“Paragrafi per ricordare il poeta romano Dario Bellezza: polemico e irruento, icona contestata degli anni ’80” – Di Stefano Bardi

Articolo di STEFANO BARDI  

Il 1968 fu un anno importante per l’Italia: tanti giovani si riversarono sulle strade con le parole e con i bastoni, per cambiare il loro futuro. Cambiamenti che riguardarono pure la nostra letteratura, portando alla “morte” della Neoavanguardia e alla nascita della cosiddetta letteratura postmoderna, dove non è più possibile intravedere le linee letterarie di rilievo, le precise muse ispiratrici, né le poetiche letterarie del passato, bensì un linguaggio e una grammatica, che non hanno nessuno scopo investigativo o psico-sociale. Anche la poesia ebbe i suoi cambiamenti, che durarono, però, fino agli anni Ottanta, poiché molti poeti di quel tempo trattarono tematiche troppo legate alle proteste giovanili sessantottine e al boom economico italiano, senza riuscire ad andare fuori da questi due binari. Tematiche che per l’appunto videro molti poeti essere dimenticati e “schiacciati” negli anni Ottanta, dalla resurrezione della novella e, in particolar modo, dalla resurrezione del cosiddetto romanzo commerciale.

Eppure non tutti i poeti si adeguarono a quella poesia e alla trattazione di quelle tematiche, creando così una nuova lirica denominata neo-orfica o neoermetica che dir si voglia, proiettata verso l’esaltazione magica della poesia, verso la forza della parola immaginaria ancora in grado di scoprire legami e messaggi oceanici della realtà e verso la divulgazione di poesie “eterne” attraverso lessemi sublimi, “divini”, e vigorosi. Una poesia, questa, che ebbe la sua massima espressione attraverso il poeta, scrittore e drammaturgo Dario Bellezza (Roma, 5 settembre 1944-Roma, 31 marzo 1996). Uno scrittore che purtroppo è per lo più dimenticato ai giorni nostri, sembrerebbe non per motivi letterario-ideologici, bensì per motivi di carattere privato: la sua omosessualità e la sua morte per AIDS. Elementi, questi, che fecero vedere quest’autore a molti critici del suo tempo come uno scrittore osceno e scandaloso.

La poesia di Dario Bellezza può definirsi coma una lirica senza lustrini e brillanti, una poesia realistica in cui sono liricizzati i ragazzi amati velocemente dal poeta, che non appartenevano al mondo dell’amore sentimentale, ma a quello della prostituzione e del sesso mercenario. Amori veloci e puramente sessuali che erano volutamente ricercati dal poeta romano, poiché lui medesimo, per tutta la sua esistenza, ebbe uno legame ambiguo con il suo corpo, concepito come un universo colmo di rabbia, ansia, animosità ed esecrazione. La sua poesia può essere vista come un’infinita rampogna composta da lessemi inaciditi, amari, arroganti, eccitanti, come un sistema composto da stonati “frammenti” musicali.

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Dario Bellezza

Il 1971 fu l’anno della raccolta poetica Invettive e licenze, dove possiamo vedere i temi che caratterizzeranno la sua intera opera, ovvero l’ambiguità sessuale e la dipartita, temi vissuti dal poeta romano con straziante rimorso e mancanza di coraggio. Più nel dettaglio sembra giusto osservare che il sesso sia da lui concepito come un mondo composto di peccati e dissolutezze, che fanno nascere nello spirito del poeta un sentimento di vergogna, per gli amori incoerenti da lui vissuti e sperimentati. La dipartita, invece, simboleggia una notte colma di oscurità, paure e consapevolezze etico-esistenziali. Opera dai toni biografici, poiché nei testi qui raccolti, Bellezza ci mostra se stesso nella sua vicenda umana, nella sua angoscia e nei suoi calorosi amori all’interno di una quotidianità che vorrebbe distanziare, ma in cui dimora senza soluzione e senza trovare una nuova strada esistenziale. Opera nella quale si può toccare con mano la viscida autenticità intima del poeta, liricizzata attraverso due vie: quella di una lacerante e nobile compassione e quella di una eccitata narrazione lanciata verso il tragico, per mezzo dell’uso di una densa enfasi. Quest’opera può definirsi come una raccolta dell’estrema disubbidienza, rappresentata dal poeta attraverso una sintassi e una grammatica giornaliera, con tematiche che proiettano nella mente del lettore immagini feroci ed estreme, attraverso liriche corporali che si trasformano in poesie maniacalmente ansiose.

Nel 1982 venne pubblicato Libro d’amore in cui ritorna il tema del sesso, del voyeurismo cadaverico e della dipartita. Temi che sono affiancati mediante le immagini dei castighi corporali del poeta, che si fondono con la sua gentile e orgogliosa voce che fortemente declama lo spregevole e il divino fino a creare delle vere e proprie scene poetiche teatrali. Anche la giovinezza perduta e consumata è presente in questa raccolta. Una giovinezza che è rimembrata dal poeta come un’età dolce e luminosa, della quale purtroppo rimane ai suoi giorni una folle notte e la dipartita. Temi che sono espressi dal Nostro, attraverso un linguaggio esplicito.

Il 1990 fu l’anno della raccolta Libro di poesia, opera dal perfetto equilibro melodico conquistato grazie all’utilizzo di registri medio-elevati che ben si fondono con le tematiche dell’ardente fuoco passionale, della sconfitta sociale, dell’emarginazione etico-spirituale, della falsità umana e del rimorso della gioventù perduta. Anche in questa raccolta ritorna il tema dell’erotismo, non più visto come qualcosa di perverso, ma come qualcosa di puro, aulico, dolce. Una scrittura, questa, che può definirsi come una scrittura corporale e che evidenzierà gli aspetti più trasgressivi e barocchi della sua vita autolesionista.

Nel 1996 venne data alle stampe la raccolta Proclama sul fascino che può essere vita come l’opera della maturità del poeta romano, poiché le poesie presenti in questa raccolta sono colme di consapevolezza e sapienza, essendo il frutto della probità poetica e dell’ansia morale vissute in prima persona. Liriche che trattano temi intimi e privati del Bellezza come per esempio lo strazio esistenziale, la vitalità, la puerilità e la consumata fanciullezza, infine la dipartita, che dalla prima alla sua ultima raccolta è sempre presente. 

STEFANO BARDI

Bibliografia di Riferimento:

Della Bella, Sacro e diverso. Percorsi genettiani nell’opera di Dario Bellezza, Bologna, Il Lavoro Editoriale, 1990.

Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1992, 2 vol., Tomo II.

Niglio, Dario Bellezza, Roma, Altrimedia Edizioni, 1999.

Lorenzini, La poesia italiana del Novecento, Bologna, Il Mulino, 1999.

Asor Rosa, Letteratura italiana del Novecento. Bilancio di un secolo, Torino, Einaudi, 2000.

Lorenzini, Poesia italiana del Novecento, Roma, Carocci, 2002, 2 vol., Tomo II – Dal secondo dopoguerra a oggi.

Cucchi – S. Giovanardi, Poeti Italiani del Secondo Novecento, Milano, Mondadori, 2002, 2 vol., Tomo II.

Raffaeli – F. Scarabicchi, Dario Bellezza: album, Ancona, Centro Studi Franco Scataglini, 2002.

 

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“Le schegge” di Izabella Teresa Kostka, recensione di Lorenzo Spurio

Izabella Teresa Kostka, Le schegge, Lulu, 2016.
Recensione di Lorenzo Spurio 

Nulla è rimasto del tossico “amore”

Evaporato coll’essenza dell’ultimo sospiro.

Un libro forte, dalla struttura tripartita, di sgargiante monito civile, che la poetessa polacca naturalizzata milanese ha dedicato a tutte le donne. Ad aprire il volume è una breve nota della stessa autrice dove chiarifica la ragione e il significato di data raccolta poetica. Il volume ha come tema fondante quello del dolore. Si tratta di uno stato di sofferenza lancinante che amplifica i suoi connotati perché vissuto nella solitudine, nel silenzio, nell’indifferenza dei più e in circostanze di vero abbandono emotivo e psicologico. Izabella Teresa Kostka con una poetica scevra da ridondismi e velleità melliflue, fornisce al lettore sprazzi di incoscienza e assuefazione di esistenze derelitte, emarginate dall’amore, lontane da un senso di felicità e naturalezza che sembra irrimediabilmente perduto.

Le stesse schegge che figurano nel titolo e nell’immagine di copertina stanno a delineare un mondo residuale, quello di una particola appuntita che, al contatto, produce fastidio e dolore, con spargimento di sangue. Dolore che porta con sé, a livello interpretativo più ampio, a quelle recondite pillole di memoria, quelle reminescenze di un passato difficile, che puntualmente riaffiorano disturbando la quiete abituale della persona.

product_thumbnailLa scheggia rappresenta dunque una condizione di passato difficilmente definibile: non un passato remoto, lontano, definito e chiuso, ma un passato che ha una forza inimmaginabile, capace di riattualizzarsi di continuo, di confluire nel presente, contaminando le ore, minacciando continuamente il proprio stato di benessere. Pur essendo nella forma ridotta di un’entità più ampia, la scheggia morfologicamente mantiene tutte le caratteristiche organolettiche di quell’entità alla quale apparteneva prima del distaccamento da essa. Un’associazione di immagini o di odori, una circostanza curiosa, il collegamento di episodi tra loro apparentemente slegati sono tutte modalità in cui la scheggia, quel passato latente, si vivifica con evidente produzione di angoscia, sofferenza e delirio emozionale.

La prima compagine di liriche che compongono il libro sono raccolte attorno al sottotitolo di “Par amor”; in esse tocchi di succinto erotismo con evocazioni a situazioni cariche di seduzione vissuta con energica passione e sprazzi di insana foga. L’anelito di ardore ed amore è, infatti, spesso relazionato a una circostanza di follia nella quale l’io lirico vagheggia di perdersi in questo persuasivo e totalizzante desiderio di godimento nei sensi. Sono poesie queste dove è possibile leggere un dialogico sottaciuto tra gli amanti (“I tuoi occhi/ la dannazione”), gestualità colte nel mistero dell’amore, spinte altruistiche ad un amore da condividere e del quale goderne l’assuefazione (“Sfamati di me”).

In questa prima sezione si parla, però, anche dell’amore bistrattato nella forma della bugia, del tradimento, dell’ipocrisia di uno dei due amanti. Si mette in luce una sorta di afasia relazionale nella quale le lunghezze d’onda degli amanti sembrano correre in maniera diversa per via dell’ingerenza di un terzo, a costruire un triangolo amoroso peccaminoso e disdicevole. Si presenta così una coppia che viene minacciata dal suo interno tanto a minarne le fondamenta: l’amante illuso e l’amante disattento ed ipocrita che conduce parallelamente due storie amorose. La Nostra parla in questa accezione delle “tossiche muffe del falso calore/ e il fasullo abbraccio della passione”. L’estemporanea n°10 in particolare, il cui sottotitolo è un perentorio “Non credo” sembra fornire una analisi assai negativa dinanzi alla possibilità di un perdono verso il partner che porta la Nostra all’adozione di una decisione austera e in qualche modo inoppugnabile dinanzi alle esigenze del suo cuore: “Rinuncio per sempre alla tenerezza,/ all’ultimo inganno del falso calore”.

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Izabella Teresa Kostka, autrice del libro “Le schegge”

La seconda mini-plaquette porta il titolo di “Orco” ed è anticipata da una impressionante immagine in bianco e nero di un coltello da cucina. Dall’amore come desiderio e come tradimento della prima sezione, la Nostra passa ora a “narrare” di casi di amore dove è la violenza fisica a far da padrone, a far imbevere i versi delle sue poesie del sangue dello stupro, nonché delle lacrime salate dell’offesa ricevuta. La presenza dell’orco, dell’aguzzino, del violentatore, di colui che perseguendo i propri scopi personali ruba l’innocenza, macchia l’onore e denigra la donna è già anticipata nella prima sezione del libro nella poesia dove si parla del “ladro dei sogni” identificato nel bestiario di turno, quello di un lupo ululante.

Un tema, quello della violenza sessuale, da sempre trattato anche nella letteratura. Si pensi al mito di Filomela in cui lo sprezzante Tereo, marito di Procne ma innamorato di sua cognata Filomela, riesce ad averla per sé con la forza, violentandola. L’uomo le taglia poi anche la lingua affinché non possa proferire quanto è accaduto e chi è stato l’artefice della violenza ma la donna, mediante l’arte del ricamo, riesce a comunicare con la sorella Procne. Fuggite dall’influenza del tremendo uomo, si appellano alla clemenza degli dei che le trasformano in due uccelli: Filomela in usignolo, Procne in rondine mentre Tereo in upupa. Anche il testo biblico è ricco di episodi nei quali la violenza verso la donna viene a rappresentare una delle tante forme di dominazione dell’universo maschile su quello femminile. La vicenda di Tamar, figlia di re Davide, è estremamente significativa per quanto si sta dicendo. Violentata con l’inganno dal fratello Amnon, viene vendicata, però, dall’altro fratello Assalonne mentre il padre –a conoscenza dell’intera vicenda- mostra la sua connivenza di uomo spregiudicato rifiutandosi di intervenire o di denunciare l’abominio commesso dal figlio verso l’altra figlia.

Nella sezione “Orco” sono presenti vari acrostici dai quali la poetessa fa emergere la cosificazione, la nullificazione e la brutalizzazione della donna che l’uomo produce mediante il suo atteggiamento spregiudicato e sessista, autoritario e illecito. La Kostka denuncia in tal modo fenomeni dolorosi assai comuni nell’attualità dove la donna viene percepita e trattata come un oggetto che vede “spezzata di notte la resistenza”. Versi assai chiarificatori di una condizione spregevole di dominio e sperequazione tra i partener dove il carnefice –con i mezzi della violenza fisica, dell’abuso e della costrizione- persegue con successo il suo laido fine. Una condizione che pone la donna in un vittimismo lancinante e –spesso- come denuncia la cronaca in un’incompatibilità comunicativa nel denunciare il suo aggressore. Donne sole e fragili che nella loro domesticità subiscono sevizie e abusi che si protraggono nel tempo con lo sviluppo di evidenti traumi a livello psicologico che –non di rado- minano profondamente la propria esistenza, creando ansie smodate, ampliando timori ed insicurezze costringendole a vivere in un limbo infernale. L’uomo, che dovrebbe amarle e potrebbe aiutarle a curarsi, è proprio l’artefice di quella condizione che contribuisce a peggiorare con la reiterazione dei suoi insani comportamenti. Ecco perché possono sopraggiungere nondimeno dei gesti autolesionistici, dei momenti di delirio nei quali quelle energie negative, quello spirito di morte che dovrebbe riversarsi verso il partner (denunciandolo, difendendosi fisicamente,etc.) finisce per inacerbirsi e tramutarsi in spirito di morte contro sé stesse (nichilismo, apatia, abuso di psicofarmaci, atti inconsulti che minano la propria incolumità, suicidio) come leggiamo nell’acrostico “Sangue”: “Elemosino soltanto la morte”. Ciò –per fortuna- non sempre accade, difatti nella lirica successiva, nella quale pure la Nostra accenna a un caso di femminicidio, l’indignazione e la sofferenza è tanta che la porta ad armarsi di un monito di rivalsa: “Invoco sconvolta le orde degli angeli,/ oso pretendere la tua vendetta!”. Qui l’invocazione è di natura doppia: da una parte l’esortazione su un piano religioso affinché gli angeli accorrano a sostenere la recente perdita e per accogliere la poveretta nel regno dalla vita senza fine (indirettamente si percepisce il richiamo alla giustizia divina) e contemporaneamente una dichiarazione energica di lotta, con la quale –ben ritenendo insufficiente e illusoria la giustizia terrena (il sistema giudiziario in vigore)- proclama la terribile legge dell’occhio-per-occhio dente-per-dente, chiamando alla vendetta. Si tratta, quella della vendetta, di una risposta estrema, fuori dall’ordinamento giuridico, che minaccia il senso civico che la Nostra chiama in causa –intuisco- non quale reale risoluzione a un crimine di questo tipo ma per accentuare, appunto, l’esasperata condizione di sofferenza e di nichilismo protratta nei confronti dei delitti coniugali o domestici. Parallelamente è percepibile lo sdegno dinanzi a una società disattenta e impreparata (quante denunce di stalking rimangono in Commissariato senza dar seguito a una vera e propria attività di garanzia e custodia della persona che denuncia?) e ingiusta, piena di idiosincrasie, che non conosce l’equa condanna ai reati commessi. Lo stato, che dispone  qualche anno di carcere quale condanna per l’assassino e che in pratica rimette l’uomo in libertà ben presto è come se uccidesse una seconda volta la malcapitata di turno, oltraggiandone la memoria e acuendo l’afflizione dei suoi cari.

Gli abominevoli epiloghi di questi squarci di esistenze di povere donne contenute nelle liriche sono frutto di idiosincrasie relazionali, incompatibilità comportamentali, analfabetismo psicologico, percezione ossessiva dell’amore, stalking, gelosia ed atteggiamenti maniacali, imposizione e forza, tossicità, compulsione, dominazione, disturbi psicologici e tanto altro ancora.

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Izabella Teresa Kostka, autrice del libro “Le schegge”

La terza sezione del libro, “Fenice”, sembra essere di taglio diverso e voler aprire un varco di speranza. Nota è la storia della fenice che, dopo la vetusta età e la morte incendiaria, rinasce dalle sue stesse ceneri a rappresentare un chiaro segno di forza e rigenerazione, di accresciuta consapevolezza che permette una nuova vita. In campo umano è possibile parlare di resilienza quale capacità del soggetto di saper dare una risposta concreta agli stati di necessità e ai periodi di debolezza senza demoralizzarsi o autocolpevolizzarsi ma mettendo in pratica una grande forza d’animo che ne caratterizza l’animo rigoglioso, battagliero e pronto a rialzarsi dopo ogni caduta. La Nostra parla, infatti, degli “spettri di ieri” quale passato doloroso da lasciarsi alle spalle, di un momento tribolato e angoscioso del quale è capace di localizzare omai nella sfera temporale del passato, a pensare ad esso come a qualcosa di chiuso, lontano, che non può ritornare a minacciare il presente.

Questo è il momento che mostra un’elaborazione del dolore, l’autocoscienza che, sulla scorta di esperienze dolorose e traumatiche, è capace di dare una risposta fattiva, forte di un grande impegno morale ed etico: “Aspetto la rinascita” scrive la poetessa in una lirica, pronta a chiudere un capitolo della sua esistenza e ad inaugurarne un altro nella convinzione che “Tutto passa,/ si dissolve nel tempo”. È il tempo del perdono e del riavvicinamento, dell’annullamento dei sensi di colpa, della quiete ritrovata dopo la tempesta, ma anche dell’annuncio di una nuova stagione che si spera di concordia, vero amore ed empatia: “Rigogliosi fioriremo all’arrivo della pioggia/ bagnati dall’essenza di Nuova Vita”. Nell’energica riappropriazione della propria vita c’è anche un saggio confronto con il passato, artefice di abbandono e timori. La Nostra non teme il suo poter riaffiorare tra le trame della nuova esistenza, né lo percepisce più con preoccupazione ed ansia come una volta mostrando di aver compiuto un ampio e complicato percorso di riappacificazione con sé stessa: “No/ io non ho paura,/ farò l’amore con i miei spettri”.

Si può amalgamare il significato dell’intero libro prendendo in esame le diverse significazioni che vengono attribuite all’immagine cardine delle poesie: quella del corpo femminile. In “Par Amor” il corpo è motivo di desiderio, esigenza pullulante, materialità necessaria alla concretizzazione di quell’unione corporale che risponde a uno stato di mancanza difficilmente governabile che appartiene alla fisiologia dell’essere umano. Nella seconda sezione, “Orco”, il corpo femminile è strumento atto al soddisfacimento delle voglie, semplice mezzo del quale appropriarsi con tutte le maniere anche con l’impiego della forza. Il corpo non è più la concretizzazione dell’amplesso amoroso, la sublimazione di un amore che ha nella fisicità il suo climax, ma è il mezzo di dominazione e di tortura. Se nella prima sezione il corpo era desiderato, agognato, vissuto con ardore, qui il corpo viene brutalizzato e svilito, offeso e appropriato in maniera antidemocratica con la forza. Nella sezione finale, “Fenice”, il corpo non è più solo fisicità ma è anima: in esso si riscopre il vero senso dell’ardore e del colloquio appassionato tra gli esseri. Esso è solo nobilitazione di un legame viscerale e al tempo cerebrale dove il sentimento tracima. È un corpo idealizzato che è la summa degli affetti, delle rassicurazioni e dei piaceri ed è un corpo nuovo nel quale si riscopre quasi un candore antico, una bramosa verginità che stride con quel corpo offeso e maltrattato, sedotto e asservito al potere della seconda sezione del libro. Nella “estemporanea 18 (ti ritroverò)” così leggiamo: “Diventerà vergine il nostro affetto/ libero da ogni carnale piacere,/ grezzo e nudo il desiderio/ dormiente tra le stanze del non ritorno”. Non sempre l’amore rifiorisce dal dolore ma quando ciò accade –sembra sussurrarci la Nostra, esso è vero amore. Capace di sovrapporsi alle difficoltà e potente ad annullare il passato più amaro.

Lorenzo Spurio

Jesi, 18-07-2016

“Charme” di Raffaella Amoruso e Anna De Santis. Prefazione di Lorenzo Spurio

Charme 

di Raffaella Amoruso e Anna De Santis 

(The Writer Ed., 2015)

Prefazione a cura di Lorenzo Spurio

 

Anomala esperienza nel mio percorso di critica letteraria ad autori contemporanei è questa che mi vede quale prefatore del nuovo testo di Raffaella Amoruso scritto a quattro mani con la poetessa Anna De Santis. O, per esser più precisi, bisognerebbe dire che Charme è una bi-antologia poetica che contiene testi dell’una come testi dell’altra e non poesie scritte propriamente a quattro mani, che è tutto un altro discorso, oltre ad una moda abbastanza diffusa negli ultimi tempi.

Conoscevo già la poetica della Amoruso per aver letto recentemente e recensito il suo volume Aculei spilli (2014) e torno a leggerla, ora, con piacere in questa esperienza condivisa con Anna De Santis. La Amoruso non è nuova a pubblicazioni che hanno questo taglio “plurale” dato che, recentemente ha pubblicato anche Ama…amo (2013) insieme a Fabio Amato, poeta milanese.

Punto di partenza dell’analisi potrebbe offrirla l’etimologia della parola charme che campeggia quale titolo di copertina: ci troviamo di fronte a un francesismo che deriva dal latino “carmen” che significava incantesimo e/o fascino. Lo charme quale definzione in un vocabolario di utilizzo odierno è un termine il cui significato è legato prevalentemente a due concetti che sono il fascino (dunque l’avvenenza e l’attenzione per l’estetica, come era nella sua accezione latina)  e la gentilezza (dunque la capacità innata di rapportarsi agli altri). Fascino e gentilezza che possiamo ricercare in una donnna (ma, perchè no?, anche in un uomo) non sono relegati, però, solamente alla loro dimensione fisica cioè legata alla apparenza e al sistema di buone/cattive maniere, ma è anche una categoria dello spirito, una caratterizzazione dell’anima e dunque della propria interiorità.

Chi ha charme è ricco d’attenzioni, interesse, fascino e dunque è attraente, ammaliante, ricercato, seducente, avvenente etc etc. Tutto questo contribuisce a dare alla persona charme quel quid aggiuntivo che gli altri privi di charme non hanno: coloro che sono i comuni, i non avvenenti, i non seducenti.

Ma chi definisce la presenza o meno di charme? Quale è il metro di giudizio e di investigazione per poter dire che, effettivamente, una donna è dotata di charme mentre un’altra non lo è? Non vi è un sistema caratterrizante di questo tipo (e per fortuna!, aggiungo) dunque lo charme, quale figlio diretto della bellezza e dunque del sublime non è che un fattore estetico opinabile, una considerazione soggettiva e in quanto tale degna di osservazioni e di pareri discordanti.

Ma, per non divagare e per ritornare all’oggetto della presente raccolta, dirò che il tema fondamentale che unisce un po’ tutte le liriche è quello dell’amore: dell’amore sognato o sperato, di quello realizzato e consumato, di quello che si conserva e che resta a testimonianza di un percorso di condivisione unico e raro; dell’amore che si ricerca, al quale si tende, dell’amore che a volte si consuma o che porta alla rottura, alla lontananza, alla disperazione o addirittura (la cronaca ne dà ampia testimonianza) alla tragedia che -come sempre si dice- poteva essere evitata.

L’amore di cui parla la Amoruso trasmette sensualità ed è sembianza concreta di un erotismo palpabile come quando parla degli “infiammati sguardi” (p. 10), degli “spogli corpi” (14) e delle “dita ribelli” (p. 17) o evoca la “totale estasi” (p. 13) in quel vorticare sommesso e piacevole dell’amplesso amoroso. Un po’ più austera è la descrizione amorosa della seconda poetessa, Anna De Santis che, castamente, parla di “ardite carezze” (p. 53) e del ritmatico sfiorar delle labbra (p. 68).

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A livello stilistico, abissale è la distanza tra le due poetesse di questo libro: alle immagini-fotogramma della Amoruso si contrappongono immagini descrittive e meticolose, quasi didascaliche della De Santis; al poetare veloce ed espressivo, come fossero pennellate vigorose della Amoruso, si contrappone un verso per lo più lungo e dalla struttura paratattica; all’evocazione di immagini che costituiscono analogie e danno in qualche occasione vita a delle vere isotopie nella Amoruso corrisponde una caratterizzazione quasi prosastica della De Santis.

Chiaramente sono due diversi modi di fare e di intendere la poesia: la Amoruso si attesta su una poesia medio-breve che si concentra attorno ad immagini-simbolo che ne divengono importanti chiavi di lettura, mentre la De Santis sembra particolarmente legata alla costruzione di una poetica di stampo per lo più classico (anche nell’utilizzo di un determinato registro linguistico che, in date circostanze, potrebbe sembrare anche desueto come lo è ad esempio la “d” eufonica che spesso ricorre).

Anche a livello tematico, pur rimanendo all’interno dell’ampio filone della poesia d’amore o, comunque, votata a indagare le pieghe più intime del sentimento, si ravvisa una lontananza tra i due sistemi poetici: la Amoruso parla di un amore consumato e da consumarsi con vari e puntuali riferimenti alla sfera dell’Eros e al bisogno insopprimibile di unione della coppia in quella condivisione da lei definita quale “la perfetta sinergia” (17) che si concretizza in una dimensione quasi mitica, fuori dalla concretezza del reale, ossia ben al di là dello “smisurato tempo del non tempo” (47).  Anna De Santis, invece, pur chiamando in causa la sfera dei sentimenti, lo fa in maniera più intima e pudica, senza svelarsi troppo, quasi con quella distanza dalla vicenda maggiormente caratterizzante un testo narrativo dove vi è impiegato un narratore onnisciente: “le mie gote divenivan purpuree/ mentre le mani sue accarezzavan pelle” (50) dedicandosi nelle liriche oltre all’amato anche a riflessioni sulla propria natura di amante come avviene nella lirica “Mio cuore gitano” (p. 64). Non manca l’indignazione nei confronti di un mal-trattamento nei confronti delle donne subito dagli uomi che la Nostra così sviluppa a conclusione di una lirica dal tono duro e ribelle: “per quello mi chiamano tutti ..meretrice/ arrivate ansimando solo su quello che si vede, si tocca/altro non sapete fare” (p. 65),

Una poesia viscerale, carnale  e, se non ardita, senz’altro espressione di una forte femminilità quella della Amoruso; una poesia razionale e riflessiva, intima ed emozionale quella di Anna De Santis.

Non è possibile, però, dire se una delle due poetiche sia in qualche modo e per qualche ragione a me preferibile per una motivazione molto semplice: che il critico non è un maestrino e soprattutto, ancor più evidentemente, perchè non esiste (o per lo meno non dovrebbe esistere) una scala gerarchica nella poesia: chi è mosso a comporla, chi ne sente l’ispirazione, chi ne abbisogna e chi la ricerca tortuosamente quale prodotto creativo sono tutti accomunati a quel “fare” tipico e connaturato dell’etimologia stessa di poesia contenuta nella radice poiesis.

Virginia Woolf, grandissima donna e per la vigorosa mentalità di pensatrice e per la sua prolifica attività di scrittura, sosteneva che se un libro è ben scritto e ha un valore intrinseco al suo interno, il lettore non farà difficoltà a rendersene conto e a percepirlo, sempre mediante le sue inclinazioni e per mezzo dei filtri che ha nei confronti del mondo e allo stesso tempo che una prefazione per questi motivi può risultare poco meno di una perdita di tempo perchè non è mai (e grazie a Dio!) il prefatore o il commentatore ad accrescere o a determinare il successo di un’opera.

Essa è già sufficiente, in sé, da sola.

Scusatemi, dunque, per avervi rallentato la lettura di questo libro e, per favore, scordatevi tutto quello che vi ho detto.

 

 Lorenzo Spurio

 Jesi, 13-02-2015

“L’altra me. Bagliori in versi” di Augusta Tomassini, recensione di Lorenzo Spurio

L’altra me. Bagliori in versi di Augusta Tomassini

Helicon, Arezzo, 2014

  

Recensione di Lorenzo Spurio

1466214_742932185755370_2479843325774574450_nIl nuovo libro della poetessa Augusta Tomassini si intitola L’altra me ed è stato pubblicato dai tipi di Helicon a fine 2014. Già dal titolo è possibile respirare una marcata idea di alterità e al contempo un desiderio dell’autrice si svelarsi.

La poesia è probabilmente il mezzo letterario che più spesso è stato impiegato per parlare di sé, della propria emotività, delle fasi della propria esistenza e di come percepiamo il nostro rapporto con gli altri. Forse in questa seconda opera, ancor più che nel primo libro, Augusta opera questa operazione meticolosa di “svelare” la propria personalità.

La poetessa già dal titolo ci immette in un canale interpretativo in cui la vita non è altro che vista come dimensione plurale, multiforme e variegata ne è testimonianza la possibilità di poter individuare sempre qualcosa di nuovo in noi e nell’ambiente, come è consacrato nell’utilizzo della parola “altra” nel titolo.

Non esistono toni monocromatici, fissità, unicità ed esclusività, ma una dimensione sociale e corale nella quale l’uomo è in grado non solo di aprirsi alla comunità e istaurare un legame con essa, ma è capace anche di auto-comprendersi, conoscersi.

Questo libro contiene una silloge, ossia una raccolta di poesie, molto personale ed intima; ce ne rendiamo conto anche da alcuni titoli delle singole poesie come ad esempio: “Amami”, “Voce d’amore”, “Le mie lacrime”, etc.

Come osserva Eleonora Marinelli nella postfazione al libro, con questa nuova esperienza poetica Augusta si incammina in un percorso di rinascita, una sorta di rigenerazione del sentimento che segue il primo libro, più desolato nelle immagini e nel quale si percepiva un assopimento dell’animo della nostra.

Questa rinascita o “nuova luce” di Augusta alla base di questo libro è ben evidente da alcuni versi in cui leggiamo:

 

Come il sole

nasce da notte buia

come aurora prende

i colori di un nuovo giorno,

la mia vita, lenta

rinasce. (31)

 

Per parlare di questo libro, infatti, è necessario parlare o per lo meno evocare qualcosa anche del precedente libro di Augusta. La prima silloge, Volo dell’anima, se da una parte apriva a una dimensionalità sospesa e aeriforme improntata alla ricerca di una tranquillità e di una pace interiore data da una fuga, da un librarsi e dall’osservare da fuori la propria esistenza, dall’altra si fondava su una serie di poesie con un’impalcatura semplice e slanciata nelle quali, tematicamente,  non era difficile scorgere un senso di tristezza e sfiducia. Lo stesso sottotitolo, Poesie dell’ombra, sottolineava il vivere immerso in quel mondo di buio, di assenza di tinte cromatiche, che oltre a limitare ad Augusta l’esperienza empirica della realtà, nella fisionomia del nero e dell’indistinto si caricava di sensazioni fastidiose quali il sentimento di solitudine, l’isolamento, la noia, la desolazione.

Con questa seconda silloge Augusta risale la china e con un metro poetico non dissimile dal suo primo libro che corrisponde a un verseggiare libero, pulito, senza l’orchestrazione e il ricorso a particolari figure retoriche con eccezione della sinestesia, ci parla della luce e del colore, riappropriandosi con sagacia di quell’espressività delle tinte e bandendo il mondo dei chiaro-scuri. Il sottotitolo del nuovo libro, infatti, è Bagliori in versi.

Il bagliore è una luce fulminea ed istantanea che percepiamo, velocemente, che appare a squarci per rischiarare e poi come un flash far ripiombare di nuovo tutto nel buio. Dalla depressione del nero, il sopraggiungere dei bagliori in grado di squarciare la cappa oscura, è di certo un passo avanti notevole che Augusta ha fatto nella sua poetica perché ha precedentemente fatto con consapevolezza e per mezzo della sua grande sensibilità nei confronti della vita.

 

Il nuovo libro si apre con due citazioni molto importanti che riassumono molto bene la finalità di questo libro.

La prima recita: “Non possiamo programmare il come, il quando ma solo vivere ogni emozione così come scaturisce dal cuore” (Augusta Tomassini).

La seconda recita: “L’arte è esperienza di universalità.  Non può essere solo oggetto o mezzo. È parola primitiva: viene prima e sta al fondo d’ogni altra parola. È parola dell’origine che scruta, al di là dell’immediatezza e dell’esperienza, il senso primo e ultimo della vita.” (Karol Wojtyla)

Nella citazione di Augusta si sottolinea l’inesperienza umana, comune a tutti, dinanzi alla vita intesa come viaggio a tappe del quale non si conosce né svolgimento né la meta finale. Il fatto che l’uomo programmi la sua vita con orari, appuntamenti, date e scadenze è un suo vezzo per meglio organizzarsi nello spazio-tempo che gli è dato, ma non ha niente a che vedere con il percorso umano che Dio ha dato a ciascuno di noi dove, come dice Augusta, si deve essere disposti a vivere ogni istante con la massima intensità.

Nella citazione del Pontefice si dice una cosa estremamente valida ossia che l’arte è una esperienza di universalità, cioè che chi crede nell’arte tende all’universalità poiché i prodotti dell’arte (siano essi materiali come un libro o immateriali come una canzone) si conservano nel tempo con la stessa grandezza e splendore dato che in essi è contenuto il “senso primo e ultimo della vita”.

 

Tematiche della silloge: muovono tutto dal rapporto di Augusta con le sfere sensoriali:

  • Il mondo del silenzio, della mancanza di suoni e rumori, segno tangibile di una assenza, di una mancanza o della lontananza. Silenzio che spesso Augusta definisce rumoroso utilizzando un ossimoro per rimarcare quanto sia acuto e straziante.

La lontananza dal rumore, dalla vita della società, che lei percepisce attutita, smorzata nei toni, in lontananza come “vita ovattata

  • La potenza dell’elemento olfattivo in alcune poesie e in particolare in “Profumo di tigli”
  • Il mondo dei sogni in cui la Nostra spazia rievocando ricordi, rivedendosi protagonista e delle immagini che ricorrono e che crea nei suoi momenti di riflessione e contemplazione
  • Il tema dell’amore: l’amore verso i suoi cari, l’amore nei confronti della sua vita fatta di abitudini e piccoli rituali, l’amore per il mare, per le colline, per i gabbiani e le farfalle che sono gli animali-emblema della stessa poetessa, l’amore per la vita, l’amore di donare la sua esperienza agli altri.
  • La ricchezza cromatica, il mondo del colore, rimembrato e ricreato nella mente, la capacità di Augusta di saperlo rendere vivo attribuendolo agli elementi che la circondano e che nella realtà non riesce a percepire distintamente ma anche il colore del silenzio, il colore dell’attesa, il colore della scoperta e della contemplazione. I colori nella poesia di Augusta si caricano di significati molteplici: non è solo la caratterizzazione qualitativa-visiva del mondo ma sta a rappresentare anche la capacità di un dato evento/persona/ecc di toccare le corde dell’anima, dunque il colore inteso come vibrazione, come trasporto emotivo, come grado d’empatia.

 

 

 

Chi è l’autrice?

Augusta Tomassini  è nata a Fossombrone (PU) nel 1955; vive a Montefelcino (PU).

Dopo la progressiva perdita della vista a causa della Retinite Pigmentosa, è entrata a far parte dell’Unione Italiani Ciechi e Ipovedenti di Pesaro.

Nel 2000 è stata eletta consigliere dell’UICI della provincia di Pesaro-Urbino. Nel maggio dell’anno successivo è stata scelta per l’incarico di Presidente Regionale del Dipartimento delle Pari Opportunità della Regione Marche.

Ha pubblicato i libri di poesia Volo dell’anima. Poesie dell’ombra (2013, auto pubblicazione) e L’altra me. Bagliori in versi (Elicon, Forlì, 2014); entrambi sono stati presentati in varie tappe sul territorio regionale e nazionale.

Quando non è impegnata nelle attività sociali, si dedica alla famiglia ed alla sua passione di sempre, la poesia.

Ha ricevuto vari premi e segnalazioni in concorsi e premi letterari tra cui una targa di riconoscimento alla XXV edizione del Premio Letterario “Città di Porto Recanati” nel 2014.

 

Lorenzo Spurio: riflessioni di un autore “eretico”. Intervista di Iuri Lombardi

Intervista a cura di IURI LOMBARDI

pubblicata nel libro “L’apostolo dell’eresia”, Faligi Editore, Aosta, 2014.

Lorenzo, tu sei un critico letterario e uno scrittore di racconti, uno studioso delle lettere e, per chi ti conosce, lasciatelo dire, un interventista; nel senso che vivi la letteratura in tutte le sue forme possibili, al punto di organizzare eventi che vanno da presentazioni a concorsi letterari, ora secondo te, prendendo in considerazione le tue due attività: qual è quella che maggiormente ti coinvolge?

 

I miei due ambiti di scrittura, che come tu dici sono essenzialmente quelli che mi vedono da una parte critico letterario e dall’altro scrittore, sono quanto mai differenti tra loro per intenzioni, forme espressive e finalità. Questo, però, non significa che siano antitetici o, per dirla in parole più semplici, che uno scrittore debba/possa essere soltanto un romanziere. Egli può essere anche un poeta, un critico o un saggista (la differenza tra critico e saggista è per lo più una sfumatura, ma significativa al tempo stesso). Il critico fa essenzialmente qualcosa di più dello scrittore perché è in grado di calarsi in una dimensione (de)soggetivizzata (che anche nel romanzo è possibile adottare, ma non a questo livello), assumendo una prospettiva tendenzialmente neutra e asettica scevra da intenzioni di sorta. In questa luce il critico non giudica, ma osserva, non descrive ma analizza, non spiega ma interpreta. E la differenza tra le varie antinomie citate non è minima, ma è sostanziale. 
Non è solo una questione di linguaggio, di tecnica o di conoscenza della storia della critica letteraria di un determinato periodo che permette di definire uno scrittore come critico, ma anche e soprattutto una sua certa predisposizione nel sapersi allontanare dal concreto per vederlo da distante prima con un cannocchiale e via via sempre più vicino fino a sondarne minuzie, dettagli e quello che è l’ordito di un testo. Il critico non colloquia con i personaggi di un romanzo, ma li de-struttura, li smonta, li viviseziona e li interpreta alla luce della storia, dello spazio, della società, etc.
Quanto alla tua domanda posso dire che a livello di coinvolgimento probabilmente è la narrativa che mi dà maggiori possibilità e realizzazioni, perché sono io a creare un personaggio, ad animarlo e magari a decretarne la sua tragedia come un invisibile burattinaio. La scrittura di un saggio, al contrario, non nasce da una volontà di rappresentazione, re-creazione (e magari mistificazione) di una vicenda, ma dal desiderio di carpire il legame tra significato e significante, tra la parola scritta e i concetti, per un approfondimento tematico, concettuale, monografico dove la penna finisce per essere penna e diventa bisturi.

 

Che salute gode oggi la critica letteraria – intendo quella avanguardistica e non settoriale o accademica?

 

Per critica letteraria “avanguardistica” credo tu voglia intendere non tanto quella che fa riferimento a scuole di pensiero particolari, a tendenze di un certo tipo, ma un tipo di critica che nasce piuttosto come forma d’espressione legata al singolo che adotta un certo tipo di studio e di approfondimento su certi autori o tematiche in particolare. Quello che mi sento di dire a riguardo è che i più grandi critici italiani del ‘900 vengono principalmente ricordati e menzionati nei manuali di storia della letteratura non in quanto critici, ma in quanto esponenti di altri generi letterari che possono essere ad esempio la poesia o la narrativa. Leonardo Sciascia, ad esempio, oltre che romanziere, fu un ottimo saggista e microfono del sistema di malaffare e corruzione radicato nelle terre di Sicilia che pure trattò nei romanzi (Il giorno della civetta, per fare un esempio concreto); Italo Calvino a suo modo in una serie di saggi trattò le problematiche legate alla speculazione edilizia e alla cementificazione ed esempi di questo tipo se ne potrebbero fare a decine. I due autori restano però principalmente noti per una serie di scritti di fiction e non di critica vera e propria. A questo punto si potrebbe parlare di come e quanto la società con le sue problematiche e deficienze ispiri o abbia ispirato certi scrittori e quanto il tema sociale, l’impegno civile, sia importante, ma per ritornare alla tua domanda devo osservare che la critica, per quanto possa risultare disturbativo ai più, è uno dei generi fondanti del sapere letterario che viene tenuto di poco conto e viene spesso stigmatizzato. Esistono ottimi critici che si sono occupati con serietà ed acume ad alcuni autori/fasi letterarie arricchendo notevolmente le pagine della nostra letteratura, ma l’opinione che domina oggi è quella di considerare il critico principalmente quello che scrive in un qualche quotidiano una striminzita mezza colonna su un libro appena uscito dando un giudizio per lo più scialbo e slavato. Reputo importantissime, invece, qualora vengano curate con attenzione e con profonda conoscenza del testo/autore, le note preliminari ai testi, i commenti critici, le prefazioni e tutto quello che solitamente possiamo catalogare sotto “apparato critico”. Esso, lungi dall’essere uno strumento che vuole mostrarsi pedante, tecnico e apparentemente inutile, è uno strumento importantissimo ed essenziale per fornire una lettura di quello che ci si appresta a leggere. Perché va ricordato che quello che il critico scrive, attesta, dichiara, verga sulla carta, non è la verità assoluta alla quale bisogna assoggettarsi, ma semplicemente un commento che, pur evitando soggettivismi, implicazioni amicali/sentimentali, forze empatiche, è una interpretazione di quello che ha letto e analizzato secondo il suo bagaglio culturale e la sua particolare prospettiva. È stupido oggi fare una cosa che è stata fatta per troppo tempo nel passato, anche vicino, cioè quella di cercare di inserire il critico per la sua impostazione, tendenza, formalismo, cliché all’interno di una particolare branca o sezione della critica perché questo è un procedimento insulso, illiberale e del tutto inaccettabile che non rispetta la dignità del singolo.

 

In secondo luogo, ma non per ordine di importanza, si diceva prima che tu sei anche un narratore e hai avuto la possibilità di cimentarti nel genere del racconto (con non poche polemiche da parte dei moralisti), ora secondo te: che importanza ha il racconto nel panorama delle lettere italiane? E perché non hai sentito l’esigenza di un romanzo almeno sino ad adesso?

 

Ho avuto varie occasioni per parlare del racconto come genere sottolineando un certo timore e incomprensione per come venga considerato nel Belpaese dove sostanzialmente è assimilabile a letteratura di serie B, se non addirittura di serie C. Sulla condanna alla poca fortuna (e poco rispetto, aggiungerei) del racconto in Italia va subito detto che non è dovuto, neppur lontanamente (e chi lo sostiene è un ignorante o fa una analisi semplicistica)- alla mancanza di validi propugnatori e utilizzatori di questo genere: si pensi a Buzzati, Calvino, Sciascia, Camilleri (i cui romanzi brevi possono a ragione esser definiti anche racconti, quelli che nel gergo inglese sono short story o novellas). Questo per scartare dunque la prima falsa ipotesi che vede nella letteratura italiana principalmente un esercito di romanzieri con poche espressioni di narrativa breve. Le ragioni per cui il racconto come genere non ha mai attecchito nel panorama della scrittura in Italia a mio modo di vedere non è tanto legato con le preferenze della massa di lettori, ma piuttosto con quella del monopolio del romanzo attuato da sempre da parte dei marchi editoriali, famosi o non che siano. Si riconosce nel romanzo una maggiore professionalità nella scrittura, una più chiara ed esaustiva elaborazione del plot e dei personaggi, un artificio letterario impareggiabile, un’orchestrazione delle vicende più complessa con trame secondarie, storie collaterali che si intrecciano e dunque un prodotto finale più appetibile, ricco e interessante. Ovviamente tutto questo può essere (ed è) presente anche nel racconto.
Il racconto non è un romanzo in miniatura, né il romanzo è un’estensione di un racconto: i due generi pur affini hanno caratteristiche completamente diverse. Il racconto –o per lo meno questo è come la penso io- ha i suoi punti di forza nella freschezza del linguaggio, nella sintesi, nell’inconsapevolezza degli eventi che si descrivono e in questa brevità (che si badi non è sinonimo di semplicità perché sa che la grande capacità scrittoria del narratore è in grado di far capovolgere la storia anche con due misere righe, piuttosto che con interi capitoli di centinaia di pagine l’uno. Il racconto è stato visto come una forma espressiva incompleta, poco organizzata e curata, come una sorta di esperimento letterario, ma in realtà non è così e questo è dimostrato dal fatto che all’estero, dove addirittura è il genere prediletto o se lo contende con il romanzo (si pensi all’Inghilterra e ai paesi anglofoni) i più celebri scrittori di racconti (Patricia Highsmith, Flannery O’Connor, Raymond Carver e il recente premio Nobel per la letteratura  Alice Munro) hanno sì sperimentato anche il romanzo, ma restano celebri perché “masters of short stories”. 

La seconda domanda che mi fai, dunque, potrebbe essere risposta con le varie cose a cui ho accennato: non è detto che chi ha scritto dei racconti o ha esordito la sua carriera letteraria con questo genere evolva poi nel romanzo (e secondo me non si può neppure parlare di evoluzione perché il passaggio dal racconto al romanzo non è da intendere come miglioramento o sviluppo delle conoscenze). Essi sono due mondi a parte ed è quanto mai ridicolo e riduttivo sostenere che il racconto sia qualcosa di inferiore al romanzo.

 

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Una delle tue raccolte di racconti, La cucina arancione (TraccePerLaMeta Edizioni, 2013), ha destato molto scandalo, in parte è stata censurata, per le tematiche che affrontano i singoli racconti: ora in relazione a questo, per te la letteratura oggi che ruolo ha? In altre parole, può essere ancora un’arte di intrattenimento o deve essere altro? Parlo di una letteratura di denuncia ad esempio.

 

La cucina arancione come giustamente osservi è una raccolta di racconti pubblicata quest’anno e che ha generato qualche iniziale malumore non tanto per come i temi vengono proposti, ma per i temi stessi. La raccolta fornisce un’analisi ampia di personaggi che si trovano alle prese con delle problematiche di varia natura (patologie, manie, perversioni) che mettono in luce delle esistenze disagiate e minacciate dal gruppo umano nelle quali sono inserite. Sono personaggi che spesso sono privi di una dimensione affettiva, familiare ed amicale, ma il messaggio che intendo mandare non è allarmistico e non è che si diventa pericolosi per sé e per gli altri nel momento in cui si diventa soli ed emarginati. Il procedimento è piuttosto il contrario e lo sguardo, anche se sembra essere puntato principalmente su queste esistenze che convivono (o addirittura sopravvivono alle loro difficili anomalie mentali e psicologiche), in realtà è puntato sulla società, sulla massa, sul gruppo umano, su quel senso di comunità che dovrebbe eleggere a suoi fondamenti l’amore verso l’altro, il perseguimento della fratellanza, la condivisione e la certezza nel sistema giudiziario a garanzia del bene comune. Il libro non critica né giudica la società, ma la osserva con attenzione da distante, ne sbircia il funzionamento, senza stigmatizzare i comportamenti umani perché se questi sono di una certa natura hanno di certo un legame alla società e al suo grado di progresso. Non sempre, infatti, quelle che crediamo essere delle realtà progredite ed evolute dal punto di vista economico e culturale (la presenza di biblioteche e università consentono di definire un paese una realtà culturale?) lo sono a livello umano, solidaristico, umanitario. Raramente. Il libro non allarma, ma indaga. Non critica, ma guarda l’altro. Non disprezza, ma cerca di trovare una comprensione ad ogni realtà, ad ogni atteggiamento, pur perverso e sregolato che sia.
Per ritornare al tuo quesito sul ruolo della letteratura, è difficile dirlo. Sicuramente la letteratura non deve essere strumento di commercio come invece la logica del marketing editoriale dà manifestazione ormai da decenni, inseguendo il calciatore o la soubrette che hanno scritto un libro sulla propria vita. La letteratura non deve neppure commiserarsi, deprimersi, esprimere la sua nullità nei confronti della risoluzione di questioni pratiche, contingenti e materiali. Non è vero infatti che con la cultura (all’interno della quale inseriamo la letteratura) non si mangi (ossia non si possa guadagnare e farne quindi il proprio lavoro), anche se è giusto osservare che per i motivi sopra detti, proprio per gli sconsiderati atteggiamenti dell’editoria, la strada sembra esser per lo più sbarrata.
La letteratura, la nuova letteratura, non deve essere studiata con coercizione e ripetuta a voce alta, né verificata con obbrobriosi test a risposta multipla, ma va espressa, interpretata, ricercata eprodotta negli spazi ad essa più inconsueti. La letteratura per il suo proprio benessere deve abbandonare gerarchie e caste (che purtroppo pervadono anche le Giurie dei premi letterari sui quali, pure, ci sarebbe tanto da dire) e deve rifiutare a priori la sua considerazione di sapere “morto” perché in-concreto. La letteratura deve fornire domande e permettere all’uomo di scervellarsi, addirittura fino a logorarsi, per cercarne possibili risposte.
Chiaramente l’elemento di fondo deve essere la denuncia sociale, l’attenzione verso le condizioni disagiate e depresse, le realtà sommerse e borderline, evitando accenti di populismo e stando bene attenti anche a non sfociare nel marcato campanilismo. La letteratura deve rigenerarsi di continuo e questo non necessariamente deve essere fatto partendo dagli autori a noi contemporanei (a cui però è bene dare preminenza), ma può essere fatto anche proponendo una propria rilettura o rivisitazione di un classico intramontabile. Perché finché ci sarà qualcuno in grado di dire qualcosa di nuovo su un’opera e di saperlo fare con professionalità dimostrando acume e sapienza, allora la letteratura non perirà  mai.

 

Il sesso e le perversioni sessuali e mentali sono sempre presenti nelle tue opere e anche come critico ti sei cimentato in studi di certi autori, certi romanzieri che hanno affrontato in passato – con tanto di polemiche- certe tematiche. La domanda che sorge spontanea è quindi: parlando in termini freudiani e psicanalitici del termine, attraverso certe perversioni o certe attitudini sessuali, volendo quasi fare una storia del sesso e di come questo è mutato nel corso del tempo, tu cerchi di leggere la storia di un paese?

 

La critica su Alberto Moravia ha osservato che la gran parte delle sue opere si centralizzano attorno a due temi-sfere semantiche importantissime che sono causa degli eventi delle sue storie; questi sono sesso e soldi. Si ricordi ad esempio le vicende contenute in Gli indifferenti (1929) suo romanzo d’esordio e uno dei miei romanzi preferiti. Questo per dirti che non è possibile sviscerare le vicende umane e quelle fittizie (trasposte in letteratura) scantonando la componente sessuale. Parlare di sesso non significa parlare di amore, non sempre per lo meno. Dici bene quando affermi che mi sono dedicato ad autori che hanno dato particolare attenzione nelle loro storie a episodi che coinvolgono espressioni varie di sessualità (non sempre consentite dalla Legge né dalla morale comune) quali Ian McEwan, ma anche John Irving, Charles Bukowski e in parte anche Nabokov. Chiaramente ogni autore ha una sua idea ed interpretazione sul
tema del sesso, ma da critico è interessante indagare non tanto la mera repertazione delle citazioni magari un po’ più forti, ma il perché l’autore tratti certi argomenti e come li presenti. Nella mia analisi su McEwan in particolare si è osservato come il tema del sesso (spesso deviato) incida profondamente sulle storie da lui narrate e come sia impossibile eludere questa componente. Non sono completamente d’accordo su quanto chiedi, ovvero che l’analisi del tema del sesso possa essere anche un mezzo per dare una lettura del periodo storico narrato o vissuto dall’autore. Se le perversioni sessuali nella letteratura possono essere considerate un fenomeno abbastanza recente (si veda il grande e preoccupante successo della saga di Mr. Grey in America) non è vero che non si sia parlato di questo in passato. Lo si è fatto, ma si è censurato, le opere sono andate perse o si sono volutamente celate e quindi dimenticate anche nei successivi lavori documentaristici. Però non significa che non si sia parlato di cose che oggi sono scottanti e repellenti (ma neppure tanto) nel passato: basterà leggere degli stralci del Decamerone, dei romanzi di De Sade e della storia del libertino Casanova per rendersene conto.
Il sesso è stato da sempre al centro della vita degli uomini, uno dei motori trainanti nei rapporti sociali (e di dominio), ma è nella nostra contemporaneità che, grazie a un sistema di espressione completamente democratico e libero, può aver voce senza veli né recriminazione. Esiste ed esisterà sempre qualcuno che si scandalizzerà nel leggere qualcosa o che in pubblico si dirà disgustato per aver letto qualcosa, ma non è questione di morale. Scrivere di sesso e di perversioni non significa essere un maniaco né tanto meno non avere un proprio giudizio su quelle cose, ma è interessante come l’uomo possa rendersi protagonista (e spesso colpevole) di atteggiamenti e situazioni che vengono mossi proprio dal modo di vivere la sessualità.
Posso aggiungere che Federico García Lorca fu chiaramente omosessuale, ma non per questo negli anni ’30 venne stigmatizzato e allontanato da altri uomini di cultura. Tutti lo apprezzarono per la grande integrità intellettuale e capacità di saper parlare alla gente. I franchisti lo fucilarono con disprezzo sparandogli dei colpi anche nel sedere per la colpa di essere omosessuale (il biografo Ian Gibson riporta vari riferimenti di questo drammatico episodio).Non è parlare di sesso o avere una certa inclinazione a portare problemi e a instaurare ruggini tra gli uomini, ma è la prepotenza e la mancanza di uguaglianza. Ieri, come oggi.

 

Da critico e quindi da studioso di letteratura, mi potresti dire se la letteratura oggi può essere ingabbiata da un genere? O deve e può essere solo di genere?

 

È evidente, alla luce di quanto detto sin qui, che la risposta è negativa. La letteratura oggi non può e non deve essere ingabbiata in un genere, o corrente o movimento che dir si voglia, perché in questo modo si attuerebbe una analisi storico-cronologica che non possiamo permetterci di fare perché noi viviamo il presente e non possiamo inserirlo in un comparto stagno in sé definito e conosciuto in toto. Le categorie sono sempre state utilizzate e sono sempre state strette a tutti. Difficile riconoscersi solo in una categoria e non avere legami o collegamenti con altre categorie. John Donne, il grande poeta metafisico inglese, sosteneva che “nessun uomo è un’isola” intendendo che il senso di comunità deve necessariamente esser vissuto al plurale, in condivisione e che nessuno può arroccarsi nella sua torre d’avorio. Si rischierebbe l’emarginazione indotta, l’auto-esclusione, il vittimismo, il ripiegamento su se stessi. Tutto questo deve essere evitato.
Le categorie possono avere una loro utilità pratica e mnemonica per i ragazzi delle scuole primarie e secondarie nel legare un personaggio a un periodo storico, ma non debbono essere utilizzate in maniera pretestuosa. In Dino Campana, creatore dei Canti orfici che sono considerati espressione di frammentismo e quindi di una nuova letteratura, sperimentale e anti-classicistica, si ravvisa tra le strofe anche una certa fascinazione per uno stile che non ha nulla di avanguardistico. Govoni, che ebbe una fase crepuscolare e futurista, viene ricordato anche per la fase del “ritorno all’ordine” e all’utilizzo di una scrittura di recupero dei canoni novecenteschi. Ergo, le etichette in letteratura debbono essere scollate per sempre, permettendo al materiale letterario di essere analizzato in maniera ampia, polifonica e variegata.
Sono dell’uomo gli opposti, i contrari, gli ossimori e ciò è valido anche per la letteratura. Una stessa persona può essere un poeta romantico, un narratore gotico, un attore tragico, un saggista vittoriano, un pensatore esistenzialista. Le cose, tra loro distanti e apparentemente contrastanti, possono convivere in un’unica persona che ha prodotto più opere. Centrale in questo discorso è tutta quella componente della critica letteraria che, partendo dal concetto di intertesto elaborato da Julia Kristeva, ha permesso gli studi sulla meta-letteratura, il rapporto tra letteratura e vita, l’utilizzo del pastiche e via dicendo.

 

Da organizzatore di eventi, girando per tutta Italia, ti sarai reso conto che una nuova avanguardia si sta affacciando sempre più nel panorama letterario italiano: ora secondo te che importanza hanno i laboratori, i gruppi letterari?

 

Parlare di avanguardia è azzardato. Abbiamo conosciuto in Italia e in Europa due importanti periodi di avanguardia letteraria e artistica che sono stati fondamentali per traghettare dal prima al dopo e che hanno significato dei crocevia importantissimi. Mi riferisco alle avanguardie storiche di primo ‘900 al cui interno si trova il futurismo il cui apporto fu importante nella letteratura italiana e quelle di secondo ‘900, meno note e poco considerate: il gruppo ’63, i “novissimi”, il gruppo Beta, etc. A loro modo furono dei momenti di cesura che proposero una rottura con i vecchi schemi classicisti (la avanguardia storica) o che proposero un nuovo approccio alla letteratura proponendo vie concettuali diverse (la nuova avanguardia). Chiaramente nelle scuole (e ahimè anche alle università ci si sofferma sulle prime avanguardie, perpetuando l’ignoranza sulle seconde avanguardie che poi sono quelle a noi più vicine e interessanti da investigare).
Dicevo che parlare di avanguardia oggi è tendenzialmente sbagliato perché si rischia di adottare in questa maniera un’etichetta di definizione. Ovviamente oggi il clima letterario, sviscerata la componente editoriale chiaramente volta a un mero guadagno- è variegato e difficile da classificare. Ci sono autori che propongono idee apprezzabili e che, pur non avendo alle spalle grandi marchi editoriali che gli garantirebbero una ampia diffusione, si accontentano (lo scrittore è per sua natura un passivo da non intendere in senso negativo) di medie case editrici che offrono una diffusione scarsa o addirittura illusoria. Il fenomeno internet è chiaramente una delle anime della nuova letteratura per mezzo di siti, blog letterari, riviste digitali scaricabili, forum e quant’altro. L’errore che si fa quando si utilizzano mezzi con praticità, facilità e gratuità è quello di abusarne e va dunque detto che esistono molti spazi internet che dicono di dedicarsi alla letteratura o alla scrittura ma che lo fanno con mancanza di conoscenza, con improvvisazione e poco spessore. Molti ad esempio si cimentano nella scrittura di recensioni (la recensione è un testo critico che, di pari passo al racconto, ha poca importanza in Italia, a differenza dell’Inghilterra), ma una recensione non è una sintesi della trama, cioè una sinossi, né un commento personale che si riduce a “bello, perché…” o “non mi piace quando”. La recensione come forma testuale ha una sua fisionomia particolare che dovrebbe esser tenuta da conto perché una recensione neutra o mal fatta, oltre a non dar nessuna soddisfazione a chi la scrive, non avrà nessuna utilità per l’autore del libro. Come conclusione posso dire che la qualità fa sempre la differenza e peggio per noi se non fosse così!

 

Infine, ci potresti dire se secondo te il romanzo (intendo quello vero, non quelli che ci propinano ed è solo robetta da poco) è ancora vivo? E a che punto di crescita e consapevolezza si trova la narrativa in Italia e in Europa?

 

Per non ripetermi dirò semplicemente che il romanzo gode di vita propria nel panorama letterario italiano e la mia considerazione sul romanzo è abbastanza positiva nel senso che è forse l’unico genere che ha sempre mantenuto interesse nei lettori italiani, a dispetto della poesia che negli ultimi decenni (forse a causa della crescita esponenziale dei poeti) sta perdendo il suo seguito o radicalizzando l’interesse solo su alcune figure in particolare. La storia della letteratura italiana è percorribile benissimo attraverso la storia del romanzo, un genere che ha sempre avuto fiducia nei lettori, riscosso entusiasmo e animato ad esempio anche registi per la realizzazione filmica delle storie in esso contenuti. Si tenga presente che il fenomeno della telenovela non è altro che una rappresentazione cinematografica di una storia romanzesca che viene proposta allo spettatore diluita, fruita in piccole dosi, con una modalità seriale. I primi romanzi inglesi del ‘700 (ma ancora anche nella prima metà del ‘900) venivano pubblicati a stralci su delle riviste, proposti serialmente, proprio come una arcaica telenovela ante litteram. I punti di forza del romanzo che gli hanno concesso la sua diffusione e il mantenimento di interesse e successo sono essenzialmente due: 1) la possibilità che la storia narrata possa evolvere sempre in meglio, in una forma ideale (che poi magari non viene raggiunta), 2) il coinvolgimento del lettore che arriva ad immedesimarsi in alcuni personaggi.
Il futuro del romanzo, tanto in Italia che in Europa, lo vedo altrettanto roseo, come lo è sempre stato.

Patrizia Stefanelli su “La cucina arancione” di Lorenzo Spurio

Recensione a “ La cucina arancione” di Lorenzo Spurio

A CURA DI PATRIZIA STEFANELLI

 

Patrizia StefanelliSpazio mentale fuori dall’ordinario nel mondo intimo che vive in ognuno di noi. Specchio che senza giudizi si racconta, “ci” racconta. Non nascondo che “ La vecchia col cappotto ocra”  mi ha presa per giorni. Ricordo che da piccola, chissà perché, avevo paura di una vecchia donna che viveva ai margini della società. Quei “margini”  sono nelle storie di confine border – line, narrazioni che  Lorenzo Spurio, porta in modo semplice all’attenzione del lettore, scorrevole a tal punto che le parole spessissimo si fanno immagini. Trionfano portando sempre un segreto, una sorpresa e la voglia di arrivare alla fine della storia che…ricomincia con volti e nomi diversi nella storia successiva. Procede, in “Gutron”, per analessi, ottimo viaggio per il lettore e per il personaggio che diventa narratore di se stesso e dell’impotenza in cui spesso, ogni malato si trova a vivere.

Territori, percorsi, città , equiparati a percorsi interiori, come un sogno, da riconsegnare al commissariato quasi fosse un portafogli con documenti importanti.

In fondo, Lorenzo ci porta, attraverso le storie, alle mancanze della vita di ognuno. Di salute, di affetti, di autostima, di sicurezza, d’amore ( Mariastella e l’armadio, in “ L’armadio mi mangiava” e ne “ La regina Rossa”) nella continua agnizione del Sé.

Saggiamente, la matematica poi, insegna filosofia di vita: il potere di una divisione attraverso la sineddoche. Situazioni di disagio interiore che si presenta nella solitudine esistenziale, in cui presenze “malate” sono le componenti dell’unica persona. Affrontare i mostri che abbiamo dentro, riconoscerli, è l’unica via di sopravvivenza.

E’ “Goldfish” ( titolo emblematico), di un cinismo disarmante nel suo impegno a trattare un argomento scottante, quello della pedofilia.

Disagi sessuali che ricorrono in varie sfumature fino all’arancione, alla “cucina arancione”.

Visioni, che si chiudono e si riaprono nelle “possibilità” a me tanto care. “Possibilista” non so se può essere sinonimo di ottimista, ma di sicuro, non esclude nulla.

E’ scomoda  “La cucina arancione”, una porta da aprire, in fondo ad un corridoio immaginato, attraversato dalle luci che di soppiatto sferzano, dalle fessure, in basso, delle varie stanze del vivere.

 

Con stima, Patrizia Stefanelli

 

Sabato 17 maggio “La cucina arancione” di Lorenzo Spurio a Civitanova Marche

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Rita Barbieri su “Ian McEwan: sesso e perversione”, saggio di Lorenzo Spurio sull’autore anglosassone

“IAN  MC EWAN: Sesso e perversione”
di LORENZO SPURIO
Photocity Edizioni, 2013
 
Recensione a cura di Rita Barbieri

 

coverNel suo saggio, Lorenzo Spurio affronta il tema della sessualità in tutte le sue varianti e variazioni all’interno di alcune delle principali opere di Mc Ewan. Con un approccio distaccato ma profondo, Lorenzo indaga le rappresentazioni e le simbologie collegate al sesso. Molti degli scritti di Mc Ewan infatti, sono caratterizzati da trame scabrose, incontri incestuosi o amori al limite del morboso e del lecito. In alcuni casi si tratta di episodi funzionali al racconto, veri e propri perni che agiscono da elemento accentratore e catalizzatore per gli sviluppi successivi. Altre volte, invece, si tratta di ‘tappe’ evolutive e psicologiche che segnano il percorso e la storia personale dei personaggi e delle loro relazioni con gli altri.  In ulteriori esempi,  il sesso serve a descrivere la società circostante, l’ambiente ovattato di perbenismo e falso moralismo in cui, a contrasto, si muovono e si agitano i protagonisti.

Interessante notare però che, in molte delle descrizioni riportate, il sesso non è quasi mai un piacere puro, estetico ed estatico. Il sesso è sempre legato, a doppio filo, a ‘qualcos’altro’: un’ossessione, una storia, una scoperta. Sembra non essere mai, semplicemente, “sesso per sesso” esattamente come scrivere non è mai, altrettanto semplicemente, “arte per arte”.

Il sesso dunque, non è un semplice espediente per dilatare i tempi narrativi o per mantenere viva l’attenzione del pubblico dei lettori. Non ci sono le pagine ‘bollenti’ e sospirate presenti in alcuni classici della letteratura erotica ( a partire  da “L’amante di Lady Chatterley” fino ai romanzi di De Sade) anzi, a volte si ha la sensazione che si tratti di una faccenda impudica, consumata in fretta e senza troppa cognizione di causa. C’è poco spazio per la seduzione, per la fascinazione reciproca. Più che un qualcosa di piccante e rovente, gli incontri erotici descritti sembrano essere piatti da servire ‘freddi’, proprio come la vendetta.

Ma se l’erotismo non è l’equivalente ‘puro’ della passione, del romanticismo, dell’attrazione magnetica allora cos’è? A cosa serve? Perché inserirlo nella maggior parte delle opere?

A questo il libro di Lorenzo, prova a trovare delle risposte. Utilizzando estratti mirati (talvolta tradotti da lui stesso in italiano per agevolare la lettura) e prestando una grande attenzione sia al contesto romanzesco sia a quello reale, il saggio ci accompagna nella lettura (o nella rilettura) di alcuni dei testi più interessanti di McEwan fornendoci maggiori strumenti interpretativi e maggiori nozioni.

È possibile allora, alla luce di questi nuovi elementi che Lorenzo suggerisce e illustra, formulare delle ipotesi e delle congetture. Dall’analisi della ricezione e dell’impatto che gli scritti di McEwan hanno avuto sul pubblico, dalle critiche e dalle recensioni avute è spontaneo interrogarsi su quali fossero le intenzioni reali e gli intenti comunicativi dell’autore.

Ci si accorge dunque che intorno al capitolo ‘sesso’ si aprono tutta una serie di riflessioni letterarie, critiche ma anche sociali e storiche, in cui questo atto istintivo e naturale assume di volta in volta vesti, significati e ruoli diversi e sorprendenti. Il sesso è una continua scoperta: di sé stessi, del mondo, delle relazioni, dei limiti e delle imposizioni sociali. Il sesso è una sfida, un atto di coraggio o di sventatezza, una concessione, uno strappo alla regola, una colpa, un peccato, una condanna. Il sesso è tabù, ma solo finchè non è rivelato. Il sesso è un atto pratico, concreto, fisico, reale ma non sempre sensoriale. I personaggi ‘fanno’ ma non ‘sentono’, o almeno questo sembra non essere il punto nodale della questione.

Il sesso nei libri di McEwan si lega anche, molto spesso, alla perversione: rapporti e desideri che, agli occhi della società e della norma, sono illeciti e riprovevoli. Indici accusatori che si sollevano all’unisono contro fatti, parole e pensieri che definire ‘dirty’ (utilizzando un interessante doppio senso allusivo dell’inglese, pressoché intraducibile in italiano) è fin troppo poco. L’autore ci presenta il giudizio e il conto finale, lasciando a noi lettori il compito di individuare moventi, giustificazioni e, laddove ce ne siano, attenuanti.

Il saggio di Lorenzo Spurio, con la sua meticolosa ricerca e attenta analisi, ci invita a riflettere su questo e a trovare, noi lettori per primi, significanti e significati (letterari o meno) per questi due termini che, nella loro apparente semplicità, racchiudono infiniti universi di senso e codici d’accesso. In fondo, come diceva anche Woody Allen: Is sex dirty? Only if it’s done right.”

Rita Barbieri

Iuri Lombardi su “La cucina arancione” di Lorenzo Spurio

        La cucina arancione: quando la de-costruzione diventa un atto di verità

Di IURI LOMBARDI

 

 

cover_frontLa cucina arancione, la raccolta di racconti di Lorenzo Spurio edita nel 2013 da Tracce per la meta edizioni, oltre ad essere un libro interessante, pieno di spunti e di riferimenti, oltre ad essere una netta e chiara (inequivocabile) indagine di un mondo minuto, emarginato, nascosto, che alberga in noi oltre che ai margini prestabiliti dal sociale, è sopratutto un’opera post-moderna in cui Lorenzo (anche in questo caso chiamo per nome lo scrittore perché gli sono amico) si colloca a pieno in un filone preciso della letteratura contemporanea (a mio avviso l’unica possibile): quella del post-moderno. Filone che se in apparenza un critico può nutrire perplessità nel definirlo, ha tuttavia dei connotati precisi che di seguito vorrei esprimere in termini storiografici.

In primo luogo, la caratteristica principale del post-moderno è sicuramente la de-costruzione di ogni classica funzione che per secoli ha avuto la letteratura. E in primo piano, la de-costruzione del classico (de-mode e anti-storico) mette in luce non solo un mutamento di rotta sulla lingua (non più conservatrice), non solo nello stile, che diventa per forza di cose un catalizzatore di eventi linguistici e ipertestuali, ma compie una rivoluzione – e consentitemi di affermare gobettiana- nel porre come protagonista della propria storia l’emarginato, il prossimo del quotidiano, volendo l’uomo medio gonfio di solitudine e di paranoie, di paure e di fobie.

Questa è in primo luogo la caratteristica della Cucina arancione. Un libro rivoluzionario – in termini, ripeto, gobettiani della parola- che mai come adesso nel panorama editoriale italiano s’era visto. Infatti, in luce di quanto sostenuto sino ad ora, l’opera di Spurio è una indagine diretta, quasi un punto di osservazione continuo, una sequenza di storie apparentemente lontane dalla normalità che quasi al lettore medio creano scandalo.

Lorenzo si cala nei panni di un viaggiatore di un mondo sconosciuto, da noi tutto saputo ma celato per timore del pregiudizio, in cui lui stesso da scrittore è costretto, vuoi per piacere della scrittura, vuoi perché curioso, a narrarci questa realtà costituita solo da muri, da alte saracinesche di paure e fobie, di paranoie e di ripetizioni. Ripetizioni di gesti, di riti quotidiani che andando ad oggettivare la materia d’indagine diventano interessanti spunti su di un contesto o più contesti sommersi alla maggioranza delle persone. E la ripetizione dei gesti, delle paure che si rinnovano regolarmente in un tempo x sono parte integrante di una nostra forma mentis che il più delle volte allontaniamo da noi per paura. L’indagine di Spurio (notevole critico letterario e studioso di un certo tipo di letteratura psicologica) fonda sulla ripetizione la propria poetica, quasi avesse assorbito in pieno e in modo positivo e costruttivo la lezione dei funzionalisti francesi, in particolare di Deleuze e Derrida. Infatti tra le righe della cucina arancione si possono cogliere una serie di spunti che legano, volente o non, la narrativa alla questione del linguaggio psicanalitico. E questo viene fuori, emerge come un relitto dalle acque profonde del mare, quasi portato a galla dalle correnti di una volontà remota, non solo nei contenuti (in cui il protagonista è l’anti-eroe), ma in particolare nella lingua.

Una lingua che nell’atto della descrizione si fa distante e riesce ad oggettivare la cosa narrata quasi come se l’autore non volesse intaccare l’oggetto conferito con la propria emozione o personalità. Esperimento questo che somiglia molto alla lezione del romanzo scientifico dei naturalisti francesi, del Verga e del Capuana per un contesto agreste e italiano, per il teatro somigliante all’epicità di Brecht.

In altre parole, si tratta di una lingua diretta, senza inflessioni emotive, che racconta il narrato con scientificità e rigore assoluto, dando al lettore la possibilità di interagire all’interno della storia come figura protagonista. Figura che ha il compito di ultimare il racconto attraverso una riflessione che trova con l’ipertestualità del testo una propria alchimia. E questo è tipico del post-moderno.

 

Altro aspetto, direi non marginale, è il discorso dello spazio/tempo come nel racconto Jonny, in cui una realtà cela e si sovrappone ad un altra, per cui il tempo e lo spazio diventano un disegno teatrale, drammatico della nostra vita. Spazio/ tempo che si annida e si esplicita in più tempi e in più spazi attraverso riti quotidiani, paure, cose non dette. Questo aspetto svela in Spurio una cultura sociologica del vedere la letteratura, nello specifico la narrativa, in cui il pensiero di Durkheim[1] e di Debord[2] trapela come interrogativo mai risolto sul nostro tempo.

Quel senso di morte (fisica e simbolica) che si respira in Durkheim pare lambire, albergare nei personaggi della Cucina arancione, come se la vita di questi si alimentasse di uno spazio/tempo proprio, fosse costellata di suicidi violenti sia verbali che fisici. Si tratta in sostanza, di attentati verso il proprio essere continui che pare non trovino soluzione.

In secondo luogo, il contesto calato in un contesto altrettanto drammatico, allude o può ricordare la famosa società dello spettacolo di Debord, in cui l’idea dell’altro e della propria persona è minacciata dall’equivoco costante e continuo dei giornali e delle immagini. Ed eccoci al punto: la cucina arancione, pur essendo un libro di racconti, è una sequenza di scene drammatiche in cui la realtà di noi tutti trova il suo naturale palcoscenico. Si tratta di una scena dolorosa, piena di traumi e paure, di muri invalicabili, in cui l’osceno non avendo più pudore di sorta (e dico in termini letterari giustamente) balza in primo piano facendo dell’opera un teatro alla Artaud[3]. Si tratta della narrativa del crudele: dello svelamento della verità. Di una verità dolorosa, antipatica, sofferente che alberga nell’uomo, ad ogni livello o estrazione sociale, che fa della vita una esistenza ferita[4].

 

27.02.2014

                                                                                   Iuri Lombardi


[1]Durkheim, Il suicidio, Bur, 2013

[2]Debord, la società dello spettacolo, Baldini e Castoldi, 2011

[3]Artaud, il teatro e il suo doppio, Einaudi, 2000

[4]Moravia, l’esistenza ferita, Feltrinelli, 1999

Luisa Bolleri su “La cucina arancione” di Lorenzo Spurio

LA CUCINA ARANCIONE di Lorenzo Spurio
TraccePerLaMeta Edizioni, 2013
Recensione di LUISA BOLLERI

 

cover_front “La cucina arancione” di Lorenzo Spurio – raccolta di racconti che prende il titolo proprio da un racconto – è un libro che apprezzo molto, per aver voluto scavare con chirurgica determinazione nell’animo umano di chi viene considerato borderline, offrendoci un viaggio attraverso multiformi realtà parallele a quelle consuete, considerate nel loro insieme ‘disagio psichico’ ma che spaziano dall’innocua introversione all’omicidio. Un percorso interessante compiuto dentro labirinti mentali ignoti ai più ma anche utile ad esorcizzare certe paure che popolano i sogni di ciascuno di noi. 

In cosa si differenzia l’uomo dagli animali? Qual è il meccanismo che ha portato l’umanità, attraverso una lunga e aspra selezione, a diventare l’essere sociale e organizzato che vive oggi le nostre metropoli? La risposta sta nell’aver creato delle regole da rispettare, che non sono necessariamente le stesse in ogni luogo del pianeta. Leggi e consuetudini basate sull’esperienza collettiva, su avvenimenti storici, sulle necessità, sulla religione, a volte solo sul buon senso. Regole. A volte sbagliate, di parte, fatte dai maschi per i maschi, create a favore dei potenti, contro gli stranieri, contro chi è diverso, contro chi non si omologa al pensiero comune. A difesa delle quali si erge una barriera di istituzioni e di enti morali o etici. Rigide regole.

Ma qual è la linea di demarcazione tra il giusto, il legale, il tollerato e la libertà dell’individuo?

Generalmente nelle società più evolute ciò che non nuoce all’altro viene tollerato, si concede ampia libertà al singolo, purtroppo non sempre si riescono a evitare le forme più subdole di anormalità, nascoste tra le mura domestiche, addirittura tra le pieghe dei più intimi pensieri. Basti pensare alle forme di razzismo, omofobia, estremismo politico, bullismo, pedofilia che spesso non sono conclamate e potrebbero rimanere allo stato embrionale in eterno. Poi un avvenimento fortuito li sviluppa, facendole evolvere in forme attive di violenza. L’aggressività, gradualmente o di colpo, si muta in intolleranza, prepotenza, sopraffazione. Dilagano a macchia d’olio i maltrattamenti in famiglia, in contesti in cui difetta il rispetto dell’altro e in genere per i più deboli. Dove gli esempi del rispetto altrui sono carenti, dove l’amore è considerato possesso, dominio, proprietà, e può sfociare facilmente in stalking, o in femminicidio o in altri crimini contro la persona. Dove si può picchiare un bambino o una donna o un anziano, senza provare il minimo rimorso. Lì, dove l’embrione è cresciuto, la linea è stata oltrepassata.

Si definisce allora ciò che è normale. Chi è una persona normale e chi non lo è. Si stigmatizzano le forme di comportamento e gli atteggiamenti conformi, approvati, adeguati al vivere civile. Per diventare una persona normale si viene educati fin da bambini a rispettare le regole comuni per divenire un adulto regolare. Ma talvolta, pur in una raggiunta normalità, anche la persona apparentemente più adattata, perfino quella che non aveva mai rivelato neanche a se stessa certe inclinazioni, diventa qualcosa di diverso da sé o da quel che appariva. Quante volte si sente ripetere la frase: “Sembrava una brava persona… Non ci posso credere, aveva dei modi così per bene…”. E’ proprio da quell’apparenza fuorviante che nasce l’incapacità a comprendere che hanno i buoni verso i cattivi, l’impossibilità ad afferrare i motivi e le cause di quelle anormalità, e quindi la loro prevedibilità.

Il lettore di questo libro si troverà al cospetto di tante storie in cui la normalità comportamentale avrà deviato in forme diverse e particolari. Anomalie, stranezze, patologie, ossessioni che avvolgono il personaggio di turno in una afflizione sottile o in un’angoscia insostenibile.

Ma ciò che coglie nel segno, di questi variegati racconti, è che ciascuno di essi ci fa abitare le emozioni e i pensieri del protagonista, raccontandoceli passo passo, spiegandoci cosa provi. E attraverso le parole, le riflessioni o semplicemente i suoi comportamenti istintivi, ci mettiamo nei  suoi panni.

Un modo di raccontare teso a far comprendere come possano nascere certe situazioni. Un procedimento che scava anche nel torbido, senza voler giustificare né giudicare ma semplicemente riferendo i fatti, quasi come in una cronaca diretta.

L’autore non interviene mai con i suoi giudizi espliciti. Sarà il lettore a riflettere e, se vuole, a giudicare. 

 

LUISA BOLLERI

 

11-09-2013

 

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