Rupe Mutevole, 2011) e “Cerchi concentrici (sul cadere dell’alba” (Aletti, 2012). La sua poetica raffinata e suadente fa pensare al lettore attento a un odore dolce, forte e totalizzante, del quale prima è inebriato e che poi non riesce a ritrovare. Nelle poesie che compongono la raccolta “Cerchi concentrici”, il cui titolo rimanda a una rotondità nella sua ridondanza, ma anche a una compresenza dentro a un limite di circonferenza, la poetessa abbandona esperienze empiriche e travalica una poetica di tendenza neo-popolarista per giungere, invece, al cuore delle cose. Lo fa con un linguaggio a tratti ricercato e apparentemente incongruo con la costituzione di salde impalcature di correlativi aggettivi prediligendo una strutturazione del verso che è breve e a tratti impetuosa. Nulla di ciò che potrebbe sembrare eccessivo o aggiuntivo è presente in queste liriche che si caratterizzano per una fisionomia minimalista e un gusto ricercato che le trasforma in una sorta di preghiera laica, molto consapevole del tempo in cui vive: “Fermate lo scalpiccio./ Qui troppa gente/ di pugni fa rovello/ e inciampa l’ombre” (51).

L’idea che il lettore si va facendo man mano che prosegue nella lettura è che c’è come un qualcosa che rimane inespresso e che l’io lirico ha espressamente voluto metamorfizzare nei suo versi, ma il compito della poesia è proprio quello di andar ad indagare il mondo attraverso gli elementi di esso che comunemente non consideriamo, ed è così che diventa possibile per la poetessa giungere a ciò che nel reale travalica dal campo di possibilità (“afferro l’ombre”, 11).

I vari titoli delle poesie nella maggior parte dei casi sono resi nella loro forma nominale (“Il sognatore”, “Inedia”, “Attesa”, “Leggerezza”, etc) quasi a voler sottolineare come l’azione (la componente predicativa) non sia che seconda e dipendente dall’universo di oggetti, cose ed elementi che compongono il nostro quotidiano con le quali è possibile colloquiare proprio come i “profili di silenzi” (21).

Difficile poter dire con una certa sicurezza quali sono le tematiche portanti di questa silloge, perché in una sola poesia Daniela Ferraro parla evocativamente di più cose, alludendo a più mondi “sommersi” del nostro io o del nostro passato che vive attraverso il ricordo, ma azzarderei nel dire che è la natura vivente con i suoi misteri ad essere uno dei punti di partenza di questa indagine introspettiva che la poetessa fa dove va pure detto che l’elemento sonoro è importantissimo: da una lirica all’altra sprofondiamo nel caleidoscopio di rumori, suoni sommessi, fruscii e sciabordii che fanno compagnia al lettore e risuonano nella stanza durante la sua lettura. Non da ultimo va detto che come ogni grande poeta, la Ferraro non può esimersi nel fondere le sue liriche con Eros e Thanatos, amore e morte, che sono le pulsioni che Freud descrisse nei suoi studi sulla psicanalisi. E tra cieli stellati, sogni evocati, amori finiti, la poetessa non può fare a meno di riscoprirsi nella quiete (“Esangue il cielo goccia, d’infagottate stelle,/ desolati silenzi”, 67) riecheggiando la poetica del silenzio di Montale.

 LORENZO SPURIO

 10-09-2013