Noi siamo abituati a pensare a Carlo Botta, nato a San Giorgio Canavese, in provincia di Torino, nel 1766 e morto a Parigi nel 1837, come ad un uomo politico e ad uno storico, autore della Storia della guerra dell’indipendenza degli Stati Uniti d’America (1809), della Storia d’Italia dal 1789 al 1814 (1824) e della Storia d’Italia continuata da quella del Guicciardini sino al 1789 (1832), oltre che di altre opere storiche minori. In realtà egli fu anche scrittore di romanzi e novelle, e poeta, autore di un poema epico in endecasillabi sciolti.
Nel 1796, mentre in attesa di passare in Francia si trova in Svizzera, e precisamente a Knutwiel (nel cantone di Lucerna), dove si è recato per evitare di essere nuovamente arrestato dal re di Sardegna in quanto cospiratore giacobino, scrive un romanzo epistolare, sul modello di La nouvelle Héloïse (1761) di J. J. Rousseau, dedicato al suo amore per Teresa Paroletti. Questo romanzo è rimasto inedito per quasi 200 anni, venendo poi scoperto e pubblicato nel 1986, col titolo di Per questi dilettosi monti(sono in realtà le parole con cui si inizia il manoscritto), da Luca Badini Confalonieri.
Carlo Botta
Cambiata la situazione politica in Piemonte con l’arrivo di Napoleone e la sua prima campagna d’Italia, il Botta rientra in patria e nel febbraio del 1799 la Repubblica Piemontese, dopo aver votato a favore dell’annessione alla Francia e volendo avvalorare questa sua decisione anche con una sorta di referendum, invia in Canavese ed in Valle d’Aosta, per raccogliere voti di adesione, proprio Carlo Botta, che nello stesso mese (il 19) viene anche nominato Segretario per l’Istruzione Pubblica.
Nel mese di marzo il governo provvisorio viene sciolto per lasciar posto ad una singola Amministrazione, ma gli Austro-Russi entrano a Torino il 26 maggio e Botta viene inviato col Robert a Parigi, dove resterà fino a settembre. Subito dopo chiede di rientrare in servizio nell’esercito francese, venendo assegnato come medico militare a Grenoble, dove era già stato nel 1796 e dove resterà fino almeno al mese di giugno del 1800. Il 9 giugno ad Aix sposa Antoinette Viervil e fa poi ritorno in Italia dopo la vittoria napoleonica a Marengo (14 giugno), diventando membro della Consulta piemontese.
A Grenoble Botta vive un’esperienza amorosa di cui ci lascia memoria in una novella[1], della quale il commediografo e suo grande amico Stanislao Marchisio (1774-1859), all’inizio di una serie di “schede” lessicali riportanti passi linguisticamente interessanti della Novella stessa, ci dice «questa novella è tutta sul fare del Boccaccio, vuoi per purità ed eleganza di lingua, vuoi per oscenità incomportabili. La scrisse il Botta a Grenoble, dove si era rifuggito nel 1799 quando i francesi furono scacciati d’Italia dagli austro-russi, nella sua giovine età di trentatre anni. Sotto il nome di Simplicio de’ Simplicj dipinse la propria bonarietà e dabbenaggine». È questa la novella che a quel tempo «rimasta inedita, dovette però circolare manoscritta tra gli amici», come ipotizza Luca Badini Gonfalonieri nella sua introduzione al romanzo bottiano Per questi dilettosi monti di cui abbiamo appena sopra accennato.
Presso la Biblioteca Civica di Torino è conservata, con la segnatura ms. 79, una miscellanea manoscritta contenente vari scritti di Carlo Botta. Si tratta di un volume rilegato, appartenente alla biblioteca torinese almeno dal 1912, data che si legge, scritta a matita, sull’etichetta presente in 2ª di copertina. Tranne i pochi testi di cui nell’indice si legge essere autografi del Botta, gli altri, tra cui due novelle, non sono sicuramente di mano dello storico canavesano.
Il nostro testo (Novella piacevole. Sotto lo pseudonimo Semplicio de’ Semplici da Roverbella[2]) è il testo che reca il numero 1 della raccolta ed è chiaramente, anche se non esplicitamente, autobiografico. Il contenuto della novella è così brevemente riassumibile: si inizia descrivendo la figura del protagonista, medico (proprio come Botta), e narrando il suo arrivo a Grenoble, dove incontra l’altro protagonista (Totolo), pure lui esule in Francia. I due amici conoscono due donne romane con le quali tentano dei primi approcci amorosi, che culminano, durante la notte di Natale, in una serie di vicende erotiche. A questo punto fa la sua comparsa la figura del “muscadeno” (cioè un “moscardino”), vale a dire una sorta di bellimbusto che tenta anch’egli un approccio amoroso con le due ragazze; da tutto ciò sorgono i primi dubbi dei due uomini sulla vera condizione delle donne. Si arriva quindi all’equivoco ed alla catastrofe: Totolo, trovate le donne in compagnia del moscardino francese, rivela la verità a Simplicio. I due amici incontrano un saggio personaggio originario di Bologna, cotal Assennucci che, dopo la scoperta della verità avvenuta spiando le due donne a banchetto con degli ufficiali francesi, riesce a consolare Simplicio distrutto dal dolore e dalla disperazione.
Passano gli anni e il Botta, che si è trasferito a Parigi in seguito alla sua elezione a deputato, pubblica nel 1809 la prima edizione della Storia della guerra dell’indipendenza degli Stati Uniti d’America, iniziando nello stesso anno anche la stesura del poema eroico in 12 canti in endecasillabi sciolti, Camillo o Vejo conquistata, che sarà terminato nel 1814, anche se il primo canto, nella sua prima stesura e col titolo di Camilleide, era già stato letto nel 1813 all’Accademia delle Scienze di Torino. Se ne avrà poi una seconda edizione nel 1833 (presso lo stampatore Giuseppe Pomba di Torino) arricchita di “note dall’Autore” e “con gli argomenti a ciascun canto” opera del vercellese professor Cristoforo Baggiolini e preceduta inoltre da una lettera di dedica all’antico suo compagno di studi e compaesano don Giuseppe Gallo, professore emerito di Retorica e di Filosofia e Prefetto degli Studi a Vercelli, che aveva insistito perché egli stampasse la nuova edizione del poema. Il motivo della scelta dell’argomento, la conquista di Veio da parte dei Romani guidati da Furio Camillo avvenuta nel 396 a. C., è spiegato dall’autore nel suo Avvertimento: egli si è sempre meravigliato del fatto che gli autori epici italiani, a differenza dei greci, dei latini e dei francesi, abbiano sempre scelto come argomento dei loro poemi vicende ed imprese straniere; egli invece ha voluto raccontare una vicenda che ha avuto come protagonisti, seppur come avversari, gli Etruschi ed i Romani, «due popoli dei più famosi non solo dell’Italia medesima, ma ancora di tutto il mondo».
Non stiamo ora a dilungarci sull’opera e sul suo contenuto, ma soffermiamoci solamente un attimo su di un episodio del canto XI, proprio il passo in cui il poeta fa il catalogo e la descrizione delle forze italiche giunte in soccorso degli assediati di Veio. Ai versi 1149-1162 egli descrive quelli che possono essere considerati i suoi (e nostri) antenati, i Taurini, di cui ci dice
E qui Tirreno ad Anfideno volto
così gli parla: “O buon Sannite, dimmi,
chi son costor, che con sì snelle piante
battono il calle e l’erta? Oh qual fidanza
portano in volto, e qual guerriera possa!”
“Questi, rispose, son color, che in riva
a l’alme Dore e ad Eridan superbo
di toro nati anticamente, al toro
alzan gli altari, ed han dal toro il nome.
Guardan d’Italia i passi: ora sforzati
da la romana peste accorron quivi
d’Italia a scampo, e gli vedrai ben tosto
fulminar con le spade e coi sembianti.”
Tacque; ed intanto la Taurina prole
altera trapassava e trionfante.
Poi, nei cinque versi seguenti (1163-1167), il nostro autore, con accenti che ricordano vagamente il Tasso della Canzone al Metauro, aggiunge parole tristi e dolorose per la sua condizione, quella di chi ha dovuto scegliere di vivere lontano dal suo paese
Oh dolce nido, o mia cuna diletta,
fera tempesta da te mi divelse:
or queto è ’l turbo; e pur non so, se fia
(tal mi volge destin) ch’io lasci quivi
questa vita infelice, ov’io me l’ebbi!
DARIO PASERO
[1] In una lettera scritta all’incirca nel medesimo periodo di redazione della Novella il Botta scrive: «[…] Quellapoi, ch’ebbe ad innamorarmi, e da farmi ammalato non è la francese, ma una certa testa venuta da Roma, e che par venuta dall’isola di Scio, con certi occhi, i quali pajono il fuoco,o la luce, o s’altro v’ha al mondo di più bello, di più vivace, e raggiante. Il bello poi si è, ch’essa non mi ama, e parte per Parigi fra pochi giorni. Quando adunque vedrai arrivare costà una testa romana col viso bruno, i capelli-neri, e ricciuti, una testa, dico, che dovrebbe servir di modello al più gran scultore del mondo, dì, è questa che innamorò un uomo, nel quale l’amore non dovrebbe più capire […]» (presso la Biblioteca Civica di Torino, lettera del 17Nevoso anno 8° (7/1/1800), da Grenoble, all’amico Giulio Robert).
[2] Roverbella è una località del mantovano dove sappiamo che il Botta aveva soggiornato nel 1797.
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L’opera di un poeta è fusione totale tra parole e immagine, che origina quello che Bachelard chiama retentissement, ossia la capacità della poesia di creare una sorta di “vicinanza” tra poeta e lettore, che mette in moto l’attività di comprensione e interpretazione. Petrarca scriveva che «la poesia, in quanto vera poesia, è sempre sacra scrittura» poiché nasce da una commistione tra ispirazione e sentimento del divino. Anche quando il poeta non tratta esplicitamente il tema religioso (qualsiasi sia la sua confessione) vi è sempre una fortissima tensione spirituale, non a caso «nel tempo della notte del mondo i poeti, cantando, insegnano il sacro» (Heidegger). Proprio Heidegger parlava della funzione della poesia come forma di conoscenza. Infatti nell’antica Grecia il poeta era l’hermeneutès, ossia l’intermediario tra gli uomini e l’Olimpo ed era l’interprete dei presagi degli Dei. La poesia perciò era parte integrante della religione e della vita spirituale. Nasce dal “fondo profondo” (E. Montale) e nel silenzio interiore il poeta coglie il senso del mondo e lo porta in superficie attraverso la parola. Ma «i poeti non accendono che lampade essi poi spariscono» (Emily Dickinson) nel senso che il poeta non parla per sé ma per gli altri. Ne segue che l’attività poetica dà volto alle cose e rende libera la mente, aprendola alla conoscenza del mondo e alla verità dell’Essere Supremo, che è Dio, inizio e fine di ogni cosa creata.
La vita è amore e se «l’amore è movimento», secondo il pittore E. Tomiolo, verso gli altri, verso se stessi, verso la natura, verso Dio, è proprio l’amore negato che spinge la lucana Isabella Morra[1](vissuta nel Cinquecento) ad alzare un grido straziante contro l’universo per il padre lontano,[2] contro il «Torbido Siri»,[3] contro i «fieri assalti di crudel Fortuna».[4] Crollati tutti i miti: il desiderio di trovare un amore o una ragione per vivere nelle lande solitarie e ostili di Valsinni, trovò conforto in Cristo e nella Vergine. Non a caso Il Canzoniere di Isabella Morra, come quello di Petrarca, si conclude con la canzone alla Vergine. Isabella delusa e ormai libera dalla zavorra della vita, abbraccia il mistero di Cristo e in Lui proietta i suoi desideri identificandosi nella peccatrice Maddalena, redenta e pentita e con «la mente rivolta «a la Reina del Ciel, / con vera altissima umiltade»[5], l’anima si porge alla contemplazione di Dio. L’incontro con la dimensione religiosa, metafisica, le dà certezza che esiste un mondo alternativo a quello nel quale vive. La sua poesia è parte integrante del suo breve percorso di vita, che la guida e la sostiene nella solitudine sia nel dialogo con la natura aspra e selvaggia, sia con l’unica amica: Antonia Caracciolo, moglie di Diego Sandoval De Castro, ritenuto a torto dai fratelli, suo amante.
Ben diversa è la poesia di Aurora Sanseverino[6] (vissuta nel Settecento), una delle poche donne, che fece parte dell’Arcadia con il nome di Lucinda Coritesia. Le sue poesie non vanno al di là di una pura esercitazione letteraria; in esse la spiritualità e la religiosità sono improntate dall’esteriorità. Non analizza l’angoscia e la ricerca della pace contro «gli aspri martiri»[7] non nasce dal senso vertiginoso di vuoto, che distende la sua poesia fino al grido, allo spasimo, al pianto. Non c’è vera sofferenza e il “male di vivere” è una finzione, espressa in moduli leggeri, musicali appena increspati di malinconia. Il sentimento è distaccato e astratto e si apre a un gioco di parole secondo i modelli dell’Arcadia. Le lande sconfinate dell’entroterra lucano, che fanno da sfondo ai suoi sonetti e canzoni, appaiono irreali e artificiosi; uno scenario perfetto per una narrazione idilliaca di un mondo fiabesco, e il concetto di solitudine è ben lontano da quello straziato di Isabella Morra. Le poesie utilizzano un linguaggio semplice, musicale a tratti lezioso, in obbedienza al tòpos classico del «luogo ameno». Figlia del secolo e della cultura dei Lumi, Aurora non sente la tematica del trascendente e Dio è inteso semplicemente come un Essere Supremo, secondo il dettame del sensismo. Gran parte della sua produzione di liriche, ballate, melodrammi è andata perduta e i pochi sonetti conosciuti hanno portato la critica letteraria a dire che il suo lavoro è «non godibile e sostanzialmente artefatto».
L’isolamento e l’essere “figlia di una regione derelitta” qual era la Basilicata, dominio per secoli di “ignominioso servaggio”, porta la potentina Laura Battista[8] (Ottocento) a una consapevolezza dei problemi politici, sociali e storici della sua regione. Colta e raffinata al pari del Leopardi, del quale fu seguace, ebbe per opera del padre uno studio «matto e disperatissimo», che la portarono giovanissima a scrivere di greco, di latino, di tedesco e di francese. I Canti[9], ottanta componimenti in tutto, si muovono dalla sfera pubblica a quella privata. La passione politica spingeva la Battista a partecipare agli avvenimenti della nazione, dall’altro premeva il suo disagio esistenziale, soprattutto per la sua relegatio a Tricarico. La sua è una poesia d’occasione, legata agli avvenimenti, espressi spesso con un linguaggio religioso e enfatico, infatti usa per Garibaldi i termini «Redentore dei popoli», «Divino». I sonetti, ben costruiti tra retorica celebrativa e patriottica nell’esaltazione del momento, si spiegano come un brindisi e perciò risentono di una certa monotonia. Diventa la sua spiritualità autentica nelle liriche soggettive e private, che toccano i sentimenti di donna e di madre, che vive una condizione di solitudine in una casa senza amore e in un paese senza prospettive.
Poche son le donne che assurgono agli onori della gloria letteraria, come scrive in una lettera Laura Battista, ma «la donna o villipesa o trascurata presso le nazioni rozze di qualsivoglia età […] non poteva[…] rimanere addietro, quasi non fosse anch’essa creatura di Dio».[10]
Poete e scrittrici da ogni parte del mondo e, dalla Basilicata, terra negletta e isolata, faranno sentire nel Novecento, la loro voce a cominciare dalla compianta Giuliana Brescia[11] definita la “Saffo lucana”. La sua poesia altalenante tra male di vivere, angoscia e senso ineluttabile della morte, abbraccia temi che la collocano molto vicina a Isabella Morra per il senso profondo d’inquietudine. In una poesia pubblicata postuma vi è tutta il dolore del male di vivere, che nasce da una sorta di prigionia psicologica, manifestatasi fin dall’adolescenza. Scriveva: «Passata la vita per me / finito il domani / le porte son chiuse / serrate / mi resta soltanto nel fianco / lo spasimo acuto di un male che è ancora / la vita». Una religiosità laica e mai confessionale contraddistingue le sue poesie, che nascono dai sogni che si scontrano con una realtà dura e problematica. Il linguaggio è semplice ma musicale e armonico fin dalle poesie giovanili. Si chiude nella sua “tela di vagheggiamenti” nei silenzi assordanti, nelle illusioni del vivere quotidiano, dove i «sogni si son persi / nel deserto desolato della realtà». Le liriche (Poesie del dubbio e della fede, Versi affiorati dai cassetti) delicate e ricche di forza interiore, diventano a tratti tenere proprio quando si chiude nell’intimismo, che riverbera su una natura umanizzata alla Pavese, al quale è accomunata dalla scelta del tragico destino. Nell’angoscia esistenziale àncora è la parola poetica, adulata, blandita, ricercata, che accende la speranza; ma essa è illusoria e non riempie quel vuoto straziante, che la porterà a porre fine alla sua breve vita.
Per la poesia di Lorenza Colicigno[12]sono appropriate le parole di Montale «ogni volta che trovo in questo mio silenzio una parola, scavata è dentro di me come un abisso», perché le sue liriche nascono da un profondo silenzio interiore, dove trova il senso religioso del mondo. La poesia si dispiega come preghiera perché indaga nel fondo delle cose e porta a galla l’inesprimibile. Ma il poeta è colui che più degli altri porta nell’anima la propria terra. Si parla di poeta come del cantore di una geografia umana. Egli erige modelli, mappature, carte del proprio luogo per affermarne l’appartenenza, creando una sorta di «paesologia» (Franco Arminio) che è una forma di etnologia del paesaggio, di cui il poeta ne dà espressione. Il bello è che la paesologia non studia un paese, l’annusa, l’ascolta proprio come fa Lorenza con la sua città, Potenza: ne rende l’energia della case arroccate sulle montagne; s’immerge nella vita della città, nelle scale mobili, che salgono quasi fino al cielo; canta la «debolezza / dei vecchi e la baldanza degli adolescenti» (in Ritorno); si chiude, solitaria spettatrice, dietro una finestra o un terrazzo a scrutare l’orizzonte, che si allarga sulla valle dove il «Basento insegue albe e tramonti / e ascolta il brusio della città che lo stringe / nell’abbraccio schiumoso della sua / modernità di ciottoli e lattine»[13] e scorre sonnolento e acquitrinoso. Contempla la città da un cantuccio solitario, dove l’«aria natia», per dirla con Saba, o la «matria»[14] è pregna di gioia e dolore insieme.
Anche per Amalia Marmo[15] il compito della poesia è scavare nel profondo dell’anima ed enunciare attraverso la parola la verità. «Vedere il mondo in un granello di sabbia» per dirla con William Blake, è questo il senso dell’estro creativo. La ricerca del ‘meraviglioso’, tanto caro a Novalis»[16] che porta a Dio, così presente nell’universo, è la missione del poeta. Le sue liriche nascono dal «sapore della terra» e dal «la salsedine del mare»[17]. La parola poetica c’immette nel ‘mistero’, che è simile all’”Inconoscibile” di Spencer: una realtà assoluta che la ratio umana non può raggiungere. Il genio creativo ci fa immergere nelle acque del subconscio e riemergere “illuminati” di una verità da divulgare. La poesia per la Marmo «altro non è / che ignara ispirazione. / Un eterno aiutante / un profeta o un indovino / senza mete o ragione».[18] La poeta sarà sempre «sentinella costante» della «memoria lirica»[19]. Filtra la ragione con il cuore, intessendo una poesia che è «distillato di vita, quasi peccato / d’intelletto tolto al tempo / per stupire se stesso e l’universo /e chiuderlo in un pugno di mistero»[20]. Il mistero non è quello religioso ma qualcosa che supera l’umano intendimento. Crede in Dio e nell’immortalità dell’anima. Ha certezza in una vita futura. Il mondo, la natura, gli accadimenti sono aspetti diversi dell’universale mistero.
L’acuta sensibilità e lo scavo interiore di Rosalba Griesi[21] danno origine a quell’inquietudine esistenziale, ordita su interrogativi ontologici, che si mescolano ai sogni quasi invisibili, alle luci lievi della speranza. L’atmosfera spirituale si riverbera sullo spettacolo della natura, sui suoi colori cangianti: dagli «spruzzi di giallo»[22] delle mimose al «bianco immacolato» delle zagare; dall’arancione delle margherite al verde dei campi, simili al mare. Il dettato lirico fluisce a volte delicato e sinuoso, altre prorompente e impetuoso nello scandagliare gli oscuri anfratti o gli abissi o i campi brulli per comprendere la sofferenza e riemergere rinnovato e dispiegare «parole taciuta / parole serrate / parole nel cuore posate / […] parole donate»[23]. Rosalba si eleva dal paesaggio naturale della terra a una riflessione escatologica, che richiama il senso della vita e la tensione dell’uomo verso l’Assoluto, che è Dio-Provvidenza di manzoniana memoria. La sua religiosità è priva di fronzoli e si distende in note scarne, quasi epigrammatiche.
Le liriche di Rosa Pugliese[24] s’inseriscono nella poesia civile, poiché sono denunzia, accusa contro l’umanità “liquida” e l’io lirico sembra arrestarsi fiaccato dagli avvenimenti della storia, dal tempo, che vorrebbe fermare nelle scatole di latta, dove trovare «una carezza materna»[25]. Le poesie nascono dall’incanto e il superamento e il dominio del dolore lo trova nella contemplazione di armonie cosmiche e naturali. La letizia travalica il vortice dell’angoscia nella magia dell’infanzia o dei luoghi amicali; nel gioco della vita; nello scorrere del tempo in stagioni e in ore, e nella Bellezza, che ancora una volta salverà il mondo. Scriveva Pablo Neruda «La poesia è un atto di pace / Di pace è fatto il poeta come di farina il pane» e la poesia per Rosa Pugliese è un atto di pace, poiché prende tutto il dolore del mondo e lo placa proprio come il fiume che s’infratta tra dirupi e forre per sfociare lento e placido nel mare. La Nostra trae dalla sofferenza l’energia creativa e la elabora superando lo stretto orizzonte provinciale per cantare il dolore della gente costretta a emigrare nei barconi. La poesia è voce dell’anima e noi diventiamo «tratturi di campagna / solcati dalla terra che li ha generati», o fiori di malva, germinati nella terra, crepata dal gelo.
Il testamento letterario e umano di Anna Santoliquido[26] è tutto racchiuso nelle sue numerose raccolte: da I figli della terra del 1981, nella quale la poesia nasce dalle vallate di ginestre e malvarose, dai campi biondi di grano e rossi di papaveri della sua Forenza, fino a Profetesha / La Profetessa, pubblicata in Albania nel 2017, dove sperimenta la dolcezza e la generosità della gente, che le riportano alla memoria i luoghi e le donne della sua infanzia. I versi limpidissimi e rigorosi aprono al lettore una nuova percezione dell’uomo, che sente l’altro non più nemico ma fratello. È questo il grande dono della poesia. «Che cosa può dare / agli altri un poeta?» si chiede la Santoliquido. Egli dona il cuore per amare, gli occhi per vedere, gli sguardi sereni, un pugno di pace. Ed è la speranza che non l’abbandona, impegnata in una continua analisi e ricerca interiore. Sa che oltre le esperienze e le prove della vita, in fondo c’è sempre un raggio di luce, che illumina e dà forza. Ricompone il conflitto che è alla base dello smarrimento spirituale della nostra società, alla quale manca quel “sapere dell’anima”, che oltrepassa e fonde umano e soprannaturale, sapere scientifico e visione poetica. È sorretta nel cammino elegiaco dalla fede, è questo il varco (Montale), che cancella la distanza dalla trascendenza e immanentizza l’ebbrezza ontologica e, come Sant’Agostino, supera la lacerazione tra materia e spirito. Il poeta attinge all’Assoluto e «offre parole / parole incarnate». È simile al Demiurgo platonico, creatore della realtà, che ci porta fuori dal “caos primordiale”. Diventa divulgatore di pace nel mondo e nell’anima, ma è anche colui che «muore da solo». È la forza eternatrice della poesia, di foscoliana memoria, che lo ferma «al limitar di Dite», ad afferrare la luce e liberare il canto. Il suo lavoro è simile a quello della Sibilla, il mito di cui ci parla Virgilio nell’Eneide. La profeta ispirata da Apollo, trascrive le profezie del Dio sulle foglie, che il vento disperde. Il rito rivela la missione di intermediario del vates, spesso inascoltato, tra il mondo della verità e quello degli uomini. Egli è il porto sepolto, come diceva Ungaretti, e nel profondo scopre l’inesauribile segreto, i misteri inenarrabili che il soffio del vento disperde anche se le parole sono portate dall’angelo. Anna è poeta sempre, sotto il cielo di Puglia e della Lucania, ma anche «a Belgrado e a Zagabria». I versi scaturiscono dalla sua capacità di andare dal vicino al lontano, dal microcosmo al macrocosmo. L’ispirazione nasce perché, «è l’angelo a portarmi le parole / le lascia nei vasi rotti / il vento le disperde […]»[27] e lei come una sacerdotessa vaticinante le raccoglie in «una forma di preghiera» (Kafka). Ci introduce in un mondo d’incanti quando scrive «Com’erano / piene / le mani / nodose / di mio nonno / quando / con voce roca / ma gentile / mi donava /un pugno / di noci / o di castagne»[28] o quando tratteggia in un distico toccante il ritratto della madre «Se solo potessi catturare / il sorriso delle sue rughe!»[29]. La poesia della Nostra colpisce per la forte empatia con il lettore, poiché è sempre aperta alla speranza, all’adesione con il mondo in cui vive, a nutrire attese per il futuro sulla rievocazione delle bellezze di un passato vissuto e assaporato. Il ruolo del poeta nella società è di pace perché come lei stessa scrive «è colui che porta in tasca l’universo». Egli parla una lingua nuova, toccante, rivelatrice: quella dell’anima. Per la Santoliquido valgono le parole del poeta dell’invisibile, Rilke, «Noi siamo le api dell’invisibile. Noi raccogliamo incessantemente il miele del visibile per accumularlo nel grande alveare d’oro dell’invisibile»[30].
[1]Isabella di Morra, conosciuta come Isabella Morra, nata a Favale nel 1520. Visse in solitudine sotto la prepotenzadei fratelli e segregata nel proprio castello, dove scrisse l’opera letteraria, IlCanzoniere, formato da dieci sonetti e tre canzoni. La sua breve vita si concluse con il suo assassinio, nell’inverno del 1545 o 1546, da parte dei suoi fratelli a causa di una presunta relazione clandestina con il barone Diego Sandoval de Castro, poeta di origine spagnola e barone della vicina Nova Siri, anch’egli qualche mese dopo subì la stessa fine. Quasi sconosciuta in vita, Isabella di Morra acquistò una certa fama dopo la morte, grazie agli studi di Benedetto Croce, e divenne nota sia per la sua tragica biografia sia per la sua poetica, tanto da essere considerata una delle voci più autentiche della poesia italiana del XVI secolo, nonché una pioniera del Romanticismo. Non si conoscono notizie inerenti alla sua vita precedente e alla biografia della famiglia Morra, dal titolo Familiae nobilissimae de Morra historia, pubblicata nel 1629 da Marcantonio, figlio del fratello minore Camillo.
[2] Giovan Michele di Morra riparò a Parigi, accusato di una congiura contro la corona, affidando la moglie, Luisa Brancaccio, e i cinque figli, Decio, Cesare, Fabio, Porzia e Isabella, a Marcantonio il fratello maggiore, uomo violento e rissoso.
[3] I. Morra, Torbido Siri, in Isabella di Adele Cambria, edizione Osanna, Venosa 1996, pp. 65/64.
[5] Ivi, XIII Quel che gli giorni a dietro, pp. 87/92.
[6]Aurora Sanseverino nacque a Saponaria nel principato di Citra (l’odierna Grumento Nuova, in Basilicata) nel 1669 e morì a Napoli nel 1726, da Carlo Maria principe di Bisignano e conte di Saponaria e Chiaromonte e Maria Fardella contessa di Paco. All’età di 11 anni, sposò il conte Girolamo Acquaviva di Conversano, ma il matrimonio durò solo pochi anni per la morte prematura del marito. Ritornò a Saponaria per un breve periodo e compì diversi viaggi con il padre, a Palermo e Napoli. Un secondo matrimonio avvenne il 28 aprile 1686 con Nicola Gaetani dell’Aquila d’Aragona, conte di Alife, duca di Laurenzana e principe di Piedimonte. Dopo il matrimonio, si trasferì nella dimora del marito a Napoli, città all’epoca caratterizzata da un’intensa vita culturale. Nella sua casa napoletana ospitò vari poeti, musicisti e pittori, dando così vita a un noto salotto letterario. Oltre alla letteratura, fu un’abile cacciatrice, partecipando a battute di caccia al cinghiale sui monti del Matese.Fece parte dell’Arcadia con il nome di Lucinda Corinesia.
[7] Aurora Sanseverino, Ben son lungi da te, vago mio nume, in Scrittori lucani, Consiglio Regionale della Basilicata.
[8]Laura Battista nacque a Potenza nel 1845, figlia di Raffaele Battista di Agrigento e di Caterina Atella da Matera. Il padre fu un insegnante di lettere e segretario perpetuo della Società Economica di Basilicata e consigliere provinciale di Matera. Raffaele insegnò Latino e Greco presso il Real Collegio di Basilicata a Potenza, dal quale fu espulso a causa del suo orientamento Liberale, poiché l’istituto fu affidato alla direzione dei Gesuiti. Egli poté riprendere a insegnare solo dopo l’Unità d’Italia e, quindi, dopo la scomparsa del regime borbonico. Nel 1871, in seguito la famiglia si trasferisce a Matera, per le persecuzioni di cui fu oggetto il padre per le sue posizioni politiche, divenne consigliere provinciale della Basilicata. Autore di studi e inchieste sullo stato dell’economia agraria della provincia, era un fine latinista e autore di traduzioni e fu il primo e, per molto tempo, l’unico maestro di Laura. Ella insegnò per breve tempo nel convitto femminile di Potenza. Ben presto abbandonò l’insegnamento sia per la salute cagionevole sia per aver sposato il conte Luigi Lizzadri di Tricarico, dove si trasferì.
[9] G. Caserta, Laura Battista, Canti, per i tipi di Conti, Matera 1879.
[10] G. Caserta, cit. L. Battista, Potenza 22 marzo 1875 Direzione Della Scuola Normale Femminile di Basilicata, p. 153.
[11]Giuliana Brescia nacque a Rionero in Vulture nel 1945 e morì suicida a Bari dove viveva con il marito e la figlia, nel 1973. Nel 1962 le fu assegnato a Napoli il premio La maschera d’oro. Le sillogi sono state pubblicate postume: Poesie del dubbio e della fede, Versi affiorati dai cassetti.
[12]Lorenza Colicigno nasce a Pesaro nel 1943 e vive a Potenza. Insegnante di Lingua e Letteratura Italiana, ha lavorato in radio e televisione a Roma e Potenza. Ha pubblicato: Questio de silentio (1992) Canzone lunga e difficile (2004), Matrie (2017), Cotidie (2021). I suoi scritti si trovano in antologie e pubblicazioni.
[13] Lorenza Colicigno, Potenza e velo, in Cotidie, Manni Editore, Bari, 2021, p. 5.
[14] Il termine è tratto dal latino mater matris, terra madre, termine utilizzato per la prima raccolta.
[15]Amalia Marmo nata a Miglionico (MT) nel 1948, vive a Marconia di Pisticci (MT). Laureata a Napoli in Lettere classiche. Ha avuto molti riconoscimenti letterari. Ha pubblicato raccolte di poesie e romanzi.
[16] Novalis affermava «La nostra vita non è ancora un sogno, ma sempre più deve diventar tale».
[17] Amalia Marmo, Indenne paradiso perduto, in Il vento leggerà Gradita Sinfonia, Edizioni Setac, Pisticci, 2015, p. 30,
[21]Rosalba Griesi nasce a Palazzo San Gervasio, dove vive e lavora, nel 1958. Ha pubblicato: Il viaggio (2004), Nel mare del tempo (2011), Natale e dintorni (2014), Nicol ali di farfalla (2015), I racconti di nonna Peppa (2017). Le sue liriche e racconti sono stati inseriti in diverse antologie.
[22] Rosalba Griesi, Mimose, in Nicol ali di farfalla, LuogInteriori, Città di Castello (PG), 2015, p. 39.
[24]Rosa Pugliese nasce a Zurigo nel 1965 e vive a Venosa (PZ). Si laurea in Lingue Straniere. Ha pubblicato due raccolte di poesie: La strategia della formica (2019) e La tana del riccio (2022). I suoi lavori sono pubblicati in varie antologie.
[25] Rosa Pugliese, Colleziono scatole di latta, in La strategia della formica, scatole parlanti edizioni, Reggio Calabria, 2019, p. 21.
[26]Anna Santoliquido, nata nel 1948 a Forenza (Potenza), vive a Bari. Ha pubblicato le raccolte di poesia: I figli della terra (1981 – Premio Città di Napoli), Decodificazione (1986), Ofiura (1987), Trasfigurazione (1992), Nei veli di settembre (1996), Rea confessa (1996), Il feudo (1998), Confessioni di fine Millennio (2000), Bucarest (2001), Ed è per questo che erro (2007), Città fucilata (2010), Med vrsticami/Tra le righe (2011), Quattro passi per l’Europa (2011), Casa de piatrǎ/La casa di pietra (2014), Nei cristalli del tempo – poesie per Genzano (2015), Versi a Teocrito (2015), I have gone too far (2016). Ha pubblicato anche un volume di racconti e ha curato diverse antologie, tra le quali Zgodbe z juga – Antologija južnoitalijanske kratke proze (2005). È autrice dell’opera teatrale “Il Battista”, rappresentata nel 1999. Ha fondato e presiede il Movimento Internazionale “Donne e Poesia
[27] Anna Santoliquido, Incontri, in Ed è per questo che erro, Smederevo, 2007, p. 9.
[28] Anna Santoliquido, Mani nodose, in Figli della terra, Fratelli Laterza editore, Bari, 1981, p. 27.
[30] R. M. Rilke, dalla lettera al suo traduttore polacco Vitold von Hulevicz del 13 novembre 1925
Questo testo viene pubblicato nella sezione “Rivista Nuova Euterpe” del sito “Blog Letteratura e Cultura” perché selezionato dalla Redazione della Rivista “Nuova Euterpe”, n°02/2024. L’autrice ha autorizzato alla pubblicazione senza nulla avere a pretendere all’atto della pubblicazione né in futuro.
prefazione di Marco Damilano isbn: 978 88 6830 266 5 pp. 288 € 16,50
Sinossi:
Dopo le inchieste sul sistema di Mafia Capitale, lo scioglimento per mafia del X Municipio e il parziale commissariamento del Campidoglio – negato, ma nei fatti è stata questa la scelta del governo – la città è in ginocchio. Tutti i servizi primari sono al collasso: dal trasporto pubblico fino alla gestione dei rifiuti, dalla manutenzione della città ai cantieri aperti e mai chiusi. Ed è al collasso la politica, alla sbarra nei processi e incapace di rinnovarsi.
Intanto le consorterie criminali si stanno riorganizzando, stringendo la città in una morsa, anche con la violenza. Ci sono tutte, dalla ’ndrangheta alla camorra, da Cosa nostra siciliana alle organizzazioni straniere. I Casamonica e quello che resta della Banda della Magliana,che non è mai morta. E poi la minaccia delle organizzazioni eversive di destra, di quei Nar a cui appartenevano Massimo Carminati e altri protagonisti di questi anni. Tornano le ombre di un passato, quello della strategia della tensione, dove mafia, eversione, massoneria coperta, pezzi della politica e apparati deviati dello Stato giocarono sulla pelle della Repubblica e della democrazia. Ci vorrebbe una Primavera di Roma, un movimento che metta insieme le energie migliori della società e della politica, della cultura e dell’arte, per affrontare la drammatica situazione della Capitale. Ma tracce di questa Primavera non se ne vedono.
“Roma ha tremato per mesi. E ora è tentata dal colpo di spugna. Il processo avrà il suo corso, ma nella profondità del grande budello racchiuso nel raccordo anulare tutto sembra già dimenticato. Roma, e tutto ciò che rappresenta, prova a metterci ’na pezza, ancora una volta. Far passare la nottata, le inchieste, le retate, il Giubileo. Roma brucia”.
Dalla prefazione di Marco Damilano
L’autore
Pietro Orsatti, nato a Ferrara, è cresciuto e ha trascorso gran parte della sua vita a Roma. Ha lavorato e collaborato con numerose testate giornalistiche fra cui «il manifesto», «Diario», «Liberazione», «Left/Avvenimenti», «Nuova Ecologia», «Terra», Radio Popolare, Rai, Arcoiris, ag Dire, «Micro Mega», «Antimafia Duemila» e «I Siciliani/giovani». Fra i primi in Italia a puntare sull’informazione aperta sul web e giornalismo partecipativo, ha realizzato e diretto più di venti documentari e ha scritto per il teatro e per progetti audiovisivi. Ha pubblicato A schiena dritta (2009), L’Italia cantata dal basso (2011), Segreto di Stato (2012), Grande Raccordo Criminale (con Floriana Bulfon, Imprimatur 2014) e alcuni ebook (Roma, L’Era Alemanna, Il Lampo verde, Utopia Brasil).
Finalmente mi sono giunte a casa le copie del volume dove ho avuto l’onore di essere inserito con un mio racconto, ispirato ai racconti “Gli Zii di Sicilia” del Giornalista Leonardo Sciascia. Il Libro è provvisto anche di un Qcode, che vi riporto qui sotto. Il Volume costa 10€ Comprende 12 Poesie, 9 Racconti, 3 Saggi per 122 Pagine, ISBN 9788894038859 “Seguendo lo stile della rivista Euterpe, è nata l’idea di un volume che riunisse tutte le forme di letteratura: la poesia, il racconto e il saggio, ispirate dall’attività, dalle opere e dalla vita dello scrittore siciliano Leonardo Sciascia. Il 1989, anno della morte dello scrittore, sancisce il declino di una letteratura narrativa urlante contro il malaffare, che aveva contribuito a far implodere in questo modo un vado di Pandora pieno di omertà. La redazione della rivista ha voluto ridare voce a…
I redattori della Rivista Euterpe hanno inteso lanciare il concorso Stile Euterpe – Antologia tematica per una nuova cultura.
Il progetto:
Ogni anno i redattori della rivista sceglieranno un autore contemporaneo.
I partecipanti potranno inviare saggi, racconti e poesie che siano fedeli allo stile dell’autore e alle tematiche che hanno caratterizzato la sua letteratura.
Il primo volume sarà dedicato al siciliano Leonardo Sciascia, intellettuale di altissima dignità e di inesauribile impegno sociale profuso con la sua letteratura e temperamento. Il volume porterà il titolo di Leonardo Sciascia: cronista di scomode realtà.
Per la partecipazione all’iniziativa editoriale bisognerà riferirsi all’opera dell’autore siciliano, al suo percorso letterario, ai suoi luoghi cari e alle tematiche sociali concernenti la lotta per la legalità, la denuncia contro il malaffare e la mafia e la critica alla classe politicizzata con particolare attenzione a Il giorno della civetta, ai racconti de Gli zii di Sicilia e all’esperienza poetica dell’autore in La Sicilia, il suo cuore e ogni suo altro testo letterario o giornalistico.
L’obiettivo non è quello di plagiare o scovare il nuovo Sciascia, bensì omaggiare o rileggere lo stile dello scrittore siciliano attraverso un’antologia tematica, aperta soprattutto agli appassionati del genere e dello stile dell’autore di Racalmuto. In questo modo Euterpe vuole dare risalto ad autori sommersi e amanti della vera letteratura.
Selezione del materiale e composizione dell’Antologia:
I partecipanti potranno presentare 1 saggio breve (massimo 5mila caratteri spazi esclusi); 1 poesia (massimo 25 versi); 1 racconto (massimo 5mila caratteri spazi esclusi). Ci si può candidare con un solo lavoro e a una sola categoria.
I lavori, corredati dei propri dati personali e un curriculum letterario, dovranno essere inviati a rivistaeuterpe@gmail.comentro il 30 novembre 2014.
Entreranno a far parte dell’Antologia 20 poesie; 10 racconti; 10 saggi brevi.
La pubblicazione dell’Antologia sarà affidata a TraccePerLaMeta Edizioni (www.tracceperlameta.org).
La partecipazione al concorso è gratuita. L’autore selezionato per la pubblicazione si impegnerà ad acquistare 2 copie dell’Antologia al prezzo totale di 30€ (spese di spedizione incluse) dietro sottoscrizione di un modulo di liberatoria che verrà poi fornito.
I redattori della rivista Euterpe non dovranno intrattenere rapporti personali e/o di corrispondenza con gli autori che parteciperanno al progetto pena la squalifica dei testi dalla selezione.
I redattori della Rivista Euterpe non possono candidarsi alla selezione con un proprio lavoro.
Premiazione:
Non vi sarà una premiazione vera e propria, in quanto non ci sarà una graduatoria di merito: tutti i selezionati verranno pubblicati in antologia secondo i criteri sopra esposti.
In base ai tempi di selezione e pubblicazione dell’Antologia, sarà scelta una location dove verrà presentata l’opera e alla quale gli autori presenti nel testo sono caldamente invitati a partecipare e intervenire.
A Giorgio Napolitanopresidente di tuttiIl presidente avrebbe lasciatoil tempo aveva fatto il suo corso;tronfio del suo operatosi riposava su una poltronadel colle più Altoascoltando le breaking newsin attesa della proclamazioned’un nome d’altri.Troppe incongruenzee infausti segnali all’orizzonteinsicurezza e sfinimentoconditi da episodi di degradata moralità.Vocidicerieaccusepolemichegridaproclamivendette,noie roboantie verdi marce romane,delusioni di cristallo scalfito.Il presidente era diventato re.Jesi, 22-04-2013
LORENZO SPURIO (C)
E’ SEVERAMENTE VIETATO DIFFONDERE E/O PUBBLICARE LA PRESENTE POESIA SENZA IL PERMESSO DA PARTE DELL’AUTORE.
Il libro di Ivo Ragazzini, San Silvio e il drago, è un romanzo breve che si fonda sulla parodia. Non dobbiamo infatti immaginare niente che abbia a che fare con draghi sputa fiamme in carne ed ossa né tantomeno alla battaglia tra bene e male con un drago per l’appunto combattuta da San Giorgio. Il sottotitolo rivela infatti subito l’intento comico del testo: “La leggenda del santo protettore della libertà”. Se associamo le parole ‘Silvio’ e ‘libertà’ capiamo subito a chi Ragazzini voglia riferirsi, cioè al signor B. Non è un libro politico né tantomeno irriverente verso il signor B. ma si propone come divertente riscrittura senza pretese ideologica di presentare una storia che noi conosciamo.
Ragazzini non svela mai chi si cela dietro la figura di San Silvio, infatti già nella sua prefazione osserva: «Il suo nome era San Silvio e il resto lo dovrete scoprire da soli». Così siamo da subito chiamati a collaborare con lo scrittore nella ricerca di una possibile identità. Non sarà difficile svelarla, come si vedrà. San Silvio è una caricatura parodica che non ha nessun intento agiografico se non quella di far spesso riferimento al potere miracoloso del suo personaggio.
Così se decidiamo di scarnificare il messaggio di Ragazzini il santo è il signor B. che, per le sue vicende storiche nell’imprenditoria e nella politica ha finito per costruire un’immagine alta di sé, elevandola, “santificandola”, da renderla ben più grande della sua persona stessa. E chi è allora il drago in versione contemporanea che osteggia un “santo” di tale calibro? Sono forse i comunisti, le toghe politicizzate, i magistrati corrotti, l’informazione avversa, le intercettazioni ingiuriose contro il premier? Sì. Ma, visto che san Silvio è presentato come un santo del futuro, dobbiamo immaginare che il suo processo di canonizzazione nell’età a noi contemporanea non è ancora iniziato e che, per proclamare un santo, è necessario che questo sia almeno morto da decenni e ne sia stata comprovata la santità. Le informazioni sulla storia di questo santo sono però abbastanza confuse e contraddittorie, secondo alcuni era un laico secondo altri era un religioso. Qualcuno lo considerava un “cavaliere liberale” e in questa accezione ecco un altro chiaro riferimento al signor B. Ed ecco svelata la forza di questo santo: il grande ottimismo, le sue felici battaglie sui draghi rossi (comunisti?), gli attacchi a «strani uomini della quercia armati di martello e falcetto» (D’Alema? Fassino?).
Ragazzini è abile manipolatore delle vicende biografiche del signor B. qui riprodotte in chiave comica e parodica che non posso non generare almeno un piccolo sorriso: il santo, dice Ragazzini, possedeva a Milano «reti e canali dove pescare», riferimento esplicitassimo alle sue reti Mediaset. Sulla falsariga degli attacchi politici che vengono mossi al signor B. per la sua filosofia millenaristica del comunismo, Ragazzini sottolinea la preoccupazione di quello che sarebbe poi diventato santo per la minaccia e la dilagante eresia rossa, il comunismo.
Così, con la decisione dell’uomo di combattere contro questa bestia, il drago si allea con una serie di «amici prodi» e viene detto che «cominciò a corrompere una lega e una mastella intera di seguaci». Non è necessario esplicitare i riferimenti che sono per altro già particolarmente evidenti. Ragazzini spara completamente addosso una serie di accuse che la stampa e una certe fazione politica hanno sempre utilizzato per screditare il signor B. facendo anche riferimento a patti d’onore, collusioni con associazioni segrete e corrotte, sempre impiegando un linguaggio metaforico intessendo una serie di parallelismi che si fondano sui suoi intenti satirici. Non mancano riferimenti a giornalisti che hanno sempre attaccato il signor B.: Travaglio e Santoro, quest’ultimo descritto come Minotauro o ai finti amici: Fini, Casini per poi a passare al libertinaggio del signor B. spiegandolo mediante la presenza di tentazioni demoniache.
Una scrittura tutta contemporanea e postmoderna che, ben lontana dall’intento di denigrare o sconfessare il signor B., finisce per divertire il lettore e per strappargli un sorriso. Anche a quello che condivide la politica del signor B.
LORENZO SPURIO
9 Luglio 2011
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Il premier spagnolo José Luis Rodriguez Zapatero ha annunciato negli ultimi giorni che non si ricandiderà come probabile futuro primo ministro nelle elezioni del prossimo anno. In molti paventano la fine dell’era socialista per la Spagna che tanto ha favorito l’economia spagnola sebbene l’abbia spesso tagliata un può fuori dalle grandi decisioni dei grandi della terra. Un probabile ritorno del Partido Popular? Magari, per alcuni, secondo i quali Zapatero non è che abbia governato bene e ha messo in secondo piano elementi importanti ai cattolici-conservatori quali la chiesa e la famiglia. L’ultimo ministro del PP fu José Maria Aznar ampiamente contestato a seguito dell’impegno militare della Spagna in Iraq e che, proprio pochi giorni prima delle elezioni nel 2004, venne “destituito” dal popolo in seguito ai tragici attentati dell’11 marzo 2004. Gli attentati infatti altro non erano che la risposta sanguinosa e vendicativa di frange fondamentaliste islamiche presenti sul suolo spagnolo per invocare la jihad a seguito dell’occupazione dei crociati dell’Iraq.
Così proprio in quelle elezioni venne eletto José Luis Rodriguez Zapatero e la Spagna da cattolicissima, conservatrice (pur sempre moderata) e tradizionalista virò improvvisamente all’altra sponda: si tinse di rosso (dei socialisti e degli obreros en huelga), propose una politica più in linea alle esigenze del popolo ma allo stesso tempo si mise in duello aperto con la Chiesa, primo tra tutti con i matrimoni omosessuali e poi con il permesso dell’adozione di bambini a coppie di fatto. Tutto questo sarebbe stato impensabile almeno dieci anni prima se si pensa anche che la Spagna è sempre stata assieme a Italia e Francia (quest’ultima in parte minore) strenua difensore della cristianità. Ma questi sono altri tempi e le cose devono cambiare (mentre negli altri paesi, Italia in testa, tutto rimane maledettamente statico). E’ semplice rendersi conto che in paesi a noi vicini geograficamente e culturalmente sia cambiato qualcosa quando allo stesso tempo nel nostro paese si perdura un fissismo senza precedenti.
Alle elezioni del 2004 il PSOE di Zapatero ottenne il 42,59% dei voti aggiudicandosi la vittoria, mentre il PP guidato da Aznar il 37,71% dei voti. Significativo lo scarto della vittoria dei socialisti dunque, alla quale bisogna ascrivere anche la forte impronta dell’attentato terroristico a Madrid che richiamava in causa direttamente la politica militarista di Aznar.
Nelle elezioni successive solitamente è facile che venga rieletto il precedente primo ministro, a meno che non si sia stato coinvolto in affari illeciti, crisi o cattiva conduzione del suo ruolo. Questa regola venne rispettata e Zapatero nel 2008 vinse con il 43,6% dei voti mentre il PP, che proponeva come leader Mariano Rajoy, ottenne il 40,1% dei voti. In questo caso poco è stato il margine di scarto tra i due partiti, segno evidente che la Spagna è divisa completamente in due tra i due partiti (similmente a quanto avviene di solito nelle elezioni italiane sebbene nel caso italiano ci siano coalizioni di partiti che gravitano attorno a due grandi partiti).
Le prossime elezioni sono fissate per il 2012 cioè tra un anno e si sa quanto il tempo sia fondamentale per poter condurre una buona campagna elettorale. Il PP certamente proporrà come suo candidato il leader del PP, Mariano Rajoy che per la seconda volta tenta di essere eletto, dopo la sconfitta del 2008.
Chi proporrà invece il PSOE dato che Zapatero dice di non volersi ricandidare? Circolano vari nomi ma ovviamente alcuni sembrano essere i più favoriti. In un breve ma significativo excursus che la giornalista Elisabetta Rosaspina ha fatto in un articolo apparso ieri sul Corriere della Sera figurano questi probabili esponenti: Alfredo Perez Rubalcaba (attuale ministro degli interni e dall’ottobre scorso vice presidente del governo), Carmen Chacón (la prima donna ministro della difesa), il basco Patxi Lopez (che nel 2009 è diventato il primo presidente della comunidad autonoma dei Paesi Bachi dopo la supremazia del PNV, partito nazionalista basco), José Bono (presidente del Congresso dei deputati), José Blanco Lopez (attuale ministro delle infrastrutture e vice segretario organizzativo del PSOE) e Tomas Gomez (ex sindaco di Parla, una città vicino Madrid e segretario del PSOE di Madrid). – Nella foto a destra: Alfredo Perez Rubalcaba e Carmen Chacón.
I possibili eredi sono dunque cinque anche se due sembrano essere i più papabili ossia Alfredo Perez Rubalcaba e Carmen Chacón. Già oggi El País apriva in testata con “Rubalcaba es el cartel electoral preferido tras la renuncia de Zapatero”. Anche un’inchiesta condotta da El País sul grado di preferenza dei vari ministri spagnoli attesterebbe una netta prevalenza per Rubalcaba. Sempre oggi il sito di El País ha pubblicato una statistica molto interessante:
Rubalcaba dunque di fatto è già, potenzialmente, il nuovo presidente de gobierno? Staremo a vedere chi la spunterà.
Charles Bukowski con le sue storie di vita sregolata e maledetta ci ha abituato ad atteggiamenti licenziosi o sessualmente deviati, degrado, emarginazione, isolamento, alcolismo e comportamenti maniacali. Il suo principale beniamino, Henry Chinaski, è spesso ritratto mentre si sta ubriacando con della birra scadente o con degli scoli di whisky di bottiglie che sono disseminate in casa sua o mentre fa sesso con le sue donne descrivendoci la componente più animalesca e tralasciando quella passionale. In ogni caso, in ciascuna storia si sottolinea il temperamento qualunquista del personaggio, il suo menefreghismo verso gli altri e il suo comportamento sfrontato e irriverente nei confronti degli altri. E di se stesso.
La critica si spacca sostanzialmente in due circa l’analisi di Chinaski e del suo creatore, tra coloro che lo bollano come ossessionato al sesso, manesco, insofferente agli obblighi lavorativi, immagine di una vita degradata e allucinata e che lo pongono in una condizione di reietto e coloro che invece ne analizzano il personaggio più a fondo, sviscerandolo dalla sua etichetta di barbone manesco e sottolineandone le carenze, la complessa strutturazione del personaggio e l’origine delle condizioni d’indigenza. A Chinaski sono state date le più varie caratterizzazioni (tutte abbastanza negative). E’ stato detto che è un maniaco, un barbone, un mitomane, un reietto, un sex-addicted, un emarginato, una sorta di diavolo, un criminale, un violento, un alcolizzato, un maschilista, un animale e tanto altro. Alcuni hanno aggiunto che è un nazista. Va sottolineato il fatto che né Chinaski né Bukowski hanno mai espresso pubblicamente, al contrario di molti altri autori, una chiara posizione politica. Chinaski si scaglia sia contro gli hippy ultrasinistroidi che contro i borghesi, sia contro i suoi capi di lavoro che contro persone che conducono esistenze economicamente disagiate. Non critica particolari strati della società ma critica la società nel suo complesso. Non esprime un’idea politica né evoca un modello di stato che secondo lui potrebbe essere migliore rispetto ad un altro. Alcuni hanno visto nel temperamento violento, maschilista e insensato di Chinaski alcuni elementi comuni al comportamento dei fedeli del nazismo. Va ricordato che Bukowski nacque in Germania, paese che lasciò nei primi anni della sua infanzia per stabilirsi a Los Angeles. Nel romanzo autobiografico Ham on Rye (1982) Chinaski ripercorre i momenti cruciali della sua infanzia: il difficile rapporto con i genitori, l’isolamento nel contesto periferico, l’emarginazione a scuola e l’amicizia con pochi ragazzi tra cui Crapa Pelata, la scoperta del corpo e l’interessamento all’universo femminile. Traccia in un certo senso la biografia stessa di Bukowski ed è una narrazione atipica all’interno della sua produzione perché, contrariamente al suo stile, mancano le scopate e le alcolizzate tanto frequenti nelle altre opere. Il capitolo cinquantadue del romanzo appena citato ci parla di Chinaski e del nazismo. Può pertanto essere considerato un primo punto di contatto tra i due universi. In questo capitolo si dice che la guerra in Europa era favorevole a Hitler e che alla scuola gli insegnanti erano tutti nemici alla Germania e sinistroidi. Chinaski non è nazista, considera il nazismo come un’eventuale possibilità di scelta non per motivazioni politiche ma per motivazioni tutte personali:
«Forse, con Hitler al governo, mi sarebbe toccata un po’ di fica ogni tanto, e magari qualcosa di più del dollaro alla settimana che mi passavano i miei genitori. Non avevo niente da perdere. E poi, essendo nato in Germania, non me la sentivo di tradire il mio paese d’origine, e non mi andava di vedere l’intera nazione tedesca, l’intero popolo tedesco, demonizzati e dipinti nelle tinte più fosche» *.
Se decidiamo di definire Chinaski nazista dobbiamo anche dire che non è nazista politicamente parlando ma per motivazioni astruse: per la sua comune origine tedesca e per il fatto che immaginando di poter essere devoto al Fuhrer potrebbe ottenerne dei vantaggi: soldi e fica. Il suo essere nazista è motivato dal suo desiderio di sentire e mostrarsi diverso dagli altri (gli insegnanti sinistroidi), è semplicemente un modo per differenziarsi da persone che non ama. («Per pura alienazione, e naturale spirito di contraddizione, mi trovai schierato contro il loro punto di vista» ). E nello stesso capitolo rende ancora più chiaro che in realtà non ha niente di nazista:
«Evitavo accuratamente ogni riferimento diretto a negri ed ebrei, che, poveretti, non mi avevano mai dato rogne. Tutte le rogne che avevo avuto me le avevano date i bianchi ariani. Quindi, non ero nazista per carattere o per scelta; erano gli insegnanti, ad appiccicarmi addosso quell’etichetta, con il loro atteggiamento conformista, le loro idee conformiste e i loro pregiudizi antitedeschi» .
C’è da concludere che se possiamo definire Chinaski un nazista, non è un nazista con mitra in pugno o pronto ad urlare o a deportare gente in campi di concentramento. E’ un nazista strano, che cerca di difendere la sua ideologia in maniera strumentale e per nulla politica.
Lo studioso Raffaele Gramegna** in un testo ha evidenziato il fatto che il racconto Svastika incluso nella raccolta Tales of Ordinary Madness (1983), nella sua versione italiana Storie di ordinaria follia non è stato incluso nella raccolta. Ha tentato di analizzarne il motivo contattando direttamente le case editrici italiane che avevano stampato l’opera nella versione tradotta e tutte hanno risposto tergiversando ed eludendo la domanda del critico. L’interpretazione più ovvia è quella di considerare il fatto che un titolo così scomodo e un racconto nel quale si parlasse di Hitler collegandolo alla politica americana non poteva essere stampato e divulgato. La mancanza del racconto nella raccolta è dunque non il segno di una svista grossolana ma quello dell’imposizione di una censura. Raffaele Gramegna dopo un’interessante introduzione al racconto in questione ha riportato il racconto nella sua lingua originale e poi tradotto da lui in italiano.
Si tratta di un racconto profondamente diverso dallo stile tipicamente buwoskiano: manca un’ambientazione periferica degradata, mancano riferimenti al bere e alla voglia di ubriacarsi, mancano le tanto amate corse dei cavalli e addirittura il sesso. Se a vari lettori amanti dell’autore venisse proposto di leggere questo racconto senza rivelare chi l’ha scritto probabilmente nessuno indovinerebbe che si tratta proprio di Bukowski.
Il racconto è breve, diretto e incisivo e utilizza ampiamente il discorso diretto. Il personaggio principale non è Chinaski ma in questo caso il protagonista è il presidente degli Stati Uniti che all’apertura del racconto viene sequestrato da agenti della polizia. Viene condotto in un appartamento dove si trova dinanzi il Fuhrer sebbene sia molto invecchiato. Per mezzo di due medici chirurghi tedeschi, il presidente viene sottoposto a una operazione di scomposizione e congiunzione di parti di corpi diversi che ci fa pensare a Frankenstein. E’ un operazione senza dolore, che non lascia cicatrici e che consente il cambio di personalità tra il presidente americano e il Fuhrer. Il racconto andrebbe analizzato più approfonditamente a più livelli. Sembra stupido a questo punto considerare come la censura abbia potuto tagliare un racconto di Bukowski per la presenza di elementi fastidiosi (la svastica del titolo, la presenza del Fuhrer) quando nella contemporaneità abbondano testi che utilizzano la storia o particolari momenti di essa in chiave revisionista o negazionista. Bukowski è uno scrittore e le storie che racconta sono frutto del suo ingegno. E’ sempre difficile affibbiare a una persona una determinata ideologia politica, un pensiero sulla società basandosi sui suoi atteggiamenti e le sue parole che possono rivelarsi in questo contesto anche contrastanti. La questione si fa ulteriormente più difficile nel caso di Bukowski che è sempre stato lontano dai temi politici e un acre criticatore di ogni ambito e rango del sistema sociale. Il suo anticonformismo, il suo temperamento che lo porta continuamente a rompere schemi e commettere crimini e reati, la sua sfrontatezza nei confronti della vita, il suo marcato individualismo non ci consentono di individuare nella sua persona un’ideologia reazionaria né tantomeno nazista come è stato a volte sostenuto dalla critica. La sua critica contro tutto e tutti, compreso se stesso, potrebbe paradossalmente avvicinarlo ad un’ideologia confusa come quella anarchica. Si tratta ovviamente di interpretazioni vaghe e paradossali che sottolineano ancora una volta quanto la sua persona e quella di Chinaski siano variegate e complesse e prive di una chiara dimensione politica.
* Le citazioni sono tratte da Charles Bukowski, Panino al prosciutto, Milano, Tea, 2010, pp. 272-273.
** Charles Bukowski, Svastica (a cura di Raffaello Gramegna), Viterbo, Millelire Stampa Alternativa, 1994. Questo testo può essere letto on-line o scaricato collegandosi al sito: http://www.stampalternativa.it/liberacultura/books/buk.pdf